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adrogatio e adoptio: due istituti a confronto

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INDICE GENERALE

CAPITOLO I

ADROGATIO: ADOPTIO POPULI AUTORITATE

§ I.1 Origine dell’istituto………...1

§ I.2 Procedura………..7

§ I.3 Pratica applicazione adrogatio………19

§ I.4 Evoluzione………..24

CAPITOLO II

ADOPTIO

§ II.1 Origini XII tavole………33

§ II.2 Procedura adoptio………48

§ II.3 Adoptio e cittadinanza………...57

§ II.4 Adoptio nell’impero………....63

§ II.5 Effetti………...75

§ II.6 Pratica applicazione………...94

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Indice delle fonti………..107

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1

CAPITOLO I

ADROGATIO: ADOPTIO POPULI AUCTORITATE

§ I.1 – Origine dell’istituto

Per esaminare compiutamente la origine e la evoluzione dei due istituti, adrogatio adoptio, bisogna preliminarmente studiare anche se nelle linee generali, il concetto di famiglia elaborato dall’ordinamento giuridico romano.

Il concetto della famiglia romana1 era completamente differente da quello nostro, presente nel mondo contemporaneo e fondato sul vincolo di sangue.

Come si legge dai frammenti di Ulpiano, portavoce delle idee della sua epoca, vale a dire del periodo classico, la famiglia romana era:

D. 50.16.195.2: Iure proprio familiam dicimus plures personas

quae sunt sub unius potestate aut natura aut iure subiectae2.

1 Secondo S. Cierkowski, L’impedimento di parentela legale: analisi storico

giuridica del diritto canonico e del diritto statale polacco, Roma, 2006, p.88 ss., è

da rilevare che le famiglie, intese in senso odierno, nell’antico ordinamento sociale a Roma sono state raggruppate nel gentes, o per meglio dire nei gruppi gentilizi, provenienti dal comune capostipite. In questi gruppi le famiglie congregate portavano il nome comune (nomen gentilicium). I gruppi gentilizi svolgevano diverse funzioni, come per esempio: nell’ambito della religione, avendo spesso lo stesso culto (sacra gentilicia); nell’ambito della successione, soprattutto nel caso in cui qualcuno morisse senza testamento, in quel tempo, in mancanza di agnati diretti subentravano nell’eredità i gentiles; anche potevano discutere di tali questioni come i testamenti, l’adrogatio, l’adoptio, ossia l’emancipatione. Tuttavia le loro risoluzioni dovevano essere sottoposte ai comitia calata, i quali ratificavano le suddette decisioni. Però la rilevanza sociale e il ruolo dei gruppi gentilizi diminuisce continuamente con lo sviluppo dello stato ed infine rimane senza valore.

2 Gli autori classici sottolineano nell’ambito della famiglia romana piuttosto i

componenti personali che quelli patrimoniali. Nondimeno familia, come termine arcaico aveva significato prevalentemente patrimoniale rientravano infatti, nella

(4)

2

B. Biondi, seguendo fedelmente questa fonte, riporta la definizione di Ulpiano appena citata, affermando che secondo i giuristi romani classici, la famiglia è “l’organizzazione giuridica3

di una pluralità di persone sottoposte al potere di un capo che si chiama

pater familias”4.

P. Bonfante, sostenitore della teoria politica, ha delimitato invece, la famiglia romana come: “un gruppo di persone congiunte tra loro puramente e semplicemente dall’autorità che una di esse, il pater

familias, esercita su tutte le altre per fini che trascendono l’ordine

domestico”5

.

Quindi il pater familias avrebbe goduto di una somma di diritti potestativi e facoltà, una sorta di potere sovrano nei riguardi dei sottoposti, liberi, schiavi.

L’antica famiglia romana sarebbe stata, quindi, un organismo politico vero e proprio.

La maggior parte degli studiosi6, infatti ritiene che questo tipo di famiglia rappresentava una fattispecie di associazione posta in essere

familia non solo il complesso di soggetti sottoposti ad un medesimo pater familias,

l’abitazione, gli animali domestici, ed addirittura i beni strumentali all’economia familiare (ad es. gli attrezzi agricoli per coltivare il fondo). “Familia”, in “DGR”, p.196. Sul punto si veda Cierkoswki, L’impedimento di parentela legale, cit., p.87.

3 Gli altri autori la chiamano per esempio “società”, P. Bonfante, Corso di diritto

romano, Milano, 1963, p.117; “un consorzio domestico”, E. Betti, Istituzioni di diritto romano, Padova, 1942, p.51; “un’aggregazione retta dispoticamente”, G.

Brini, Matrimonio e divorzio, Bologna, 1889.

4 Biondi, Istituzioni di diritto romano, Padova, 1942, p.551. 5 Bonfante, Corso, cit., p. 18.

6

Cfr. Bonfante, Corso, cit., p. 117; AA. VV., Due visioni del diritto civile, Torino, 2013, p.61.

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3

per ragioni di difesa: un gruppo famigliare aperto agli estranei con lo scopo di rafforzarsi verso l’esterno.

E. Betti sottolinea infatti che: “per l’uomo romano, come per l’uomo antico in genere, il gruppo sociale cui si appartiene è tutto: l’individuo singolo, fuori dal gruppo, non ha valore. Ciò che si è, lo si è in quanto membri di una comunità politica7.

Ciò che più caratterizza questa istituzione in origine quindi, è l’autorità illimitata del pater familias che trascende da qualsiasi vincolo naturale, e che si esercita, senza alcuna distinzione, su tutte le persone che fanno parte della famiglia, in qualsiasi modo o titolo esse siano state aggregate al gruppo.

Quando il giurista Gaio nelle sue Institutiones riconosce che

Gai., Inst. 1.55: Quod ius proprium civium Romanorum est (fere

enim nulli alii sunt homines, qui talem in filios suos habent potestatem, qualem nos habemus)...

registra una situazione senza confronti nel mondo antico.

Da quanto appena detto, quindi, risulta che la famiglia romana non si basava solo su i vincoli creati dalla procreazione, ma era piuttosto una organizzazione giuridica fondata sul rapporto di soggezione8, il quale deriva anzitutto dalla procreazione.

7 Betti, Istituzioni, cit., p.52.

8 Nella dottrina odierna si sottolinea l’evidente somiglianza tra le relazioni vigenti

nella famiglia romana e nello Stato, in quanto società di carattere nettamente giuridico. La base di entrambi costituisce un assoggettamento alla sovranità. Un tale

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4

Comprende per tanto quelle persone che sono soggette allo stesso capo; che siano o no parenti di sangue.

In effetti la famiglia romana si basava non solo sul vincolo della

cogniatio, vincolo di sangue che nel diritto arcaico significava solo

impedimento matrimoniale, e per scopi di culto, ma anche sul vincolo dell’agnatitio9

, il quale univa nella cerchia della famiglia le persone, soggette alla stessa patria potestas, indipendentemente dai vincoli di sangue.

Gaio affermava infatti

Gai., Inst. 1.97: non solum tamen naturales liberi secundum ea,

quae diximus, in potestate nostra sunt, verum et hi, quos adoptamus10

assoggettamento può essere concesso agli stranieri sia da parte del potere sovrano dello Stato sotto la specie della concessione della cittadinanza, sia da parte del potere sovrano del pater familias nella forma dell’adrogatio. Cfr. Bonfante, Corso, cit., p.18-19. Bonfante, nei confronti dello Stato, fa un interessante osservazione: “un popolo, come una nobiltà, che si chiude, si condanna a morte”. Lo stesso accadeva nell’ambito famigliare di allora. La famiglia romana, la quale non si aprisse in alcuni casi all’aggregazione o all’assoggettamento sotto le forme dell’adrogatio e della adoptio, rischiava in alcuni casi di condannarsi all’estinzione.

9 Per creare un vincolo dell’agnazione non bastavano i vincoli di sangue, ma si

esigeva un’entrata sotto la manus nel caso delle donne, oppure sotto la patria

potestas del pater per quanto riguarda i maschi, tanto ex natura, cioè per via della

nascita, quanto ex lege, ossia per via del negozio giuridico dell’adozione intesa

sensu largo. In effetti, si esigeva la seconda nascita secondo la legge, sapendo che

filologicamente l’adgnatio proviene da ad-nascie significa “nascere dopo”. Cfr. “adgnatio”, in “DGR”, p.41.

10 In linea di massima, dopo la morte del pater familias, la famiglia agnatizia si

separava in singole famiglie. Tuttavia l’agnazione continuava ad esistere, in un certo modo, anche dopo, abbracciando: “tanto i membri della familia proprio iure quanto i membri della familia communi iure”. Bonfante, Corso, cit., p.15.

D’altra parte, dopo la morte del pater familias, rimaneva sempre la possibilità di mantenere la stretta unità della famiglia e l’integrità del patrimonio per quelli che lo preferivano. In questo caso la famiglia agnatizia era trattata come il consortium ercto

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5

Nella famiglia così intesa dall’ordinamento giuridico romano, la quale si basava sul legame della soggezione all’unico pater familias, dotato della patria potestas , era facile introdurre qualcuno, e nello stesso tempo, assoggettarlo al potere legittimo del capo famiglia.

Questa introduzione avveniva attraverso l’istituto dell’adrogatio in epoca più risalente e, della adoptio, in epoca successiva.

Il termine adrogatio “adoptio populi auctoritate” deriva da “rogatio” interrogazione:

Gai., Inst. 1.97.99: Adoptio autem duobus modis fit, aut populi

auctoritate aut inperio magistratus velut praetoris. Populi auctoritate adoptamus eos, qui sui iuris sunt: Quae species adoptionis dicitur adrogatio quia et is qui adoptat rogatus, id est interrogator, an verit eum quem adoptaturus sit iustum sibi filium esse; et is qui adoptatur rogatus, an id fieri patiatur; et popolus rogatur, ani id fieri iubeat

era un istituto più antico dell’adoptio, essa si delineò ben prima del quinto secolo, risultando già viva nell’esperienza regia.

La più autorevole dottrina è concorde infatti nel ritenere che fosse già stata istituito prima della Lex XII tabularum, addirittura qualcuno la colloca con la nascita stessa della città.11

11 A. Frediani, S. Prossomariti, Le grandi famiglie di Roma antica. Storia e segreti,

Roma, 2014; G. Bassanelli Sommariva, Lezioni di diritto privato romano III, Rimini, 2012, p.45.

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6

L’istituto era utilizzato infatti, originariamente, ancora prima che nascesse lo stato con la sua funzione di difesa, come strumento per rafforzare la propria famiglia, per assicurare una valida difesa del suolo posseduto, mettendola in condizione di respingere improvvisi assalti di nemici esterni, e per avere un maggior numero di braccia per la coltivazione della terra, se si pensa soprattutto che con tale istituto si arrogava non solo l’individuo adottato ma tutta la sua famiglia d’origine.

Gai., Inst. 1.107: Illud proprium est eius adoptionis, quae per

populum fit, quod is, qui liberos in potestate habet, si se adrogandum dederit, non solum ipse potestati adrogatoris subicitur, sed etiam liberi eius in eiusdem fiunt potestate tanquam nepotes.

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7

§ I.2 – Procedura

L’adrogatioera una antica e solenne cerimonia che si svolgeva, in origine nel comitio, e precisamente nel comitio curiato, che è la più antica tra le assemblee popolari romane, di fronte alla presenza del

pontifex maximus e del rex, sostituito poi dal magistrato repubblicano,

nel corso della quale un pater familias andava a rinunciare volontariamente alla sua condizione di soggetto suis iuris12 (cd capitis

deminutio minima), scegliendo di assoggettarsi alla potestas di un

altro pater familias (adrogator), di cui come (adrogatus), diveniva

filius e nel potere del quale trasferiva tutti i propri diritti su persone e

cose.

L’istituto quindi modificava lo status familiae di un individuo, e di conseguenza, andava ad alterare gli equilibri politici e religiosi della comunità.

È per questo motivo che si rendeva necessario il consenso del popolo riunito in comitio13 poiché fosse valutata pubblicamente l’importanza reciproca del nucleo familiare che si estingueva e di quello che si conservava.

12 P. Voci, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1954, p.479 e ss.: nell’epoca arcaica

la patria potestas era considerata perpetua, pertanto non era possibile né l’uscita da essa, né il passaggio di un filius ad un’altra famiglia, l’unica forma di adozione ammessa era l’adrogatio, per mezzo della quale una persona suis iuris entrava a far parte della famiglia dell’adrogante e si sottoponeva alla sua potestà, divenendo

aliena iuris. È in un periodo successivo, con l’evoluzione del diritto romano che,

viene ammessa l’adozione in senso stretto.

13 P. Fiore, Adozione, in Digesto italiano, II, Torino, 1884, pag. 161: “era un atto

pubblico legato all'ordine politico, così come la manomissione e il testamento. Si trattava di mutare lo status familiae di una persona, e le istituzioni aristocratiche e patrizie di Roma non potevano permettere che l'ordine della famiglia fosse modificato senza il consenso del popolo riunito in comizio

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8

Gai., Inst. 1.99: Populi auctoritate adoptamus eos, qui sui iuris

sunt: Quae species adoptionis dicitur adrogatio

Gell., Noct. Att. 5.1.19.2: Cum in alienam familiam inque liberorum locum extranei sumuntur, aut per praetorem fit aut per populum. Quod per pretore fit, "adoptatio" dicitur, quod per populum, "arrogatio"

Gell., Noct. Att. 5.19.5.6: Sed adrogationes non temere nec

inexplorate committuntur; nam comitia arbitris pontificibus praebentur, quae "curiata" appellantur

Né Gaio, né Gellio, né altro autore ci dice però chi fosse competente a convocare il popolo riunito nel comitio.

La dottrina è divisa, ritenendo alcuni studiosi che la presidenza dei

comiti curiati in materia di arrogazioni spettasse al pontefice massimo,

altri che spettasse al console14.

14 Il Volterra, s.v. Adozione, in “NNDI” ritiene che i comiti curiati fossero presieduti

dal pontefice massimo. Dello stesso parere, con cautela, M. Amelotti, Le forme

classiche di testamento, Firenze, 1966, p.29, non essendo del tutto chiare le notizie

date da Gell., Noct. Att. 5.19.6.

G. Longo, Diritto romano, Roma, 1940, p.9 e P. De Francisci, Primordia civitatis, Roma, 1959, p.577 ss. ritengono invece che i comizi fossero presieduti da un magistrato cum imperio e più in particolare dal console. In proposito, viene da osservare che Gell., Noct. Att. 15.27, riferendo il pensiero di Labeone citato da Lelio Felice, in ad Q. Mucium, pone in luce una differenza tra calare comitium e

comitiare: da questa differenza si potrebbe desumere che il collegio pontificale, e

quindi probabilmente sempre il pontefice massimo, presiedesse i comitia calata. Tuttavia la lettura di Gell., Noct. Att. 15.27 ci deve rendere molto prudenti: “calata”

comitia esse, quae pro conlegio pontificum habentur aut regis aut flaminum inaugurandorum causa. Eorum autem alia esse "curiata", alia "centuriata"; "curiata" per lictorem curiatum "calari", id est "convocari", "centuriata" per cornicinem.

Il diverso modo di convocazione dei comiti curiati e centuriati dipende dal fatto che quando viene sottoposta una rogatio al popolo, questi la vota, mentre ciò non accade nei comitia calata, in cui esso assiste soltanto.

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Siccome una parte delle funzioni spettanti al re, capo religioso, politico e militare, in epoca repubblicana furono espletate dai pontefici, non sembra improbabile l’ipotesi che costoro, oltre che a compiere la cognitio, come vedremo, avessero anche il compito di convocare il popolo15.

Per prima cosa il pontefice prendeva cognizione dell’affare; vari erano i requisiti da valutare prima di passare alla votazione: l’età di chi volesse arrogare, che la procedura non fosse stata una manovra per impadronirsi dei beni di colui che veniva arrogato, e che quest’ultimo fosse vesticeps, cioè pubere.

Gell., Noct. Att. 5.19.6: aetasque eius, qui adrogare vult, an liberis

potius gignundis idonea sit, bonaque eius, qui adrogatur, ne insidiose adpetita sint,consideratur,iusque iurandum a Q. Mucio pontifice maximo conceptum dicitur,quod in abrogando iuraretur. Sed adrogari non potest, nisi iam vesticeps.

Per quanto riguarda l’accertamento del primo requisito, come si può dedurre dai frammenti di Gellio, non vi era un limite di età preciso al di sopra del quale fosse possibile l’atto di adrogatio, a parere dell’antiquarista infatti si valutava solo la possibilità di procreare, e questo quindi permetteva ad un soggetto più giovane di adrogare uno più vecchio.

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La storia ha dimostrato infatti come, fin dai tempi più antichi, i pontefici godessero di una certa libertà nella valutazione dei singoli requisiti.

Già Cicerone, circa duecento anni prima di Gaio e Gellio, riportava uno dei casi più famosi, dal quale emerge chiaramente il comportamento discrezionale dei pontefici in tali procedure.

Il caso riportato, che persino dinanzi alla crisi dei valori familiari, quale si manifestò alla fine della Repubblica, dovette suscitare riserve, è quello narrato dall’autore nel discorso De Domo Sua, pronunciato nel processo a suo carico davanti al collegio dei pontefici il 30 settembre del 57 a.C. e riferito all’adrogatio di Publio Clodio.16

Cic., De domo sua, 13.34: Quid est horum in ista adoptione

quaesitum? Adoptat annos viginti natus, etiam minor, senatorem. Liberorumne causa? At procreare potest; habet uxorem, suscipiet ex ea liberos; exheredabit igitur pater filium. Quid? sacra Clodiae gentis cur intereunt, quod in te est? quae omnis notio pontificum, cum adoptarere, esse debuit: nisi forte ex te ita quaesitum est, num perturbare rem publicam seditionibus velles et ob eam causam adoptari, non ut eius filius esses, sed ut tribunus plebis fieres et funditus everteres civitatem. Pontificibus bona causa visa est: adprobaverunt. Non aetas eius qui adoptabat est quaesita, ut in Cn Aufidio, M Pupio quorum uterque nostra memoria summa senectute alter Oresten, alter Pisonem adoptavit, quas adoptiones sicut alias innumerabilis hereditates nominis pecuniae sacrorum

16

F. Longchamps de Berier, L’abuso del diritto nell’esperienza del diritto privato

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secutae sunt. Tu neque Fonteius es, qui esse debebas, neque patris heres, neque amissis sacris paternis in haec adoptiva venisti. Ita perturbatis sacris, contaminatis gentibus, et quam deseruisti et quam polluisti, iure Quiritium legitimo tutelarum et hereditatium relicto, factus es eius filius contra fas cuius per aetatem pater esse potuisti

Cicerone segnalava quanto fosse necessario, prendere in esame la differenza di età tra adrogator e adrogatus, ma nonostante ciò dimostra anch’egli come i pontefices non abbiano effettivamente posto tra le esigenze che determinavano l’esistenza della iusta causa

adrogationis la maggiore età dell’adrogante.

Le domande sulle condizioni per la realizzazione dell’istituto e per la sua correttezza, come quelle contenute nell’argomentazione ciceroniana dimostrano certamente l’ampio interessamento verso questa pratica soprattutto per la funzione sociale che questa andava a svolgere.

Si procedeva poi interrogando l’adrogator, circa la sua volontà di arrogare e l’adrogatus, di essere arrogato

Gai., Inst. 1.99: quia et is qui adoptat rogatur, id est interrogatur,

an velit eum quem adoptaturus sit iustum sibi filium esse; et is qui adoptatur rogatur, an id fieri patiatur; et populus rogatur, an id fieri iubeat et populus rogatur, an id fieri iubeat.

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Dal brano si può notare come l’attenzione di Gaio si rivolga al valore giuridico delle domande rivolte tanto a chi voleva arrogare ed a chi desiderava essere arrogato, quanto al popolo, e proprio da queste tre interrogazioni, egli ritiene che l’istituto prenda il nome; manca invece, nel testo gaiano, a differenza di quello gelliano, qualsiasi cenno all’organo che interrogava i due pater familias ed il popolo di Roma.

Infine veniva interrogato il populus mediante la rogatio del

pontifex.

La testimonianza ci arriva direttamente da Aulio Gellio

Gell., Noct. Att. 5.19.9: velitis iubeatis, uti L.Valerius L.Titio tam

iure legeque filius siet, quam si ex eo patre matreque familias eius natus esset, utique ei vitae necisque in eum potestas siet, uti patri endo filio est. Haec ita uti dixi, ita vos, Quirites, rogo.

vogliate e ordinate che Lucio Valerio divenga secondo il diritto e la legge figlio di Lucio Tizio, come se fosse nato da quel padre e da una madre della famiglia di lui, sicché questi abbia nei suoi confronti un potere di vita e di morte, come un pater verso il filius. Queste cose, così come le ho dette, a voi Romani io chiedo.

Le testimonianze di Gellio mostrano chiaramente che nel pensiero dei giuristi romani la patria potestas è la conseguenza legale ineluttabile della nascita di un figlio concepito in iustae numptiae oppure della dichiarazione fatta su apposita rogatio del pontifex, del

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13

popolo riunito nei comiti, che quel dato cittadino romano sia tam iure

legeque figlio di un altro cittadino romano quam si ex eo patre matreque familias eius natus esset.

La formula poi aggiunge

Gell., Noct. Att. 5.19.9: utique ei vitae necisque in eum potestas

siet, uti patri endo filio est. Haec ita uti dixi, ita vos, quirites rogo

frasi queste che a noi studiosi moderni appaiono sottolineare ancora maggiormente il fatto che la patria potestas di quel cittadino sorge sull’altro in quanto il popolo, attraverso la sua interrogazione, costituisce la paternità legittima del primo sul secondo17.

In dottrina si discute circa il valore giuridico dell’atto dell’adrogatio da parte del popolo, se fosse un vero consenso oppure soltanto il parere rivolto al pontefice.

In ogni caso il populus svolgeva un ruolo importante, controllando l’onestà dell’atto dell’adrogatio e sorvegliando che non ci fossero abusi.

Con il compimento della cerimonia si attuava l’ingresso dell’adrogatus nella nuova famiglia, prendeva il nomen della gens di cui entrava a far parte e il cognomen della famiglia dell’adrogator e

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14

diventava inoltre a tutti gli effetti, partecipe dei suoi sacra e titolare dello ius sepulcrhi (per i sepolcri gentilizi o familiari)18.

Dato che l’atto giuridico dell’adrogatio comportava tali cambiamenti nel culto domestico dell’arrogato, subito dopo il suo compimento, seguiva la detestatio sacrorum19

Serv., ad Aen. 2.156: consuetudo apud antiquos fuit, ut qui in

familiam vel gentem transiret, prius se abdicaret a bea, in qua fuerat, et sic a balia reciperetur

Era la rinuncia del proprio culto famigliare precedentemente praticato, passando in tal modo al culto domestico dell’arrogante20.

Essa verosimilmente, avrebbe costituito, tra il periodo monarchico e protorepubblicano, un presupposto necessario, quanto meno una ineliminabile formalità.

La rinuncia derivava infatti dal forte convincimento che secondo i romani, l’appartenenza ad una famiglia rappresentasse uno status

18 G. Franciosi, Corso storico istituzionale di diritto romano, Torino, 2014, p.332. 19 Sulla detestatio sacrorum si veda Gell. Noct. Att. 15.27.3: Isdem comitiis, quae

‘calata’ appellari diximus, et sacrorum detestatio et testamenta fieri solebant.

B. Biondi, Istituzioni di diritto romano, Padova, 1942, p.555.

20 Sul punto si tengano in considerazione le osservazioni fatte da Castello, Il

problema, cit., p.23, il quale ritiene che né in Gaio né in Gellio, vi è il benché

minimo accenno al dovere dell’arrogato di compiere la detestatio sacrorum. Comunque non sembra che essa potesse essere fatta immediatamente prima della

rogatio. Il passo di Serv., ad Aen. 2.156, invocato da alcuni studiosi a sostegno della

tesi che in materia di adrogatio per populum dovesse essere compiuta anche detta cerimonia religiosa, non pare probativo in modo certo. Infatti ecco il testo: “consuetudo apud antiquos fuit, ut qui in familiam vel gentem transiret, prius se

abdicaret a bea, in qua fuerat, et sic a balia reciperetur”. Si osserva anzitutto che il

passo parla di consuetudo, e ciò potrebbe già far pensare che fosse lasciato all’arbitrium dei pontefici di stabilire se doveva essere compiuta la detestatio

sacrorum, oppure se chi entrava a far parte di un’altra famiglia, potesse conservare i

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15

decisivo ed evidente e quindi non si poteva appartenere a due famiglie, anche per quanto riguarda il culto domestico, ritenuto una parte importantissima della vita quotidiana.

Il culto dei sacra, ossia il culto degli antenati, era una preoccupazione costante del pater, che se privo di eredi naturali utilizzava l’adrogatio proprio per garantirsi dei discendenti che se ne occupassero, trasmettendo loro un dovere ereditario.

Analizzando gli effetti dell’adrogatio si può notare che una delle particolarità dell’istituto consista nel fatto che, a compimento di tale procedura, si trasferiva in potestà dell’adrogator, non solo la persona arrogata ma eventuali altri membri alieni iuris della famiglia d’origine, tra i parenti dell’adrogatus e l’adrogator sorgeva infatti il vincolo dell’adgnatior:

Gai., Inst. 1.107: Illud proprium est eius adoptionis, quae per

populum fit, quod is, qui liberos in potestate habet, si se adrogandum dederit, non solum ipse potestati adrogatoris subicitur, sed etiam liberi eius in eiusdem fiunt potestate tanquam nepotes.

Con il voto favorevole delle curie, l’arrogazione diventava perfetta ed efficace.

L’arrogato diventava discendente legittimo dell’arrogatore, poiché si costituiva la patria potestas del secondo sul primo e nello stesso tempo faceva divenire i figli in potestate dell’arrogato, nipoti legittimi

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16

dell’arrogante; la moglie dell’adrogatus veniva assunta nel ruolo di nipote e i nipoti a loro volta diventano pronipoti.

Per quanto riguarda gli effetti patrimoniali, il patrimonio dell’arrogato passava in capo al nuovo titolare, cosicchè si attuasse una forma di successione universale inter vivos21.

Non si trasferivano invece, i rapporti patrimoniali di carattere personale quali l’usufrutto, l’obbligo delle operae libertorum e le liti

contestate in un iudicium legitimum.

I debiti non passavano in capo all’adrogator, per il principio che il

pater non risponde dell’attività debitoria del figlio, e così si

estinguevano, spesso infatti l’istituto veniva utilizzato proprio per sottrarsi alle pressioni di eventuali creditori, i quali però su istanza potevano ottenere dal pretore una rescissa capitis deminutione, fingendo così che non fosse avvenuta la capiti deminutio22.

Gai., Inst. 4.38: Praeterea aliquando fingimus adversarium

nostrum capite deminutum non esse. Nam si ex contractu nobis obligatus obligatave sit et capite deminutus deminutave fuerit, velut mulier per coemptionem, masculus per adrogationem, desinit

21 C. Sanfilippo, Istituzioni di diritto romano, Catania, 1964, p.175.

P. Bonfante, Corso di diritto romano, Milano, 1963, p.46: uno dei principali effetti giuridici dell’adrogatio era quello del passaggio formale del patrimonio dell’adrogato all’adrogante che ne diveniva proprietario a tutti gli effetti, dando luogo ad una successione per universitatem inter vivos. Ma l’adrogante poteva, soprattutto nel periodo classico, emancipare di nuovo il filius, senza ragione, spogliandolo in tal modo del diritto di successione nei suoi confronti. Soprattutto nel periodo imperiale si cercò di porre un freno a questo, imponendo all’adrogante di emettere una promessa di restituzione dei beni dell’adrogato allo stesso o alla sua famiglia in caso di morte o di emancipazione dell’adrogato.

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17

iure civili debere nobis, nec directo intendi potest sibi dare eum eamve oportere; sed ne in potestate eius sit ius nostrum corrumpere, introducta est contra eum eamve actio utilis rescissa capitis deminutione, id est in qua fingitur capite deminutus deminutave non esse.

In tal caso spettava poi all’adrogator decidere se rispondere in proprio dei debiti del suo sottoposto, oppure cedere i beni già appartenenti a questo.

Diversi erano invece i debiti da delitto che si trasmettevano al nuovo pater, che poteva a sua volta consegnare l’adrogatus alla vittima, così da evitare l’azione.23

Originariamente i soggetti che avevano la facoltà di usufruire dell’atto di adrogatio erano soltanto quelli che avevano il diritto di partecipare nei comitia curiata, quindi ne erano esclusi i plebei, le donne e gli impuberi.

Gai., Inst. 1.101: Item per populum feminae non adoptantur nam

id magis placuit; apud praetorem vero vel in provinciis apud proconsulem legatumve etiam feminae solent adoptari.

Ulp., Ex. Corp. 8.5: Per populum vero Romanum feminae quidem

non arrogantur

23

La consegna è detta noxae deditio. M. Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, Torino, 2011, p.180.

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18

Positivamente parlando potevano essere adrogati soltanto i

puberes sui iuris, cioè quelli che avevano compiuto 14 anni di età.

Soltanto Antonino Pio, con una lettera ai pontefici, permise, per giusti motivi e sotto certe condizioni, anche l’arrogazione degli impuberi che venne poi circondata da particolari cautele.

Gai., Inst. 1.102 : item impuberem apud populum adoptari

aliquando prohibitum est, aliquando permissum est; nunc ex epistula optimi imperatoris Antonini, quam scripsit pontificibus, si iusta causa adoptionis esse videbitur, cum quibusdam condicionibus permissum est.

Ulp., Ex. Corp. 8.5: pupilli antea quidem non poterant arrogari,

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19

§ I.3 – Pratica applicazione adrogatio

L’adrogatio, che dovette essere permessa in antico solo ai patres privi di discendenza, serviva principalmente a creare artificialmente un erede, ed evitare così l’estinzione della propria famiglia; per questo motivo infatti ha costituito, uno dei nomi del primordiale testamentum

calatis comitis.

Tra i convincimenti dottrinari in forza dei quali, almeno in origine, adrogatio e testamentum calatis comitis conciderebbero, si possono ricordare le considerazioni fatte dal Manfredini, il quale rammenta che “è opinione molto accreditata che questo modo di testare altro non fosse che una adrogatio”24.

In tempi più recenti tale posizione è stata solo in parte temperata; basti pensare all’opinione di Luigi Capogrossi Colognesi il quale, pur ammettendo che “l’adrogatio appare a prima vista una forma arcaica di testamento” 25

riconosce che l’istituzione di erede risultava essere solo una conseguenza indiretta dell’adozione di un sui iuris loco filio da parte del pater familias adottante.

In forza di tali premesse, egli afferma che un risultato del genere sarebbe stato “deliberatamente perseguito dalle parti, per cui si era escogitato che questa particolare adozione, a differenza dell’adrogatio, avesse effetto solo alla morte del pater familias

24 A. D. Manfredini, La volontà oltre la morte. Profili di diritto ereditario romano,

Torino, 1991, p.26.

(22)

20

adottante, privo di figli legittimi, comportando come conseguenza solo la successione nella posizione del defunto da parte del designato”26

. Del resto anche lo stesso Manfredini, dopo aver espresso l’idea della coincidenza tra testamentum calatis comitis e adrogatio, si affretta a precisare, sulla base del testo della rogatio rivolta al populus al fine di perfezionare l’adrogatio, che quest’ultima appare “non la designazione di un erede testamentario, ma l’acquisto di un figlio destinato a diventare erede legittimo” 27

.

Gli elementi che portano, ad avvalorare la loro identificazioni, sono però diversi, tra cui la constatazione che l’adrogatio, cosi come il

testamentum calatis comitis, si teneva davanti ai comiti curiati

Gai., Inst. 2.101: Testamentorum autem genera initio duo fuerunt:

nam aut calatis comitiis testamentum faciebant, quae comitia bis in anno testamentis faciendis destinata erant

Gell., Noct. Att. 15.27: Isdem comitiis, quae ‘calata’ appellari

diximus, et sacrorum detestatio et testamenta fieri solebant

Inoltre anche la funzione primitiva del testamentum ci porta allo stesso risultato in quanto, tale istituto, in origine serviva per procurare un suus heres a chi ne fosse privo, per assicurare un continuatore alla famiglia e ai suoi sacra.

26

Capogrossi Colognesi, Storia di Roma, cit., p.41.

(23)

21

Il testamentum calatis comitis, è stato considerato quindi come una sorta di adrogatio a termine iniziale ‘certus an incertus quando’28 o per usare un’espressione utilizzata da altri studiosi29

, una adrogatio

mortis causa.

Il distacco dell’adrogatio dal testamento avvenne poi quando cominciarono a nascere nuovi istituti, destinati a disporre del patrimonio per il tempo dopo la morte senza l’artificio della nomina del figlio, e quando cominciò la desuetudine dei comiti curiati in confronto delle nuove assemblee, già negli ultimi secoli della Repubblica, infatti, il comitio curiato era simboleggiato nell’arrogazione dai trenta littori (uno per ciascuno delle trenta curie originarie), il cui consenso, se pur si pronunciasse, non poteva essere che una formalità senza importanza30.

Accanto però a questa funzione originaria, l’adrogatio cominciò ad essere utilizzata per scopi differenti, soprattutto per scopi abusivi: tra cui quello di acquisire tutti i beni della persona che si voleva arrogare, fu probabilmente per questo motivo che, Quinto Mucio Scevola, sul finire dell’età repubblicana, in qualità di pontifex

28

In questa prospettiva, si colloca E. Cantarella, Diritto romano. Istituzioni e storia, Milano, 2010, p.438 ss. : “sui rapporti tra adrogatio e testamentum calatis comitis vi è stata qualche discussione. Sembra tuttavia che, in realtà, si trattasse di un medesimo atto, che si differenziava solamente (anche se con conseguenze concretamente molto rilevanti) per il fatto che l’adrogatio produceva effetti immediati, mentre il testamentum calatis comitis li produceva solo alla morte dell’adottante”.

29 G. Scherillo, Il testamento, Milano, 1995, p.233; M. Amelotti, Testamento (diritto

romano), Milano, 1992, p.460.

(24)

22

maximus, propose, nei suoi Libri Iuris Civilis, che l’arrogante dovesse

prestare un opportuno giuramento, quale prova della sua lealtà, di modo che pubblicamente si assumesse le responsabilità del suo atto31.

Nell’età repubblicana, l’adrogatio è utilizzata nel contesto di una vita politica in cui hanno avuto ruolo determinante le “grandi famiglie romane”: sancisce infatti alleanze politiche e patrimoniali allontanandosi così dallo scopo originario; diventa lo strumento per conservare un nome illustre o per consentire il passaggio dal ceto patrizio al ceto plebeo cosiddetta transitio ad plebem32.

Riguardo a quest’ultimo utilizzo possiamo riportare la vicenda narrata da Cicerone di Publio Clodio Pulcro adottato dal senatore plebeo Publio Fonteio, e diventato tribuno della plebe nel 58 a.C.

Cic., De Domo Sua, 34-35: Adoptat annos viginti natus, etiam

minor, senatorem. Liberorumne causa? At procreare potest; habet uxorem, suscipiet ex ea liberos; exheredabit igitur pater filium. Quid? sacra Clodiae gentis cur intereunt, quod in te est? quae omnis notio pontificum, cum adoptarere, esse debuit: nisi forte ex te ita quaesitum est, num perturbare rem publicam seditionibus velles et ob eam causam adoptari, non ut eius filius esses, sed ut tribunus plebis fieres et funditus everteres civitatem.

31 L’obbligo di giurare che determinati atti giuridici, soprattutto in materia di stato

personale, non erano contrari alle finalità per le quali esisteva l’istituto nel diritto romano, risulta anche da Livio 41.9, nell’anno 177 a.C. viene introdotto un giuramento in materia di manomissione servile per ostacolare ai foederati latini di ricorrere all’assoggettamento in schiavitù ad un cittadino romano, il quale prometteva di far loro poi conseguire la cittadinanza romana, che essi non potevano più ottenere altrimenti.

32

G. Bassanelli Sommariva, Lezioni di diritto privato romano. Istituzioni, Rimini, 2011, p.45.

(25)

23

Un giovane che ha venti anni, ancora minorenne, adotta un senatore. La causa è che non ha figli? Ma può procreare; ha una moglie, avrà dei figli da lei; disedererà dunque il figlio. Perché? perchè ciò che è sacro della gente Clodia, in quanto a te è destinato a perire ? quando si fece la tua donazione, tutto ciò doveva essere di competenza dei pontefici: cioè se non per caso l’adozione fu richiesta da te, e se tu volevi agitare lo Stato con delle insurrezioni ed essere adottato a quello scopo, non per essere figlio di lui, ma per diventare tribuno della plebe e scuotere la città dalle fondamenta.

Cicerone ricorda come, Fonteio, di origine plebea e poco più che ventenne, avesse compiuto l’adrogatio di Publio Clodio.

Tra di loro intercorreva, a parere dell’oratore una sostanziale differenza di età, giacché l’arrogato poteva tranquillamente essere il padre naturale dell’arrogante e sebbene non esistesse alcun problema a che il giovane sposato potesse generare la propria prole, si decise comunque per l’adoptio auctoritate populi.

In realtà questa non aveva lo scopo di garantire la continuazione della famiglia di Fonteio ma di realizzare le mire politiche di Clodio, il quale già in passato aveva tentato il passaggio al ceto plebeo.

Fu così che con lo sviluppo della società politico ed economico si cominciò a fare un uso distorto di tale istituto.

(26)

24

§ I.4 – Evoluzione

Il cambiamento della società e le esigenze che facevano fronte, portarono ad una evoluzione dell’istituto che venne modificato sotto vari aspetti.

La prima grande novità che emerge facendo un raffronto tra la forma originale dell’istituto e quella praticata successivamente consiste nella fase relativa alla approvazione del populus.

Se originariamente, infatti era il rex, presieduto il comitio, e nonostante la votazione di questo, a comunicare la propria volontà a coloro che si vincolavano solennemente ad obbedirlo, riconoscendolo come loro capo e condottiero, in età repubblicana, l’assemblea popolare acquisisce un potere maggiore.

Essa viene interrogata dal pontifex e con la sua approvazione, l’adrogatio viene certificata attraverso la lex curiata, la quale deve essere posta in rapporto con la trasformazione avvenuta al tempo in cui Roma divenne una πόλις e fu necessario legare con un vincolo unitario magistrato e popolo33.

Non vi è dubbio che le gentes e le familiae patrizie acquistarono notevole importanza dopo la caduta della monarchia etrusca in Roma, e non è quindi improbabile che in tale epoca cominciarono a chiedere, e con il tempo ad ottenere, di poter votare, qualora venisse compiuta una adrogatio, per evitare che una gens potesse acquisire, servendosi

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25

di essa, una preminenza nella res publica nei confronti delle altre

gentes.

Dopo che per compiere un’adrogatio fu necessario il voto dei

comiti curiati, la rogatio avvenne iure legeque, come sappiamo dai

frammenti di Gellio 5.19.9

Gell., Noct. Att. 5.19.9: Velitis, iubeatis, uti L. Valerius L. Titio

tam iure legeque

L’adrogatio rimase, nell’età repubblicana, l’unica ragione di sopravvivenza dei comitia curiata sia pure ridotti alla mera presenza, rituale e simbolica, dei trenta lictores.

Fino ad Antonino Pio non dovettero essere compiute adrogationes di paterfamilias, con una procedura diversa da quella per populum in Roma città, e questo può spiegare il silenzio di Gaio e Gellio su quella che in seguito, al tempo di Diocleziano sarà denominata adrogatio

per rescriptum principis34.

Per quanto riguarda i soggetti che potevano essere arrogati, ci fu un’evoluzione: con Antonino Pio infatti cadde, per effetto di una sua nota epistula ai pontefici, il divieto di arrogare i pre-puberi;

Gai., Inst. 1.102: item impuberem apud populum adoptari

aliquando prohibitum est, aliquando permissum est; nunc ex epistula optimi imperatoris Antonini, quam scripsit pontificibus, si

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26

iusta causa adoptionis esse videbitur, cum quibusdam condicionibus permissum est.

Ulp., Ex. Corp. 8.5: pupilli antea quidem non poterant arrogari,

nunc autem possunt ex constitutione divi Antonini.

Sino a questa decisione infatti potevano essere adrogati solo i

puberes sui iuris, dopo l’epistola invece l’adrogabilità fu ammissibile

a condizione di stabilire una riserva successoria, una sorta di quota di “legittima” corrispondente ad un quarto di quota dell’adrogator.

Questa legittima, detta quarta divi pii, sarebbe spettata se l’adrogante fosse morto prima che l’adrogato avesse raggiunto l’età della pubertas35.

Tra Diocleziano e Giustiniano si registra un importante innovazione: valutando le circostanze del caso, l’imperatore poteva concedere l’arrogazione anche quando la richiedente fosse una donna.

Fino ad allora infatti si escludeva che soggetti femminili potessero compiere validi atti di adrogatio o di adoptio.

La novità veniva ammessa normalmente quando si trattava di una donna sola che avesse perso i figli: le nostre fonti usano in tali ipotesi l’espressione ad solarium liberorum ammissorum (per alleviarla dalla perdita dei figli).

35

G. Donatuti, Contributi allo studio dell’adrogatio impuberis, in “BIDR”, 64, 1961, p.879.

(29)

27

Il caso che le fonti tramandano è quello di Syra, destinataria di un noto rescritto di Diocleziano

C. 8.47.5: IMPP. DIOCLETIANUS ET MAXIMIANUS AA. ET CC.SYRAE: Mulierem quidem, quae nec suos filios habet in potestate, adrogare non posse certum est. Verum quoniam in solacium amissorum tuorum filiorum privignum tuum cupis in vicem legitimae subolis obtinere, adnuimus votis tuis secundum ea, quae adnotavimus, et eum proinde atque ex te progenitum ad fidem naturalis legitimique filii habere permittimus.

Il rescritto però è stato oggetto di sospetti della letteratura meno recente in quanto ha ritenuto interpolata la seconda parte della costituzione36.

L’interpolazione è stata dedotta dal fatto che la concessione di tenere con sè i privigni in solacium ammissorum filiorum è ignota agli autori dell’epitome di Gaio e dei Tituli ex corpore Ulpiani che, invece, avrebbero dovuto conoscerla ove fosse stata concepita da Diocleziano. L’espressione la ritroviamo invece nelle Institutiones di Giustiniano e funge da condizione per l’adozione delle donne.

Da questo si deduce che sarebbero stati i commissari giustinianei ad integrare in questo punto C. 8.47.537 .

36 G. Castelli, L’arrogazione delle donne, in “ Scritti giuridici”, Milano, 1923,

p.167-168.

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28

Inst. 1.11.10 : Feminae quoque adoptare non possunt, quia nec naturales liberos in potestate sua habent : sed ex indulgentia principis ad solatium liberorum ammissorum adoptare possunt.

La più recente dottrina supera questi dubbi e attribuisce a Diocleziano l’innovazione che ha consentito a Syra di tenere con sè il

privignus, a consolazione dei figli preduti, senza intaccare il principio

di derivazione classica che impedisce alle donne di compiere tali atti38. Infatti C. 8.47.5 si apre proprio ribadendo il principio di diritto che alle donne fosse fatto divieto di adrogare.

Diocleziano quindi si sarebbe limitato a concedere a Syra una grazia, un privilegio extra ordinem di carattere e di natura strettamente personale; soprattutto se si considera che l’anno seguente l’imperatore avrebbe emanato la costituzione che vietava di esibire in giudizio rescritti per casi diversi da quello per cui erano stati emanati : ciò avrebbe impedito ad altre postulanti nelle condizioni di Syra di avvalersi dei benefici dalla stessa ottenuti.

C. 1.23.3: Sancimus, ut authentica ipsa atque originalia rescripta

et nostra manu subscripta, non exempla eorum, insinuentur.

38 M. Amelotti, Per l’interpretazione della legislazione privatistica di Diocleziano,

Milano, 1960, p.131-132. Indubbiamente l’indulgenza, volutamente eccezionale, mostrata da Diocleziano verso Syra, prova da un lato quanto scrupolo egli abbia avuto, anche nelle sue innovazioni, per la tradizione romana, dall’altro dimostra la presenza nella sua legislazione di una nota umana.

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29

Tra l’altro Diocleziano non concesse a Syra di adottare ma solo di tenere con sè il figliastro come se si fosse trattato di un figlio legittimo.

Dal punto di vista degli effetti quindi alla luce delle fonti siamo portati a pensare che da tale concessione non fossero scaturiti effetti successori o di diritto di famiglia.

Queste decisioni creavano però situazioni anomale, poiché comunque le donne non avevano la patria potestà e quindi sul figliastro non potevano esercitare il corrispondente potere.

L’imperatore Diocleziano si occupò anche di una grave problema pratico consistente nella mancanza di comizi curiati nelle province dell’impero, e quindi dell’impossibilità di ricorrere a tale istituto nei territori distanti da Roma.

Nacque allora la adrogatio per rescriptum principis, la quale richiedeva un apposito rescritto dell’imperatore (da cui prende il nome) e se inizialmente limitata ai territori delle province, sarà successivamente l’unica forma di arrogazione ammessa in età giustinianea.

C. 8.47.6: adrogationes eorum, qui sui iuris sunt, nec in regia

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30

Nel diritto di Giustiniano rimangono intatte le possibilità: dell’adrogatio degli impuberi, ammessa da Antonino Pio, e dell’adrogatio delle donne, introdotta da Diocleziano.

Per quanto riguarda l’adrogatio degli impuberi, è da notare che rimangono particolari precauzioni per attuarla, come per esempio: una previa inquisizione, con lo scopo di confermare l’onestà dei motivi dell’adrogante; una cauzione fatta a un ufficiale pubblico da parte dell’adrogante come garanzia della restituzione dei beni in caso di morte dell’impubere prima di giungere alla pubertà

Inst. 1.11.3: Cum autem impubes per principale rescriptum adrogatur, causa cognita adrogatio permittitur et exquiritur causa adrogationis, an honesta sit expediatque pupillo, et cum quibusdam condicionibus adrogatio fit, id est ut caveat adrogator personae publicae, hoc est tabulario, si intra pubertatem pupillus decesserit, restituturum se bona illis qui, si adoptio facta non esset, ad successionem eius venturi essent.

ed infine una quarta parte dei beni dell’adrogante stabilita come un mezzo di emancipazione disonesta o in caso di morte dell’adrogante

Inst. 1.11.3: item non alias emancipare eos potest adrogator, nisi causa cognita digni emancipatione fuerint et tunc sua bona eis reddat. sed et si decedens pater eum exheredaverit vel vivus sine insta causa eum emancipaverit, iubetur quartam partem ei suorum

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31

bonoram relinquere, videlicet praeter bona quae ad patrem adoptivum transtulit et quorum commodum ei adquisivit postea.

Per quanto riguarda gli effetti dell’adrogatio, al tempo di Giustiniano, questi possono essere divisi in due categorie: gli effetti personali, i quali sono gli stessi del diritto classico, e quelli patrimoniali, i quali non si differenziano da quelli anteriori, eccetto la nuova regolazione sul peculio.

Proprio questa regola, superata la tradizionale incapacità del filius

familias, permette al filius, compreso quello l’adrogato, di conservare

ed amministrare il peculium castrense, cioè gli acquisti fatti da lui durante il servizio militare, ed il peculim quasi castrense, vale a dire i beni acquistati durante lo svolgimento dei pubblici uffici e le cariche ecclesiastiche da parte del filius.

In effetti, sull’insieme dei beni acquistati dal filius, chiamati bona

adventicia, l’adrogante neanche otteneva l’amministrazione, riservata

all’adrogato, ma soltanto l’usufrutto legale.

Gai., Inst. 3.10.2: Est et alterius generis per universitatem

successio, quae neque lege duodecim tabularum neque praetoris edicto, sed eo iure quod consensu receptum est, introducta est. Ecce enim cum paterfamilias sese in adrogationem dat, omnes res eius corporales et incorporales quaeque ei debitae sunt, adrogatori ante quidem pleno iure adquirebantur, exceptis his quae per capitis deminutionem pereunt, quales sunt operarum obligationes et ius adgnationis. usus etenim et ususfructus, licet

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32

his antea connumerabantur, attamen capitis deminutione minima eos tolli nostra prohibuit constitutio. Nunc autem nos eandem adquisitionem quae per adrogationem fiebat coartavimus ad similitudinem naturalium parentum: nihil etenim aliud nisi tantummodo ususfructus tam naturalibus patribus quam adoptivis per filiosfamilias adquiritur in his rebus quae extrinsecus filiis obveniunt, dominio eis integro servato: mortuo autem filio adrogato in adoptiva familia etiam dominium eius adrogatorem transit, nisi supersint aliae personae quae ex nostra constitutione patrem in his quae adquiri non possunt antecedunt. Sed ex diverso pro eo quod is debuit qui se in adoptionem dedit, ipso quidem iure adrogator non tenetur, sed nomine filii convenietur et, si noluerit eum defendere, permittitur creditoribus per competentes nostros magistratus bona quae eius cum usufructu futura fuissent, si se alieno iuri non subiecisset, possidere et legitimo modo ea disponere.

C. 6.61.6: Sic etenim et parenti nihil derogabitur usum fructum

rerum possidenti et filii non lugebunt, quae ex suis laboribus sibi possessa sunt, ad alios transferenda adspicientes vel extraneos vel ad fratres suos, quod etiam gravius multis esse videtur. Exceptis castrensibus peculiis, quorum nec usum fructum patrem vel avum vel proavum habere veteres leges concedunt: in his enim nihil novamus, sed vetera iura intacta servamus.

(35)

33

CAPITOLO II

ADOPTIO

§ II.1 – Origini XII tavole

Il regime giuridico della datio in adoptionem ci è noto soprattutto attraverso le testimonianze del I e II secolo d.C. e in specie attraverso le Noctes Atticae di Gellio e le Institutiones di Gaio.

Le notizie forniteci in particolare da Gellio e Gaio, tuttavia, come è evidente descrivono l’adozione di un sottoposto all’altrui potestà quale essa era ai loro tempi e nulla attestano pertanto circa l’effettiva risalenza dell’istituto o sulla sua originaria configurazione.

La mancanza per il periodo ancora più antico o, comunque, la esiguità per l’epoca repubblicana, di testimonianze dirette, se rendono più arduo il compito, non costituiscono una valida ragione per sottrarsi al tentativo di formulare un ipotesi sull’origine dell’istituto in questione.

Venendo all’esame della problematica, di fondamentale importanza per la conoscenza del regime giuridico dell’adozione di un

alienae potestati subiectus sono le notizie forniteci da Gellio e Gaio

rispettivamente in :

Gell., Noct. Att. 5.19.1: Cum in alienam familiam inque liberorum

locum extranei sumuntur, aut per praetorem fit aut per populum. Quod per praetorem fit, "adoptatio" dicitur, quod per populum, "arrogatio". Adoptantur autem, cum a parente, in cuius potestate

(36)

34

sunt, tertia mancipatione in iure ceduntur atque ab eo, qui adoptat, apud eum, apud quem legis actio est, vindicantur actio est vindicantur.

Gai., Inst. 1.134: Praeterea parentes etiam liberos in adoptionem

datos in potestate habere desinunt. Et in filio quidem, si in adoptionem datur, tres mancipationes et duae intercedentes manumissiones proinde fiunt, ac fieri solent, cum ita eum pater de potestate dimittit, ut sui iuris efficiatur. Deinde aut patri remancipatur, et ab eo is, qui adoptat, uindicat apud pretore filium suum esse, et illo contra non uindicante a praetore uindicanti filius addicitur, aut non remancipatur patri, sed ab eo uindicat is, qui adoptat, apud quem in tertia mancipatione est: sed sane commodius est patri remancipari. In ceteris uero liberorum personis, seu masculini seu feminini sexus, una scilicet mancipatio sufficit, et aut remancipantur parenti aut non remancipantur. Eadem et in prouinciis apud praesidem prouinciae solent fieri.

In entrambe queste testimonianze, dunque, come si vede, l’assunzione nella propria famiglia, in qualità di figlio, di un sottoposto all’altrui potestà è descritta come l’effetto di un procedimento complesso che consta di due fasi diverse: una prima volta a far uscire il filius dalla potestas del proprio pater familias, fase che si realizzava attraverso tres mancipationes del figlio ad un amico,

duae intercedentes manumissiones ed una eventuale39 terza

39 Cfr. C. Russo Ruggeri, La datio in adoptionem, I, Origine, regime giuridico e

riflessi politico-sociali in età repubblicana ed imperiale, Milano, 1990, p.13. Come

si legge nel brano, infatti, il giurista afferma possibile sia il caso che fosse il terzo fiduciario ad in iure cedere di fronte all’adottante, sia il caso invece che fosse lo

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35

remancipatio al pater40; e una seconda nel quale l’adottante rivendicava a sé l’adottato.

Per comprendere il motivo delle tres mancipationes bisogna fare riferimento a quanto detto da Gaio

Gai., Inst. 1.132: Praeterea emancipatione desinunt liberi in

potestate parentum esse. Sed filius quidem tribus mancipationibus, ceteri vero liberi sive masculini sexus sive feminini una mancipatione exeunt de parentum potestate; lex enim XII tabularum tantum in persona filii de tribus mancipationibus loquitur his verbis si pater filium ter venum duit, a patre filius liber esto. Eaque res ita agitur: mancipat pater filium alicui; is eum vindicta manumittit; eo facto revertitur in potestatem patris; is eum iterum mancipat vel eidem vel alii (sed in usu eidem mancipari) isque eum postea similiter vindicta manumittit; eo facto rursus in potestatem patris revertitur; tertio pater eum mancipat vel eidem vel alii (sed hoc in usu est, ut eidem mancipetur), eaque mancipatione desinit in potestate patris esse

Quindi Gaio fa derivare il sistema delle tre emancipazioni dalla

lex duodecim tabularum.

Vi è pero una prima questione che si presenta a proposito della norma “si pater ter filium venum duit, a patre filius liber esto” e

stesso pater naturalis, al quale il terzo avesse, infine, emancipato il filius, dichiarando quest’ultimo sistema “commodius”. La ragione per la quale la vindicatio

filii nei riguardi del pater, anziché dell’avente il sottoposto in mancipio, fosse

ritenuta preferibile è, tutt’oggi, discussa in dottrina.

40 È interessante rilevare, a proposito di questa prima fase del procedimento di

adozione, come Gai., Inst. 1.141 sottolinei espressamente che, ai suoi tempi, la mancipazione dei figli avveniva plerumque dicis gratia uno momento.

(38)

36

riguarda la sua effettiva attribuzione o meno proprio alla legislazione decemvirale.

Il problema nasce dal fatto che con le affermazioni contenute in Gaio e confermate in Tituli ex corpore Ulpiani 10.1, che esplicitamente riferiscono, come si è già visto la disposizione in oggetto alle XII tavole, contrasta una notizia di Dionigi di Alicarnasso, per il quale si tratterebbe invece di una legge romulea inserita successivamente nel testo decemvirale.

La letteratura quasi unanime ha rigettato il valore di tale testimonianza comunemente considerata un’anticipazione di Dionigi o della fonte da cui trasse la notizia.

Di recente però una considerazione in favore dell’effettiva credibilità di tale affermazioni è stata espressa in dottrina da Rabello, il quale dichiara che la circostanza che “la norma si trovi nelle XII tavole non mi sembra sufficiente ad escludere categoricamente la sua presenza anche prima di queste, tanto più che è lo stesso Dionigi che ricorda l’esistenza della norma anche nelle XII tavole”41

.

L’autore greco stesso però ammette di ignorare se si trattava di una norma scritta o una tradizione orale: il che, come ha rilevato il

41 Così A. M. Rabello, Effetti personali della patria potestas, Milano, 1979, p.31;

ma nello stesso senso, più recentemente A. Corbino, Schemi giuridici

dell’appartenenza nell’esperienza romano arcaica, in La proprietà e le proprietà,

Milano, 1988, p.7 ss. Sia pure dubitativamente, in favore della credibilità della notizia fornitaci da Dionigi si è espresso poi L. Capogrossi Colognesi, La struttura

della proprietà, Milano, 1969, p.223. In questa direzione però anche C. Gioffredi, Funzioni e limiti della patria potestas, in Nuovi studi di diritto greco e romano,

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37

Tondo “rende palese che si tratta di una notizia, se non certo da lui inventata, per lo più priva d’una sicura base”42

.

Risulta quindi preferibile riferire proprio alle XII tavole l’effettiva introduzione della disposizione e ritenere pertanto la notizia di Dionigi un’anticipazione storica voluta a scopo di esaltazione dell’operato romuleo.

Ciò tanto più che, la norma non solo ben si omogeneizza con altre analoghe disposizioni concernenti il potere del pater pure contenute nella Lex duodecim tabularum, ma si concilia perfettamente, soprattutto, con il clima socio-politico del periodo in cui questa lex venne emanata.

Ammessa dunque la probabile origine decemvirale della norma, resta da chiarire ancora, quale fosse il suo effettivo significato e lo scopo per il quale i decemviri avessero stabilito la liberazione dalla potestà paterna per il filius, mancipato per tre volte.

È evidente, infatti, che, a seconda del valore che si ritenga di voler attribuire alla tab. 4.2, ne discendono differenti conclusioni in ordine al problema dell’originaria estinguibilità o meno della patria potestas e, di conseguenza, in ordine al problema della nascita della datio in

adoptionem.

Sono state avanzate nel tempo tre diverse proposte interpretative.

(40)

38

Una prima, sostenuta dal Lèvy-Bruhl, assegna alla norma decemvirale una funzione rafforzativa della potestas paterna.43

Partendo dal presupposto che all’epoca delle XII Tavole non era frequente la mancipatio dei figli, eccetto che per noxae deditio, l’autore ne ha dedotto, infatti, che la disposizione in oggetto doveva essere finalizzata a limitare il numero degli abbondanti nossali44 attraverso l’imposizione al pater familias che volesse far uscire il figlio delinquente dalla sua potestà, di un procedimento solenne, caratterizzato dalla triplice ripetizione dell’atto45.

Questa interpretazione troverebbe poi un ulteriore conforto, secondo l’autore, nella tipologia del meccanismo predisposto, giacché appare perfettamente conforme alla tecnica decemvirale il richiedere

43 L. Lèvy-Bruhl, Si pater filium ter venum duit, Paris, 1947, p.80 ss. La possibilità

che la tab. 4.2 rispondesse ad un fine di rafforzamento della patria potestas è ipotizzata anche da Capogrossi Colognesi, La struttura, cit., p.223 “si potrebbe infatti immaginare che, anteriormente, fosse sufficiente un’unica mancipatio del figlio e degli altri discendenti sottoposti alla patria potestas del capo famiglia perché questa si estinguesse. Le XII tavole avrebbero quindi potuto limitare questa immediata perdita della patria potestas estendendo la possibilità di mancipare il figlio, da una a tre volte. Questa ipotesi renderebbe più comprensibile il diverso regime che sembrerebbe esistere dopo le XII Tavole nei riguardi del figlio maschio rispetto agli altri discendenti, la norma decemvirale avrebbe infatti innovato il regime relativo alla mancipatio del figlio maschio, mentre quello relativo agli altri discendenti sarebbe rimasto invariato: per questi ultimi la patria potestas continuava a perdersi con la prima mancipazione”.

44 L’azione nossale è un istituto giuridico di natura penale. Attraverso questa azione

il pater familias o il dominus metteva a disposizione della vittima del reato, o al suo

pater familias, il soggetto che l’aveva commesso. Per un inquadramento generale

delle azioni nossali, si veda V. Arangio-ruiz, Istituzioni, Napoli, 1984, p.365-366; M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990 p.620; B. Biondi,

Actiones noxales Cortona, 1925; G. Pugliese, Appunti in tema di azioni nossali,

Padova, 1950, p.113-154.

45 Lèvy-Brhul, Si pater filium, cit., p.86. Proprio perché si trattò fin dall’inizio di un

cerimoniale esplicitamente predisposto, le tre emancipazioni cui si fa riferimento nella norma, non erano secondo l’Autore “trois mancipations effectives et distinctes

accomplies… mais d’une seule et meme operation, trois fois rèpètèè, avec la meme acquereur”.

(41)

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la triplice ripetizione di un atto, come dimostra il paragone analogico con gli altri istituti della obvagulatio46, e della trinocti usurpatio47.

Se si accedesse a questa interpretazione della tab. 4.2, ai nostri fini necessariamente conseguirebbe.

Che prima delle XII Tavole anche una sola mancipatio sarebbe bastata ad estinguere la patria potestas, sia per il filius, sia per le

filiae; e che fu proprio l’intervento decemvirale, nel prevedere il

meccanismo della triplice mancipatio per la liberazione del filius

falimilias maschio, a rendere per questi inestinguibile l’autorità

paterna, se non in seguito al compimento del cerimoniale ivi descritto. Ad esiti completamenti differenti, condurrebbe l’accoglimento di una diversa interpretazione della tab. 4.2, secondo la quale la norma avrebbe inteso invece, creare un procedimento formale di estinzione della potestà paterna.

Tale è l’idea del Kaser48

, per il quale appunto scopo della disposizione sarebbe stato quello di apprestare un apposito meccanismo che rendesse possibile la liberazione , fino a quel momento inammissibile, del filius dalla patria potestas.

A seguire questo orientamento, se ne avrebbe:

46 F. Arcaria, O. Licandro, Storia costituzionale di Roma, Torino, 2014, p.98, colui

che, senza ragione, rifiutava la testimonianza poteva subire dinnanzi alla propria porta e per tre giorni il grido di formule di maledizione e di infamia (XII Tavole 2.3:

cui testimonium defuerit, is tertiis diebus ob portum obvagulatum ito).

47 Provvedimento legislativo connesso all’usus, in base al quale, se una donna,

durante l’anno di convivenza, lasciava la casa maritale per tre notti consecutive, il marito non poteva esercitare su di lei la manus.

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