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Nóema – Numero 2, anno 2011 http://riviste.unimi.it/index.php/noema

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SUL REALISMO CRITICO DI GIULIO PRETI Carlo Sini

L’attuale discussione sulla oggettività trarrebbe gran vantaggio dal ricordare la lezione di Giulio Preti. Fondamentale è in proposito il recente libro di Fabio Minazzi Suppositio pro significato non ultimato. Giulio Preti neorealista logico (Mimesis, Milano 2011). Ricordo in particolare il capitolo quinto del capolavoro di Preti Praxis ed empirismo (1967 e 1975), intitolato «Il mondo reale». Che significa l’espressione “mondo reale”?, chiede Preti. Che cosa è la realtà? Che cosa signi-fica che qualcosa esiste?

Realtà ed esistenza sono categorie pseudo-cosali e poi sono termini non univoci (lo stesso deve dirsi per “verità”). Ciò a cui si deve guardare, dice Preti, sono i criteri di verificazione volta a volta impiegati. Cioè, direi io, le pratiche concrete poste in essere o in esercizio. È all’interno di differenti universi di di-scorso (e non solo di didi-scorso) che ogni cosiddetta esistenza assume il suo sen-so specifico. L’esistenza del numero 3 non ha il medesimo sensen-so della esistenza del mio cane, dice Preti, o della chimera e degli abitanti della luna. Questi oggetti hanno senso entro i limiti delle loro operazioni costitutive e non fuori di esse. Il medesimo vale per gli oggetti della scienza, come le particelle della fisica o i geni della biologia, ai quali Preti espressamente si richiamava adducendo chiari-ficazioni preziose ed essenziali, atte a evitare il molto diffuso, per non dire im-perversante, realismo ingenuo della mentalità scientistica diffusa (diffusa soprat-tutto, diceva Enzo Paci, da chi della scienza parla, ma non la fa).

Queste precisazioni non mancano però di riconoscere che, nel caso del-la realtà e deldel-la verità, esistono posizioni e spiegazioni che possiedono un mag-gior grado di realtà e di verità: di questo tipo sono appunto le conoscenze scientifiche. Maggior grado in che senso? Nel senso che la spiegazione scienti-fica produce effetti di più ampia portata rispetto al comune sapere prescientifi-co, spiegandone anche i limiti e le apparenze; e poi nel senso per cui la spiega-zione scientifica insegna procedimenti e risposte ai problemi largamente perfet-tibili in una verificabilità idealmente infinita: in a long run, diceva Peirce.

La vocazione pragmatistica di Preti viene perfettamente colta e illustra-ta da Fabio Minazzi; dal suo libro sopra ciillustra-tato traiamo una pagina di grande lu-cidità e importanza per il nostro dibattito sulla oggettività. Minazzi ricorda che nel 1951 Preti aveva dedicato un importante saggio a Dewey e la filosofia della scienza, dopo aver pubblicato, l’anno precedente, la sua traduzione del libro de-weyano Problemi di tutti. Per Preti la scienza, scrive Minazzi:

[…] non deve mai essere intesa come “un insieme di proposizioni teo-reticamente vere e/o praticamente utili” oppure, ancora, come una specifica “forma dello spirito”; la scienza è, invece, un modo d’essere, unità di un atteg-giamento specifico che si intreccia profondamente con l’affermazione della stessa democrazia: “l’avvento della democrazia coincide con l’avvento della scienza: l’uomo democratico è identicamente uguale all’uomo che è stato ed è protagonista della nuova scienza, e i destini della democrazia sono strettamente legati a quelli della scienza. In questa prospettiva l’atteggiamento scientifico coincide con l’atteggiamento critico-problematico […]. Ma allora, si potrebbe domandare, la scienza come si configura in questa impostazione? La scienza – risponde Preti, in sintonia con Dewey – “non è, né ha bisogno di essere, ricerca

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del necessario: essa è ricerca di significati, ossia di effetti (o più in generale di conseguenze) possibili delle manipolazioni della situazione data, manipolazioni che essa impara a fare mediante i suoi strumenti”. Su questo punto specifico l’apertura critica al trascendentale – di lontana ascendenza banfiana – consente allora a Preti di andare senz’altro oltre il pragmatismo di Dewey, perlomeno nella misura in cui il Nostro contamina criticamente il neopositivismo viennese con lo strumentalismo deweyano, attraverso la mediazione critica della lezione della semiotica morrisiana, senza peraltro dimenticare né la fenomenologia husserliana né la lezione del giovane Marx (pp.180-1).

Il neorealismo critico di Preti è dunque anche un realismo trascenden-tale (si veda appunto il quarto capitolo del libro di Minazzi intitolato «La rivalu-tazione del trascendentale di Giulio Preti e la prospettiva del neorealismo logi-co»). A quanti nutrono oggi sospetti e timori per la parola ‘trascendentale’ la lezione di Preti potrebbe essere di incalcolabile utilità (e così per coloro con i quali si relazionano, alleggerendo il peso delle reciproche incomprensioni). Lungi dall’essere un termine oscuro e vago, di inquietante astrusità tedesco-aristocratica, trascendentale in Preti (come del resto in Peirce e nello Husserl della Krisis) è, per così dire, la cosa più concreta e comune che ci sia. Esso designa le operazioni del vivere quotidiano, le pratiche di parola e di scrittura intese nel senso più lato, in quanto premessa e fondamento di tutti i nostri saperi e di tut-ti i nostri oggettut-ti. Premessa molto spesso non vista, saltata, dimentut-ticata o frainte-sa. Il compito critico della filosofia consiste allora nel riportarne alla luce gli ef-fetti, rendendone consapevoli i soggetti; i soggetti, come sono solito dire, in quanto essi sono anzitutto soggetti alle pratiche, prima e più che delle pratiche.

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