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Dove sta andando la critica letteraria?

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Academic year: 2021

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sesto la barra del timone significa infatti non già obliterare la complessa ‘tradizione’ critica che ci ha preceduti e accompagnati sin qui, gli strumenti che sono stati faticosa-mente esperiti e perfezionati, le molte piste che sono state aperte. L’eclettismo, insom-ma, da intendersi quale calibrato mouvement in manovra incessante tra autore, testo e interprete, pronto quindi a mutare di rotta ove necessario, non può certo annullare una civiltà del dialogo di lunga durata fondata sul conflitto delle interpretazioni. Civiltà che implica una concezione di dialogicità comportante una peculiare idea antidogmatica di verità, da intendersi in quanto processo per eccellenza progettuale.1 E non posso allora non rilevare come, anche in occasione della tavola rotonda veneziana, se alla prima domanda gli interpellati hanno fornito risposte in linea di massima concordi, altrimenti è avvenuto per le successive: a riprova di una pluralità di punti di vista e di prospettive che, pure nel caso presente, non può che ripresentarsi in tutte le sue valen-ze indiziarie.

*

Enza Biagini

De façon triviale, quand quelqu’un déclare: «la poésie c’est…», le roman c’est…», «la littérature c’est…», j’aurais envie de sortir un revolver (que je n’ai pas, je m’empresse de le préciser), ne fût-ce que pour forcer mon interlocuteur à ajouter un complément de temps et de lieu. Une théorie est acceptable quand elle se limite à témoigner des attentes et des conceptions d’une époque et d’une culture donnée; elle devient contestable lorsqu’elle prétend don-ner le fin mot de la littérature sub specie aeternitatis.2

È sorprendente come sia sfuggito a Croce che il critico mili-tante in quanto tale è ascrivibile come una figura della dialettica hegeliana: che il critico militante in quanto tale è sintesi e fusione degli opposti, che il critico militante in quanto tale è la via d’uscita dalla ineffabilità della poesia. Egli infatti, è colui che legge, inventa, e quasi media, dando un nome alle cose, così facendole esistere nel mondo: se la poesia fosse ineffabile non ci sarebbe, non sarebbe nella vita – sarebbe una meravigliosa scultura creata da uno spe-leologo perso nelle viscere della terra e mai più ritrovato […]. Il critico militante, quindi, non è Sisifo, e neppure è Prometeo, per una volta preferisco usare una figura dell’iconografia cristiana: il critico militante è una figura angelica, è un mediatore tra il cielo e la terra, tra il cielo della poesia e la terra di tutti i giorni.3

[…] sarà anche superfluo ripetere che […] le mie note non pretendono esaurire gli argomenti di cui trattano, ma soltanto ri-solvere […] alcuni problemi […] e dare avvio a indagini ulteriori. Tale, del resto, è il carattere di ogni studio che sia inteso in modo scientifico; e la critica letteraria deve anch’essa sempre meglio ap-propriarselo per farsi sempre più, a suo modo, scientifica, abban-donando certe abitudini che ancora serba di arbitrario

individua-1 Nel merito si legga Romano Luperini, La critica come dialogo, in Idem, L’autocoscienza del moderno, Napoli,

Liguori, 2006, pp. 185-197.

2 William Marx, L’adieu à la littérature. Histoire d’une dévalorisation xviiie-xxe siècle, Paris, Éditions de

Mi-nuit, 2005, p. 15.

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lismo, di artistico capriccio e di falsa genialità. Né m’importa che, per intanto, gl’inintelligenti dicano che io, in luogo della critica della poesia, offro critica della critica; perché gl’intelligenti ben sanno che la critica della poesia non può non formare tutt’uno con la critica della critica della poesia.1

1. Che fine sta facendo la letteratura nel sistema culturale del mondo globalizzato?

P

uò sembrare strano che, a proposito della domanda «Dove sta andando la critica?», ci sia stato proposto, in primo luogo, di interrogarsi sullo stato della letteratura; in realtà, visto che, per definizione, la critica letteraria ha per oggetto la letteratura, interrogarsi sul suo stato è inevitabile; e qui, se si rispondesse che la letteratura non sta facendo una gran fine o che, addirittura, si stia assistendo a un collasso se non im-minente, prevedibile, non ci si stupirebbe molto; in tal caso, si potrebbe concludere la riflessione prima di iniziarla, dicendo che la critica letteraria è destinata a scomparire in tempi più o meno lunghi di mala sorte comune. Un’ipotesi simile tuttavia, per uscire dal sospetto d’abuso di preterizione, apre a risposte che obbligano a chiedersi se è vero – e in che modi – che la letteratura stia celebrando la propria “cerimonia degli addii”. Dico subito che è davanti agli occhi di ognuno la lunga scia dei tentativi d’addio, per-petrati dalla letteratura: ce lo ricorda anche un recente studio sul tema dell’«Adieu à la littérature», ripercorso con argomenti ben centrati sul cammino di magistrali prove d’esequie, il francese William Marx. Leggo dalla sua riflessione:

Dalla fine del xix secolo, la letteratura non ha smesso di mettere in scena la propria morte. Sui-cido programmato? Forse. Ma i suicidi proclamati a gran voce non sono quelli che si realizzano in modo certo. Se la letteratura si compiace, da lungo tempo, di evocare la propria scomparsa, questa ripetizione ossessiva farebbe pensare piuttosto a un rito profilattico: rappresentare la scomparsa così paventata, figurarsela o prefigurarla mediante tutta la potenza di cui dispone il linguaggio corrisponde meno alla possibilità dell’evento che a metterla a distanza, respingerla verso improbabili lontananze. Da qui il paradosso: la morte della letteratura non impedisce alla letteratura di esistere. E tale paradosso comporta due soluzioni, non necessariamente incompa-tibili tra di loro: o tale morte è fittizia, è una messa in scena – e allora è importante capire come lo sia, con quali mezzi, quali attori, sotto quali trucchi, nella luce fantasmatica –; oppure la let-teratura che sopravvive alla propria morte non è più la letlet-teratura stessa, bensì qualcos’altro che ha preso il suo posto all’insaputa di tutti, il suo simulacro o il suo fantasma ancora ignorato. Nei due casi, siamo stati raggirati, forse lo siamo ancora e converrebbe denunciare l’impostura.2

«I veri morti non parlano: se ne vanno senza parlare», scrive ancora William Marx; e, malgrado la mancanza di un Rimbaud italiano («che fu uno di quelli»),3 come pure uno studio altrettanto specifico che verifichi, da noi, la lunga “cerimonia degli addii”, riper-corsa dal teorico francese, mi sembra che le due alternative messe in campo – quella della messa in scena fittizia della propria morte mediante l’esibizione,4 e quella di una metamorfosi strisciante della letteratura – possano evocare uno scenario dai contorni familiari ad ogni studioso avvertito. Perché, infatti, pur nella variabile dei nomi citati,

1 Benedetto Croce, Poesia e non poesia. Note sulla letteratura europea del secolo xix [1922], Bari, Laterza, 19505,

p. vii.

2 Ivi, p. 18 (trad. mia).Ivi, p. 18 (trad. mia). 3 Ivi, p. 19.Ivi, p. 19. 4 Si veda: «De Valéry à Borges, de Kaf ka à del Giudice, il n’y a pas plus belle littérature que celle qui se dit

adieu: l’hyperconscience morbide qui la caractérise lui confère la pleine connaissance de ses moyens, comme aucune autre période littéraire avant elle n’en a jamais bénéficié. Par la rigueur, par la concentration, par la réécriture et le pastiche, la littérature de l’adieu et de l’hyperconscience exploite tous ses dons jusqu’à l’épui-sement» (ivi, p. 173).

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le categorie dei rituali della finta morte o le strategie di una sopravvivenza mascherata (che consistono, in modo ibrido, nella pratica del credere nella letteratura facendo finta di non crederci, sia mediante l’esibizione d’“ipercoscienza”, più o meno parodica o ra-dicata nelle tematiche sociologiche e psicoanalitiche dello smembramento del sogget-to e delle ssogget-torie, sia mediante l’invasione di campo degli studi culturali e di altri media) non fanno che disegnare perfettamente l’atollo smembrato della fase post-moderna della letteratura che stiamo vivendo. Un atollo che, in quanto tale, è piuttosto sprovvi-sto di frontiere e costringe a guardare oltre gli orizzonti nazionali, verso i confini della cosiddetta letteratura generale e di contaminazione con altri mezzi espressivi e media-tici: video, videogames, internet, grafic-novel... con evidente senso di disorientamento per il critico e per il lettore. Basta l’accenno a un simile scenario per riconoscere in questi sintomi gli aspetti più noti della globalizzazione in atto. Nella prospettiva della critica, però, evitando il senso di panico da infinitudine, è anche utile chiedersi quali siano gli effetti di tali contaminazioni o, meglio, vale la pena di chiedersi se, attualmen-te, la letteratura mostri di avere ancora capacità (e volontà) di reagire ai sistemi plurimi degli assedianti e dei contaminatori. Mi pare che, dal ventaglio delle opzioni di contro-misura possibili, la letteratura si trovi e si sia trovata, grosso modo, a scegliere tra 1) l’utilizzazione dei mezzi invasori; 2) la censura e la messa a distanza o la lotta a colpi di tradizione. È ovvio che le forme di neutralizzazione e di resistenza sono quelle che vanno nella direzione della permanenza della tradizione e, apparentemente, tendono alla conferma del canone, seppure nell’accezione ampia e ‘dilatata’ del Novecento, che ha già ‘accolto’, nella pratica della letteratura, insieme alle forme dell’ipercoscienza critica, evocata da W. Marx, la pratica di varie mescidanze di linguaggi e persino di forme di spettacolarizzazione mediatica. Intendo dire che la frontiera è piuttosto fragi-le perché, da un lato, non contempla quanto la fragi-letteratura ha già ceduto nei secoli (e specie nel Novecento) in ricchezza agli altri mezzi espressivi e, dall’altro, obbedisce al tentativo di distinguere, forse in maniera indebita, la marcatura attuale dell’opzione di contaminazione del linguaggio dei media, compreso quello derivato da internet, carat-terizzato com’è dall’imperativo di comunicare e tradotto sostanzialmente in un ‘sin-cronismo’ di immagini, luoghi e parole. Perciò, dire che è in atto un’esasperazione cronotopica (per usare un termine caro a Bachtin) e un appiattimento comunicativo significa cadere nell’ovvio; come è ovvio che, per tali manifestazioni macroscopiche, l’ambito privilegiato per l’esemplificazione sia quello del racconto (per la poesia e per il teatro sarebbe necessario allargare a dismisura lo scenario). Ma anche nel campo della narrativa, è interessante osservare, per un momento, che nell’utile binomio

Fic-tion/Diction, coniato da Gérard Genette, si fa presto ad osservare che non è soltanto la

Fiction-noire (Dan Brown insegna) a farla da padrone, bensì anche la non fiction, cioè, forzando un po’ l’intenzione di Genette, la scrittura-signe de vie,1 a presa diretta dal vissuto. Ho in mente alcuni esempi e un manipolo di opere. Ecco i nomi e i testi: Eric-Emmanuel Schmitt, Oscar et la dame rose; Ian Hamilton, In cerca di Salinger; Ornela Vorpsi, Il paese che non muore mai; Michela Murgia, Il mondo deve sapere; Franco Piperno,

Con le peggiori intenzioni; Federico Moccia, Tre metri sopra il cielo; Filippo Tuena, Le

‘Va-riazioni’ Reinach; Frederick Mario Fales, Saccheggio in Mesopotamia.2 Il numero è

vera-1 Prendo in prestito un rinvio facile da Philippe Lejeune, Signes de vie. Le pacte autobiographique 2, Paris,

Seuil, 2005.

2 Si vedaSi veda: Ian Hamilton (1938), In cerca di Salinger [1998], Roma, Edizioni Minimum Fax, 2001;

Eric-Em-manuel Schmitt, Oscar et la dame rose, Paris, Albin-Michel S. A., 2002; Frederick Mario Fales, Saccheggio in

Mesopotamia, Udine, Forum, 2004; Federico Moccia, Tre metri sopra il cielo, Milano, Feltrinelli, 2004; Franco

Piperno (1972), Con le peggiori intenzioni, Milano, Mondadori, 2005; Filippo Tuena, Variazioni Reinach, Mi-lano, Rizzoli, 2005; Ornela Vorpsi (1968), Il paese che non muore mai [2004], Torino, Einaudi, 2005; Michela Murgia (1972), Il mondo deve sapere, Isbn Edizioni, 2006.

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mente ridotto al minimo e quindi poco esemplare, soprattutto considerando tutti gli aspetti che meriterebbero di essere toccati; tuttavia, rispetto a tutti i possibili testi che più funzionalmente potrei citare, queste opere, che qui non intendo analizzare in ma-niera puntuale (il mio è piuttosto un tentativo di accensione di curiosità), mostrano alcuni segni degni di nota. Mi limiterò a segnalarne alcuni molto brevemente, spiegan-do subito che queste storie escono dalla categoria Fiction perché trattano per lo più di racconti di vite. Così è per Oscar, l’eroe del racconto di Schmitt. Si tratta di un bambino di dieci anni a cui una sorta di fata turchina, la Dame rose («mamie Rose»), consiglia di applicarsi nell’esercizio quotidiano di scrivere lettere a Dio, durante gli ultimi giorni che gli restano da vivere. La “scrittura a presa diretta”, veloce, a modo di posta elettro-nica, una sorta di neo-“grado zero della scrittura”, è quella che permette, in queste lettere, di penetrare come dal di fuori nel vissuto una giovanissima vita prima di mori-re! Anche il racconto di Ian Hamilton è affidato alla registrazione di una storia di vita, una scrittura che circuisce, come una cinepresa, la trama esistenziale della persona viva di J. D. Salinger – il noto e misterioso scrittore americano che si nega ad ogni biografia e notizia di sé – senza poterla portare nel pieno campo visivo e finendo per rappresen-tare solo l’impossibilità di realizzare una biografia (visto che persino l’osservazione dei documenti sembra fermarsi dinanze alle verifiche che recano solo tracce di «fatti inat-tendibili»). Per Federico Moccia, l’esempio è ben noto e penso che valga solo che io ricordi che, da noi, è forse stato il primo esempio (1992), per così dire di romanzo-inter-net, nato dal mimetismo del linguaggio dei blogs letterari. Potrei collocare in una situa-zione d’origine analoga l’ironica storia narrata in prima persona da Michela Murgia. Di nuovo qui vige l’effetto-blog, che induce ad entrare in una strategia di scrittura-letta-parlata, tutta giocata sulla forma ‘realistica’ del diario e dell’autoracconto del ‘viva voce’ (Si veda il blog introduttivo: «Il mondo deve sapere è il diario di un mese in un call

center. Per trenta interminabili giorni, l’autrice ha venduto aspirapolvere al telefono a migliaia di casalinghe»). Per scrittura non fictive s’intende dunque una varietà di forme narrative: pseudo-lettere, biografie, diari, storie di vite sui generis. E questo vale anche per Il paese dove non si muore mai, dove tre eroine, Ina, Eva, Ornela interpretano, alla stregua di ruoli non fictionnels, tre fasi esistenziali, dall’infanzia alle soglie della gioven-tù, di un romanzo di formazione corale. Qui, infatti, è l’Albania, il «paese dove non si muore mai» e dove «non si scherza» (ma vorrei leggere l’esergo dell’autrice: «Dedico questo libro alla parola umiltà, che manca al lessico albanese. Una tale mancanza può dar luogo a fenomeni assai curiosi nell’andamento di un popolo»), con il suo mondo, la sua cultura, che non tollera «né dubbi né domande», a fare i conti, senza ombra di mitizzazione, con la parola e con lo sguardo di chi ormai possiede la capacità di comu-nicare, tramite la consapevolezza della forza del suo double je, l’accavallarsi dei punti di vista. L’ottica ormai non è più esclusivamente soggettiva, è piuttosto un modo per prestare lo sguardo all’altro (Ornela Vorpsi parla di autobiografia di un paese). È così che, in questi esempi, l’osservazione della realtà vissuta finisce per essere di “natura bifocale”, segue almeno due direzioni o più punti di vista, tutti in superficie, con pun-tigliosità, precisione ma anche con leggerezza calviniana: questi tratti non sono solo comuni alle fictions biographiques1 appena viste ma hanno un ruolo dominante anche quando gli scenari, travalicando la biografia famigliare (quella di Piperno, della fami-glia di quel «secondo ebreo giustamente crocifisso da un’oligarchia di romani»), si im-mergono nella storia o, meglio sono investiti dall’incarico di assumere il punto di vista

1 Si veda, a tal proposito almeno: Daniel Madelénat, La biographie, Paris, puf, 1984; Dominique Viart,

Paradoxes du biographique, textes réunis par D. Viart, Revue des sciences humaines, n. 263, juillet-septembre 2001,

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funzionale per svolgere delle vere e proprie inchieste dolorose e drammatiche della ribalta storica. È allo sguardo dell’enquêteur, multifocale, in presa diretta, come nelle migliori fictions televisive, che fa pensare la cronaca di Fales per la narrazione del sac-cheggio al Museo di Bagdad (e non solo), come pure quella dell’«autore»- personaggio, che con la sua macchina da presa, fatta scorrere con identica lentezza sulle fotografie della felicità e quelle degli orrori dei campi di concentramento, che hanno inghiottito la famiglia Reinach, serve da specchio alla storia nel libro di Filippo Tuena. Il quadro può apparire troppo poco documentato, se dico che queste forme di inchieste sulla realtà,1 le “biografie fittizie” e le “finzioni biografiche”, il romanzo dal blog e dalla sto-ria, apparentemente non hanno molto in comune, se non il fatto di presentarsi come esempi di modalità del narrare non la realtà, bensì il suo vissuto, in presa diretta, con mezzi che hanno a che fare o mimano lo schermo o l’écran della video-scrittura, anche quando si tratta di eventi storici o di memorie. Ma non so se, anche in modo somma-rio, questi brevi prelievi possano servire a fare da cornice ad un quadro attendibile di morte o di resurrezione in atto e confermare l’idea, espressa di recente da Stefano Ca-labrese, per cui molti aspetti del cosiddetto «global novel» rappresenterebbero «il proto-collo terapeutico di una nuova epoca».2 Certo, l’etichetta di global novel (reality novel?) lanciata così, in conclusione, senza avvaloramento di prove, può sembrare solo una scorciatoia utilitaristica. Ma la via breve può forse convenire, a patto di considerarla come postilla di materiali aggiunti alle riflessioni, ben più articolate, e agli studi (anche su altri generi: il grafic-novel, ad esempio) che da più parti stanno già cogliendo i germi e i fenomeni nuovi di questa ipotetica morte-rinascita.

2. Qual è il ruolo che può svolgere oggi la critica letteraria, una volta venute meno sia le certezze dello Strutturalismo che la loro messa in discussione da parte del Poststrutturalismo? Il solo ricordare oggi che, negli anni Sessanta, Maria Corti e altri grandi nomi della teoria hanno definito il xx secolo come l’epoca della critica letteraria, può dare subito la misura della fase disforica e di calma abbastanza piatta della situazione attuale. Non avrei nulla da aggiungere alle note riflessioni sulla conclamata crisi della critica di cui i vari Todorov, Segre, Lavagetto, Avalle e molti altri (e i nomi citati valgono per il fatto di essere stati voci autorevoli di quella fase) hanno parlato, anche perché considero non ripetibile l’abbaglio della critica dell’aver “puntato tutto sui segni”3 e dell’aver voluto affinare i mezzi descrittivi ed analitici su mire di scientificità, mutuando i principi della linguistica e delle scienze umane. Voglio dire che considero ancora positiva quell’espe-rienza, durata per altro relativamente poco, in cui la critica si è lasciata tentare da una

1 Evito qui il riferimento alla voga delEvito qui il riferimento alla voga del reality show, ma tutti conoscono l’uso della riattualizzazione,

spetta-colare e tragica, che ne ha fatto Amélie Nothomb, Acide sulfurique, Paris, Albin Michel, 2005.

2 Stefano Calabrese, www.letteratura.global. Il romanzo dopo il postmoderno, Torino, Einaudi, 2005, p. ix. Si

veda: «Mentre fervono le ultime attività, le citazioni prendono posto ubbidienti nelle note a piè di pagina e i conti teorici sembrano finalmente assestarsi in una calma apparente, viene da pensare che la nostra distanza dall’epoca positivista, conclamata e siderale, consente ormai di affermare come le forme letterarie nascano per risolvere o immunizzarci dalle difficoltà storiche, che evolvono ottimizzando le loro risorse curative e in ultimo muoiano, dove per morte si intende il momento in cui le forme diventano autistiche e propense all’autofagia, staccandosi dalla realtà per il cui ordinato addomesticamento erano nate. Se il postmodernismo rappresenta questa morte il global-novel è il protocollo terapeutico di una nuova epoca».

3 Per queste tematiche, mi permetto un auto-rinvio aPer queste tematiche, mi permetto un auto-rinvio a Puntare sui segni [1993], a Critica e interpretazione

[1993], in Enza Biagini, Letteratura e motivazione. Saggi di teoria della letteratura, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 117-168 e a Tra critica e teoria della letteratura. Le ultime tendenze, in La critica letteraria dal Due al Novecento, a cura di Paolo Orvieto, in Storia della letteratura italiana, diretta da Enrico Malato, Roma, Salerno, 2003, vol. xi, pp. 1271-1297.

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pratica teorica generalizzata della letteratura (e cioè, interessata più alle definizioni e ai principi che all’individuum) ma, appunto, non posso che vederla come esaurita perché – l’ho detto anche altrove – la critica è rientrata entro i propri confini, recuperando il doppio statuto della soggettività del critico e dell’opera, la prerogativa del giudizio e il confronto con la storia letteraria (magari attraverso la critica della ricezione e la lettura, della neo-sociologia).1 Ma non intendo in alcun modo mostrare ‘ingratitudine verso i maestri’. Devo confessare di essere troppo implicata in quella vicenda; si sa che ogni momento culturale genera i propri mezzi interpretativi: penso ancora che l’incontro con i “mezzi della certezza”, provenienti dalla linguistica e dai presupposti delle scienze umane, sia stato chiamato dalla necessità di interpretare, con criteri reputati utili, la natura essenzialmente asimbolica e a-estetica dei mezzi espressivi dell’ultima stagione, pressoché continua delle avanguardie del secolo scorso. Il periodo delle “certezze dello strutturalismo” è stato dunque intrinseco all’esigenza di interpretare e storicizzare l’ul-tima metamorfosi della letteratura, quella per così dire ‘performativa’, che ha forzato e sfidato tutte le risorse del linguaggio e dei canoni espressivi. Se questo presupposto è valido, vuol dire che la disforia attuale corrisponde al calo di necessità di strumenti radicati su certezze? Non è proprio così, forse è stato bene averli sostituiti o considerati utili in modo ecumenico, nelle tendenze interpretative poststrutturali che mettono sullo stesso piano un attrezzario teorico globalizzato e globalizzante: Freud, Lacan, Derrida, Ricoeur accanto a Bourdieu, Said, Baudrillard, Cixous, Spivak… E questo so-prattutto perché, da un lato, la letteratura globalizzata necessita di uno sforzo adattabi-le, duttiadattabi-le, di rinominazione: dei simboli in mezzo all’enorme circolazione delle imma-gini, del mescolarsi dei segni espressivi e di comunicazione mediatica; delle identità, nella folla delle istanze e forze eterogenee, che attraversano la letteratura. Dall’altro, perché sta continuando il processo, di natura, diciamo così, identitaria che interpreta l’esigenza, da parte della critica, di riappropriarsi degli strumenti del riconoscimento e riprendere a differenziare, connotare, storicizzare, oltre ogni possibile “conflitto delle interpretazioni”, e fenomeni post (post-colonialismo, post-femminismo) e neo (neo-storicismo, neo-ermeneutica, neo-sociologia...).2 È all’interno di questo processo che si sta consumando, dopo la ‘rigidità’ delle esperienze dello Strutturalismo critico, il disegno di nuove frontiere (magari aperte e consapevoli) tracciato fra critica e teoria. Ora sappiamo che se è bene per la teoria restare incollata ai presupposti di coloro che permettono di richiamarsi alla definizione della cosiddetta «scienza della letteratura», per la critica, invece, è più salutare la pratica in corso di una riscoperta consapevole delle prerogative accantonate nella sua fase d’oblio e di connivenza con la teoria. Come dire: la teoria è destinata a rimanere al suo posto, oppure a comportarsi come la critica, che usa scandagli più rabdomantici e mimetici, rispetto alla teoria, smantellando, però – lo sta facendo – il mito della scientificità (non è un caso che molti teorici – Todorov, Kristeva – siano passati ad opere di tutt’altro tenore). Passo brevemente ad un’ipotesi propositiva – che ritaglio un po’ troppo su misura, forse, sulle osservazioni fatte più sopra a proposito di certi fenomeni della globalizzazione letteraria – per chiedermi, appunto, quali siano i filtri di lettura che possono ancora valere per interpretare e

sto-1 Mi si perdoni il mero elenco di etichette, sempre un po’ troppo generico e che rinvia invece a nomi. PerMi si perdoni il mero elenco di etichette, sempre un po’ troppo generico e che rinvia invece a nomi. Per

esempio, per le tendenze più note delle nuove frontiere degli studi culturali e della sociologia mi sembra che non si possa fare a meno, ormai, di far riferimento a Edward Said o a Pierre Bourdieu (di cui segnalo la recente traduzione di Le regole dell’arte [1992], introduzione di Anna Boschetti, trad. di Anna Boschetti e Emanuele Bottaro, Milano, il Saggiatore, 2005).

2 Ma, a margine delle problematiche della comparazione “geografica” e sulla questione del rapporto traMa, a margine delle problematiche della comparazione “geografica” e sulla questione del rapporto tra

storia letteraria nazionale e identità, si veda ora Raoul Mordenti, L’altra critica. La nuova critica della

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ricizzare: 1) il brassage dei cosiddetti mezzi invasori; 2) le forme di resistenza a colpi di tradizione. Se dicessi che, per il primo punto valgono ancora, magari utilizzati in modo ecumenico e orchestrato, i vecchi «ferri del mestiere» della stilistica o ispirati alle scien-ze umane (psicoanalisi, sociologia…), alla comparatistica e alla tematologia, alle teorie femministe, forse non sarei molto lontana dalla verità; mentre, per il secondo punto, penso si possa dire che, più che mai, è la critica militante a farla da padrona. Se osservia-mo il panorama critico attuale, sebbene non sia facile ritrovare il nord per mancanza di «dominanti» culturali marcate, si può dire, senza timore di sbagliare troppo, che accan-to alla tradizione della pratica critico-filologica e saccan-toricistica e della tendenza degli studi comparatistici, tematologici, di critica femminista, culturale…, è la critica militante (con qualche recupero anche su certa stampa cosiddetta autorevole), e la saggistica in genere, a raccogliere riconoscimenti espliciti ed ‘elogi’. In ultima ipotesi, non è forse una riprova che ormai, dietro i banchi dei cosiddetti ‘cattivi maestri’, vi siano solo i fantasmi degli anni Settanta, evocati da chi allora aveva di poco superato i vent’anni?

3. Che rapporto intercorre tra la prassi interpretativa e le metodologie della comparatistica?

A questo quesito potrei rispondere richiamando un’opinione di Oreste Macrí circa il fatto che la «comparatistica ha una sola ragion d’essere: eliminarsi alla fine e non al principio, come voleva Croce, risolvendosi in critica tout court».1 Ma la risposta è un po’ sbrigativa e potrebbe indurre in errore: lo stesso Macrí, infatti, nel seguito della sua riflessione, dimostrava che occorre tener conto del “principio” e non della fine. Inoltre, mi sembra che il modo, con cui Ilaria Crotti ha formulato la domanda, non risponda solo ad un vezzo di variantistica per interrogarsi sul rapporto tra critica e comparati-stica. Mi sembra, cioè, che questo raffronto a due si giochi per larga parte anche sul versante dell’interpretazione quale terreno comune in quanto ad una condivisione del “metodo”. Insomma, è chiaro che abbiamo a che fare con la questione dell’intersecarsi e del differenziarsi di due pratiche, che come tali si basano su presupposti teorici co-munque interpretativi.

Per capire quanto sia ancora di attualità, nell’applicazione critica, la cosiddetta scien-za dell’interpretazione o ermeneutica, basterebbe rileggere i saggi che compongono il volume La gioia dell’interpretare di Emerico Giachery.2 Il libro ha un titolo volutamente indirizzato, tramite Contini, alla lezione e al ricordo di Spitzer ed è guidato dall’auspi-cio di un’“ermeneutica letteraria”, rinata alla vocazione per le humanae litterae, lontana dalla tentazione asettica, sfiorata in anni non troppo lontani.3 Ho detto, recensendo

1 Oreste Macrí, Conclusioni sul metodo comparatistico, in Idem, Il Foscolo negli scrittori italiani del Novecento,

Ravenna, Longo, 1980, p. 158. Su tali proposte metodologiche si veda almeno: Anna Dolfi, Macrí e il metodo

comparatistico [1981] in Eadem , In Libertà di lettura. Note e riflessioni novecentesche, Roma, Bulzoni, pp. 329-337; E.

Biagini, Cenno sulla Francia poetica di Oreste Macrí, in Per Oreste Macrí. Atti della giornata di studio – Firenze 9 dicembre 1994, Roma, Bulzoni, pp. 215-233 e Gaetano Chiappini, La metodologia comparatistica di Oreste Macrí, ivi, pp. 339-360. Per Croce il rinvio va al noto appunto, B. Croce, La letteratura comparata [1903] raccolto in Idem, Problemi di Estetica, Bari, Laterza, 19232, pp. 71-76 (ripubblicato a ridosso della celebre «Revue de

littéra-ture comparée», inaugurata nel 1921).

2 Emerico Giachery, Gioia dell’interpretare. Motivi, stile, simboli, Roma, Carocci, 2006.

3 Si veda quanto scrive Giachery nel capitolo intitolatoSi veda quanto scrive Giachery nel capitolo intitolato: Omaggio a Leo Spitzer: «Spitzer è appena riapparso

nelle nostre librerie con volumi di Saggi di critica stilistica […]. Per di più, proprio in questi giorni appare una rivista internazionale con cadenza annua intitolata “Ermeneutica letteraria” […] da questi due fatti vorrei poter trarre presagi positivi […] da una parte, un maestro del passato riproposto – con l’avallo di Cesare Segre e quello (postumo) di Gianfranco Contini – a selezionati lettori. Dall’altra, una nuova importante rivista tutta protesa a un ringiovanimento della critica, a rigenerare l’autentico etimo di un’humanitas troppo emarginata dai nostri studi […]» (ivi, p. 155).

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il volume, che Giachery, in questi suoi contributi, si presta ad una sorta di «difesa e illustrazione» della stilistica letteraria, con l’“aura” di un autore noto che dell’inter-pretazione ha fatto una felice misura di scandaglio e che si accingeva a rinnovare un esplicito, serio – ma tutt’altro che serioso – “patto dell’interpretare”, invitando il let-tore ad entrare in maniera attiva nel ben noto “circolo ermeneutico”. Ma mi accorgo che, evocando i maestri della stilistica letteraria, sono entrata direttamente dal piano alto, tutto novecentesco, della critica; questo non significa però voler sminuire la spe-cificità della lunga tradizione delle artes interpretandi, che, seppure con vicende alterne, dura sin dall’antico «connubio tra Hermes e Filologia» (il mito evocato da Jauss) ed è stata adoperata in maniera feconda in ogni attività intellettuale, bensì porre l’accento proprio sulle sue diramazioni moderne della “spiegazione dei testi”; una pratica che è andata oltre la tradizione del commento e della ricerca dei «significati riposti», per fermare l’obiettivo sulla scena occupata da un testo, un senso da chiarire e da un inter-prete. Ma, a tal proposito, mi sembra valga ancora la pena di rileggere l’elogio che Eric Auerbach, più di sessant’anni fa, dedicava alla “spiegazione dei testi” (e cioè della nota

explication de textes), intesa quale pratica onnicomprensiva dell’interpretazione: La spiegazione dei testi si è imposta da quando esiste la filologia […] quando ci si trova dinanzi un testo di difficile comprensione, bisogna cercare di chiarirlo […]. La spiegazione dei testi, nonostante il metodo definito con molta precisione, può servire a scopi abbastanza diversi, secondo il genere di testi che si sceglie e secondo l’attenzione che si intende prestare alle diverse osservazioni cui danno luogo. Può interessarsi unicamente al valore artistico del testo, e alla particolare psicologia del suo autore; può proporsi di approfondire la conoscenza che abbiamo di tutta un’epoca letteraria; può anche avere come scopo finale lo studio di un problema parti-colare (semantico, sintattico, estetico, sociologico, ecc.); in quest’ultimo caso, si distingue dagli antichi procedimenti perché non comincia isolando dal loro ambiente i fenomeni che la interes-sano, ciò che dà a tante antiche ricerche l’aspetto di compilazioni meccaniche grossolane, senza vita, ma li considera nell’ambiente reale cui si trovano frammisti, liberandoli solo poco alla volta e senza distruggere le caratteristiche. In complesso l’analisi dei testi mi sembra il metodo più retto e più fertile tra i procedimenti di indagine letteraria attualmente in uso, sia dal punto di vista pedagogico che per le ricerche scientifiche.1

Questo valeva per gli anni Quaranta; tale scenario, però, mi sembra ancor valido at-tualmente anche nella prospettiva del rapporto tra intepretare e comparare (e sostan-zialmente tra critica e comparatistica), prefigurato nel quesito.2 D’acchito, si potrebbe rispondere che come per ogni attività cognitiva, le due pratiche appaiono poco scindi-bili, e, storicamente, è stato così. I grandi teorici e maestri dell’interpretazione moder-na (da Schleiermacher a Dilthey, a Freud, fino a Ricoeur, Betti, Steiner…), ma anche quelli dell’applicazione alla critica stilistica, prevedono la comparazione, in quanto ap-proccio insito all’atto della comprensione. Tuttavia, la comparatistica letteraria, inten-zionalmente tale, lo notano tutti gli specialisti del settore, matura e cresce cronologi-camente dopo i primi decenni dell’Ottocento, nella voga della diffusione dei postulati della scienza positivistica applicati in ogni campo e, nella fattispecie, alla riflessione sulla storia letteraria: vale a dire, in un contesto culturale europeo, il romanticismo, di interrogazione identitaria delle letterature nazionali e di interesse per l’intreccio dei

1 Eric Auerbach, La spiegazione dei testi, in Idem, Introduzione alla filologia romanza [1948], trad. di Maria

Rosa Massei, Torino, Einaudi, 1963, pp. 44-48.

2 Si veda la funzionalità veramente estesa prevista da A. Marino (si vedaSi veda la funzionalità veramente estesa prevista da A. Marino (si veda: Adrian Marino, La critique

des idées littéraries, a cura di Manole Friedman, Paris, Editions Complexe, 1977) e l’opportuno collegamento

storico richiamato da Nicola Gardini, in Introduzione alla letteratura comparata, Milano, Bruno Mondadori editore, 2002, pp. 4-7.

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rapporti, come «studio di fonti e di influenze».1 Da qui la nascita della letteratura com-parata,2 che all’interno della comparatistica trova, come è noto, il suo sviluppo nella vasta area della letteratura generale (Weltliteratur), con lo scopo di prendere «coscienza della interrelazione esistente tra i diversi sistemi letterari».3 Il fatto è che, nella sostan-za, il modo d’indagine si è costituito in disciplina e gran parte delle discussioni sulla natura del “metodo” e i suoi incroci con le altre pratiche critiche sono state indirizzate verso la riflessione sulla nuova disciplina e le sue trasformazioni. Per altro, tutti sono a conoscenza dei grandi cambiamenti intervenuti negli obiettivi delle aspirazioni dei primi apripista della letteratura comparata nel corso del xx secolo: in breve ciò è avve-nuto quando si è passati dai noti «studi binari» all’investitura di una disciplina, deputata a studiare i «testi letterari in rapporto con i testi figurativi, musicali, cinematografici, ecc., appartenenti a diversi codici espressivi che possano avere fra di loro temi comuni o rapporti storici di reciproco influsso».4 Questa è l’attuale prospettiva ampia, che, per altro, motiva da un lato il grande successo degli studi sul mito e sul tema e, dall’altro, lo spostarsi dell’interesse metodologico dalla critica delle fonti e della fortuna critica ai presupposti dell’intertestualità.5 Una prospettiva simile finisce per dare l’impressione di occupare tutta l’area della comparatistica, sovrapponendosi quasi all’orizzonte critico, altrettanto vasto, della pratica interpretativa dell’explication de textes, così com’era pre-figurata da Auerbach. Con questo non intendo dire che, più o meno consapevolmente, l’atto dell’interpretare coincida tout court con quello del comparare. Intendo dire che lo sforzo di distinzione riguarda i rispettivi ambiti di applicazione interpretativa, che ci deve, però, far riflettere ancora sull’idea di Macrí (facendola magari propria), quando dice che «lo studio comparatistico non differisce qualitativamente da quello monogra-fico, ma con ciò non si risolve nell’escamotage crociano della sua sparizione, giacché esige un proprio metodo».6Il fatto evidente è che i termini della partita da considerare sono più complessi e investono, da un lato, il senso esteso del termine interpretazio-ne, riferito ad ogni atto cognitivo, accanto alla sua applicaziointerpretazio-ne, più connotata, nella critica letteraria; e, dall’altro, il senso del termine comparazione, inteso come «sapere o […] scienza che compar[a]» e, anche qui, con la sua applicazione all’«oggetto del

1 René Wellek, La crisi della letteratura comparata in Idem, Concetti di critica [1963], Bologna, Boni, 1972, p.

304.

2 Mi piace ricordare la definizione con cui Claudio Guillén (un grandissimo studioso, di rara umanità eMi piace ricordare la definizione con cui Claudio Guillén (un grandissimo studioso, di rara umanità e

cultura, scomparso di recente) apre il suo celebre libro. Si veda: «Per la letteratura comparata (etichetta con-venzionale poco chiarificatrice) […] si intende di solito una certa tendenza o ramo della ricerca letteraria che si occupa dello studio sistematico di insiemi sovranazionali» (Claudio Guillén, Alcune definizioni, in Idem,

L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura comparata [1985], trad. di Antonio Gargano, Bologna, Il Mulino,

1992, p. 11. Nella nota Guillén spiega il successo del termine “comparare”, diffuso in ogni campo nel corso del secolo xix e, viceversa, l’accezione più ampia del termine letteratura, ereditata dal secolo dei lumi).

3 Susan Basnett, Introduzione critica alla letteratura comparata [1993], trad. di Franca Sinopoli, Lithos, Roma,

1996, p. 46.

4 Remo Ceserani, Comparazione, comparatistica letteraria, in Idem, Guida allo studio della letteratura, Bari,

Laterza, 1999, p. 464. La definizione di Ceserani comprende in realtà due opzioni: e cioè «1) i testi letterari delle più diverse tradizioni linguistiche e letterarie, mettendoli a confronto fra di loro, stabilendo dei legami di affinità o diversità, studiandone i rapporti storici e intertestuali; 2) i testi letterari in rapporto con i testi figurativi, musicali, cinematografici, ecc., appartenenti a diversi codici espressivi che possano avere fra di loro temi comuni o rapporti storici di reciproco influsso». Ma a tal proposito si veda anche Franco Meregalli,

Per la letteratura comparata, in «Nuova Antologia», fasc. 2109, settembre 1976, pp. 49-58.

5 Anche qui mi sia permesso un rinvio a un vecchio lavoro a cui tengo ancora. Si veda rispettivamenteAnche qui mi sia permesso un rinvio a un vecchio lavoro a cui tengo ancora. Si veda rispettivamente: Note

sull’intertestualità [1978] e Teorie sulla funzione della parodia nel romanzo [1983] in E. Biagini, Forme e funzioni della

critica, Pacini, Pisa, 1987, pp. 43-155.

6 O. Macrí, Varia fortuna del Manzoni in terre iberiche con una premessa sul metodo comparatistico, Longo,

Ra-venna, 1976, p. 9. Aggiungo che in quanto al metodo (comparazione interna vs comparazione esterna, questio-ni di influssi sincroquestio-nici e diacroquestio-nici, di intertestualità) le proposte di Macrí risultano ancora originali e utili.

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sapere, ossia la letteratura stessa»,1 per evidenziarne quei «temi comuni o rapporti storici di reciproco influsso», indicati da Ceserani. Ciò non toglie che i pressanti “in-siemi sovranazionali” e globalizzati, che premono sempre più nella ricerca letteraria, rendono il connubio tra l’ermeneutica letteraria (la critica) e la comparatistica più che mai indispensabile, alla stregua del contributo anche di natura umanistica dei grandi filologi romanzi e dei maestri delle teorie della traduzione e, forse, tornando a coniugare insieme la “gioia (o per lo meno il compito) dell’interpretare e quella del comparare”.

4. Quali ipotesi di lavoro possono darsi per limitare il divario tra fare artistico e intervento critico?

Qualche anno fa, nell’affrontare un argomento affine, ricordavo un’affermazione di Co-lette, che associava la scrittura ad una propensione sintomatica poco esaltante: quella masochista e continuavo con la constatazione che una simile tendenza era meno estra-nea di quanto può sembrare alla peculiare pratica disforica di “scrittura sopra alla scrit-tura” del critico. In quella sorta di bilancio problematico mi lanciavo anche nel suggerire una soluzione terapeutica: quella di allontanarsi dalla critica per uscire dalla sua crisi e dai segnali evidenti di giochi, tendenti alla ripetizione; finendo col dire: «Insomma le carte giocate da alcuni, quelle dei metodi, appaiono truccate, sospette, le altre logore e inefficaci».2 Certo, quella dell’abbandono della critica mi sembra una maniera troppo drastica come soluzione al divario tra critica e letteratura. Immagino che il quesito non ci ponga dinanzi un’alternativa così netta ma sia piuttosto un invito a tornare a interro-garsi sui ruoli attuali della critica, in vista di una prefigurata e necessaria “nuova alleanza” con la letteratura e con gli altri mezzi di interpretazione che la praticano. Ma, appunto, quali sono i margini di quest’alleanza ipotizzabile oltre quel divario necessario ed inevi-tabile, vale a dire istituzionale? Se si guarda alla storia della critica sotto tale aspetto non ci si sorprenderà di ritrovarsi dinanzi ad una linea più marcata, proprio quella che mo-stra come la critica sia stata a suo modo autocosciente e si sia, da subito, preoccupata dei propri mezzi e del proprio linguaggio, magari per aggirare il divario di conoscenza con il proprio oggetto, non potendo annullare tale divario. Si vedrà facilmente, insomma, che ad ogni ansa e meandro corrisponde un mutamento e questo, dal momento in cui, invece di limitarsi a censurare o a storicizzare un’arte ritenuta immutabile, la critica, con la modernità, ha teso a farsi anche lettura e interpretazione di un’attività creativa che muta nel tempo. Perciò, quando l’artista non si esprimerà più in obbedienza alle artes, bensì, seguendo le esigenze, sempre più guidate dall’interiorità (da quella più simbolica a quella più oggettiva), il critico tenderà a farsi filosofo, storico, confermando la norma generale secondo cui è sempre l’arte a produrre i propri modelli d’interpretazione. Pur restando giocata sul filo del divario, la connivenza tra arte e critica tenderà a rivestirsi continuamente di altre forme: così se l’arte si sottrae al commento, la critica si fa lettura libera; se si contrasta il giudizio, la critica si fa antivalutativa; se l’arte si fa linguaggio,

1 C. Guillén, Alcune definizioni, in Idem, L’uno e il molteplice. Introduzione alla letteratura comparata [1985],

cit., p. 464.

2 Si vedaSi veda: E. Biagini, Critica e interpretazione [1993] in Eadem , Letteratura e motivazione, cit., p. 157. Sul tema,

si veda anche: La critica dopo la crisi, a cura di Margherita Ganeri e Nicola Merola, Catanzaro, Rubettino, 2002; N. Merola, Teoria, critica, insegnamento, in Studi di letterature comparate in onore di Remo Ceserani, i.

Let-ture e riflessioni critiche, a cura di Mario Domenichelli, Pino Fasano, Mario Lavagetto, Nicola Merola, Roma,

Vecchiarelli Editore, 2003, pp. 297-311; Adelia Noferi, Postille a ‘Le poetiche critiche novecentesche. «Sub specie

Petrarchae», in Le Poetiche critiche novecentesche (Reprint), Trento, La Finestra editrice, 2004, pp. 373-442; Simona

Micali, Paolo Zanotti, Repertorio bibliografico ragionato sulla Crisi della critica (1993-2005), «Moderna», vii, 1-2005, pp. 115-140.

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la critica si fa filologia, stilistica, semiotica, ermeneutica... Il divario, in ultima ipotesi, si sostiene sulla necessità di un discrimine, aggirato secondo una sorta di lotta apparente che chiama l’interpretazione e al limite, come nelle esperienze decostruzioniste, il frain-tendimento, la mislettura o il “conflitto delle interpretazioni”. Ma questa storia in cui la critica, per restare al passo, lotta persino contro di sé, è nota ad ognuno, come sono noti a tutti gli esempi opposti, quelli di una critica talmente ravvicinata alla letteratura, dal punto di vista della scrittura e degli intenti, tanto da confondersi ‘pericolosamente’ con essa. Tra questi ultimi, si può ancora ricordare il caso della critica ermetica (e dell’iden-tificazione interpretativa tramite la lettura, teorizzata da Poulet, della Nouvelle critique, Barthes, ecc.) come esempi che hanno oltrepassato quelle che Pautasso ha definito “le frontiere della critica” e che hanno dato l’impressione di assottigliarsi al punto di annul-larsi. Insomma, ieri come oggi, il divario minimo è rappresentato dall’esempio della pratica critica come lettura ravvicinata, intenzionalmente a-metodologica e rilevante in quanto a scrittura. Oltre la frontiera, è di nuovo il ruolo dell’“artefice aggiunto” pro-mosso a scrittore a ripresentarsi; un ruolo che, del resto, era stato prefigurato anche da Anceschi proprio intorno agli anni Sessanta1 e che oggi appare come “rivestito di nuovo”, riscoperto, collocato in una vera e propria galleria trionfale (con Croce, Longhi, Baldacci, Macchia, Garboli…), elogiato per la sua libertà di scrittura saggistica, stilisti-camente rilevante, quanto quella della letteratura, invidiato (o vilipeso), perché oggi, in una fase stanca della critica è forse l’unico a poter dialogare alla pari con i suoi interlocu-tori e con gli auinterlocu-tori. L’esempio recente del tenore della lettera aperta a Tiziano Scarpa scritta da Berardinelli mi sembra cada a proposito quando il critico rivendica il ruolo di cattivo che gli è stato attibuito (e imposto) dalla tradizione:

Si dovrebbe rispondere pienamente e prontamente a quello che scrive lo scrittore e non si deve, invece, rispondere a quello che scrive il Critico? Se, come dici tu stesso, lo scrittore e il critico sono in realtà due scrittori a pieno titolo, perché il critico dovrebbe parlare di autori su cui ha poco da dire? Gli scrittori non si mettono certo a scrivere di cose che non gli interessano. Tu per esempio non lo fai. Perché dovrei farlo io […] In quel dialogo si nota un’ambivalenza molto tradizionale: lo scrittore odia il critico, non vuole essere giudicato da lui, ma, allo stesso tempo, esige il suo giudizio, si aspetta di essere riconosciuto come esistente, teme che, senza il critico, senza le sue parole, le sue dotte analisi e i suoi giudizi, non esisterebbe letterariamente.2

Non mi sembra esagerato attribuire, a simile rivendicazione d’identità, un valore utile a mettervi in conto anche l’ipotesi di una revisione dei ruoli, che si giocano attor-no al divario solitamente prefigurato nel rapporto tra critica e letteratura. E questo, perché mi pare nuova l’esigenza dell’auto-riconoscersi in un ruolo non subalterno e in una relazione nuova: un dialogo tra pari, che comprenda anche il diniego e il dis-senso.3 Mi sembra, invece, di poter azzardare, seppure in chiusura di questo veloce e parziale abbozzo di riflessione, che valga la pena di notare la diversa maniera con cui il gioco impari si trova ad essere, in un certo qual modo, neutralizzato. Un modo che solo apparentemente appare diverso da quello del riconoscere alla critica, come diceva spesso Piero Bigongiari, la facoltà di essere «in partenza una scienza ma […] in arrivo, un’arte»,4 per il fatto di esercitarsi su un condiviso terreno, quello dell’interrogarsi, del

1 Luciano Anceschi, Fenomenologia della critica, Bologna, Patron, 1966, p. 20 sgg.

2 Alfonso Berardinelli, Lo scrittore, il critico e l’ossessione della performance. Lettera a Tiziano Scarpa, in

Giulio Ferroni, Massimo Onofri, Filippo La Porta, Alfonso Berardinelli, Sul banco dei cattivi, A

propo-sito di Baricco e di altri scrittori alla moda, Roma, Donzelli, 2006, pp. 84-85.

3 Si legga la protesta del “cattivo” Giulio Ferroni nei confronti di Alessandro Baricco (Si legga la protesta del “cattivo” Giulio Ferroni nei confronti di Alessandro Baricco (G. Ferroni,

Profon-dità di superficie, in Sul banco dei cattivi, cit., pp. 9-31).

4 Si vedaSi veda: Piero Bigongiari, La critica è un’invenzione [1965] ora in Idem, Nel mutismo dell’universo. Interviste

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“pensarsi su”, che resta alla base di ogni attività ermeneutica e creativa. Una preroga-tiva, questa, che non è forse sbagliato estendere oltre l’angolo della critica militante recentemente elogiata da Giorgio Manacorda. Si veda:

Il critico militante pensa, è vero, ma pensa come i poeti, e questa è la ragione per cui li sa ricono-scere, e li può giudicare. Perché (e qui Croce ha torto) anche i poeti possono sbagliare – e forse sbagliano più del critico militante perché loro creano dal nulla, mentre il critico militante crea su ciò che loro hanno creato.1

Mi piace concludere con questo richiamo alla necessità dell’interrogare e del pensare come possibilità di contrassegnare, per neutralizzarlo, il divario tra chi pensa per creare e chi pensa per riflettere e conoscere, nel tentativo di superare l’attuale disorientamen-to a «riconoscere il nuovo, la comparsa di un poeta o di una poesia autentici».2

*

Anna Boschetti

1. Che fine sta facendo la letteratura nel sistema culturale del mondo globalizzato?

I

n termini quantitativi assoluti, la globalizzazione e i progressi della scolarizzazione di massa hanno certamente incrementato la produzione letteraria e il mercato. An-che se la televisione e internet fanno una concorrenza sempre più forte al libro, non siamo in grado di prevedere se e quando questo vorrà dire una riduzione drastica della circolazione cartacea.

Ciò non toglie che sia invece fortemente minacciata la sopravvivenza di una lette-ratura che guarda alla qualità ed è capace di resistere alle pressioni e alle lusinghe del mercato globale. È vero che già nell’Ottocento gli scrittori più esigenti denunciavano allarmati l’invadenza della “letteratura industriale” (come la chiamava Sainte-Beuve). Ma adesso il potere del mercato e delle sue classifiche è incomparabilmente più forte, per effetto di una serie di trasformazioni ben note.3 Si può misurare il pericolo insito in questa situazione se si considera che la maggior parte delle opere considerate “canoni-che” sono dovute ad autori che non hanno perseguito il successo ma una concezione elevata e disinteressata della scrittura. Nella tradizione europea, soprattutto in Fran-cia, si era creata, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, una contrapposizione molto evidente e sistematica (nelle proprietà, nelle modalità di edizione e diffusione, nel pubblico) tra la produzione commerciale che mira al successo più vasto e imme-diato possibile e la letteratura di ricerca che è entrata nella storia letteraria grazie al

1 G. Manacorda, Apologia del critico militante, Roma, Castelvecchi, 2006, pp. 59-60.

2 Ingeborg Bachman, Domande e pseudodomande in Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte [1980],

trad. di Vanda Perretta, a cura di Renata Colorni, Milano, Adelphi, 1993, p. 27. Questa prospettiva mi sembra escluda a priori la possibilità di raccogliere la sfida, provocatoria ma non banale, lanciata da Pierre Bayard nel suo recente libro, Comment parler des livres qu’on n’a pas lu?, Paris, Minuit, 2007 (tr. it. Come parlare di un libro

senza averlo mai letto, a cura di Anna Maria Mazzoli, Milano, Excelsior 1881, 2007).

3 Cf. Lewis Coser, Charles Kadushin, Walter W. Powell, Books: the Culture and Commerce of

Publish-ing, Basic Books, New York 1982; Peter Curwen, The world Book Industry, Euromonitor Publications, London 1986; Pierre Bourdieu, Una rivoluzione conservatrice nell’editoria, «L’Ospite ingrato», vii, 2, 2004, pp. 19-59. Cfr.Cfr. anche gli altri interventi in questo numero speciale de «L’Ospite ingrato» dedicato al tema Editoria e industria

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