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Anomie and historical interpretation: Nazi Germany as “kingdom of chaos”

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Academic year: 2021

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Anomie and historical interpretation: Nazi Germany as “kingdom of chaos”

Maddalena Carli

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Abstract

The contribution traces the history of Behemoth. Structures and practices of National Socialism, the manuscript written by Franz Neumann in 1942 on commission from the American government, interested in understanding the functioning of the Third Reich in order to identify and arrest those responsible for a process to be held at the end of the conflict (the process of Nuremberg) and the purge of post-war Germany. Besides recalling the genesis of the work and some aspects of the intellectual profile of its author, exponent of the Frankfurt School during the years of New York exile, the work focuses on the interpretative novelty proposed by the Behemoth (consider the National Socialist state as a political system characterized by the - internal – struggle between several centers of power) and on the reason that has long concealed its importance for the understanding of the analyzed experience: the difficulty to deal with the modern, ideological and planning nature of fascistic attitudes.

Keywords: National Socialism; totalitarianism; policracy; anomie.

* Associate Professor of Contemporary History, Faculty of Political Sciences, University of Teramo. E-mail: madcarli@gmail.com

Carli, M. (2017). L’anomia e l’interpretazione storica: La Germania nazista come “regno del caos”. [Anomie and historical interpretation: Nazi Germany as “kingdom of chaos”]. Rivista di Psicologia Clinica, 2, 25-32. doi: 10.14645/RPC.2017.2.701

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L’anomia e l’interpretazione storica: La Germania nazista come “regno del caos”

Maddalena Carli

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Abstract

Il contributo ripercorre la storia di “Behemoth: Strutture e pratiche del nazionalsocialismo”, il volume scritto da Franz Neumann nel 1942 su committenza del governo americano, interessato a capire il funzionamento del Terzo Reich per poterne individuare e arrestare i responsabili in vista di un processo da tenere alla fine del conflitto (il processo di Norimberga) e dell’epurazione della Germania postbellica. Oltre a rievocare la genesi dell’opera e alcuni aspetti del profilo intellettuale del suo autore, esponente della Scuola di Francoforte durante gli anni dell’esilio newyorchese, il lavoro si sofferma sulla novità interpretativa proposta dal Behemoth (considerare lo stato nazionalsocialista come un sistema politico caratterizzato dalla lotta - interna - tra più centri di potere) e sul motivo che ne ha a lungo occultato l’importanza per la comprensione dell’esperienza analizzata: la difficoltà a confrontarci con la natura moderna, ideologica e progettuale, dei fascismi.

Parole chiave: Nazionalsocialismo; totalitarismi; policrazia; anomia.

* Professore associato di Storia contemporanea, Facoltà di Scienze politiche, Università di Teramo. E-mail: madcarli@gmail.com

Carli, M. (2017). L’anomia e l’interpretazione storica: La Germania nazista come “regno del caos”. [Anomie and historical interpretation: Nazi Germany as “kingdom of chaos”]. Rivista di Psicologia Clinica, 2, 25-32. doi: 10.14645/RPC.2017.2.701

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Anomia e storia

Sappiamo delle origini sociologiche del termine “anomia”, trasformato in categoria interpretativa da Émile Durkheim tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Nella sua progressiva migrazione verso altre discipline, l’anomia ha attirato in particolare l’attenzione dei filosofi del diritto, dei filosofi della politica e dei politologi, delle scienze politiche –in sintesi –nella loro ampia e non sempre chiarissima suddivisione interna. Un solo esempio, che meriterebbe una trattazione a sé: quello di Carl Schmitt (1888-1985), il giurista e filosofo politico tedesco che intitolò una delle sue opere più controverse sulla dottrina dello justum bellum:

Il nomos della terra; il titolo completo recita: Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”(Schmitt, 1974/2011). L’anomia è stata per contro raramente chiamata in causa dagli

storici, che hanno fatto ricorso ad altre modalità di descrizione della realtà sociale e delle sue conflittualità interne.

Nello studio di alcuni processi del passato, tuttavia, è stato fatto un esplicito riferimento alla categoria di derivazione durkheimiana. La storiografia l’ha utilizzata, nello specifico, per provare a comprendere le caratteristiche di alcune esperienze particolarmente drammatiche e traumatiche (“trauma” nel senso di rottura dirompente dei costumi e delle modalità della convivenza sociale), come la vita nelle trincee della prima guerra mondiale, quando per mesi i soldati furono costretti a coesistere in spazi angusti, scomodi, molesti, anti-igienici, in una continua promiscuità non soltanto tra loro, ma con la morte: con i cadaveri dei compagni, o con gli arti dei loro corpi straziati dalle bombe; con i topi e con i vermi; con le baionette e con le granate, per limitarci ad alcuni degli oggetti che maggiormente ricorrono nelle descrizioni che sono giunte fino a noi sotto forma di diari, missive, disegni o appunti (Leed, 1979/1985; Mosse, 1990). Recentemente, di anomia si è tornati a parlare in relazione ai momenti di “passaggio”. Passaggi, per esempio, è un libro della storica romana Mariuccia Salvati (2017), sulle cesure della storia d’Italia; non sull’Italia liberale, o sul fascismo, o sulla Repubblica, ma sui processi di transizione che hanno portato dall’uno all’altro ordinamento statale, quando è l’assenza di regole, il crollo delle vecchie regole senza che ne siano state codificate di nuove, a predominare e a rendere difficile una visione e una percezione del contesto.

Di uno dei casi di impiego dell’impalcatura concettuale che all’anomia si riferisce vorrei occuparmi in questo articolo. Si tratta di un caso lontano nel tempo – la prima metà del secolo scorso – e a cavallo tra differenti discipline: la tesi espressa da Franz Leopold Neumann, membro della Scuola di Francoforte, nel volume

Behemoth: Struttura e pratica del nazionalsocialismo, pubblicato in una prima versione nel 1942 e

parzialmente rivisto dall’autore nel 1944 (Neumann, 1942/1999). Ho pensato di proporre una riflessione sul libro di Franz Neumann non soltanto perché ha contribuito a rivedere profondamente il modo di guardare ai fascismi e al loro funzionamento economico, politico e sociale; per l’importanza storiografica, dunque, della tesi sostenuta dall’autore. Ma anche in quanto l’elaborazione e la stesura del Behemoth mi sembrano rinviare ad alcuni dei temi che attraversano trasversalmente la riflessione della Scuola di psicoterapia psicoanalitica Intervento psicologico clinico e analisi della domanda.

In primo luogo, l’interdisciplinarietà; un termine che vorrei proporre di declinare in un modo intelligente, intendendolo come la tensione a fuoriuscire dal linguaggio specialistico e gergale in cui troppo spesso si rinchiudono le discipline, senza per questo rinunciare al rigore dei modelli interpretativi e della lingua con cui comunicarli, senza scivolare dunque nella banalità e nel conformismo – ma direi, più semplicemente, nella mancanza di senso – del linguaggio comune.

Behemoth solleva, in secondo luogo, il problema della committenza e del mandato sociale. Ci tornerò a

breve; Behemoth è un’opera che ha un committente forte (una branca dell’esercito americano, impegnata nei primi anni Quaranta nella preparazione dello sbarco in Normandia, che cominciò – come è noto – il 6 giugno 1944) e un mandato altrettanto forte: contribuire all’individuazione dei responsabili dei crimini e della guerra nazisti, in vista di una loro punizione e dell’epurazione degli apparati statali della Germania postbellica. Invito a fare attenzione alla data: 1942. La prima edizione del Behemoth venne pubblicata(edelaborata) a guerra ancora in corso e col nazismo saldamente al potere, ricordo che la seconda guerra mondiale sarebbe terminata solo nel 1945: l’8 maggio è la data in cui si celebra la vittoria; ricordo anche che il nazismo sarebbe caduto, ufficialmente, a seguito del suicidio di Hitler, il 30 aprile 1945, nella Berlino assediata dall’Armata Rossa. Ricordo ancora che nel 1942 quasi tutta l’Europa, tranne l’Inghilterra, era occupata dalle truppe naziste o da regimi collaborazionisti. Le sorti della guerra sarebbero cominciate a cambiare solamente nel 1943, con le vittorie alleate in Nord-Africa e la sconfitta, e il ripiego, dei resti della 6a armata dell’esercito nazista guidata del generale Paulusa Stalingrado (Gilbert, 2004).

L’entre-deux-guerres descritto da Neumann, in terzo luogo, possiede una certa attualità, ispira pensieri analogici con il presente. Non in quanto il passato anomico può spiegarci un presente anomico; piuttosto perché alcuni aspetti della contemporaneità possono essere interpretati come delle persistenze di fenomeni con una temporalità più lunga, che è in una relazione euristicamente fruttifera con il passato.

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Il Behemoth, infine, mi sembra suggerire un modo di guardare alle relazioni di potere che mette in discussione l’idea che l’ordine, il nomos, debba corrispondere all’immobilità politica (e sociale), all’assenza di conflitto. Un modo di interrogarsi, dunque, sul valore simbolico dell’anomia e di cercare l’ordine (un’idea di ordine) nel disordine. Nelle pagine che seguono partirò dunque dall’autore, Franz Neumann; proseguirò con una riflessione sulla sua opera (la committenza, la struttura e la tesi in esso sostenuta) e concluderò con alcune brevissime notazioni sul destino storiografico del volume.

Tra Weimar e l’esilio americano

Franz Leopold Neumann (1900-1954) era un ebreo tedesco, avvocato e specialista di diritto del lavoro nella Germania weimariana, in cui abitò e lavorò fino all’avvento al potere del nazismo, in seguito al quale dovette lasciare il paese ed emigrare prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, come molti degli intellettuali ebrei e della sinistra comunista o socialista che riuscirono ad attraversare le frontiere prima dell’introduzione della legislazione speciale e delle leggi razziali di Norimberga, che resero l’esilio difficile (se non impossibile) e che costituirono l’ossatura della persecuzione antiebraica culminata, durante il secondo conflitto mondiale, nella Shoah, “la distruzione degli ebrei d’Europa”, per riprendere il titolo di un importante volume di Raul Hilberg (1961/1999).

È forse utile ricordare che per Repubblica di Weimar si intende lo stato repubblicano fondato, in Germania, nel 1919, a seguito del crollo dell’impero di Guglielmo II provocato dalla sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale. Una repubblica caratterizzata da una costituzione (elaborata nella città di Weimar) estremamente avanzata sul piano dei diritti e delle autonomie regionali; una repubblica fragilissima, tuttavia, a causa dell’instabilità politica di fondo, aggravata dal vissuto punitivo nei confronti della Conferenza di pace e del Trattato di Versailles – che avevano addossato la colpa del conflitto alla Germania e imposto allo Stato tedesco ingenti riparazioni di guerra e forti limitazioni territoriali e militari – su cui Hitler costruì parte delle proprie fortune politiche, e dalle conseguenze della crisi del 1929. Ufficialmente, Hitler arrivò al potere per vie legali (anche se utilizzò, fin dalla seconda metà degli anni Venti, il colpo di stato e il ricorso alla violenza di piazza) e venne chiamato dal presidente Paul Von Hindenburg al cancellierato del Reich il 30 gennaio 1933. La costruzione della dittatura fu rapidissima e nel giro di un anno la struttura legislativa e giuridica della Repubblica di Weimar venne completamente smantellata e sostituita dal Terzo Reich, il Terzo

impero (Kershaw,1998, 2000; Wagner, 1995/1996; Winkler, 1985/1998).

Franz Neumann era un professionista, legato dagli studi universitari, dalla militanza comunista e dall’impegno nei sindacati agli esponenti della Scuola di Francoforte, il gruppo di intellettuali marxisti riuniti nell’Istituto per la ricerca sociale dell’Università Wolfgang Goethe di Francoforte; un marxismo, quello della Scuola di Francoforte, critico, antistalinista e aperto alle scienze sociali, un marxismo che guardava – sfidando ogni ortodossia – a Sigmund Freud e a Max Weber. Ricordo i nomi di Max Horkheimer, Theodor Adorno, Herbert Marcuse, Eric Fromm, per citare alcune delle personalità più note di una delle pagine più interessanti della cultura tedesca, ma si può dire europea, tra le due guerre mondiali. Arrestato nell’aprile del 1933, nel maggio Neumann riuscì a fuggire in Inghilterra; dall’Inghilterra, seguendo uno dei flussi migratori ancora praticabili nella prima metà degli anni Trenta, raggiunse gli Stati Uniti. A New York, più precisamente alla Columbia University, si unì ufficialmente al gruppo dei francofortesi a loro volta emigrati dalla Germania, divenendo prima amministratore e legale, successivamente membro a pieno titolo dello staff di ricerca, dell’Istituto in esilio.

Mi sono occupata in passato della cultura dell’esilio; dell’esistenza di esiliati (principalmente in Francia e negli Stati Uniti) che accomunò una buona parte della cultura italiana e tedesca negli anni tra le due guerre mondiali. In questo contributo, mi preme attirare l’attenzione sulle condizioni dell’esilio intellettuale: ricominciare da zero, spesso da soli; parlare e scrivere in una nuova lingua; imparare nuovi codici sociali, spesso non da giovanissimi; le difficoltà economiche, oltre che culturali; una profonda necessità di impegnarsi nella lotta contro i regimi fascisti, anche e soprattutto attraverso il proprio lavoro, sfruttando politicamente l’aura che ancora circondava il mestiere intellettuale negli anni Venti e Trenta del Novecento. Gli esuli furono donne e uomini che militarono, senza tuttavia rinunciare alla comprensione dei fenomeni politici e sociali che stavano vivendo. Un termine francese, engagement (impegno), descrive meglio di qualsiasi altra considerazione questa stagione della storia intellettuale europea (Stuart Hughes, 1975).

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Il dibattito sui totalitarismi

Come buona parte dei suoi colleghi dell’Istituto per la ricerca sociale, Neumann lavorava per e con il governo americano. Sia per l’OSS (Office of Strategic Service), nello specifico per la Central European

Section of the Research and Analysis Branch, il nucleo militare dei servizi segreti americani da cui sarebbe

nata la CIA, sia per il Dipartimento di Stato: con l’esilio americano il giurista intraprese un percorso di profondo ripensamento politico, che lo portò dal comunismo alla democrazia liberale, in parte spinto dalla gratitudine per l’accoglienza e per le opportunità newyorchesi. Fu proiettandosi oltre la fine del conflitto che i servizi segreti statunitensi gli commissionarono uno studio sul funzionamento e sulle pratiche del nazionalsocialismo. Uno studio che avrebbe dovuto aiutare gli Alleati a punire i colpevoli (si cominciava a pensare a quell’impianto processuale che sarebbe sfociato nel famoso – e controverso – processo di Norimberga) e, al tempo stesso, a orientare la ricostruzione democratica di una Germania post-nazista; a sostenere, dunque, l’opera di denazificazione del paese dopo la sconfitta di Hitler. Colpisce la progettualità dell’intelligence americana, che pensò al dopoguerra quando non aveva ancora vinto la guerra; siamo di fronte alle origini belliche della cosiddetta guerra fredda, che nacque dai sogni egemonici di due superpotenze alleate, temporaneamente, contro l’Asse Roma-Berlino-Tokio: gli Usa e l’Unione Sovietica (Del Pero, 2015).

Si può riassumere il ragionamento dell’OSS come segue. Per processare e per rimuovere dalle loro funzioni i nazisti è necessario, innanzitutto, individuarli. Per individuarli, è fondamentale comprendere come funziona il Terzo Reich: capirne le relazioni interne e i meccanismi di trasmissione di potere, senza fermarsi ai nomi più noti e – per riprendere un’immagine hemingwayana – alla punta dell’iceberg. L’opera di Neumann rappresenta un caso di dialogo effettivo tra la committenza e un intellettuale; un dialogo che orientò per un verso la ricerca, per l’altro verso l’opera politica e giudiziaria dei vincitori della seconda guerra mondiale. Prima di passare al Behemoth, vorrei soffermarmi brevemente sul contesto storiografico in cui il volume viene inserito; perché, malgrado sia un’opera dedicata al nazionalsocialismo, il libro di Neumann viene generalmente trattato all’interno del dibattito sui totalitarismi. È utile ricordare come questo termine sia dotato di un vastissimo campo semantico e sia costitutivamente polisemico (Traverso, 2001).

Totalitarismo indica infatti (e al contempo):

un fatto: i regimi totalitari come realtà storiche, più precisamente: il fascismo italiano, il nazismo tedesco e lo stalinismo sovietico;

un concetto: la novità dello Stato totalitario e la sua irriducibilità alle tipologie elaborate dal pensiero politico classico;

una teoria: un modello di potere la cui definizione deriva dalla individuazione degli elementi comuni ai diversi regimi totalitari e dopo aver proceduto alla loro comparazione.

Un fatto (tre regimi politici), un concetto (una forma di potere inedita, legata alla modernità novecentesca), una teoria (la comparabilità di fascismo, nazismo e comunismo). Il dibattito sui totalitarismi nacque, negli anni Venti, contemporaneamente alla affermazione del primo dei regimi al centro della teoria comparativa: il fascismo italiano. È un dibattito in cui, fin dall’inizio, storiografia e politica si intrecciarono profondamente e che proseguì per tutto il Novecento, alternando fasi in cui fu al centro dell’attenzione mediatica e fasi di eclissi prolungata; un dibattito che può essere considerato uno dei fili rossi con cui leggere il Ventesimo secolo, un suo strumento critico.

Totalitarismo. Pur essendo impiegato, in quanto aggettivo, per descrivere la natura del primo conflitto mondiale (guerra totale) fin dal 1914, il neologismo affonda le proprie radici negli ambienti dell’antifascismo italiano e venne coniato attorno alla metà degli anni Venti; più precisamente, venne utilizzato per la prima volta nel corso di un’analisi delle elezioni amministrative del 1923, per descrivere la tendenza fascista verso un dominio assoluto e incontrollato della vita pubblica e amministrativa. Non per comparare i regimi italiano e russo, ma per denotare la particolarità e la “novità” della dittatura di Benito Mussolini (della sua concezione del potere e dello Stato), le sue pretese “totali”. A partire dal 1925, venne adottato dal fascismo stesso (di Stato totalitario parlarono sia Mussolini che Giovanni Gentile) e dalla rivoluzione conservatrice tedesca (Ernst Jünger e Carl Schmitt), che si riferì a uno “Stato totale” al servizio del Volk; a differenza del fascismo, tuttavia, il nazismo non si definì mai totalitario quanto, piuttosto, autoritario (Gentile, 1995/2008). Il 1933 rappresenta una data di svolta nella storia intellettuale del termine: dopo la presa del potere di Hitler, “totalitarismo” abbandona i paesi di origine (Italia e Germania) per i paesi dell’emigrazione (Francia, Stati Uniti). Nel 1939, con la firma del patto di non aggressione russo-tedesco, “totalitarismo” cominciò a definire in termini comparativi Germania nazista e URSS: l’alleanza politico-diplomatica sembrò confermare la “affinità” dei regimi e sconfermare il “mito dell’Urss”, fondato sull’idea dell’Unione Sovietica baluardo antifascista. Il totalitarismo divenne uno strumento interpretativo dello sviluppo parallelo dei due regimi.

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Nel 1941, a seguito dell’Operazione Barbarossa (l’invasione nazista dell’Unione sovietica) e del capovolgimento di alleanze, la nozione di totalitarismo cessò di venire impiegata; sarebbe riemersa prepotentemente alla fine del conflitto, intrecciandosi alla nascita della guerra fredda, quando comparare nazismo e comunismo, sarebbe diventato funzionale all’esaltazione del liberalismo democratico dell’Occidente.

Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo

Torniamo al Behemoth. Perché il volume viene collocato all’interno del dibattito sui totalitarismi, malgrado sia un’opera sul nazionalsocialismo? Perché analizza il nazionalsocialismo come un fenomeno globale e, pur senza interrogarsi sulla sua comparabilità con il fascismo o con lo stalinismo, si pone il problema delle sue relazioni con la democrazia.

Il titolo scelto da Franz Neumann è una replica a Carl Schmitt, che nel 1938 aveva pubblicato un saggio su Thomas Hobbes in cui faceva del Leviatano il simbolo della dittatura, opposta alla democrazia come forma moderna del bellum omnium contra omnes (Schmitt, 1938/2011). Neumann rovescia la visione di Schmitt e indica nella dittatura nazista il regno del caos. Cito dalla prima pagina del volume, in cui Neumann introduce il lettore al “Perché Behemoth” (1942/1999):

Nell’escatologia ebraica – di origine babilonese – Behemoth e Leviathan designano due mostri: Behemoth è il signore della terra (del deserto), Leviathan del mare. Il primo è maschio, il secondo è femmina. Gli animali della terra venerano Behemoth, quelli del mare Leviathan, i loro padroni. Entrambi sono mostri del Caos. Secondo l’Apocalisse, Behemoth e Leviathan riappariranno brevemente prima della fine del mondo e instaureranno il regno del terrore, ma verranno distrutti da Dio. Secondo altre versioni, lotteranno incessantemente fra loro e alla fine si distruggeranno a vicenda. Quello sarà il giorno del retto e del giusto, che mangeranno la carne di entrambi i mostri in un banchetto che annuncerà l’avvento del regno di Dio. L’escatologia ebraica, il Libro di Giobbe, i Profeti, i vangeli apocrifi, sono pieni di riferimenti a questo mito, che è spesso diversamente interpretato e adattato alle circostanze politiche. Sant’Agostino vide in Behemoth Satana.

E Hobbes rese popolari sia Leviathan sia Behemoth. Il suo Leviathan è un’analisi dello stato, ovvero di un sistema politico di coercizione in cui sono ancora conservate le vestigia del dominio della legge e dei diritti individuali. Il suo Behemoth invece, o il Long Parliament, che tratta della guerra civile del XVII secolo, descrive un non-stato, un caos, una situazione di illegalità, disordine e anarchia.

Poiché noi crediamo che il nazionalsocialismo sia – o tenda a divenire – un non-stato, un caos, un regno dell’illegalità e dell’anarchia, che ha ‘soffocato’ i diritti e la dignità dell’uomo e sta per trasformare il mondo in un caos con la supremazia su grandi estensioni di territorio, abbiamo ritenuto appropriato designare il sistema nazionalsocialista col nome di Behemoth. (p. 3)

Quando Behemoth venne pubblicato, erano passati quasi dieci anni dalla presa del potere di Hitler. Neumann poté dunque proporre una lettura in prospettiva del nazismo e un approccio interdisciplinare innovativo: marxismo, sociologia weberiana, pensiero giuridico e psicoanalisi si fondono nella sua analisi del sistema di potere nazista, sopperendo almeno in parte alla carenza di fonti documentarie e alla lontananza geografica che separava l’autore dall’Europa. Del marxismo, il volume riprende la postura di critica del capitalismo come sistema economico intrinsecamente legato alla concorrenza dei capitali e ai conflitti di classe. Della sociologia weberiana, l’analisi modellistica del razionalismo burocratico moderno e del dominio carismatico. Del pensiero giuridico, la descrizione dello stato totalitario come antitesi della democrazia e dello stato di diritto. Della psicoanalisi, l’attenzione alla componente simbolica del consenso di massa (Eric Fromm e Wilhelm Reich). Si tratta di contaminazioni modellistiche che rendono la lettura dell’autore una lettura diversa da tutte quelle a cui si ispira.

Neumann ricostruisce le strutture e i modi di funzionamento del sistema di potere nazionalsocialista in un arco cronologico di medio periodo, interrogandosi sulla genesi del nazismo oltre che sulla sua evoluzione una volta ottenuto il cancellierato. Tornò non solo agli anni della Repubblica di Weimar, ma anche al nazionalismo e all’imperialismo tedeschi del XIX secolo, senza tuttavia abbracciare la tesi della Sonderweg, della predestinazione tedesca al nazismo. Mise inoltre al centro della propria analisi il nesso tra economia e politica: il legame tra le forze economiche dominanti e l’organizzazione politico/burocratica – ma anche magica e rituale – del potere nazionalsocialista; ripensando, tuttavia, le caratteristiche della politica e ponendo in discussione l’idea di una completa autonomia del politico. O, piuttosto, interrogandosi sulle conseguenze di un’autonomia del politico che gli sembrava caratterizzare la ricerca del consenso nazista. Scrive Neumann: “La politica, separata dall’economia, è una semplice tecnica, un’arte. Nell’era del

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capitalismo di stato essa è una tecnica per il dominio delle masse, che è stata effettivamente sviluppata” (Neumann, 1942/1999, p. 252).

Il nazismo, secondo l’autore, può quindi essere definito come una persistenza del sistema capitalistico, nella quale le classi dominanti non mutano ma si adattano alla nuova situazione. Ed è l’adattamento delle élite che il Behemoth studia e ricostruisce; un adattamento che è alla base tanto della novità e della modernità del Terzo Reich quanto del “caos” che ne caratterizza il funzionamento interno. Non è possibile, in questa sede, analizzare nel dettaglio i capitoli del libro; né la finezza dell’indagine di Neumann, che entra nel profondo delle istituzioni e dei poteri cardine del Reich studiandone la composizione, le dinamichee le relazioni tra la periferia e il centro del sistema: Adolf Hitler. Vorrei soltanto ricordare che lo Stato nazista viene definito, in primo luogo, il regno del dominio della burocrazia statale; ereditata da Weimar e dall’età bismarkiana, quella nazista è una burocrazia che tende a riprodursi, con le sue caratteristiche intrinseche di razionalità strumentale, in seno ai diversi apparati del sistema sociale e politico, persino in seno al Partito, e destinata a entrare in conflitto con la tendenza dominante del regime ad affrancarsi da ogni controllo e legittimazione legali.

Oltre che della burocrazia, il Terzo Reich è anche il regno del dominio carismatico, fondato sull’adesione e sulla mobilitazione delle masse, sacralizzate e manipolate, chiamate a fondersi in una comunità nazionale da cui scaturisce il potere del capo. Lo Stato cessa così di essere l’istanza centrale del potere politico per diventare, attraverso il Führer, un semplice strumento del Volk. Attraversato da una inarrestabile dinamica di radicalizzazione (testimoniata, in primis, dall’aggressività in politica estera), il nazismo sarebbe dunque un regime capitalista, totalitario, razzista e imperialista lanciato verso la guerra totale e incapace di superare le proprie contraddizioni interne. Contraddizioni che derivano da un capo carismatico che non può fare a meno del suo strumento, lo Stato, con i suoi apparati burocratici razionali retti da una logica propria e obbligato ad appoggiarsi su diversi centri spesso antagonisti. Il nazismo è, in sintesi, una struttura “policratica”, animata da un conflitto latente tra esercito, élite economiche, Partito e burocrazia statale: tutti ottengono dei vantaggi dal regime ma tutti perseguono fini propri e a lungo termine incompatibili tra loro. Tra loro e con la natura profonda dell’autorità carismatica, per la quale la legge non è altro che la trasposizione giuridica della volontà del Führer; l’economia e lo Stato semplici strumenti del Volk; l’esercito non più il custode della tradizione militare prussiana, ma un’arma offensiva e personale; il Partito non una burocrazia invadente e un apparato coreografico, ma un movimento di combattenti.

Policrazia e conflitto tra differenti centri di potere, mediati provvisoriamente dalla capacità del capo di trovare un compromesso accettabile e di ripristinare un equilibrio, che tuttavia viene messo nuovamente in discussione richiedendo un nuovo compromesso, in un vortice infinito. Behemoth rappresenta un correttivo all’unilateralità di alcune interpretazioni dei fascismi e alla iperpoliticità degli approcci precedenti. Più in generale, alla difficoltà di riconoscere la modernità del nazismo senza per questo negarne la violenza e l’attitudine regressiva. Siamo di fronte, anche in questo caso, alla difficoltà di superare il paradigma della totale identificazione della modernità e del progresso. Il problema, il limite del Behemoth è rappresentato, semmai, dall’incapacità di cogliere la centralità dell’antisemitismo biologico nel sistema di dominio e nella concezione politico-statuale nazista (nell’ideologia e nella pratica del nazionalsocialismo).

Policrazia

Il destino storiografico dell’opera di Neumann è curioso. Tralascio il suo rapporto con il processo di Norimberga, che venne investito del difficile compito di costruire una giustizia internazionale e di giungere a una definizione di genocidio. Sul piano storiografico, l’interpretazione policratica è stata a lungo dimenticata, sostanzialmente per due ordini di motivi. In primo luogo, per la riemergenza – nell’immediato secondo dopoguerra – della categoria di totalitarismo, che ha preferito la comparazione tra regimi allo studio dei fascismi (complice la guerra fredda). In secondo luogo, per la difficoltà di affrontare la modernità del nazismo (dei fascismi in generale), di trattarne cioè la cultura, la politica, i programmi economici e sociali, oltre che le dimensioni utopiche e repressive (Collotti, 1942/1989; Ornaghi, Traverso, & Salvati, 2000). Siamo tornati a leggere il Behemoth una ventina di anni fa, quando si è cominciato a guardare al nazismo e al fascismo in un altro modo. Quando si è ricominciato a parlare di politica e di antipolitica e quando si è sentita la necessità di interrogare i differenti regimi che si sono succeduti nel corso del Novecento, anche i fascismi, mettendo in discussione l’idea che furono Stati senza dialettica interna, immobili, statici. Credo che l’interpretazione policratica proposta dal Behemoth e la sua storia, ci parlino di un’esperienza storica e dei suoi lasciti e ci inviti a riflettere, più che sulle dimensioni comuni a fascismo, nazismo e comunismo, sulla

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contiguità tra totalitarismi e democrazie novecentesche, tutti prodotti della società di massa e, almeno apparentemente, tutti regimi anomici della modernità.

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