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La ricezione della scultura manierista in Francia nel Sei e Settecento

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Introduzione generale

Il Manierismo ieri e oggi

Egli [Vasari] ha lodato ne’ suoi scritti il tirar via di pratica; cioè il cavar dall’esercizio e dagli studi già fatti quanto si va dipingendo. Il metodo quanto è vantaggioso all’artista, che così moltiplica o suoi guadagni; altrettanto è nocivo all’arte, che per tale via urta necessariamente nel manierismo, o sia alterazione dal vero1.

Alla piuma di Luigi Lanzi in questa frase del 1792 si deve la prima comparsa del termine «manierismo». Etimologicamente derivante da «maniera», la sua apparizione è successiva a quella dell’aggettivo «manierista» il quale, seppur non di uso frequente nella letteratura artistica, è già impiegato in lingua francese da Fréart de Chambray nel 16482. Il senso di «manierismo» secondo il Lanzi è però sensibilmente diverso da quello accettato solitamente dallo storico dell’arte odierno.

L’uso del termine «manierismo» nella Storia pittorica dell’Italia si iscrive in effetti, alla tradizione storiografica del Settecento e non indica soltanto l’arte del Cinquecento, ma piuttosto un carattere sintomatico di una determinata pratica artistica, quella dell’imitazione dei maestri e della ripetizione di se stesso. Ne troviamo anche una concisa definizione nel dizionario di Pernety: «un pittore ammanierato è colui che si ripete in tutte le sue opere, che si allontana dalla verità della natura, e che da alle figure dei suoi quadri sempre lo stesso colore, senza

1

Luigi Lanzi, Storia pittorica dell’Italia inferiore o sia delle scuole fiorentine, senese romana

napolitana compendiata e ridotta a metodo per agevolare a’ dilettanti la cognizione de’ professori e de’ loro stili, Firenze, 1792, p. 96.

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consultare il colore locale, che non varia i tratti dei suoi volti, i caratteri, e che ubbidisce solo ai propri capricci. Alcuni danno a questi scarsi Artisti il nome di Manieristi, ma questo termine non è di buon uso»3. Una tale definizione rivela, fin dalle origini, la chiara connotazione negativa che accompagna la nozione di «manierista». Con la formula «non è di buon uso» Pernety intende sottolineare un uso improprio del lemma «maniéristes» nel canone linguistico della lingua transalpina, dato che non lo ritroviamo nel dizionario ufficiale della lingua francese4. Si trattava dunque di un tecnicismo usato solo da alcuni Connoisseurs e ristretto al circolo degli ambienti delle accademie artistiche, un termine assai raro tanto da non essere segnalato neppure da Claude-Henri Watelet e Pierre-Charles Lévesque nell’importante Dictionnaire des Beaux-Arts pubblicato pochi anni prima del volume di Lanzi5.

La comparsa decisiva e ricorrente dei due derivati di «maniera» nella Storia

pittorica dell’Italia di Lanzi, «manieristi» e «manierismo», deve essere ricollegata a

quel contesto ben preciso e caratteristico delle riflessioni di fine Settecento, ovvero alla preoccupazione generale di classificare tutte le conoscenze dentro un elaborato sistema globale. Il ruolo svolto dal lavoro tassonomico dei naturalisti, impegnati nell’ordinamento degli organismi viventi, non deve essere trascurato poiché influenzerà una nuova visione della storia dell’arte contrapposta a quella tradizionale, ad esempio, dei compendi biografici come le Vite di Vasari6. In questo contesto, il suffisso –ismo si presenta come un sostantivo con il valore di categorizzazione riconducendo ad un insieme di caratteri propri di un determinato

3 Antoine-Joseph Pernety, Dictionnaire portatif de peinture, sculpture et gravure…, Parigi, 1757,

pp. 401-402: «Un peintre maniéré est celui qui se répète dans tous ces ouvrages, qui sort du vrai de la nature, et qui donne aux figures de ses tableaux une couleur toujours la même, sans consulter la couleur locale; qui ne varie pas ses airs de tête, ses caractères, et qui ne fait guères que son caprice. Quelques uns donnent à ces mauvais Artistes e nom de Maniéristes; mais ce terme n’est pas du bon usage».

4 Nel Dictionnaire de l’Académie françoise, è presente la voce «Manière», l’aggettivo «maniéré», ma

non il sostantivo «maniériste» in nessuna delle edizioni settecentesche del dizionario. Cfr.

Dictionnaire de l’Académie françoise, Parigi, 1718, p. 58; quarta ed. riv. e aum., Parigi, 1786, II, p.

60; quinta ed. riv. e aum., Parigi, 1798, p. 65; sesta ed. riv. e aum., Parigi, 1835, II, p. 71.

5 Cfr. Claude-Henri Watelet, Pierre-Charles Lévesque, Encycopédie méthodique: Dictionnaire des Beaux-Arts, Parigi, 1788, I, pp. 490-492.

6 La nascita del termine «manierismo» è stato oggetto di uno studio approfondito realizzato nel quadro

della tesi di laurea. Cfr. Emilie Passignat, La réception du Maniérisme dans les théories de l’art en

France aux XVIIe et XVIIIe siècles, tesi di laurea, relatore Martial Guédron, Università di Strasburgo,

2003. Si veda anche Jean-Claude Lebenstein, La taxinomie des historiens, in Annexes – de l’œuvre

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gruppo di individui. Il termine «manierismo» nasce dunque dalla necessità di designare un gruppo di artisti definiti «manieristi», perché ammanierati, e nel testo di Lanzi è impiegato sistematicamente per indicare la degenerazione di uno stile, specialmente per quanto riguarda gli artisti di fine Cinquecento. È con questa accezione a dir poco negativa che «manierismo» compare alla fine del Settecento nello stesso momento in cui anche la storia dell’arte diventa disciplina scientifica.

A livello storiografico, questa origine semantica ha occasionato non poche difficoltà nel corso del Novecento perché «manierismo» è presto diventato un termine associato all’arte del Cinquecento nel quadro della periodizzazione della storia dell’arte7. Quindi, mentre per alcuni studiosi, è servito a designare nello spazio e nel tempo un periodo ben preciso, una parte del Cinquecento durante la quale si osserva la diffusione di uno medesimo stile in tutta Europa –in questo senso possiamo parlare di un Manierismo con la “M” maiuscola–, altri hanno continuato ad applicarlo in maniera più generale, seguendo l’esempio di Luigi Lanzi, tramite una lettura della storia impregnata della nozione di progresso delle arti, definendo così una fase «degenerativa» di un movimento artistico –un manierismo con la “m” minuscola8.

L’ambiguità intrinseca dovuta all’accavallamento delle due accezioni pose evidentemente dei notevoli problemi nel momento in cui gli storici dell’arte presero in esame per definire più precisamente il cosiddetto Manierismo. Le molteplici sfaccettature dell’arte del Cinquecento risultavano difficilmente associabili a questa nozione e il termine si stringeva sempre più intorno a dei preconcetti peggiorativi,

7

Si veda l’importante saggio di Giovanni Previtali, La periodizzazione della storia dell’arte italiana, in Storia dell’arte italiana, 1979, vol. 1; nonché il contributo di Robert Sayce, Maniérisme et

périodisation: quelques réflexions générales, in Renaissance, Maniérisme, Baroque, (atti del

convegno di Tours, 1968), Parigi, 1972, pp. 43-55.

8

Sulla ricezione del Manierismo nel Novecento, si veda Giusta Nicco Fasola, Storiografia del

Manierismo, in Scritti di Storia dell’arte in onore di Lionello Venturi, Roma, 1956, I, pp. 429-447;

Eugenio Battisti, Sfortuna del Manierismo, in Rinascimento e Barocco, Torino, 1960, pp. 216-237; Giuliano Briganti, La maniera italiana (Roma, 1961), Firenze, 1985, pp. 8-9; Jan Bialostocki,

Der Manierismus zwischen Triumph und Dämmerung. Ein Forschungsarbeit, in Stil und Ikonographie. Studien zur Kunstwissenschaft, Dresde, 1966, pp. 83-105; Esther Nyholm, Appendice: rassegna critica degli ultimi studi sul Manierismo e sui manieristi, in Arte e teoria del Manierismo,

Odense, 1977, pp. 199-235; Eugenio Battisti, Per un’ampliamento del concetto di manierismo, «Annali dell’Istituto italo-germanico in Trento», III, 1977, p. 321 sgg; Richard Studing, Elisabeth Zurz, Mannerism in Art, Litterature and Music: a bibliography, San Antonio, 1979; Antonio Pinelli,

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diventando un vero e proprio vincolo da superare. Lasciamo la parola, per esemplicare, ad alcuni tra i più importanti studiosi che si sono espressi su questo soggetto. Secondo Jean-François Revel, il «Manierismo» era un’invenzione del Novecento; una vittima dell’antica nozione storiografica di progresso delle arti, secondo Ernst Hans Gombrich; un concetto confuso che ha tendenza a invadere il campo di diverse discipline per Henri Zerner e Nicole Golay9. Robert Rosenblum parlò di «camicia di forza semantica che è diventata impossibile sia da usare che da abbandonare», definendo il tal senso una metafora quanto più efficace per tradurre le nozioni di etichette astratte costituite dai termini Manierismo, Neoclassicismo e Romanticismo10. Una equivalente immagine è espressa da Eugenio Battisti per concludere il suo ragionamento in merito alla questione delle definizioni:

Una definizione ha la stessa funzione del cartellino apposto a una scatola, cioè di servire a far ordine accumulando cose non troppo disparate fra di loro in un solo contenitore; tuttavia trattandosi di un ordine concettuale, la scatola, che diviene perciò magica, non serve tanto a riporvi sotto naftalina cose ovvie, quanto a produrre insoliti accostamenti. Dentro il cassetto Manierismo è nato, alla fine, una tremenda confusione, che si risolverà soltanto fabbricando altre scatole, ed attaccando ad esse altri cartelli; è probabile però che tutto lo scaffale che sarà da esse occupato conserverà l’etichetta iniziale, in quanto non riusciremmo a trovare sotto altre intitolazioni tutto ciò che qui abbiamo trovato11.

Questi ricchi dibattiti incentrati sulla ridefinizione e sulla rivalorizzazione storica di un periodo artistico hanno in tal modo favorito la moltiplicazione di studi sul Manierismo spostando, specialmente in questi ultimi quindici anni, la loro attenzione dai foyers iniziali, ai caratteri regionali e alla diffusione internazionale dell’arte della

La bella Maniera. Artisti del Cinquecento tra regola e licenza, Torino, 1993, pp. 33-41; Renato

Barilli, Maniera moderna e Manierismo, Milano, 2004.

9 Cfr. Jean-François Revel, Une invention du XXe siècle, le maniérisme, «L’Œil», 131, 1963, pp. 2-14,

63-64; Ernst Hans Gombrich, The Historiographic Background of the Concept of Mannerism, in

Studies in Western Art: Acts of the Twentieth International Congress of the History of Art, Princeton,

1963, pp. 163-173; Henri Zerner, Observation on the Use of the Concept of Mannerism, in The

Meaning of Mannerism, Hanover, 1972, pp. 105-121; Nicole Golay, Le Maniérisme: problème de définition, problème de périodisation, «Etudes de lettres», 4, 1995, pp. 105-114.

10 Robert Rosenblum, Transformations in Late Eighteen Century Art, Princeton, 1967, p. vii: «these

semantic straitjackets, like the term Mannerism, have become impossible either to live with or to live without».

11 Eugenio Battisti, Gli ultimi dieci anni di discussione sul Manierismo, in Manierismo e letteratura, a

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Maniera indagando, per riprendere l’immagine descritta da Eugenio Battisti, le «altre scatole»12.

La ricezione della scultura manierista

Abbiamo presto constatato però come la questione della scultura sia stata trascurata nell’ambito degli studi sul Manierismo. La rivalutazione novecentesca dell’arte del XVI° secolo si è basata principalmente sulla pittura. Così, Max Dvořák si dedica essenzialmente a El Greco; Walter Friedlander fornisce le caratteristiche di uno stile di pittura; per Luisa Beccherucci, i maniersiti toscani sono dei pittori; Gustave René Hocke concepisce la sua visione ciclica dei fatti in funzione della pittura e dell’incisione; Giuliano Briganti focalizza l’attenzione sugli spostamenti, le influenze e le differenti generazioni di pittori; Sydney Joseph Freedberg dichiara fin dal titolo che si tratta esclusivamente di pittura, come anche Friedrich Antal13. Robert Studing ricorda che per alcuni storici dell’arte, il termine «manierismo» dovrebbe essere applicato soltanto alle arti visive, e forse anche solo alla pittura e all’incisione14. Non coinvolti nei dibattiti degli anni sessanta, alcuni studi di scultura

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La bibliografia degli studi sul Manierismo nell’ultimo ventennio è fin troppo copiosa per essere riassunta in una nota. Si segnalano, per quanto riguarda i saggi critici, a prescindere dal decisivo contributo di Antonio Pinelli già citato che segna una svolta storiografica verso nuove ricerche, anche il libro di Daniel Arasse, Andreas Tönnesmann, La Renaissance maniériste, Parigi, 1997, e in Germania Emil Maurer, Manierismus. Figura serpentinata und andere Figurenideale. Studien,

Esseys, Berichte, Zurigo, 2001. Tra le numerose pubblicazioni sulla diffusione dei caratteri manieristi

a livello regionale e internazionale, si pensi soprattutto alle ricerche sul manierismo veneziano e in particolar modo al contributo di Massimilano Rossi, Maniera e manierismi veneti, in Da Bellini a

Veronese: temi di arte veneta, a cura di Gennaro Toscano e Francesco Valcanover, Venezia, 2004, pp.

411-441; per quanto riguarda la diffusione e la fortuna europea della Maniera si menzionano soprattutto due mostre: Parmigianino e il manierismo europeo (catalogo della mostra di Parma, 8 febbraio-15 giugno 2003, Vienna, 4 giugno 14 settembre 2003), a cura di Lucia Fornari Schianchi e Sylvia Ferino-Pagden, Cinisello Balsamo, 2003, una mostra preceduta dall’importante incontro

Parmigianino e il manierismo europeo (atti del convegno, Parma 13-15 giugno 2002), a cura di Lucia

Fornari Schianchi, Cinisello Balsamo, 2002; Giambologna gli eroi gli dei: genesi e fortuna di uno

stile europeo nella scultura (catalogo della mostra di Firenze, 2 marzo 2006-15 giugno 2006), a cura

di Beatrice Paolozzi Strozzi e Dimitrios Zikos, Firenze, Giunti, 2006, seguita da Giambologna:

Triumph des Körpers (catalogo della mostra di Vienna, 27 giugno-17 settembre 2006), a cura di

Wilfried Seipel, Milano, 2006.

13

Max Dvořák, Über Greco und der Manierismus, in Max Dvořák zum Gedächtnis, Vienna, Hölzel, 1924, pp. 22-42; Walter Friedlaender, Die Entstehung des antiklassischen Stiles in der italienischen

Malerei um 1520, «Repertorium für Kunstwissenschaft», 46, 1925, pp. 49-86; Luisa Becherucci, Manieristi toscani, Bergamo, 1949; Gustave René Hocke, Die Welt als Labyrinth: Manier und Manie in der europäischen Kunst; Beiträge zur Ikonographie und Formgeschichte der europäischen Kunst von 1520 bis 1650 und der Gegenwart, Hamburg, Rowohlt, 1957; Giuliano Briganti, op. cit., 1961;

Sydney Joseph Freedberg, Painting in Italy 1500-1600, Middlesex, 1971; Friedrich Antal, La Pittura

italiana tra classicismo e manierismo, Roma, 1977. 14 R. Studing, cit., p. 3.

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sono in ritardo, o ai margini, delle evoluzioni lessicali nuovamente emerse. John Pope-Hennessy ad esempio asserisce nel 1968 che «nel suo senso storico legittimo, Manierismo non è altro che un sotto stile della scultura del Rinascimento, una breve parentesi all’interno di uno sviluppo che va dal rilievo sperimentale del Brunelleschi fino alla dissoluzione finale degli ideali e dello stile del Rinascimento nella scultura della maturità di Bernini»15. Per Pope-Hennessy, dunque, il Manierismo non è concepito come un periodo artistico in sé per sé e non sembra neppure considerarlo una fase storica rilevante.

A partire dagli anni Trenta del secolo scorso, iniziava una nuova fase storiografica per la scultura del Cinquecento con la svolta dei tre volumi di Adolfo Venturi dell’imponente Storia dell’arte italiana16. Parallelemente alcuni studiosi dell’istituto germanico di Firenze, tra i quali Freidrich Kreigbaum e Ulrich Middeldorf, lavoravano alle stesse ricerche, in particolare alla scultura fiorentina del dopo Michelangelo. Herbert Keunter realizzò durante i due decenni successivi un importante lavoro di spoglio degli archivi con l’intento di documentare l’attività di questi scultori. Fino agli anni Sessanta, la gran parte degli studi, eccetto quelli di Keunter, integrano quella nozione di decadenza che affligge le opere dell’epoca della Maniera. In tal senso, possiamo nuovamente citare un’osservazione di Pope-Hennessy che illustra bene tale schema interpretativo: «Quando si guardano le statuette di bronzo di Giambologna, si ha la sensazione che dopo i tumulti e la tensione della metà del secolo, la nave torna sana e salva in porto. Le nuvole si sono dileguate e il sole splende di nuovo sopra un’arte edonista senza ombra»17. Questa immagine un pò caricaturale che porta in sé ancora una visione ciclica della storia dell’arte è ben più esplicitamente espressa da Robert de Fanqueville, autore di una monografia sul suo antenato scultore di Cambrai: «L’epoca durante la quale Pietro Francavilla ha soggiornato in Italia (1572-1605) corrisponde alla decadenza dell’arte

15 John Pope-Hennessy, High Renaissance and Baroque sculpture (1963), Londra, 1968, p. 3: «In its

legitimate historic sense, Mannerism is no more than a substyle of Renaissance sculpture, a brief parenthesis in a development that leads from the trial relief of Brunelleschi to the final dissolution of Renaissance ideals and Renaissance style in the mature sculpture of Bernini».

16

Adolfo Venturi, Storia dell’arte italiana. X. La Scultura del Cinquecento, Milano, 1935-1937.

17 J. Pope-Hennessy, cit., 1968, p. 101: «As we look at Giovanni Bologna’s small bronzes, we have

the sense that, after the turmoil and stress of the middle of the century, the ship has come safely into shore. The clouds have dispersed, and the sun pours down on an unashamedly hedonist art».

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italiana»18. Sottolineiamo en passant quanto questi due studiosi riassumino il problema maggiore della fortuna del Giambologna, spesso altanelante tra Maniera e Barocco, decadenza e rinascita, rinascita e decadenza. In effetti, malgrado le numerose riflessioni e i fruttuosi dibattiti, il termine «manierismo» in scultura non verrà accettato facilmente, soprattutto per quanto riguarda Giambologna. Nel 1978, nell’importante catalogo sulla retrospettiva dello scultore di Douai, Charles Avery e Anthony Radcliffe preferiscono non usare questa parola. Dopo gli anni Settanta, gli studi sulla scultura della Maniera abbandonarono la visione negativa arretrata e venivano progressivamente abbandonate queste reticenze lessicali, preferendo il termine Maniera19. Nella storiografia novecentesca, la scultura della Maniera ha dunque seguito un percorso parallelo alla pittura dello stesso periodo, restando però ai margini dei dibatti intorno alla definizione generale del Manierismo.

L’analisi della storiografia artistica dalla fine del XIX° secolo in poi, di cui abbiamo appena presentato soltanto alcuni cenni, mette in evidenza diverse attitudini critiche nei confronti delle sculture del XVI° secolo. Tutti gli approcci, però, trascurano la loro fortuna durante il Sei e Settecento, concentrandosi esclusivamente sulla ricezione del Manierismo nel corso del Novecento. L’intento di questa ricerca è dunque quello di focalizzare l’attenzione proprio su questi secoli per ricomporre la fortuna critica e visiva di tali opere attraverso un esame sia delle fonti testuali sia di quelle iconiche andando, in quest’ultimo caso, a indagare ciò che gli artisti hanno ritenuto e fissato dentro la loro personale produzione.

La scelta di concentrarci sulla scultura della Maniera, all’interno di un campo d’investigazione così vasto come quello della ricezione del Manierismo, ci permette di sviluppare le riflessioni incentrate attorno alla problematica della rappresentazione del corpo, un tema fondamentale per gli artisti del Cinquecento, come anche per la teoria dell’arte dei secoli successivi. La scultura della Maniera si presenta quindi come un caso paradigmatico della ricezione del Manierismo. L’analisi della sua

18 Robert de Francqueville, Pierre de Francqueville, sculpteur des Médicis et du roi Henri IV (1548 - 1615), Parigi, 1968, p. 121: «L’époque pendant laquelle Pierre de Francqueville a séjourné en Italie

(1572-1605) correspond à la décadence de la Renaissance italienne».

19 Resta fondamentale la sintesi di Detlef Heikamp, Sulla scultura fiorentina fra Maniera e Controriforma, in Magnificenza alla corte dei Medici. Arte a Firenze alla fine del Cinquecento,

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fortuna non mira soltanto a rendere conto di una serie di cosiddetti revivals durante il Sei e Settecento, ma vuol sfociare su delle riflessioni più articolate concernenti certi aspetti attinenti alla percezione della scultura e alla teoria dell’arte.

Anzitutto dobbiamo precisare che per scultura manierista intendiamo l’insieme delle produzioni scultoree da Michelangelo a Bernini esclusi, prevalentemente italiane ma anche, seppur marginalmente, tutte quelle opere che manifestano il medesimo stile in Francia, con la scuola di Fontainebleau, e nelle città del Nord Europa come la Praga di Rodolfo II. Un accento particolare sarà posto sulla scultura fiorentina imbevuta dell’insegnamento di Michelangelo avendo riscosso, come vedremo, una maggior attenzione da parte dei commentatori, dei teorici e degli artisti.

L’area geografica e la cronologia coperta dallo studio è la Francia del Sei e Settecento. Tale delimitazione spaziale iscrive la nostra ricerca nel campo degli studi delle relazioni artistiche tra l’Italia e la Francia. L’intervallo di tempo può essere maggiormente precisato considerando ai limiti, rare saranno le incursioni anteriori e posteriori, due date importanti a livello storico e artistico: il 1610 e il 1815. Dal punto di vista storico, esse corrispondono rispettivamente all’inizio della Reggenza di Maria de’ Medici e alla caduta del Primo Impero francese. Sul piano artistico, invece, sono gli anni della morte del caposcuola Giambologna, nel 1608 e della fine del periodo neoclassico. Volendo anche definire la cronologia riferita al corpus delle opere studiate, il punto di partenza fondamentale risulta il Monumento equestre di

Enrico IV installato sul Pont-Neuf a Parigi nel 1614, opera di Giambologna, di Pietro

Tacca e di Pietro Francavilla. Questo monumento costituisce il primo caso di ricezione della scultura della Maniera in un contesto artistico già orientato verso una diversa estetica, tanto da rappresentare l’ultimo trait-d’union che lega la scultura della Maniera alla Francia. Il limite superiore del corpus è rappresentato dal Leonida

alle Termopili elaborato da Jacques-Louis David per ben quindici lunghi anni,

terminato nel 1814 e esposto solo per pochi mesi nello studio del pittore prima del suo esilio.

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I «mille segni» della ricezione

La nozione di ricezione in quanto vero e proprio campo di ricerca della storia dell’arte è assai recente e deriva, almeno in parte, dalla cosiddetta fortuna critica basata sull’analisi delle fonti testuali storiografico-artistiche e in taluni casi letterarie20. Di non certo minor peso è la componente che riprende e riattualizza il concetto un pò desueto di influenza, ossia l’esame dell’impatto artistico e soprattutto delle reminiscenze artistiche di un’opera, o dell’intera opera di una artista, dopo il suo decesso21. Tradizionalmente, la questione della fortuna critica integrava lo schema tradizionale della monografia d’artista. Fu Roberto Longhi a dare un notevole slancio a questo tipo di soggetti con il lavoro su Piero della Francesca e Caravaggio22. L’importante saggio di Giovanni Previtali sulla fortuna dei primitivi, pubblicato nel 1964, può essere definito come il primo studio che segue la metodologia della ricezione, aprendo nuove prospettive di indagini su quello che è diventato oggi un settore storico-artistico a se stante, ovvero la storia del gusto23. Nella nota introduttiva alla nuova edizione della Fortuna dei Primitivi di Giovanni Previtali, Enrico Castelnuovo commentava l’approccio dell’autore, sottolineando come egli abbordasse il problema della fortuna raccogliendo «i mille segni, le mille traccie d’interesse»24. Il nostro studio intende seguire proprio questa linea direttrice

20

Su tema della ricezione nella storia dell’arte si veda il numero 35/36 della rivista Histoire de l’art,

Réception, Diffusion, nel quale sono pubblicati in particolare gli articoli di Dario Gamboni, Histoire de l’art et ‘réception’: remarques sur l’état d’une problématique, «Histoire de l’art», 35/36, 1996, pp.

9-14; Pierre Vaisse, Du rôle de la réception dans l’histoire de l’art, «Histoire de l’art», 35/36, 1996, pp. 3-8; Olivier Bonfait, Réception et diffusion. Orientations de la recherche sur les artistes de la

période moderne, «Histoire de l’art», 35/36, 1996, pp. 101-114.

21 Sul concetto di modello artistico e di influenza, si veda il volume tematico della rivista Histoire de l’art, curato da France Nerlich, Modèles et transferts, Parigi, 2009.

22

Roberto Longhi, Piero della Francesca, Roma, Valori Plastici, 1927, pp. 125-155; Idem, La

«Fortuna storica» di Piero della Francesca dal 1927 al 1962, «Paragone Arte», 14, 1963, 159, pp.

3-26. Longhi allegò uno studio sulla Fortuna storica del Caravaggio in appendice della monografia sul pittore pubblicata nel 1968, studio presentato in forma di conferenza a Milano, presso il Circolo della stampa, il 16 luglio 1951 (cfr. Longhi, Caravaggio, Roma, 1968, pp. 47-50). Sulla ricezione del Caravaggio, si segnala anche il libro di André Berne-Joffroy, Le dossier Caravage, Parigi, 1959.

23 Giovanni Previtali, La Fortuna dei primitivi da Vasari ai neoclassici, Torino, 1964. Si deve anche

menzionare gli importanti lavori di Francis Haskell, Rediscoveries in Art. Some aspects of Taste,

fashion and collecting in England and in France, Ithaca, 1976; Idem e Nicholas Penny, Taste of the Antique, the Lure of classical Sculpture, 1500-1900, New Haven, 1981; Francis Haskell, Past and Present in Art and Taste: selected essays, New Haven, 1987.

24 Giovanni Previtali, La Fortuna dei Pimitivi, con nota introduttiva di Enrico Castelnuovo, Torino,

1989, p. xxviii: «Attraverso queste operazioni eseguite con un’attenzione che procura di riunire, i mille segni, le mille traccie di interesse per le opere dei primitivi dovunque essi si manifestassero, non tanto, quindi, negli scritti dei teorici, non solo, come Longhi aveva ammonito, «in attività specifica, in opere d’inchiostro», quanto nelle osservazioni degli antiquari, nelle scelte dei collezionisti, nei disegni

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tenendo conto degli ulteriori contributi, anche i più recenti, che riflettono su tale metodologia25.

Al contempo, non ci sembrava del tutto sufficiente accontentarsi di una tradizionale ripartizione delle categorie del Curieux, dell’Amateur e del Connoisseur poiché il pubblico delle opere studiate era in realtà molto variegato, e ogni dettaglio dell’attività di un individuo può influire come fattore esterno alla percezione dell’opera. Abbiamo cercato allora di allargare il cerchio dei commentatori diversificando le tipologie delle testimonianze visive e testuali degli attori della ricezione. Gli artisti che copiano o si ispirano alle sculture della Maniera e gli autori dei testi che scrivono delle medesime sculture, rappresentano una pleiade di personaggi tra i quali contiamo anche il pensionnaire dell’Accademia di Francia a Roma, il pittore provinciale, il pittore del re, il pittore dell’imperatore, lo scultore del re, lo stuccatore, l’architetto, il disegnatore, l’incisore, l’Académicien, il trattatista, il teorico, il critico, l’erudito, l’antiquario, il collezionista, l’«amatore di scultura», il «Viaggiatore Curioso», il filosofoso, il medico, il geografo, l’epicureo. Tutte queste figure esprimono una propria opinione o almeno dimostrano un certo interesse nei confronti della scultura della Maniera.

L’insieme di queste testimonianze testuali e visivi costituiscono il nostro corpus di studio. Per quanto riguarda la parte testuale del corpus, ritroviamo un importante numero di pubblicazioni riferite alla letteratura artistica, ma anche a un’altra categoria indispensabile per lo studio della ricezione, ovvero la letteratura odeporica. Quanto alla parte visiva del corpus, essa è costituita da due tipologie di opere che potrebbero essere definite da un lato «corpus mediante», dall’altro «corpus risultante». Alla prima categoria appartengono le produzioni artistiche derivanti dalle sculture con un grado d’interpretazione relativamente minimo. Si tratta dell’incisione, della riproduzione a scala ridotta come il bronzetto e del disegno eseguito davanti alla scultura. Sono da considerare come dei media della ricezione perché fungono da mediatore tra l’opera di scultura e il commentatore o tra la e nelle copie dei pittori, nell’espandersi delle richieste, nell’attività di resauratori, e, finanche, di falsari, si assiste al progressivo mutarsi di un rapporto con il passato, con le sue opere, con i suoi monumenti ».

25 Da segnalare in particolar modo Raphaël Rosenberg, Beschreibungen und Nachzeichnungen der Skulpturen Michelangelos: eine Geschichte der Kunstbetrachtung, Monaco, 2000 e Giovanni Agosti, Su Mantegna, Milano, 2005.

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scultura e l’artista26. Il medium del disegno dalla scultura, come anche dell’incisione, rappresentano l’equivalente visivo del commento testuale dell’opera. Attraverso il tracciato del disegnatore, che sceglie un punto di vista e seleziona alcune parti a scapito di altre, si rivela il gusto e l’interpretazione personale dell’artista davanti al suo modello, allo stesso modo della parzialità dello scritto del critico. La seconda categoria, da noi chiamata «corpus risultante», raggruppa le opere d’arte in cui troviamo delle risorgenze di tipiche forme della scultura manierista, spesso reinterpretate tramite un’opera del «corpus mediante».

La metodologia della nostra indagine deve essere intesa come un percorso progressivo che dal generale sposta l’attenzione al particolare per indagare in profondità il soggetto studiato. Allo scopo di rendere conto delle criticità e dei diversi livelli interpretativi assunti dalle sculture nel corso del tempo, l’approccio segue l’ermeneutica di base ponendo un accento particolare sul contesto storico, artistico e teorico per percepire le condizioni e le circostanze delle risorgenze della Maniera.

In primis, l’incontro con la Maniera, ossia il confronto diretto con le opere

durante il cammino dei viaggiatori francesi in Italia, soprattutto in quei luoghi della scultura manierista, permette di far emergere il quadro della scultura in questione secondo lo sguardo della critica e degli artisti dell’epoca. In seconda battuta, con un’attenzione tutta rivolta alla Francia, ci siamo occupati degli aspetti più inerenti alla teoria dell’arte per mettere in rilievo il dilemma e il paradosso giunto al momento dell’integrazione di alcuni concetti o di alcune forme manieriste. A questo scopo, le reminiscenze della Maniera nella teoria e nell’arte ci hanno permesso di cogliere in quale misura fosse stata assimilata la lezione dispensata dagli artisti del Cinquecento. In ultimo, abbiamo puntato la nostra lente d’ingrandimento su un caso paradigmatico della risorgenza di una statua cinquecentesca nell’opera di un pittore tra il Sette e Ottocento: la comparsa del Mercurio di Giambologna nei dipinti di Jacques-Louis David.

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Anche il disegno dalla scultura diventa un mediatore tra il modello e l’artista che lo esegue, poiché rappresenta proprio l’immagine della scultura che l’artista desidera ritenere nel suo repertorio di forme e che servirà ta tramite al momento in cui l’artista lo userà come fonte d’ispirazione per una sua propria opera.

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