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La discrezionalità della magistratura di sorveglianza nella gestione dei benefici penitenziari: le contraddizioni del legislatore

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea:

La discrezionalità della magistratura di

sorveglianza nella gestione dei benefici

penitenziari: le contraddizioni del legislatore

CANDIDATO RELATORE

Silvia Feron Chiar.mo Luca Bresciani

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INDICE

LA DISCREZIONALITA’ DELLA MAGISTRATURA

DI SORVEGLIANZA NELLA GESTIONE DEI

BENEFICI PENITENZIARI: LE CONTRADDIZIONI

DEL LEGISLATORE

INTRODUZIONE ………

p.1

CAPITOLO 1

Dal carcere “terminale” al “carcere della speranza”

1

.

La riforma n. 354/1975: esecuzione penale come occasione di recupero sociale e rieducazione ………... p.5

2.La nascita delle misure alternative alla detenzione come “sanzioni

premiali” ……….… p.10

3.Preclusioni all’accesso alle misure alternative per determinate

categorie di soggetti ………..….. p.13

3.1.Questioni di legittimità costituzionale sulle “clausole di

esclusione”………..………... p.19

4.Legge n. 663 del 1986: la “riforma della riforma” ……… p.22 4.1.La de-istituzionalizzazione: il carcere come extrema ratio………...………..………... p.24

4.2.L’abolizione delle “clausole di

esclusione”………... p.27

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CAPITOLO 2

La controriforma penitenziaria

1.La legislazione penitenziaria degli anni novanta e la lotta alla

criminalità organizzata: uno sguardo agli entusiasmi iniziali della legge Gozzini e alla sua successiva “demonizzazione” ……… p.38

2.Inasprimento della normativa sui permessi premio e introduzione

dell’art. 4-bis o.p., uno dei capisaldi della legislazione d’emergenza………... p.45

3.“Divieto di concessione di benefici”: art. 58-quater dell’ordinamento

penitenziario ………... p.60

4.Concessione dei permessi premio ai recidivi ………. p.66 4.1.Eliminazione di alcuni automatismi carcerari a carico dei recidivi

reiterati ……… p.74

CAPITOLO 3

Nuove proposte di legge

1.Un progetto ancora in fieri ……….. p.77 2.Tavoli tematici degli Stati Generali dell’esecuzione penale

……….. p.81

Osservazioni conclusive ……… p.90 Note bibliografiche ……… p.93

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1

INTRODUZIONE

Quando la legge rinvia al giudice il potere di determinare la regola da applicare ad un caso concreto si parla di discrezionalità. Nella fase dell’esecuzione della pena la discrezionalità della magistratura di sorveglianza va ad attuare la stessa ai progressi del condannato e al cambiamento del suo comportamento durante la reclusione in carcere. Solo lasciando quel margine di discrezionalità si può adeguare la sanzione alla personalità del condannato andando così a conformarsi a quello che è il principio rieducativo della pena, ai sensi del comma 3 dell’art. 27 della Costituzione. In base a tale principio le pene devono tendere alla rieducazione del soggetto anche in fase esecutiva; ecco che si ritiene necessaria la loro flessibilità durante il trattamento, divenendo importante il potere discrezionale che la magistratura di sorveglianza ha nell’offrire ai condannati un accesso ai vari benefici penitenziari disciplinati dal nostro ordinamento penitenziario. La pena irrogata con la sentenza di condanna potrà essere, dunque, dalla magistratura di sorveglianza modificata e rivalutata in base al comportamento del soggetto, sostituendola con una misura alternativa.

Le misure alternative alla detenzione sono state introdotte per la prima volta dalla legge n. 354 del 1975, prima riforma in ambito penitenziario, improntata a un’esecuzione penale come occasione di recupero sociale del condannato.

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Il legislatore, però, a causa dell’ondata di emergenza che caratterizzò l’Italia negli anni Settanta, scelse di imporre delle limitazioni alla concessione dei benefici penitenziari, andando così a restringere i poteri discrezionali della magistratura di sorveglianza e creando in questo modo il rischio di disparità di trattamento. Alcune categorie di soggetti, dunque, risultarono impossibilitati ad accedere alle misure alternative in modo eguale rispetto a tutti gli altri detenuti. Stiamo parlando dei condannati per i c.d. “reati ostativi”, quali il reato di rapina ed estorsione, semplici ed aggravate, e il reato di sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione.

Nel 1986, poi, il legislatore decise di attuare una politica improntata su una realtà extra-carceraria, onde restituire alla magistratura quel margine di discrezionalità idoneo a privilegiare il trattamento del condannato in libertà, attraverso la concessione dei benefici penitenziari da valutare in base al comportamento del soggetto durante la sua permanenza in carcere. Questa sorta di “decarcerizzazione” permise di ritenere il carcere come extrema ratio, da prendere in considerazione, quindi, solo quando ogni altro tentativo rieducativo risulti vano. Vennero così abolite le preclusioni nei confronti di alcune categorie di soggetti, in base alla constatazione che le condizioni di accesso alle misure sostitutive del carcere dovessero valere per tutti, a prescindere dalla natura del reato commesso. Con la legge Gozzini del 1986, dunque, si tentò di facilitare l’accesso ai benefici penitenziari, introducendo,

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inoltre, alcune nuove figure dirette ad ampliare il novero delle misure alternative alla detenzione.

Ulteriore intervento restrittivo del potere discrezionale della magistratura di sorveglianza lo incontriamo agli inizi degli anni Novanta, quando il fenomeno della criminalità organizzata ed eversiva tornò a farsi sentire, in maniera più pressante rispetto ai primi anni della riforma penitenziaria del 1975. Questo parse riconducibile alla constatazione del fatto che l’aver concesso un ampio utilizzo delle misure alternative non avesse portato altro che un’ulteriore criminalità, per il fatto che molti soggetti tendevano ad approfittarsi del momento “in libertà” per delinquere ulteriormente. Ecco che il legislatore ritenne, perciò, necessario proteggere la società facendo un passo indietro, introducendo così ulteriori articoli all’ordinamento penitenziario, articoli come il 4-bis, il 58-quater e 30-quater, restrittivi delle possibilità di alcuni condannati di accedere al beneficio. Si parla qui di “controriforma” per l’evidente difformità rispetto al principio rieducativo posto alla base della riforma del 1975. Il trattamento per alcune categorie di condannati venne poi successivamente inasprito da un ulteriore intervento del legislatore, attuato con la legge n. 251 del 2005, la quale si occupò specificamente del trattamento punitivo riservato al soggetto recidivo.

Attualmente, dopo un tentativo nel 2013 di eliminare alcuni di questi meccanismi preclusivi, l’argomento è stato oggetto di dibattiti anche

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all’interno del Parlamento, essendo al momento in sede di esame al Senato il disegno di legge n. 2067. Capiremo, da tale esito, se le varie limitazioni verranno modificate o meno. I tavoli di lavoro degli Stati Generali dell’esecuzione penale, il cui Comitato di esperti è stato costituito in maggio 2015, con decreto del Ministro della Giustizia Orlando, optano, tuttavia, per l’abolizione di qualsiasi preclusione “assoluta”, in linea con il disegno di legge n. 2798 presentato alla Camera dei Deputati nel dicembre 2014 ed a vantaggio dei termini discrezionali della magistratura di sorveglianza.

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CAPITOLO 1

DAL CARCERE “TERMINALE”

AL CARCERE “DELLA SPERANZA”

Sommario: 1. Riforma n. 354/1975: esecuzione penale come occasione di

recupero sociale e rieducazione; 2. La nascita delle misure alternative alla detenzione come “sanzioni premiali”; 3. Preclusioni all’accesso alle misure alternative per determinate categorie di soggetti; 3.1. Questioni di legittimità costituzionale sulle “clausole di esclusione”; 4. Legge n. 663 del 1986: la “riforma della riforma”; 4.1. La de-istituzionalizzazione: il carcere come

extrema ratio; 4.2. L’abolizione delle “clausole di esclusione”; 4.3. La nascita

di nuovi benefici penitenziari.

1.Riforma n.354/1975: esecuzione penale come occasione

di recupero sociale e rieducazione.

Rispetto alla tradizione preesistente, in cui mezzo per l’educazione e per il riconoscimento dell’errore erano le privazioni e le sofferenze fisiche, la legge n. 354 del 1975, recante “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, risulta

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finalizzata ad obiettivi nettamente differenti da quelli tradizionali. La riforma risponde all’obbligo di adempimento costituzionale indicato dall’art. 27, comma 3 della Costituzione, secondo cui “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.1 Importante è anche la

rivalutazione del soggetto come persona. Da qui l’affermazione del

principio secondo cui i diritti civili garantiti dalla Costituzione ad ogni cittadino debbono trovare riconoscimento e tutela anche in quella situazione particolare rappresentata dallo status detentionis.2

Con la riforma si è assistito quindi alla netta inversione di tendenza rispetto a quelli che erano i principi ispiratori propri del regolamento del 1931, che tendevano ad una filosofia retributiva-afflittiva della pena e al conseguente rapporto di “soggezione particolare” tra condannato e amministrazione penitenziaria. In particolare, il finalismo rieducativo della pena trova, in questa circostanza, la sua prima organica attuazione a livello di legislazione ordinaria. La pena adesso non è più qualcosa di immodificabile, potendo nel corso della sua esecuzione essere soggetta ad attenuazioni di carattere quantitativo e/o qualitativo, a discrezionalità della magistratura di sorveglianza; risultando la separatezza dal carcere

1 G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, La riforma del 1975 storia e significato, in “Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione”, Milano 1997, pag.1-4

2 P. Comucci, Lo sviluppo delle politiche penitenziarie dall’ordinamento del 1975 ai

provvedimenti per la lotta alla criminalità organizzata, in “Criminalità organizzata e politiche penitenziarie”, Milano 1994, pag.8

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controproducente, tale separatezza deve avvenire mediante strumenti che realizzino adeguati contatti con l’esterno.

La magistratura di sorveglianza viene quindi investita di determinate competenze inerenti ad istituti che esprimono gli orientamenti del nuovo ordinamento penitenziario, come ad esempio le misure alternative. 3 Non è più credibile puntare al recupero del condannato attraverso azioni di forza tese a “piegare” la sua cattiva volontà. Si tenta piuttosto di far prevalere un’esecuzione penale che sappia guardare all’uomo e alla sua vicenda esistenziale in tutta la sua complessità. Ecco che il carcere smette di essere considerato come un’istituzione “terminale” in cui il condannato viene abbandonato a se stesso e diventa una struttura a cui è affidata un’azione attiva e tendenzialmente provvisoria in una fase dell’esecuzione penale.

Si parla di individualizzazione, che non riguarda più il tentativo di far corrispondere la sanzione al quantum di danno cagionato e di responsabilità dell’autore, ma comprende anche esigenze di trattamento. Ecco che la riforma del 1975 ha dato applicazione al principio di individualizzazione della pena prevedendo la possibilità per giudice di sorveglianza, non solo di intervenire per adeguare la pena detentiva alle modificazioni prodottesi nel condannato durante l’esecuzione, ma anche di sostituire in tutto o in parte l’esecuzione di una pena detentiva con

3 F. della Casa, Riforme e controriforme, in “La magistratura di sorveglianza,

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quella di misure in libertà. In questo senso, l’istituzione di una gamma di misure alternative alla detenzione rappresenta una vera e propria svolta nel sistema penale e penitenziario italiano.4

Ogni soggetto condannato o internato ha diritto di ricevere un’attenzione particolare diretta a capire le difficoltà di funzionamento sociale che stanno alla base del suo comportamento trasgressivo. I processi personali e sociali che possono condurre alla commissione di reati sono complessi ed eterogenei. Ecco che accanto ai soggetti in cui la delinquenza costituisce la manifestazione di un’incapacità di organizzazione personale di fronte alla realtà della vita, se ne collocano altri in cui la scelta antisociale appare come adesione consapevole da parte di una personalità ben organizzata a modelli sottoculturali criminali. Il tratto concettualmente unificante di questi diversi percorsi è dato dal fatto che producono tutti un difetto di funzionamento sociale. Adeguare il comportamento ai doveri sociali e assumere in modo corretto i ruoli che la comunità propone, diventa l’obbligo principale di un’esecuzione penale che intenda rispondere al precetto costituzionale indicato dall’art.27, comma 3, Cost. Presupposto è che nessuno dei soggetti appena indicati viene considerato in sé immeritevole di ricevere aiuto. 5 In forza della Costituzione il detenuto ha diritto a veder garantiti i diritti inviolabili dell’uomo, in quanto l’umanità supera la condizione

4 G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, La riforma del 1975 storia e significato, in

“Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione”, cit. pag.4-7

5 G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, La riforma del 1975 storia e significato, in “Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione”, cit. pag. 7-8

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di detenzione. E perciò la stessa libertà personale deve essere garantita persino oltre le sbarre del carcere.6

Per ciò che attiene al valore perseguito, nel concetto assunto dalla Costituzione, art. 27, comma 3, rieducazione non è altro che un sinonimo di “recupero sociale”, di “reinserimento sociale”, di “risocializzazione”. Lo stato si prende cura della morale dei cittadini in forma indiretta, promuovendo l’osservanza delle proprie leggi, e in senso sociale, ponendo attenzione alla condotta esterna dei singoli e dei gruppi ai fini di un’ordinata convivenza sociale. In questo senso rieducazione significa “acquisizione della capacità di vivere nella società nel rispetto della legge penale”. Ma l’opera di rieducazione di uno Stato va considerata anche come opera demandata alla società stessa attraverso l’aiuto che questa deve offrire a chi è caduto nel delitto. Nella legge penitenziaria del 1975 si stabilisce che “nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, attraverso contatti con l’ambiente esterno, al loro reinserimento. Tale scopo è seguito appunto dal legislatore italiano con l’introduzione delle misure alternative alla detenzione.7

6 P. Faraguna e M. Gialuz, Il carcere e la promessa tradita della Costituente, in “Il

Mulino”,2012, pag. 994

7 G. Vassalli, Il dibattito sulla rieducazione, in “Rassegna penitenziaria e

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2. Nascita delle misure alternative alla detenzione come

“sanzioni premiali”.

In passato le uniche “finestre” aperte nel sistema penitenziario alle correnti operative esterne erano rappresentate dall’intervento dei visitatori delle carceri, cioè volontari che si assumevano il compito di sostenere moralmente i detenuti. Ciò sta a significare che i rapporti del carcere con il mondo esterno non erano propri del sistema. Il rapporto con la comunità esterna diventa importante, invece, quando si arriva a capire che la soluzione del problema va cercata in un ambito più ampio. La comunità assume un ruolo integrativo essenziale nell’ambito dell’esecuzione penale. 8 L’ordinamento penitenziario vigente immette

nella pena un proposito rieducativo e si avvale, per realizzarlo, del carcere. Da qui l’affacciarsi di una prospettiva “premiale” che si concretizza in una serie di istituti cui è affidata la sollecitazione del detenuto verso l’offerta rieducativa e ai quali si riconnette la modifica, qualitativa o in termini di durata, della pena detentiva in dipendenza del grado di rispondenza del detenuto al trattamento. La loro proiezione finalistica nell’attuazione di questo obiettivo e il progressivo distacco dall’espiazione “chiusa”, ne consente il raggruppamento sotto la rubrica di “Misure alternative alla detenzione”. Esse nascono dall’esigenza di

8 G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, La riforma del 1975 storia e significato, in “Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione”, cit. pag. 12-14

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creare degli incentivi per far aderire l’interessato all’opera di riadattamento sociale. Con la messa a punto di meccanismi premiali, i principi enunciati nell’art. 27, comma 3 Cost. vengono a trovare completa attuazione.9 La riforma prevede il trattamento rieducativo individualizzato, centrato sulle esigenze di risocializzazione del singolo detenuto, da attuarsi attraverso le misure in questione. La competenza a decidere sulle stesse è stata affidata alla Sezione di Sorveglianza, la quale diventerà successivamente Tribunale di Sorveglianza.10

Le misure alternative alla detenzione si inquadrano in una sorta di “contrattazione” tra lo Stato, titolare della pretesa punitiva, e il condannato, soggetto alla pena detentiva inflittagli: questa viene sostituita con forme meno afflittive della detenzione. Il loro emergere si accompagna al fenomeno della caduta dell’intangibilità del giudicato, cioè la possibilità di sostituire la pena con una modalità espiativa diversa per quantità o qualità, in funzione del comportamento del reo tenuto, non soltanto prima, ma anche dopo la condanna.

Le misure di cui parliamo sono indirizzate verso un duplice effetto: con esse non solo si tenta di ottenere l’apertura del carcere per i condannati che se ne rendano meritevoli, ma si vuole inoltre orientare la condotta penitenziaria verso modelli assunti ex lege quali presupposto per la fruizione delle stesse. Ciò significa che, per il solo fatto della loro

9 A. Presutti, La premialità penitenziaria tra rieducazione e custodia, in “Profili

premiali dell’ordinamento penitenziario”, Milano 1986, pag. 17,24,25

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previsione legislativa, esse finiscono per incidere sullo svolgimento delle attività di trattamento all’interno degli istituti, in quanto fungono da incentivo per l’adozione, da parte dei condannati, di comportamenti coerenti con la finalità risocializzatrice.11

Tali misure, attraverso la previsione di una “sanzione positiva” o “premiale”, offrono al condannato l’opportunità di incidere sulle vicende della propria situazione penitenziaria. Egli diventa così arbitro della propria sorte in sede esecutiva, in quanto dipenderà dalle sue scelte l’accesso alle misure in parola. Esse sono vere e proprie sanzioni premiali, da intendersi come premi attribuiti a seguito di alcuni presupposti comportamentali.12

Da tener conto che la funzione di prevenzione generale rimane intatta, nella forma della possibile revoca di tali misure, qualora il condannato tenga comportamenti contrari alla legge o alle prescrizioni o incompatibili con la prosecuzione della prova, ovvero se si palesi inidoneo al trattamento o trasgredisca gli obblighi impostigli.13

11 V. Grevi, “Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria”, Bologna 1982, pag. 13

12 V. Grevi, Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria, cit. pag. 15-18 13 E. Fassone, I difficili equilibri del nuovo ordinamento penitenziario, in “La pena

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3.

Preclusioni all’accesso alle misure alternative per

determinate categorie di soggetti.

La situazione italiana all’inizio degli anni Settanta è particolarmente allarmante a causa di un tipo di criminalità di natura terroristico-eversiva di difficile contenimento. Questo ha portato ad introdurre leggi emergenziali, andando così il legislatore a restringere la discrezionalità della magistratura di sorveglianza nel concedere benefici penitenziari ai condannati. Dette leggi hanno contenuti opposti alle linee portanti della politica che si intendeva attuare con la riforma dell’ordinamento penitenziario. Il quadro delle misure alternative, quindi, ne risulta decisamente inquinato.

Una delle prime misure ad essere presa in considerazione è l’Affidamento in prova al servizio sociale, di cui all’art.47 o.p. Tale misura permette al condannato a pena non superiore a due anni e sei mesi di essere affidato al servizio sociale fuori dall’istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare. A tale misura alternativa viene imposto un periodo obbligatorio pari a tre mesi di osservazione in istituto, vanificando così la funzione di misura preordinata ad evitare il contatto con il carcere per i condannati a pene di lieve entità.

La previsione del periodo di tre mesi di permanenza in carcere costituisce quindi un limite al successo dell’affidamento, non evitando

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al condannato il contatto prolungato con la realtà carceraria, a differenza di quanto si voleva ottenere con la proposta originaria, che prevedeva l’immediata concedibilità della misura.14

Cosa più importante, che meglio ci fa notare la restrizione di discrezionalità della magistratura di sorveglianza, è l’esclusione della sua concessione nei confronti di soggetti dichiarati recidivi o di autori di reati in grado di provocare un certo allarme sociale. Sto parlando dei c.d. “reati ostativi”, quali la rapina e l’estorsione, semplici o aggravate, ed il sequestro di persona a scopo di rapina o estorsione. 15 Per tali reati

il giudice non può decidere in base al caso concreto, non può basare le sue scelte sul comportamento tenuto dal condannato durante l’esecuzione e sul miglioramento della sua condotta, essendo tale soggetto escluso dall’accesso all’affidamento in prova, e come vedremo, non solo a tale misura.

Sono esclusi dall’applicazione della misura, altresì, coloro ai quali sia stata irrogata una pena superiore a due anni e sei mesi, ovvero che, sebbene condannati a pena inferiore, siano stati assoggettati ad una misura di sicurezza detentiva.16 Quindi il fatto di essere sottoposto a misura di sicurezza costituisce un altro limite all’accesso all’affidamento in prova. Come vedremo, dell’esigenza di evitare

14 A. Bernasconi, La sicurezza nella l. 26 luglio 1975 n. 354: un modello d’indefinito

giuridico, in “La sicurezza penitenziaria”, Milano 1991, pag. 91

15 P. Comucci, Lo sviluppo delle politiche penitenziarie dall’ordinamento del 1975 ai

provvedimenti per la lotta alla criminalità organizzata, in “Criminalità organizzata e politiche penitenziarie”, cit. pag.13-15

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l’impatto traumatico col carcere, si farà carico il legislatore, a partire dal 1986.17

Altra figura prevista è la Semilibertà, di cui all’ art. 48 o.p., la quale costituisce un’alternativa solo parziale e “impropria”, prevedendo che il condannato che vi è ammesso, in relazione ai progressi compiuti durante il trattamento, trascorra solo parte del giorno fuori dal carcere, per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. Nella sua configurazione originaria, alla misura è ammesso, oltre all’internato in esecuzione di una misura di sicurezza, il soggetto condannato all’arresto o alla reclusione non superiore a sei mesi, sempre che egli non sia affidato in prova al servizio sociale (art. 50, co. 1) o fuori da questo caso, dopo l’espiazione di almeno metà della pena. Anche in questo ambito la magistratura di sorveglianza ha un margine di discrezionalità limitato, essendo da tale misura esclusi i condannati per i reati di rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, e sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione. La semilibertà è esclusa inoltre per il soggetto condannato all’ergastolo, limitazione che verrà successivamente meno.

Come abbiamo visto, quindi, sia l’affidamento in prova che la semilibertà, inizialmente, non possono essere concessi al condannato

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dichiarato recidivo, né al condannato per un reato “ostativo”. Tale preclusione verrà in seguito eliminata. 18

Infatti, la legge del 12 gennaio 1977 n.1, al suo art. 4, va a modificare l’art. 47 della legge n. 354/1975, rendendo possibile l’affidamento in prova anche a chi abbia precedentemente commesso un delitto della stessa indole. Quindi, poco dopo la riforma del 1975, viene abolito l’originario divieto di applicazione di tutte le misure alternative nei confronti dei soggetti dichiarati recidivi specifici.19 Persiste, al contrario, l’inapplicabilità di tali misure per i condannati ai reati ostativi. Per la caduta di tale preclusione dovremo attendere la svolta effettuata dal legislatore del 1986.

Tra le varie limitazioni inerenti al sistema penitenziario agli inizi degli anni Ottanta, si può notare che è stata inoltre introdotta una disposizione che colpisce specificatamente la criminalità di stampo mafioso, inserendo tra le ipotesi di reato che ostano alla concessione delle misure alternative anche l’art.416 bis c.p, che disciplina le “associazioni di tipo mafioso, anche straniere”, con l’intento di rafforzare la valenza general-preventiva della disposizione penale contestualmente inserita nel quadro dei delitti contro l’ordine pubblico.20 Sarà quindi escluso dall’accesso

18 V. Fanchiotti, Le misure alternative, in “La criminalità in Italia”, cit. pag. 241 19 A. Di Giovanni, Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle

misure privative e limitative della libertà, in “Il nuovo ordinamento penitenziario”,

Napoli 1982, sub. Art. 47 o.p., pag. 67

20 P. Comucci, Lo sviluppo delle politiche penitenziarie dall’ordinamento del 1975 ai

provvedimenti per la lotta alla criminalità organizzata, in “Criminalità organizzata e politiche penitenziarie”, cit. pag. 19

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alle misure alternative anche il soggetto che ha commesso tale reato di carattere mafioso.

Questa “strategia differenziata”, che ha portato all’esclusione di istituti volti alla rieducazione, ha dato luogo ad equivoci. L’esigenza di prevenzione generale deve certamente essere salvaguardata, ma non esistono delinquenti incorreggibili.21

Ulteriore misura è la Liberazione anticipata, di cui all’art 54, o.p. Essa è stata introdotta per assolvere la funzione di incentivo premiale “periodico”, sul presupposto che la prospettiva dell’acquisizione di più benefici a brevi scadenze di tempo sia la più idonea a determinare un miglioramento nella condotta dei condannati. “La prossimità della meta ha attitudine a polarizzare su di questa l’impegno del condannato”. Tale misura concede al condannato a pena detentiva che abbia dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione, la concessione di una detrazione di venti giorni per ogni singolo semestre di pena scontata. Il quantum di pena detraibile verrà successivamente incrementato e il carattere “facoltativo” della concessione del beneficio verrà eliminato. Questo a causa delle esigenze di abbreviare il momento segregativo che il legislatore mostrerà a partire dal 1986.22 Ma per quanto riguarda quest’ultima misura, è intervenuta subito dopo la riforma del 1975 la legge del 12 gennaio 1977 n.1, che ha abrogato l’ultimo comma dell’art.

21 G. Vassalli, “Rassegna penitenziaria e criminologica”, cit. pag. 474

22 M. Chiavario, T. Padovani, sub. Art. 18, in “Legislazione penale”,1987, pag.199-200

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54, eliminando la preclusione e permettendo di concedere tale misura anche ai condannati per i cosiddetti reati “ostativi”. Cosa che, al contrario, rimane invariata per le altre misure alternative alla detenzione, quali l’affidamento in prova e la semilibertà.

Altro beneficio, disciplinato dall’ art. 176, c.p., è la Liberazione condizionale, concretizzato come provvedimento massimo di incentivazione del condannato verso un atteggiamento coerente con la finalità rieducativa della pena. Tale misura è concessa al condannato che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, a condizione che abbia scontato almeno trenta mesi o comunque almeno metà della pena inflittagli, qualora il rimanente della pena non superi i cinque anni.

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19 3.1. Questioni di legittimità costituzionale sulle “clausole di esclusione”.

Tali clausole di esclusione, che limitano l’accesso alle misure alternative alla detenzione a determinate categorie di soggetti, hanno creato il sollevamento di alcune questioni di legittimità costituzionale.

La legittimità dell’art. 47, co. 2 o.p. è stata contestata, in quanto introdurrebbe una deroga al principio del finalismo rieducativo della pena.23 La questione di legittimità è stata sollevata dalla sezione di

sorveglianza di Bologna, nel prendere in esame un’istanza di affidamento in prova, con ordinanza emessa il 9 dicembre 1976. “Non è stata ritenuta fondata, in riferimento all’art. 3 e 27, Cost., la questione di legittimità costituzionale di tutte le norme della legge n. 354 del 1975 che limitano l’applicabilità delle misure alternative alla detenzione nell’ipotesi in cui la condanna riguardi determinati reati, come rapina, estorsione e sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione. Si sostiene che tale esclusione implicherebbe una arbitraria disparità di trattamento ed una più gravosa emarginazione sociale degli interessati rispetto ai condannati per altri delitti, egualmente o maggiormente gravi, rendendo impossibile il conseguimento del fine rieducativo cui deve tendere l’espiazione di qualsiasi pena. Ma i lavori preparatori

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dimostrano che il legislatore, rendendo inapplicabile ad una certa serie di delitti le misure alternative, ha inteso fronteggiare più efficacemente condotte criminose di particolare pericolosità, considerate tali per la loro frequenza e per i loro effetti di allarme sociale. Le scelte del legislatore, pur opinabili, non si prestano a venire censurate dalla Corte Costituzionale. La pena tende sì alla rieducazione del condannato, ma persegue anche la tutela del cittadino e dell’ordine giuridico contro la delinquenza. E poiché, dopo l’abrogazione dell’ultimo comma dell’art. 54 della l. n. 354, di cui alla legge n. 1 del 1977, la liberazione anticipata può essere concessa a tutti i condannati a pena detentiva, operando l’esclusione solo rispetto all’affidamento in prova e alla semilibertà, ne risulta confortata l’esclusione del contrasto con l’art. 27, comma 3, Cost. La Corte Costituzionale dichiara quindi non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 47, comma 2, e 48, ultimo comma, della l. n. 354 del 1975, nella parte riguardante i delitti di rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, sollevata dalla sezione di sorveglianza di Bologna, i riferimento agli artt.3, commi 1 e 2, e 27, comma 3, Cost.”24 Giudizio di legittimità è stato sollevato anche dalla Sezione di Sorveglianza presso la Corte d’appelli di Roma, con ordinanza emessa il 23 luglio 1982, nel procedimento di ammissione al regime di semilibertà in caso di rapina aggravata. La questione è stata quindi

24 Corte Cost. Sent. n. 107/ 1980, in “Giurisprudenza Costituzionale”,1980 pag. 1001-1002

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sollevata in relazione all’art. 48, comma 3. “Nella parte in cui esso esclude la concessione della semilibertà per taluni delitti, tra cui appunto la rapina aggravata, la norma impugnata contrasterebbe con l’art.3 Cost. La questione è stata proposta sulla base di tre ragioni che l’ordinanza considera tali da inficiare il fondamento giustificativo della norma impugnata, in contrasto con il principio costituzionale d’uguaglianza. In primo luogo, la possibilità che anche i condannati per rapina aggravata vengano assegnati al lavoro all’esterno dimostrerebbe quanto sia irragionevole escluderli a priori dalla concessione della semilibertà. In secondo luogo, sarebbe poco ragionevole che i detenuti per il solo reato di rapina aggravata risultino svantaggiati, circa il momento a partire dal quale può aversi la semilibertà, nei confronti di soggetti condannati per reati più gravi. In terzo luogo sarebbe arbitrario che il legislatore abbia preso in considerazione delitti come la rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, trascurando di estendere il divieto a reati come la strage o il sequestro di persona a scopo di terrorismo e di eversione.

La Corte Costituzionale ha ritenuto non fondata, in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 48, comma 3, sollevata dalla Sezione di Sorveglianza presso la Corte d’appello di Roma. La motivazione è dovuta al fatto che, una volta ammesso che sia consentito al legislatore di stabilire un collegamento tra gravità del reato commesso e il tipo di trattamento penitenziario, esclusioni di per sé

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giustificate non possono dirsi illegittime solo per il fatto che nella relativa elencazione non siano state inserite altre ipotesi.” 25

4. Legge n. 663 del 1986: la “riforma della riforma”.

Con la legge 10 ottobre 1986, n. 663, il Parlamento ha compiuto la prima organica modifica dell’ordinamento penitenziario istituito nel 1975. Con tale intervento, il legislatore ha aggiornato e razionalizzato la disciplina, conformandola alle varie esigenze emerse durante sua applicazione e accentuando la valenza giurisdizionale della magistratura di sorveglianza. Uno dei motivi che hanno portato a questa riforma è l’esigenza di superare una particolare situazione venutasi a creare all’interno del carcere, in seguito all’esplosione di un nuovo tipo di criminalità organizzata. Di fronte a ciò la c.d. legislazione dell’emergenza del 1975 ha cercato di reprimere la criminalità con il ricorso indiscriminato alla pena detentiva. Ne deriva un sistema penitenziario particolarmente inquinato.26

25 Corte Cost. Sent. n. 39/1984, in “Giurisprudenza costituzionale”,1984 pag.100-105 26 P. Comucci, La riforma penitenziaria del 1986, in “Nuovi profili del trattamento

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Tale novella costituisce quindi un segnale di tempi nuovi, poiché riapre quella prospettiva che la legge penitenziaria del 1975 aveva frettolosamente chiuso, a causa dell’urgenza causata dai fenomeni di criminalità.27

Altro motivo che ha indirizzato il legislatore verso questa nuova riforma, è costituito dall’esigenza di sfoltire la popolazione detenuta che, proprio a seguito delle leggi d’emergenza, ha subito livelli esorbitanti.

La legge del 1975, quindi, non è stata in grado di offrire soluzioni idonee al problema. Innanzitutto perché la maggior parte dei detenuti sono imputati che non possono usufruire degli strumenti alternativi al trattamento. In secondo luogo perché, anche nel caso in cui le misure alternative potrebbero trovare applicazione, esse vengono usate in modo molto moderato. E questo perché c’è molta diffidenza nel concedere la libertà che invece la criminalità richiederebbe di reprimere.28

Per quanto riguarda la differenza ideologica tra la legge del 1975 e la nuova novella del 1986, possiamo accennare che la prima è fondata su una realtà istituzionale inadeguata a livello “endo-carcerario”, al contrario la seconda è prima di tutto “extra-carceraria”, attenuando appunto il ricorso al trattamento del detenuto in libertà. 29 Alla base di

27 Francesco C. Palazzo, La riforma penitenziaria del 1986, contenuto, scopi e

prospettive di un ulteriore provvedimento di decarcerazione, in “Politica del diritto”, 1988, pag. 226

28 P. Comucci, La riforma penitenziaria del 1986, in “Nuovi profili del trattamento

penitenziario”, cit. pag. 18-20

29 L. Daga, Prime osservazioni sulla applicazione della legge n. 663/1986, in

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tale novella si ha una filosofia che vede in qualsiasi forma extra-muraria una ipotesi migliore del carcere, poiché nel carcere non si può rieducare. In altre parole, tale riforma esprime un’altissima tolleranza sociale verso la devianza e realizza un ulteriore passo in avanti verso la de-istituzionalizzazione del carcere. Essa ci chiama a lasciarci alle spalle quella che possiamo chiamare “tolleranza-abbandono” andando piuttosto incontro alla “tolleranza-disponibilità”30

4.1 La de-istituzionalizzazione: il carcere come extrema ratio.

La nuova politica dell’intervento da parte del legislatore, mediante la nuova legge Gozzini, è caratterizzata per la sua notevole

decarcerizzazione e per l’accettazione di una soglia più alta di tolleranza

sociale. Come abbiamo visto poc’anzi, nella nostra società abbiamo un tipo di tolleranza-abbandono, vale a dire un tipo di tolleranza che resta indifferente alle situazioni di delinquenza. Il tipo di tolleranza a cui si pensa con questa nuova riforma è quella dell’intervento, nel senso di non abbandonare certe situazioni ma intervenire sulle stesse.31

30 E. Fassone, Luci ed ombre della Legge Gozzini, in “Questione giustizia”, 1987, cit. pag. 651

31 S. Margara, La modifica della legge penitenziaria: una scommessa per il carcere,

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Con la legge n. 663/1986 il legislatore vuole rimodellare alcuni aspetti del trattamento penitenziario, in chiave di ordine e sicurezza. Si assiste ad un rilancio delle misure alternative, attraverso tre direttrici: mediante ipotesi di accesso ad esse senza dover prima trascorrere del tempo in carcere, l’ampliamento dei presupposti per usufruire delle misure stesse, ed infine, l’introduzione di misure nuove. Quanto detto spiega il significato del termine “decarcerazione”, che costituisce quindi la volontà di considerare la pena detentiva come extrema ratio, come fuga dal carcere.32

In altre parole, la riforma del 1986, partendo dal presupposto che pena detentiva e rieducazione sono difficilmente conciliabili, ha operato la sua scelta in favore della decarcerizzazione.33 Un esempio possiamo trovarlo nella concedibilità delle misure alternative “dall’esterno”, rinunciando quindi all’osservazione intramuraria sostituendola con altri elementi di valutazione. Questo tipo di premialità consente, attraverso l’incentivazione, il perseguimento di valori costituzionalmente rilevanti.34 Si fa così dirompente la tendenza a proiettare all’esterno dell’istituzione le istanze di rieducazione. Come abbiamo detto vengono ampliate le opportunità di concessione delle misure alternative alla detenzione, e mentre da un lato ne viene consentita la concessione anche

32 V. Fanchiotti, Le misure alternative, in “La criminalità in Italia”, 1992, cit. pag. 241 33 F. Della Casa, Esecuzione della pena e giudice di sorveglianza: modulazione del

trattamento tra premialità e rigore, in “Politica del diritto”, 1998, pag. 11

34 F. Della Casa, Esecuzione della pena e giudice di sorveglianza: modulazione del

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prima dell’ingresso in carcere per i condannati a pene medio-brevi, dall’altro vengono favoriti i contatti con il mondo esterno anche nei casi in cui sarebbe previsto un periodo iniziale di trattamento intramurario. Il fatto che con la nuova novella non si siano riproposte le stesse preclusioni, ha ampliato ancora di più la categoria dei destinatari delle misure alternative. In questo sistema e nelle opportunità offerte da esso a qualsiasi condannato, a prescindere dal reato commesso e dalla pena irrogata, si individuano le basi di un “carcere della speranza”. L’accesso più facilitato alle misure e la creazione di alcune di esse nuove, condiziona il comportamento del detenuto dentro le mura, nella speranza di poter usufruire del trattamento in libertà.35 Il fatto che sia adesso più semplice ottenere una misura alternativa e che esse sia sempre più vantaggiosa, può rendere conveniente al reo l’acquisizione dello status di detenuto definitivo per poter così usufruire al più presto dei benefici.36

La legge Gozzini del 1986 rappresenta il momento di massima estensione dell’evoluzione iniziata nel 1975. È probabilmente una delle riforme più importanti nel settore del diritto penale sostanziale.37

35 P. Comucci, Lo sviluppo delle politiche penitenziarie dall’ordinamento del 1975 ai

provvedimenti per la lotta alla criminalità organizzata, in “Criminalità organizzata e politiche penitenziarie”, cit. pag. 21-25

36 F. C. Palazzo, La riforma penitenziaria del 1986: contenuto, scopi e prospettive di

un ulteriore provvedimento di decarcerazione, in “Politica del diritto; cit. pag. 238

37 F. C. Palazzo, La riforma penitenziaria del 1986: contenuto, scopi e prospettive di

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27 4.2. L’abolizione delle “clausole di esclusione”.

Considerando il rapporto tra la legge del 1975 e la nuova novella del 1986, si nota come nella prima la rieducazione veniva applicata ben poco, data la bassa applicazione delle misure alternative a causa dell’emergenza. Al contrario, con la nuova novella si tende ad ampliare l’accesso ad esse ed a crearne delle nuove.

La nuova disciplina ha eliminato le ipotesi di esclusione dalle misure alternative: Le condizioni di ammissione alle misure alternative sono state allargate sulla base del fatto che gli strumenti per aiutare la riabilitazione del condannato devono valere per tutti, qualsiasi sia il reato commesso.38La nuova novella costituisce per molti la vera rivoluzione, tendente alla “diminuzione dell’Input alle carceri e favorevole piuttosto all’Output.” Il legislatore del 1986 fa una scelta coraggiosa nel condurre un’operazione di decarcerizzazione in un momento in cui la criminalità non accenna a sparire.39

Un intervento significativo è dato dalla legge 12 gennaio 1977, n.1 che ha concesso l’accesso alle misure alternative per i soggetti dichiarati recidivi specifici, cosa preclusa dalla legge del 1975.

38 S. Margara, La modifica della legge penitenziaria: una scommessa per il carcere,

una scommessa contro il carcere, in “Questione giustizia”, cit. pag. 521

39 L. Daga, Prime osservazioni sulla applicazione della legge n. 663/1986, in

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Per quanto riguarda la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale, la legge n. 663 del 1986, al suo art. 11, ne ha ampliato l’ambito di operatività. Nell’ordinamento penitenziario del 1975 la misura dell’affidamento in prova era applicabile a pene detentive non superiori a due anni e sei mesi ovvero tre anni se si trattava di persona di età inferiore agli anni ventuno o di persona di età superiore agli anni settanta. La nuova novella del 1986 eleva fino a tre anni l’entità della pena espiabile in affidamento e fare inoltre cadere ogni distinzione tra categorie di soggetti, distinzione giustificata dall’atteggiamento di favore che il legislatore ha sempre manifestato verso i minori e gli anziani. L’innalzamento del limite edittale è giustificato dalla volontà di allargare la fascia dei destinatari, risultando evidente che quello indicato rappresenti la soglia di pericolosità oltre la quale la misura non può essere concessa. 40 La misura in questione potrà essere concessa

anche quando la pena in esecuzione supera notevolmente i tre anni.41 L’affidamento in prova al servizio sociale è espressione massima della nuova politica rappresentata dal ripensamento che il legislatore ha avuto. La nuova disciplina ne ha esaltato il carattere premiale rieducativo.42

Altro provvedimento è stato quello adottato dalla legge n. 297 del 1985, che ha contribuito a ridurre il periodo minimo di osservazione in istituto.

40 L. Cesaris, sub. Art. 11, in “Legislazione penale”, 1987, pag. 149 41 Corte Cost. Sent. n. 386/1989

42 P. Comucci, Il trattamento extra-carcerario dei condannati a pene detentive

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L’affidamento in prova tradizionale prevede un periodo minimo di osservazione pari a tre mesi, osservazione cui l’esito positivo avrebbe provocato l’estinzione del reato. La riduzione di tale periodo minimo segna ancor di più il distacco dall’esperienza carceraria del detenuto. Adesso il detenuto è sottoposto ad un periodo minimo di osservazione pari ad un mese.

È prevista inoltre la possibilità di concedere la misura senza aver trascorso alcun periodo di osservazione in carcere, concessione ab initio, nell’ipotesi in cui il soggetto abbia scontato un periodo di libertà in custodia cautelare durante il processo, durante il quale abbia tenuto un comportamento tale da poter meritare la fruizione della misura alternativa.43 Secondo il vigente art. 47, comma 3, o.p., infatti, “l’affidamento in prova al servizio sociale può essere disposto senza procedere alla osservazione in istituto quando il condannato, dopo un periodo di custodia cautelare, ha goduto di un periodo di libertà serbando comportamento tale da consentire il giudizio di cui al comma 2”, vale a dire il giudizio che ritiene il “provvedimento idoneo a contribuire alla rieducazione del reo e alla prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati”. Inoltre, nel caso di revoca dell’affidamento in prova, la quantità di pena da espiare sarà determinata dal giudice di sorveglianza

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in base a parametri elastici44 e viene generalizzata la possibilità di

accedere alla misura senza alcun assaggio di carcere.45

È stato inoltre modificato il comma 1, art. 47 o.p. nella parte in cui escludeva la concessione della misura a soggetti sottoposti a misure di sicurezza. Adesso la preclusione rivolta alla sottoposizione a misura di sicurezza detentiva è stata abrogata.

Cosa più rilevante in quest’ambito è l’abrogazione di quelle ipotesi di esclusione all’accesso della misura alternativa. Sto parlando della preclusione dettata per i c.d. “reati ostativi”, stabilita dal legislatore del 1975. La limitazione preesistente, riguardante il divieto di concedere la misura in presenza di una certa categoria di reati, rispondeva alle esigenze di adeguamento ad un certo tipo di politica criminale, ma si poneva in contrasto con la funzione rieducativa della pena. I reati esclusi dalla concessione di ogni misura alternativa sono la rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione.46 L’abolizione di tale preclusione segna il

superamento dell’atteggiamento degli anni ’70 dovuto da esigenze contingenti. Invece di selezionare certi reati come espressivi di allarme sociale, il legislatore del 1986 ha preferito eliminare qualsiasi esclusione.47 È stato quindi abrogato il vecchio comma 2 dell’art. 47 o.p.

44 Corte Cost. Sent. n. 343/198 45 Corte Cost. Sent. n. 569/1989

46 P. Comucci, Il trattamento extracarcerario dei condannati a pene detentive

medio-brevi, in “Nuovi profili del trattamento penitenziario”, cit. pag. 49

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È stata altresì abolita la preclusione relativa al condannato detenuto che avesse commesso delitti della stessa indole. Quindi tale divieto di accesso alla misura alternativa non adopera più per i soggetti dichiarati recidivi specifici. Ma questo, come ho accennato precedentemente, è stato attuato ben prima, dalla legge del 12 gennaio 1977, n. 1.

L’art. 14 della nuova legge Gozzini è andato a sostituire l’art. 50 della legge n. 354 del 1975, inerente alla semilibertà. La nuova formulazione dell’articolo riguardante la semilibertà ne rende più amplia l’applicazione. Innanzitutto per i condannati all’arresto o alla reclusione non superiore a sei mesi, può venire concessa la semilibertà senza aver prima scontato alcun periodo di detenzione, quindi ab initio, se il condannato ha dimostrato la propria volontà di reinserimento nella vita sociale, rendendo così la misura una vera alternativa alla detenzione, escludendo dai presupposti per la concessione della misura i progressi raggiunti nel corso del trattamento inframurario. Prima si poteva concedere la misura solo dopo l’inizio dell’esecuzione, ma adesso l’organo giudicante può evitare il passaggio dal carcere a coloro che propongono istanza di semilibertà prima che l’ordine di esecuzione sia stato eseguito. La valutazione positiva dipenderà del comportamento positivo del reo.48

48 P. Comucci, Il trattamento extracarcerario dei condannati a pene detentive

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Inoltre, cosa importante, viene concessa la misura anche all’ergastolano, cosa prima non possibile. Adesso, egli può accedere dopo l’espiazione di almeno venti anni di pena.49 La pena perpetua così va nella direzione voluta dalla Costituzione, grazie al comma 5 dell’art 50 che toglie la rigidità previgente alla pena dell’ergastolo, fissando in vent’anni la pena da dover espiare prima che il soggetto possa essere ammesso alla semilibertà.50

Per le condanne non superiori a tre anni, adesso, la concedibilità della misura è possibile anche prima dell’espiazione di metà della pena.51

Come per l’affidamento in prova al servizio sociale, fondamentale è stata l’eliminazione delle preclusioni inerenti all’accesso ad essa dovute al titolo di reato. È stato abrogato infatti il comma 3 dell’art. 48, che estendeva tali preclusioni ai reati “ostativi” di rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione. Tali reati erano gli stessi che, nella disciplina previgente, impedivano l’accesso all’affidamento in prova al servizio sociale, quindi come già accennato, si tratta di rapina, rapina aggravata, estorsione, estorsione aggravata, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione.

49 V. Fanchiotti, Le misure alternative, in “La criminalità in Italia”, cit. pag. 243 50 A. Presutti, sub. Art. 14, in “Legislazione penale”, cit. pag. 176

51 E. Fassone, Luci ed ombre della legge Gozzini, in “Questione giustizia”, cit. pag. 659

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Come nel caso dell’affidamento in prova, la preclusione per il soggetto dichiarato recidivo era già stata eliminata dalla legge n.1 del 1977. Per quanto riguarda la liberazione anticipata, ho accennato i precedenza che l’abolizione delle preclusioni riguardanti i reati ostativi era già avvenuta nel 1977, con la legge n. 1, che abrogò l’ultimo comma dell’art. 54 permettendo così la concessione della misura anche ai soggetti condannati per i reati di rapina ed estorsione, semplici o aggravate, e sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione. Questo quindi è accaduto prima rispetto a quanto è successo per le altre misure alternative, quali l’affidamento in prova e la semilibertà, per le quali abbiamo dovuto attendere la nuova novella del 1986.

L’art. 18 della legge n. 663/1986 ha sostituito l’art. 54 della legge n. 354 del 1975, portando delle innovazioni. La novità più rilevante è stato l’aumento della quantità di pena riducibile. Per ciascun semestre di carcerazione oggi sono detraibili non più venti giorni ma quarantacinque, aumento che permette un’incentivazione maggiore. Inoltre, è cambiata l’espressione da “può essere concessa” a “è concessa”. Questo ci fa capire che da istituto facoltativo è diventato un istituto obbligatorio. Adesso l’ultima parte del comma 1 dell’art. 54 esplicita che, “ai fini della riduzione, è valutato anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare o di detenzione domiciliare”.

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Ultima innovazione è la concedibilità della liberazione anticipata anche agli ergastolani.52

4.3. La nascita di nuovi benefici penitenziari.

Sempre con una politica volta alla decarcerizzazione, il legislatore, attraverso la nuova disciplina degli anni ’80, oltre ad ampliare le possibilità di accesso alle misure alternative, ne introduce delle nuove. Tra queste, l’affidamento in prova in casi particolari, di cui all’art. 47 bis o. p. Tale misura è stata introdotta dal decreto legge n. 144 del 1985, convertito e modificato poi dalla stessa legge che si occupò di ridurre il periodo minimo di osservazione per l’affidamento in prova di cui all’art. 47, la legge n. 297 del 1985. L’affidamento in prova in casi particolari è disciplinato dall’art. 12 della l. 663/1986. Secondo detto articolo, “la misura viene applicata alla pena inflitta entro il limite di cui al comma 1 dell’art 47, pari a tre anni, e dev’essere eseguita nei confronti di persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma di recupero o che ad esso intenda sottoporsi. L’interessato

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può chiedere in qualsiasi momento di essere affidato in prova al servizio sociale per proseguire o intraprendere l’attività terapeutica”.53

Nuovo beneficio introdotto dalla legge n. 663 del 1986 sono i permessi premio, art. 30 ter legge n. 354/1975, aggiunto dall’art. 9 della nuova novella del 1986. Essi vengono concessi ai condannati che hanno tenuto regolare condotta, nel senso che hanno manifestato costante senso di responsabilità e correttezza nel loro comportamento durante la detenzione. Essi sono concessi dal magistrato di sorveglianza, sentito il direttore dell’istituto. La durata dei permessi dev’essere non superiore a quindici giorni per volta, e consentono al detenuto di coltivare i propri interessi personali, culturali o di lavoro. In un anno di espiazione la loro durata non può superare complessivamente i quarantacinque giorni. Per quanto riguarda i minorenni, il permesso non può superare i venti giorni per volta e i sessanta in ogni anno di espiazione. Come condizione per la concessione di tali permessi premio è stabilita la pena all’arresto o alla reclusione non superiore a tre anni, ovvero reclusione superiore a tre anni ma quando sia già stata espiato almeno un quarto di pena, ovvero dieci anni in caso di ergastolo.54

Ultimo istituto nuovo introdotto ex novo dalla novella del 1986 nell’ordinamento penitenziario è la detenzione domiciliare, art. 47 ter o.p., inserita nell’ordinamento penitenziario dall’art. 13 della legge n.

53 Sub art. 12, in “Legislazione penale”, cit. pag.158 54 Sub. Art. 9, in “Legislazione penale”, cit. pag. 135

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663/1986. La misura permette di espiare in luogo extracarcerario, quale l’abitazione, altro luogo di privata dimora o luogo di cura o assistenza, la pena della reclusione non superiore a due anni, anche se si tratta di residuo di pena maggiore, o la pena dell’arresto qualunque ne sia l’entità.55 Le condizioni di legge per concedere la detenzione

domiciliare indicano come possibili soggetti destinatari la persona incinta, malata, anziana a e infraventunenne.56 Tale concedibilità a persona malata, incinta e anziana fa parte di tre situazioni a sfondo umanitario. Quella invece riferita all’infraventunne riguarda situazioni di tipo special-preventivo. Per tutte queste situazioni sono previsti interventi del servizio sociale.57 La ratio dell’istituto di cui all’art. 47 ter è dunque di carattere umanitario, conformandosi bene all’art. 27, comma 3, Cost. e all’art. 1 o.p., secondo cui il trattamento penitenziario dev’essere conforme ad umanità e assicurare il rispetto della dignità umana.58

Alla luce di ciò capiamo perché la Legge Gozzini n. 663/1986 è una “riforma della riforma”. Cosa più importante è stata quella di ampliare l’accesso alle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario del 1975, eliminando le rispettive preclusioni dovute all’allarme sociale

55 P. Comucci, Il trattamento extracarcerario dei condannati a pene detentive

medio-brevi, in “Nuovi profili del trattamento penitenziario”, cit. pag. 86-87

56 E. Fassone, T. Basile, G. Tuccillo, Le misure alternative alla detenzione, in “La

riforma penitenziaria” 1987, pag. 65

57 E. Fassone, Luci ed ombre della legge Gozzini, in “Questione giustizia”, cit. pag. 659

58 P. Comucci, Il trattamento extracarcerario dei condannati a pene detentive

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derivante dal fenomeno sempre più dirompente della criminalità organizzata, ampliando così quei margini di discrezionalità del giudice di sorveglianza. In più ha allargato l’orizzonte, introducendo benefici nuovi. Come vedremo però, la legislazione degli anni ’90 effettuerà una nuova inversione di tendenza.

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CAPITOLO 2

LA CONTRORIFORMA PENITENZIARIA

Sommario: 1. La legislazione penitenziaria degli anni novanta e la lotta alla

criminalità organizzata: uno sguardo agli entusiasmi iniziali della Legge Gozzini e alla sua successiva “demonizzazione”; 2. Inasprimento della normativa sui permessi premio e introduzione dell’art. 4-bis o.p., uno dei capisaldi della legislazione d’emergenza; 3. “Divieto di concessione di benefici”: Art. 58-quater dell’ordinamento penitenziario; 4. Concessione dei permessi premio ai recidivi; 4.1. Eliminazione di alcuni automatismi carcerari a carico dei recidivi reiterati.

1.La legislazione penitenziaria degli anni novanta e la lotta

alla criminalità organizzata: Uno sguardo agli entusiasmi

iniziali della Legge Gozzini e alla sua successiva

“demonizzazione”.

Le prospettive della novella del 1986, legge n. 306, vengono inizialmente guardate con estremo favore. Si ha un carcere meno segregante, si ha l’introduzione dei permessi premio, ma, più in

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generale, una de-istituzionalizzazione del carcere realizzata attraverso l’ampliamento delle misure alternative alla detenzione. Già subito dopo l’approvazione della suddetta legge, però, si sono percepite da una parte della dottrina, delle perplessità. L’abolizione dei reati “ostativi” avrebbe richiesto una più ricca dotazione di strumenti conoscitivi in capo alla magistratura di sorveglianza. La preoccupazione era quella di una decarcerizzazione fine a se stessa, attuata senza il supporto di adeguati riscontri sul versante rieducativo. Nonostante ciò, l’ordinamento penitenziario rinnovato sembra essere stato in grado, almeno per un periodo di tempo, di dimostrare che le risposte al rinnovamento erano fondate. A dimostrazione del fatto che la riforma funziona, si è rilevato che la popolazione detenuta, negli anni successivi alla riforma del 1986, è diminuita da 40.000 unità a 26.000 presenze, record raggiunto nel 1990. E anche per quanto riguarda i permessi premio concessi emerge che, a partire dalla loro introduzione grazie alla nuova legge Gozzini, di fronte a più di 30.000 provvedimenti di concessione, i casi di mancato rientro sono stati inferiori all’1%.59

Questo quadro di partenza, inizialmente incoraggiante, ha subito una deteriorazione nel corso degli anni novanta, a causa della sfasatura che si è creata tra la pena irrogata e quella che effettivamente veniva ad essere espiata in carcere. Altra causa dell’intervento restrittivo è l’ampia

59 F. Della Casa, Le recenti modificazioni dell’ordinamento penitenziario: dagli ideali

smarriti della “scommessa” anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del “doppio binario”, in “L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza”, Padova 1994, a

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discrezionalità della magistratura di sorveglianza che, per la mancanza di preclusioni legali che permettevano di escludere un accesso generalizzato a forme di trattamento extra-carcerario, ha reso possibile il ritorno in società di condannati ad alto indice di pericolosità. Il problema di fondo è stata l’eccessiva premialità, apparsa inoltre come ingiustificata. Le critiche alla decarcerizzazione si basano soprattutto su preoccupazioni di difesa sociale e vedono, come via d’uscita, una riaffermazione di una funzione retributiva della pena, recuperando rigidità nella fase esecutiva. Questo tipo di intervento si ha in un periodo in cui il fenomeno della criminalità organizzata si manifesta in modo acuto, tant’è che ci sono stati casi in cui condannati per certi delitti di criminalità organizzata, dopo aver ottenuto la concessione di un beneficio, hanno approfittato della situazione per commetterne di nuovi. Ecco che l’intervento legislativo degli anni novanta sulla disciplina del 1986 è stata una soluzione “obbligata”.60

La nuova ondata di criminalità degli anni ’90 è la chiara prova che la politica penitenziaria fino ad ora attuata sembra essere sbagliata. L’aver concesso un’ampia applicazione delle misure alternative sembra che non abbia prodotto che altra criminalità. La disciplina volta al recupero sociale di soggetti condannati per reati di delinquenza individuale sembra inadeguata a realizzare il controllo di criminali ad alta

60 F. Della Casa, Le recenti modificazioni dell’ordinamento penitenziario: dagli ideali

smarriti della “scommessa” anticustodialistica agli insidiosi pragmatismi del “doppio binario”, in “L’ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza”, cit. pag. 80-83

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pericolosità, facenti parti di organizzazioni stabili. Si nota inoltre che situazioni tanto diverse non possono essere gestite con gli stessi strumenti normativi e che norme troppo permissive possono dar vita al godimento di immotivato di benefici penitenziari incompatibili con la pericolosità degli autori di reati gravi. Questo pone la necessità di diversificare il trattamento.61

Il trattamento penitenziario ispirato al principio di individualizzazione viene soppiantato con un regime più rigido, soprattutto nei confronti di una certa categoria di soggetti, essendo recepita una sorta di pericolosità presunta e una inadeguatezza rispetto agli strumenti di rieducazione. Il sistema con cui si rispondeva ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto, viene sovvertito dal sistema del “doppio binario”.62

Con la nozione doppio binario si intende un trattamento diversificato che contrappone da una parte i condannati ordinari, vale a dire i detenuti comuni, verso i quali la pena continua a svolgere una funzione special-preventiva mediante un trattamento penitenziario ed extra-murario tendente alla risocializzazione; dall’altra, i detenuti per delitti di maggiore allarme sociale, per i quali si tende a rafforzare la prevenzione generale.63

61 P. Comucci, Lo sviluppo delle politiche penitenziarie dall’ordinamento del 1975 ai

provvedimenti per la lotta alla criminalità organizzata, in “Criminalità organizzata e politiche penitenziarie”, cit. pag. 32-34

62 C. Maria Francesca, Le misure di contrasto alla criminalità organizzata nel

pacchetto sicurezza, in “Diritto penale e processo”, 2009, pag. 1069

63 M. Adriano, Il penitenziario di massima sicurezza nella lotta alla criminalità

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Si parla di “controriforma” per il netto contrasto che si viene a creare con le disposizioni e le linee di trattamento risocializzativo individualizzato. I provvedimenti che mi interessa qui citare sono la legge n. 55 del 1990, il decreto legge n. 152 del 1991, convertito nella legge n. 203/1991 e il decreto legge n. 306 del 1992, convertito nella legge n. 356/1992. La legge n. 55 del 1990, come dirò in seguito, si occupa di inasprire la normativa sui permessi premio, strumenti introdotti dalla novella del 1986.

La legge n. 203 del 1991 stabilisce non tanto preclusioni, ma limiti più rigorosi alla concedibilità delle offerte risocializzative.64 Essa, recante “Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata”, ha introdotto nell’ordinamento penitenziario uno tra i capisaldi della legislazione emergenziale e del doppio binario, sto parlando dell’art 4 bis dell’ordinamento penitenziario. In questo primo intervento l’effetto che impediva l’accesso ai benefici penitenziari derivava dal fatto che non ci fossero elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.65 Si è voluto configurare una sorta di abbattimento della pena per l’imputato di “reati di mafia” che collabori con la giustizia e prospettare così un trattamento sanzionatorio

64 A. Presutti, Alternative al carcere, regime delle preclusioni e sistema della pena

costituzionale, in “Criminalità organizzata e politiche penitenziarie”, cit. pag. 81

65 F. De Minicis, Ergastolo ostativo: un automatismo da rimuovere, in “Diritto penale

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favorevole a chi fornisca il proprio contributo alla ricostruzione dei fatti e all’individualizzazione o cattura degli autori dei reati.66

Detta legge viene successivamente modificata con l’intervento del decreto legge n. 306 del 1992, emanato dal Governo e convertito nella legge n. 356 del 1992. Essa ha rimodellato l’art. 4 bis, con l’intento di sfruttare le potenzialità incentivanti di agevolazioni collegate ad atteggiamenti collaborativi. Così la collaborazione, da essere utile a rimuovere un ingiustificato rigore, diventa l’unica condizione idonea a superare il divieto di accesso ai benefici.67

In altre parole, con i suddetti interventi restrittivi degli anni ’90 si individuano due categorie di reati, considerati sintomatici della criminalità organizzata, la condanna per i quali preclude o rende più difficile l’accesso alle misure alternative. Vengono enucleate due categorie, una comprendente i reati connessi ad associazione di tipo mafioso, al sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione ed associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, delitti connessi alla criminalità organizzata di tipo mafioso. L’altra comprende delitti commessi per finalità di terrorismo o eversione, rapina o estorsione aggravata, omicidio, produzione e traffico di stupefacenti. I condannati alla prima categoria di reati potranno accedere ai benefici penitenziari

66 A. Presutti, Alternative al carcere, regime delle preclusioni e sistema della pena

costituzionale, in “La criminalità organizzata e politiche penitenziarie”, cit. pag. 60

67 A. Presutti, Alternative al carcere, regime delle preclusioni e sistema della pena

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