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Brasile, politiche concertate per lo sviluppo locale

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Academic year: 2021

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osservatorio internazionale

Paola De Vivo

Brasile, politiche concertate

per lo sviluppo locale

Le aspettative e le speranze intorno alla capacità della nuova legislatura brasiliana di promuovere lo sviluppo economico e di attenuare le disparità sociali sono state parzialmente disattese. Il programma di politica economica viene infatti accusato di non essere all’altezza delle promesse fatte durante la campagna elettorale. Il caso delle politiche per lo sviluppo locale, in particolare, merita attenzione.

S

econdo diversi osservatori, l’esecutivo guidato da Lula non sarebbe riuscito, sinora, né a debellare la dilagante disoccupazione, né a contrastare efficace-mente la criminalità, né a ridurre le condizioni di povertà in cui si trova la maggior parte della popolazione. Ad aggravare il giudizio politico, vi è poi il fatto che esso non avrebbe intaccato, se non in una minima misura, gli interes-si economici delle clasinteres-si dominanti al potere nel Paese, non riuscendo a indivi-duare meccanismi in grado di ridurre la sperequazione esistente nella redistribuzione della ricchezza sociale. I principali cardini della proposta poli-tica di Lula – la riforma agraria, previdenziale e fiscale, il programma Fame Zero – sarebbero rimasti incagliati nei meandri dei loro percorsi di attuazione, soprattutto per la carenza di risorse finanziarie necessarie, dato il forte debito pubblico e l’esigenza di mantenere il rigore finanziario e di assolvere agli im-pegni già contratti con il Fondo monetario internazionale.

D’altronde, sin dalle sue prime apparizioni in campagna elettorale e ancor di più dopo la sua affermazione, il presidente aveva lasciato intendere che i cambiamenti economici e sociali da effettuare nella traiettoria di sviluppo del Paese sarebbero stati all’insegna della continuità e, più che inseguire una tota-le inversione di tendenza rispetto agli orientamenti precedenti, essi sarebbero stati perseguiti e realizzati con una certa lentezza e gradualità. Per questo mo-tivo, nella prima fase della sua legislatura, l’azione del governo si è concentrata principalmente sul quadro macroeconomico, ricercando delle misure utili a stabilizzare le condizioni economiche e a contenere il debito, oltreché ad av-viare le riforme in agenda. Ma non è soltanto la natura centralistica dell’impo-stazione politica che viene ora messa in discussione. Il ritardo con cui si stanno affrontando i nodi economici e sociali del Paese ha origine anche nella diffi-coltà di gestione e di attuazione delle iniziative pubbliche.

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livelli, sembra essere la persistenza di un «deficit» di democrazia, tuttora imputabile alle modalità con cui la classe politica e amministrativa si approssi-ma a gestire le risorse pubbliche. I fenomeni di plateale corruzione dei diri-genti politici e della burocrazia pubblica riguardano il governo federale come quello statale o municipale e la partecipazione alla vita pubblica è fortemente condizionata e viziata da queste modalità di comportamento.

Così, mentre lo stato di attuazione delle politiche macroeconomiche pro-mosse dal governo federale attira un’attenzione crescente e guadagna rilievo anche a livello internazionale, non si può mancare di osservare che le ammini-strazioni statali e municipali hanno anch’esse un loro peso nel decretare il relativo fallimento del programma di governo. Strette nella morsa della ristret-tezza della finanza pubblica, esse finiscono per essere sempre più coinvolte e impegnate nella promozione e nell’attuazione di programmi che mirano a so-stenere lo sviluppo territoriale. Se il pullulare di numerose iniziative ancora-te a una dimensione locale non risolve, in via generale, il problema dell’arre-tratezza dello sviluppo economico del Paese nella sua interezza, ciò malgrado fa sorgere l’esigenza di ripensare, reimpostare e ridefinire l’azione pubblica in una prospettiva meno centralizzata, più orientata a creare delle forme di coor-dinamento e di cooperazione tra gli attori locali pubblici e privati.

In questo scritto si analizza un’iniziativa di sviluppo locale in corso nello Stato del Pará, nel Nord del Brasile1. Il Nord del Brasile, come si dirà, è più

arretrato del nostro Mezzogiorno. In entrambi i contesti, negli ultimi anni, il fenomeno dello sviluppo locale, dopo decenni di politiche centralizzate, ha destato un crescente interesse. La tendenza a rivalutare la dimensione «micro» dei percorsi di sviluppo è pertanto simile, ciò che differisce è l’offerta di politi-che territoriali, completamente inesistente in Brasile. Diversamente dall’Italia, dove la cornice normativa della programmazione negoziata e la sua attuazione, rappresentano un esperimento di politica economica unico nel suo genere.

Un’esperienza di sviluppo locale

Da tutto ciò nasce l’idea che la società meridionale e la popolazione di questa parte del mondo, vicina all’Amazzonia, possano confrontare esperienze, per-corsi, pratiche comuni per affrontare i nodi del loro mancato sviluppo. La convinzione cioè che le politiche economiche per lo sviluppo del Mezzogior-no, e in particolare le politiche promulgate nell’arco dell’ultimo decennio, re-lative alla «programmazione negoziata», siano un utile modello di riferimento conoscitivo, e, al tempo stesso, operativo, anche per la classe dirigente locale di questa parte del Brasile. Un confronto di tale genere può a qualcuno appa-rire paradossale, forse non a torto.

In Italia, gli esiti scaturiti dall’attuazione delle nuove politiche economi-che sono stati ritenuti, generalmente, poco soddisfacenti. Nel caso brasiliano, si tratta di approfondire i motivi per cui un programma di sviluppo, varato localmente e basato sulla costruzione di una diga idroelettrica a Tucuruí, ha incontrato difficoltà crescenti nel corso della sua realizzazione. Il progetto nasce allo scopo di fronteggiare i bisogni in aumento di acqua e di energia elettrica della popolazione e dell’industria del Nord del Paese, sfruttando la forza delle

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acque del Tocantins, un affluente del Rio delle Amazzoni, di cui è stato

devia-to il corso, ma è avversadevia-to dal movimendevia-to dei senza terra, è ostacoladevia-to dagli ambientalisti, è inviso ai sindacati locali e incontra l’opposizione della popola-zione. Non senza ragione. La regione di Tucuruí2 ha avuto dei danni enormi

dalla costruzione della diga. Il territorio è stato letteralmente diviso in due parti: una parte superiore comprendente sette municipi, detta À Montante, e una parte a valle composta inizialmente da cinque municipi (a cui se ne sono uniti successivamente altri quattro) detta À Jusante. Nonostante sulla carta fossero previsti dei significativi vantaggi sul piano economico, occupazionale e sociale per le popolazioni locali, l’impatto del programma di sviluppo, avvia-to tramite la costruzione della diga, non ha sinora generaavvia-to i risultati che ci si aspettava. Anzi, secondo alcuni, esso è stato addirittura controproducente. Non ha cioè migliorato, o, al più, ha migliorato ma in minima misura, le con-dizioni di arretratezza economica e sociale in cui tali popolazioni versano: sono migliaia, per esempio, i contadini del Parà e del Maranhão che vivono al buio, pur trovandosi vicino alla linea elettrica di Tucuruí, che dota di energia quasi esclusivamente una multinazionale, la cui proprietà è in parte detenuta da un gruppo privato giapponese, produttore ed esportatore di alluminio (la Albras). Il punto in discussione è proprio questo: quali sono gli interessi in gioco, chi li gestisce e come.

Ma cosa c’entra tutto questo con l’esperienza delle politiche economiche del nostro Mezzogiorno? Un nesso c’è. E riguarda la situazione di blocco in cui sembrano essersi incastrati i rappresentanti delle istituzioni, delle organiz-zazioni e dei movimenti sociali della regione di Tucuruí. L’impressione è che tale blocco sia dovuto principalmente all’accesa propensione alla conflittualità che gli attori locali mostrano di avere reciprocamente. O, in altre parole, al mancato spirito di cooperazione che li anima. Gli interessi dei campesinos sono senz’altro diversi da quelli del management giapponese, ma lo sono, forse an-che di più, i modi e le forme della loro rappresentanza sociale.

È chiaro che la costruzione della diga pone alla classe dirigente brasiliana un problema, quello di dover fronteggiare il classico dilemma del rapporto tra i benefici della crescita economica e la ripartizione dei costi ambientali e socia-li ad essa associati. Un dilemma compsocia-licato ancora di più dalla tradizionale animosità politica che caratterizza questo Paese, in cui il rigurgito rivoluziona-rio, l’ideologia di una certa sinistra latino-americana – la guerra contro l’Impe-ro e il capitalismo – ha ancora un forte peso nel condizionare le strategie di intervento e i rapporti tra governo centrale e locale, tra economia e società. In più, e non si tratta di un aspetto di certo irrilevante, a tale animosità si affianca la cronica scarsità delle risorse finanziarie di cui dispongono i singoli comuni della regione. Una ristrettezza finanziaria che finisce per acuire enormemente la conflittualità tra le stesse amministrazioni locali, sino anzi a divenire un ulteriore freno per lo sviluppo di forme di cooperazione locale.

Le condizioni di arretratezza istituzionale, organizzativa e gestionale delle municipalità sono, infine, niente altro che espressione di una debolezza della regolazione e dell’azione statale. In comuni dove manca ancora la copertura della rete elettrica, dove le fogne sono a cielo aperto, le strade sterrate e la

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criminalità dilaga vi è evidentemente una incapacità di governo dei problemi amministrativi e sociali. Una incapacità che in parte deriva anche dalla diffu-sione di veri e propri fenomeni di corruzione e di clientelismo politico. D’altra parte, si ha la netta impressione che, nell’arena in cui si muovono i diversi soggetti istituzionali partecipi al programma, vi sia una forte commistione tra il soggetto pubblico (l’Elettronorte, centrale elettrica del Nord del Brasile; impresa regionale del più ampio sistema Elettrobras), che si dovrebbe occu-pare dello studio di fattibilità dell’iniziativa e di lanciare la gara pubblica di appalto, e gli investitori privati.

Ma andiamo per gradi, perché ce n’è abbastanza, a questo punto, per com-prendere quanto il caso Tucuruí solleciti tutto il nostro interesse, e possa invi-tare al confronto con la situazione del Mezzogiorno. In fondo, anche nella storia economica meno recente del Brasile si rintracciano alcuni episodi ed esperienze che, ferme restando le enormi differenze che le contraddistinguono, sembrano riproporre lo stesso schema di intervento che è stato utilizzato per le aree meridionali. Come non ricordare, per esempio, lo sforzo dirigista fatto dal governo federale a ridosso degli anni Cinquanta, quando vengono creati una serie di organismi per agevolare lo sviluppo regionale del Brasile. Il primo di questi fu la Cusf (Commissione della Valle di Sao Francisco) creato nel ’48, cui seguirono nel ’50 il Banco de Amazzonia, nel ’52 la la Bndes (Banca Nazio-nale di Sviluppo Economico), nel ’53 la Petrobras per la ricerca del petrolio e molti altri ancora. Nel ’59, con la creazione della Sudane (Soprintendenza per lo sviluppo del Nord Est) il potere di questi organismi aumentò, in quanto assunsero un ruolo di coordinamento e di controllo sulle amministrazioni fe-derali e su quelle dei differenti Stati. Oltre la Sudane vennero create la Sudam (per lo sviluppo dell’Amazzonia), la Sudeco (per lo sviluppo del Centro Ovest), la Sudesul (per lo sviluppo del Sud), la Suframa (per la zona franca di Manaus). In questo quadro, grandi speranze sono riposte da alcuni anni nello svi-luppo dell’area amazzonica, per cui numerosi progetti sono stati varati dal 1967, anno in cui è stata creata la Sudam, organismo statale preposto al coor-dinamento dei progetti e alla promozione di incentivi fiscali per le imprese che si installano nell’area. La Sudam è attualmente coinvolta in alcune delle attivi-tà che riguardano il progetto di costruzione della diga di Tucuruí.

Un progetto contestato sin dal suo avvio

La centrale idroelettrica di Tucuruí, con il maggior getto di caduta del mondo, non appena saranno completati i lavori della seconda parte del progetto, sarà il principale impianto elettrico del Brasile. La prima parte dei lavori sul Tucuruí è stata avviata nel novembre del 1984 con la costruzione di una turbina 12x330 megawatt affiancata da una unità ausiliaria, 2x25 megawatt e un getto di cadu-ta con 23 turbine. Solo quescadu-ta parte fa della centrale di Tucuruí il quarto im-pianto elettrico del Brasile. Un imponente sistema di elettrodi collegato a que-sta prima parte appartiene al sistema che approvvigiona gli Stati del Pará, Maranhão e Goiás settentrionale. Questo sistema scambia inoltre elettricità con altri Stati del Nord Est, attraverso apposite linee di comunicazione. Il sistema di trasmissione elettrica di Tucuruí è composto da 2.930 chilometri di

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linee di trasmissione a 500 chilowatt, oltre a 630 chilometri di linee a 230

chilowatt e 11 sottostazioni per la distribuzione regionale.

L’impatto sull’ambiente e sulle popolazioni locali, già in questa prima fase di realizzazione del progetto, ha scatenato le proteste degli ambientalisti, con-trari all’iniziativa. Una protesta che si salda, più in generale, a quella in corso da ormai circa un decennio contro la costruzione della diga di Belmonte, di dimensioni ancora maggiori di quelle di Tucuruí. I contenuti della protesta sono rivolti, oltre che alla difesa dell’ambiente, alla tutela degli interessi delle comunità indigene e dei luoghi dove esse vivono. Peraltro, da questa protesta, talmente aspra da essere culminata in scontri e arresti dei partecipanti, sono scaturiti alcuni significativi risultati, come la riduzione della superficie della fascia dei territori che sarebbero rimasti colpiti dall’inondazione prevista dal progetto e l’obbligo di non inondare le aree abitate.

La seconda fase del progetto Tucuruí, il cui contratto è stato firmato nel febbraio 2000, aggiungerà alla centrale un’altra turbina 11x370 megawatt. Per accogliere l’energia prodotta nella seconda fase è previsto un ampliamento degli elettrodi della centrale. Nel complesso, il lavoro sarà ultimato quando entreranno in funzione le 23 turbine previste per consentire l’operatività della centrale. Quando i lavori della seconda fase saranno completati, la centrale di Tucuruí avrà una capacità totale di circa 8.400 megawatt e diventerà la mag-giore centrale elettrica brasiliana, fornendo da sola un 10% dell’energia prodot-ta dall’intero Paese. Secondo i progettisti, l’impatto ambienprodot-tale dovrebbe ora essere di minore entità, poiché si tratta di una prosecuzione dei lavori già avviati. Il progetto prevede l’aumento di elettricità prodotta senza modificare sostan-zialmente l’entità del bacino, che ha una capacità di circa 45,8 miliardi di metri cubi di acqua, e una superficie di 2.430 chilometri quadrati. La seconda fase, iniziata dalla Electrobras e dal Bndes, sarà gestita dalla Alstom, in qualità di coordinatore di un consorzio (Consorcio Empresarial Tucuruí; Cetuc). Alstom è responsabile per il coordinamento, per la produzione, per il rifornimento e l’assemblaggio dei materiali utili alla realizzazione del progetto.

Gli interessi in gioco

È importante sin d’ora segnalare che l’esperienza di forte contrapposizione con i movimenti ambientalisti e popolari ha in qualche misura condotto i ge-stori del progetto a individuare un modello più partecipativo per la formula-zione delle decisioni e degli interventi da intraprendere nella parte che riguar-da i territori situati al di sotto della diga, l’area À Jusante, tanto che la Elettro-norte ha redatto un Piano di sviluppo (Plano De Desonvolvimento Sustentàvel

Da Microrregio À Jusante Da Uhe Tucurui) nel cui ambito di azione sono

com-presi attualmente undici municipi.

Il Piano è stato elaborato, stando a ciò che racconta il management del-l’azienda, mediante un’accurata analisi delle esigenze e delle proposte emerse in diversi incontri con esponenti del mondo imprenditoriale, sindacalisti, rap-presentanti dei movimenti popolari e ambientalisti. Inoltre, esistono dei mec-canismi normativi per correggere l’iniquità della distribuzione tra i costi e i benefici che discendono dalla realizzazione dell’impianto della diga. Tra

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sti una legge brasiliana (legge 7990 del 28.12.89) che prevede il pagamento di diritti al governo federale per l’uso di risorse idriche allo scopo di produrre elettricità. I diritti sono dovuti per ogni impianto che produce più di 10 Mw e costituiscono il 6% del valore dell’intera produzione di energia elettrica. I fondi ottenuti vengono così ripartiti: 10% al governo federale, 45% al gover-no dello Stato in cui è situato l’impianto e 45% al distretto municipale interes-sato dall’impianto stesso. Per la diga di Tucuruí, nel 1996, sono stati pagati 19 milioni di dollari. In pratica, questo meccanismo normativo dovrebbe per-mettere alle municipalità locali, dissestate sul piano finanziario, di poter con-tare su questo introito aggiuntivo.

Per di più, le municipalità locali sono beneficiate da progetti di sviluppo intrapresi da un altro attore presente sulla scena locale, la Albras, la grande azienda che produce alluminio per il mercato giapponese e che si approvvigio-na dell’elettricità della centrale. Questa azienda gioca un ruolo molto signifi-cativo nelle vicende della centrale elettrica di Tucuruí per diverse ragioni.

La prima è che essa ricalca un modello di sviluppo che si basa sulla grande impresa, ritenuto ormai per lo più superato negli approcci e nelle impostazioni recenti di politica economica. Come, peraltro, le peculiari vicende e la storia economica del Mezzogiorno insegnano. Ciononostante, nel contesto brasilia-no, in cui i processi di industrializzazione sono ancora in una fase del tutto embrionale, la grande impresa continua a mantenere un ruolo centrale nel-l’economia e nella società locali. Basti dire che la Albras occupa più di mille addetti e che lo stipendio di ciascuno di essi è di molte volte superiore alle retribuzioni normalmente percepite dagli occupati in altre attività e settori economici.

Quanto alla seconda, basti ancora dire che la Albras rappresenta un fatto-re di modernizzazione per la società locale: i lavoratori sono inquadrati con una paga contrattuale, hanno acquisito dei diritti, sono, come si sarebbe detto una volta, più emancipati rispetto ai contadini che producono, per esempio, l’açai, un frutto da cui si ricava una specie di vino. La Albras è un corpo estra-neo rispetto al territorio circostante, è completamente avulsa dal contesto so-ciale in cui opera, è un atomo autosufficiente che, tuttavia, tenta di integrarsi e di radicarsi promuovendo progetti e programmi di sviluppo a sostegno delle comunità locali. Tra questi programmi ve ne sono alcuni che coinvolgono di-rettamente le comunità locali, come quello inerente al riciclaggio dei rifiuti urbani, da cui si ricava concime e altri oggetti che vengono prodotti da coope-rative locali. Oppure, quello rivolto alla meccanizzazione dell’agricoltura, in cui la Albras si occupa di acquistare macchine e trattori che servono per incre-mentare la produttività di aree rurali attraverso la coltivazione di farina di manioca e di altri prodotti agricoli.

La terza è che questi benefici che l’azienda apporta al territorio sono bi-lanciate da una politica dei prezzi piuttosto favorevole da parte della Electrobras nei suoi confronti, per l’acquisto e l’approvvigionamento dell’elettricità ne-cessaria al suo funzionamento. Una politica di mercato, o, forse, una vera e propria strategia, che la Electrobras in realtà sviluppa anche nei confronti di altre imprese, soprattutto straniere. Con il paradosso che il prezzo di vendita

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dell’energia elettrica consumata dalle popolazioni locali è più alto. Inoltre, il

fatto che l’azienda produttrice di alluminio garantisca occupazione a una quo-ta della popolazione locale condiziona il rapporto tra lavoratori e sindacati. Nell’azienda i sindacati hanno meno presa che fuori. Vuoi perché i lavoratori temono di perdere il lavoro, vuoi perché non condividono le posizioni radicali e intransigenti di un certo sindacalismo rivoluzionario, questo è un elemento di frattura che esiste nella classe operaia, con cui lo stesso movimento popola-re si trova a dover fapopola-re i conti.

Il movimento popolare, naturalmente, giudica l’operato della Albras in maniera del tutto negativa: essa deturpa e inquina l’ambiente, si avvantaggia delle sue risorse e non restituisce, in cambio, quanto riceve. In alternativa, la proposta di sviluppo che il movimento offre è di basarsi sulle risorse naturali dell’area amazzonica: pesca, artigianato e produzione di açai. Un modello di sviluppo la cui organizzazione dovrebbe essere affidata a cooperative locali, alcune peraltro già attive nell’area. Nonostante l’avversione verso la politica aziendale, vi è comunque da sottolineare una sorta di patto implicito tra gli esponenti di spicco del movimento popolare e il management aziendale, un patto che si fonda sul sostegno finanziario e tecnologico che quest’ultimo of-fre tramite i propri programmi alle poverissime popolazioni locali.

Ora, nel groviglio di interessi economici, sociali e istituzionali che, come si intuisce, si è generato localmente, è difficile comprendere se e quale direzione intraprenderà lo sviluppo dei territori interessati dal progetto, da quali dina-miche e tendenze sarà attraversato e quale impatto, in definitiva, avrà.

Due aspetti, tuttavia, mi sembrano chiari. Il primo è che gli interessi priva-ti, quelli dell’impresa, si saldano fortemente con quelli del management della centrale idroelettrica. Si tratti del consorzio che dovrà gestire la realizzazione della diga o delle commesse che ne ricaverà la Albras, di certo vi è un’alleanza tra tutti questi soggetti che si traduce in una forma di potere economico ben definita. Un potere economico, ed è questo il secondo aspetto, che influenza e condiziona le stesse scelte pubbliche delle municipalità locali, che in assenza di risorse finanziarie sono costrette a «cedere» parte della loro neutralità nelle decisioni e nella garanzia degli interessi pubblici.

Questo squilibrio nella forza politica e nel potere economico, in cui risalta l’egemonia del mercato e dell’impresa, comporta di conseguenza un arretramen-to dello Staarretramen-to, una mancanza di governo dell’azione pubblica, che finisce per aggravare ulteriormente le condizioni di disagio sociale e di arretratezza eco-nomica di questa, già provata, parte del Brasile. In tale scenario, comunque, comincia a strutturarsi, seppure intorno a un nucleo embrionale, una rete di soggetti istituzionali, all’opera per individuare delle soluzioni cooperative, af-finché il progetto di sviluppo non venga intralciato nei tempi e nelle modalità del suo percorso. E soprattutto, impegnata affinché le scelte che la sua attua-zione richiede divengano patrimonio condiviso tra tutti i soggetti che, in un modo o nell’altro, le subiranno.

Lo spazio per un confronto

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economica del Brasile è in movimento. Anche in questo Paese si sta accredi-tando una impostazione delle politiche per lo sviluppo che incentiva la forma-zione e la crescita di macro aree di intervento, siano esse a dimensione subregio-nale o comunque sovracomunali. Da questa ricerca di un modello di interven-to meno centralizzainterven-to, nasce il vivo interesse al confroninterven-to, all’apertura, allo scambio con analoghe esperienze in corso in altre realtà, come il nostro Mez-zogiorno. Della discussione che si è sviluppata sui recenti cambiamenti intro-dotti nella politica economica per il Mezzogiorno, vale qui certamente la pena richiamare l’attenzione sull’enorme sforzo che si è profuso per tentare di modernizzare la vita politica e amministrativa delle società locali. Un tentativo il cui fine ultimo è di indurle a forme di responsabilizzazione e di autonomia nella gestione delle risorse pubbliche, attraverso un metodo ben definito: quello della concertazione. Un tentativo che nell’area di Tucuruí gli attori locali stan-no avviando spontaneamente, senza alcun sostegstan-no stan-normativo. Che cosa si può dunque trarre dall’esperienza italiana e, soprattutto, se e in che modo essa può tornare utile altrove, in luoghi, come il Brasile, in cui le condizioni di arretratezza economica e di disagio sociale sono indubbiamente superiori a quelle del nostro Mezzogiorno?

L’ambizione di fondo delle politiche negoziali è di costruire nuove istitu-zioni, capaci di ridare fiducia ai cittadini, al mercato, alle amministrazioni pub-bliche. Un’ambizione giocata tutta sulla capacità dei loro meccanismi di attua-zione di contribuire alla formaattua-zione di una classe dirigente in loco, autonoma e responsabile nell’assunzione di decisioni pubbliche, in grado cioè di indiriz-zare lo sviluppo dei territori. Un’ambizione che può divenire una vera e pro-pria scommessa e sfida nel contesto brasiliano, dove il ruolo dello Stato, dei suoi apparati burocratici, della sua classe politica e amministrativa è identifi-cato come in parte predatorio e in parte sviluppista. A distanza di circa un decennio da quando è iniziato in Italia questo esperimento di innovazione politica e amministrativa, vi è una convinzione largamente diffusa che esso non abbia conseguito gli esiti sperati. La concertazione si sarebbe rivelata un ulteriore aggravio per i tempi dello sviluppo economico e delle imprese; le coalizioni che si sono formate localmente avrebbero agito in una logica di particolarismo e non avrebbero affatto contribuito alla creazione di beni pub-blici; i soggetti della rappresentanza sociale avrebbero tutelato solo alcuni e specifici interessi, con la conseguenza che la reale partecipazione sociale alle decisioni sui contenuti e sugli interventi da adottare territorialmente sarebbe rimasta limitata e parziale. In definitiva, tutto ciò si sarebbe tradotto ancora una volta in una mancata modernizzazione delle strutture politiche, economi-che e sociali del Mezzogiorno. Queste argomentazioni sono, almeno in parte, difficili da contrastare.

Tuttavia, nemmeno si può tralasciare di osservare che gli accordi, i patti, i contratti, in altre parole tutti gli strumenti della programmazione negoziata, hanno intenzionalmente tentato di ridefinire le modalità di comportamento delle amministrazioni locali. Hanno cioè tentato di promuovere e di generare un dialogo il più delle volte inesistente, tra istituzioni pubbliche, private, dell’associazionismo. Attraverso un serrato confronto, attuato mediante

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che concertative, volte a fare emergere un adeguato livello di consenso nella

condivisione di un progetto di sviluppo a dimensione territoriale, si è cercato di raccordare risorse, soggetti e iniziative. Si è provato a ridurre la conflittualità, laddove presente, tra le amministrazioni pubbliche e i soggetti privati.

Perciò, tra le tante implicazioni che emergono dall’osservazione dei per-corsi di attuazione delle politiche negoziali in merito alla loro effettiva replicabi-lità in altri contesti, come nel caso brasiliano, ce n’è una in particolare che, secondo me, vale la pena segnalare. Riguarda il processo di cambiamento che ha indotto nel ruolo e nei comportamenti della classe politica e amministrativa locale. Non vi è dubbio che le politiche negoziali e gli strumenti di cui si sostanziano hanno quantomeno generato un processo di apprendimento istitu-zionale. La pratica della concertazione per lo sviluppo territoriale ha significa-to il superamensignifica-to dell’isolamensignifica-to che, tradizionalmente, esisteva tra le ammi-nistrazioni pubbliche e il mondo imprenditoriale e sindacale. Essa ha

comun-que contribuito a ridefinire le mappe di riferimento cognitivo, alcuni dei

com-piti e delle azioni svolti dalle pubbliche amministrazioni. Certo, si è ancora lontani dal poter sostenere che li abbia completamente trasformati. Analoga-mente, è difficile sostenere che le accentuazioni negative dei caratteri del mo-dello burocratico, con il suo eccessivo formalismo e le complicazioni procedu-rali da cui è tuttora contraddistinto, siano state del tutto superate. Come è evidente che nemmeno la classe politica meridionale ha del tutto mutato i suoi caratteri e la sua identità. Per quest’ultima, continua ad essere cruciale la

fun-zione di controllo esercitata sulle risorse pubbliche e sui modi di amministrarle

nei contesti locali. Ed è a questa classe politica che è affidata, in sostanza, la gestione delle risorse finanziarie che provengono dagli strumenti negoziali. Da un certo punto di vista, le resistenze verso le prospettive di cambiamento erano forse inevitabili e da mettere in conto preventivamente. Nessuna tra-sformazione avviene in un vuoto sociale. Le amministrazioni pubbliche si con-frontano, già nell’espletamento delle attività ordinarie, con risorse umane ina-deguate, con forme diverse di arretratezza nella gestione organizzativa, con una scarsa propensione culturale dei dipendenti verso il rinnovamento nel-l’azione amministrativa. Si tratta di nodi che hanno intralciato il cammino del-le passate e deldel-le recenti politiche che sostengono lo sviluppo del Mezzogior-no. Purtroppo, da quanto mi sembra di aver appreso dall’incursione brasilia-na, sono gli stessi nodi irrisolti di quel Paese.

Ma i condizionamenti del contesto non possono e non devono offuscare le intenzionalità degli attori, con il fatto che essi hanno almeno provato a indivi-duare una pista che li conducesse verso il cambiamento istituzionale. Con il fatto che si sono comunque rimessi in gioco. Il rischio altrimenti è di finire nel vicolo cieco di un qualche determinismo ambientale, senza comprendere come le intenzionalità degli attori, le loro strategie o pratiche di azione, si sono relazio-nate ai fattori di contesto. Il punto è che occorre avere meno fretta, essere più cauti e soffermarsi maggiormente sul processo di realizzazione delle politiche negoziali e su quanto esso indirettamente e inconsapevolmente può contribui-re a generacontribui-re.

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de in maniera puntuale e precisa alla questione iniziale, se le nuove politiche siano state o meno, nel complesso, efficaci per lo sviluppo meridionale. Su questo, allora, è bene sgombrare il campo dall’idea che l’esito delle politiche negoziali sia dipeso, e tuttora dipenda, unicamente dai loro meccanismi di attuazione.

In un quadro di riduzione generale delle risorse, in contesti dove nono-stante si assista allo sviluppo di forme di dinamismo imprenditoriale vi è un degrado ambientale e sociale diffuso, non era forse illusorio pensare che gli interventi dovuti alle politiche negoziali potessero del tutto colmare le profon-de carenze di strutture, il profon-deficit di natura civica e il profon-deficit di natura istituzio-nale esistenti nelle società locali? Un deficit ancora più forte, se si vuole, in Brasile. Date queste condizioni di partenza, è stato a dir poco ottimistico pen-sare che l’esperienza della programmazione negoziata potesse, da sola, soste-nere lo sviluppo meridionale. Ecco, è questo uno degli insegnamenti di cui tenere conto in una prospettiva comparata. Soprattutto in contesti segnati da un forte dualismo nello sviluppo. Agire sul locale non può significare trascura-re l’importanza delle politiche nazionali. Questo è stato un errotrascura-re che in Italia si è compiuto. Si è agito assecondando una logica binaria: o le politiche locali

o quelle centrali. Questo sarebbe un errore ancora più grave nel caso

brasilia-no, dove gli squilibri sono ancora più accentuati, con il Nord di questo Paese molto più povero e arretrato del suo e del nostro Sud. Ma tutto ciò non può neppure significare l’abbandono della scommessa e della sfida sottostanti alle politiche negoziali: da qualunque parte provengano le risorse finanziarie esse comunque approdano e sono gestite in realtà in cui sono identificabili specifi-ci attori, risorse, azioni.

n o t e

1 L’occasione per intraprendere il viaggio si deve alla mia partecipazione al convegno «Strumenti e

politiche per uno sviluppo territoriale inclusivo: un confronto tra il Mezzogiorno italiano e l’Amazzo-nia brasiliana», tenutosi a Belém, dal 23 al 25 giugno 2004.

2 Si tratta di un’area che ricopre quasi 124.000 chilometri quadrati, pari a circa il 10% di quella

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