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Il bluff della produttività

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Academic year: 2021

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24 July 2021

AperTO - Archivio Istituzionale Open Access dell'Università di Torino

Original Citation: Il bluff della produttività

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Il bluff della produttività di Lia Fubini

La Fiat, si dice, è una multinazionale come un’altra e nell’era della globalizzazione ha tutto il diritto di investire dove ritiene più conveniente, alle condizioni che meglio crede. E se in Italia quelle condizioni non ci sono, ad esempio a causa della combattività della Fiom, ha tutto il diritto di andarsene. Questa è un’idea molto diffusa, che non tiene conto di un dato importante: in Italia la Fiat ha ottenuto a vario titolo contributi pubblici fra gli anni ottanta e i primi anni duemila stimati nell’ordine di 500 milioni di euro all’anno. Peraltro continua a rincorrere contributi statali, nonostante la retorica dell’impresa capace di reggersi sulle proprie gambe. Lo dimostrano anche gli investimenti che la Fiat ha fatto in altre parti del mondo, come in Polonia e in Serbia, sempre alla ricerca di aiuti di stato, senza i quali la Fiat non riesce a essere competitiva. E in Italia ancora oggi continua a beneficiare dei fondi pubblici per la cassa integrazione. Ma la gestione aziendale è stata, a dir poco, carente. La Fiat non è competitiva sul mercato europeo, la produttività è bassa ma non per colpa dei lavoratori. Ricordiamo, a questo proposito, che la produttività nel settore auto viene normalmente calcolata in termini di auto prodotte per lavoratore. Se uno stabilimento produce poche auto la causa viene attribuita ai lavoratori “fannulloni e assenteisti”, a ritmi di lavoro troppo blandi, a pause troppo lunghe. Ma la realtà è ben diversa. Nel settore auto la produttività in larghissima misura è data dalla tecnologia, dai macchinari, dall’organizzazione del lavoro, dal grado di utilizzo della capacità produttiva, dalle economie di scala. La Fiat non sa stare al passo a livello tecnologico con le altre imprese del settore, a differenza delle altre case automobilistiche negli ultimi due anni non ha lanciato nuovi modelli, le sue vendite in Europa sono in calo. Negli

stabilimenti italiani la capacità produttiva è utilizzata al di sotto della soglia di redditività, di

conseguenza i suoi costi fissi sono troppo elevati. Ma se non riesce ad aumentare le vendite, non può certamente accrescere la produzione. Per questo è poco competitiva.

La Fiat presenta senza dubbio molti punti di debolezza: in Europa ha una bassa quota di mercato, del 6,7%, e continua a perdere terreno. La situazione delle vendite è critica anche in Italia, dove ormai copre meno del 30% del mercato dell’auto. L’unico punto di forza per la Fiat sembra essere il Brasile col suo enorme mercato in espansione. È a quel mercato che la Fiat punta, ma anche lì la posizione dominante della Fiat è insidiata da Volkswagen.

Premesso dunque che i punti di debolezza della Fiat nulla hanno a che vedere con il lavoro, c’è da domandarsi quale sia la logica di questo accordo volto unicamente a intensificare lo sfruttamento del lavoro che non farà di certo aumentare la redditività della Fiat in Europa. Ricordiamo che il costo del lavoro ha un’incidenza molto bassa sul costo totale, circa il 7-8%. Quindi un aumento dei ritmi, un accorciamento delle pause, la compressione dei diritti, l’aumento delle ore di straordinario obbligatorio può incidere ben poco sui costi totali. Il vero problema della Fiat è la domanda.

Peraltro è dubbio che l’accordo di Mirafiori comporti un aumento della produttività del lavoro. Infatti, quando (o meglio, se) il sistema proposto nell’accordo andrà a regime, l’aumento della fatica produrrà costi in termini di salute per i lavoratori, che si tradurranno necessariamente in una crescita delle assenze per malattia. Ma questo è stato già messo in conto. Per evitare in futuro la presenza di lavoratori che hanno contratto malattie professionali e che non sono quindi in piena efficienza fisica, nel testo dell’accordo c’è una clausola che prevede nuove assunzioni solo con contratti precari. Ciò comporterà

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un costo aggiuntivo per l’impresa, il costo del turn-over, ma in compenso la Fiat potrà garantirsi in futuro manodopera efficiente e sottomessa per evitare il mancato rinnovo dei contratti.

Ci sono poi altri aspetti dell’accordo che rischiano di far diminuire la produttività del lavoro. Quanto più la direzione è repressiva rispetto al lavoratore, tanto minore è l’identificazione del lavoratore con

l’impresa. Si riducono così tutte quelle microinnovazioni che si realizzano sul posto di lavoro, viene meno la collaborazione dei lavoratori con l’impresa. Allora quel poco di produttività che aumenta con la compressione dei ritmi di lavoro si perde con la mancanza di cooperazione dei lavoratori. E siamo poi certi che aumenti la produttività aumentando i ritmi e il tempo di lavoro, spostando la mensa a fine turno e riducendo le pause? C’è da dubitarne. Un aumento dei ritmi produce più incidenti, più stress, più distrazione del lavoratore e tutto ciò incide sulla qualità del prodotto. E lo stesso dicasi per gli straordinari. E’ curioso che l’utilizzo degli straordinari sia indicato come mezzo per rilanciare la produttività, quando è dimostrato che la produttività e la qualità del lavoro diminuiscono con il passare delle ore, per cui le ore straordinarie risultano essere quelle a minore produttività.

I veri problemi della Fiat non sono il costo e la rigidità del lavoro, ma sono i costi fissi e l’incapacità di posizionarsi sul mercato con prodotti innovativi.

E questo vale per la Fiat come per la gran parte delle imprese italiane che puntano sulla riduzione dei costi non essendo in grado di competere sulla tecnologia e sulla qualità dei prodotti. Questa è una strategia perdente, perché nei paesi emergenti i costi variabili sono comunque più bassi. Produrre auto in Europa è possibile, lo dimostra la Volkswagen che in Germania aumenta da anni produzione e

occupazione e paga ai lavoratori salari che sono circa il doppio dei nostri. Ma è necessario un grosso impegno in innovazione e investimenti verso produzioni di qualità sostenibili dal punto di vista

ambientale. Le politiche di Fiat nei campi dell’innovazione e della ricerca sono inadeguate e l’idea che le scarse performance vadano attribuite alle colpe dei lavoratori è scorretta, intellettualmente disonesta, tipica di un management incapace.

Passando più nello specifico ai contenuti dell’accordo, o meglio del diktat, sottoposto a referendum, il vero scandalo non è di per sé la proposta di un aumento degli straordinari e dei ritmi di lavoro. Questo può succedere in tempi di crisi anche se logica vorrebbe che in tempi di crisi si favorissero nuove assunzioni, anziché puntare sugli straordinari. In tempo di crisi sindacati e lavoratori sono più deboli e l’impresa nei processi di contrattazione può avere la meglio. Ma l’accordo Fiat è stato un vero e proprio ricatto che sottintende il concetto secondo cui i diritti sono oggetto di scambio col posto di lavoro, che nega ai lavoratori anche il diritto alla negoziazione, che implica l’idea secondo cui il lavoro è nient’altro che una merce.

Da questa constatazione emerge una riflessione che riguarda i ruoli che vengono giocati in questa vicenda, quello della politica in particolare.

Marchionne fa il padrone. Fiat è azienda italiana quando ci sono da prendere sussidi, aiuti (nazionali e locali) e ammortizzatori sociali, è multinazionale quando c’è da ricattare i lavoratori. Investe poco in ricerca, ma investe molto sullo stipendio di Marchionne; non lancia nuovi modelli, a differenza dei concorrenti, non è capace di fare piani industriali affidabili. Vale la pena di ricordare, a questo proposito, che nel 2006 aveva promesso 300.000 Alfaromeo entro il 2010; ne ha realizzate 50.000. Però Marchionne è il padrone, e non si può pretendere che il padrone stia dalla parte giusta e neppure che sia lungimirante. Raramente abbiamo visto padroni dalla parte giusta in Italia.

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Ma la politica dov’è? La politica ha abbandonato i lavoratori e sulle loro spalle è stato posto il peso di una decisione che coinvolge problemi che vanno ben al di là delle loro condizioni, che chiama in causa tematiche, quali la permanenza della Fiat e quindi dell’industria automobilistica in Italia , a cui si legano le sorti dell’indotto e la tenuta del sistema di relazioni industriali.

Se parte dell’accordo viola la legge, si aprirà un contenzioso legale. Ma in termini di condizioni di lavoro non si può fare nulla o quasi contro il ricatto “o si accetta in blocco o si chiude la fabbrica”, perché certi diritti non sono regolati per legge. Dalla politica – almeno del centrosinistra – ci si aspetterebbe prima di tutto un impegno forte a mettere le condizioni minime di lavoro al centro di una proposta di legge urgente. Vogliamo affermare con legge che chi fa lavorare un operaio più di 8 ore consecutive in catena di montaggio commette un reato? O tutto è sempre contrattabile? Vogliamo dare maggiori strumenti legali alle aziende fornitrici per aiutarle a veder pagate le loro commesse? O

dobbiamo assistere inerti al soffocamento delle imprese dell’indotto, che vengono pagate dalla Fiat con ritardi spaventosi? Vale la pena di ricordare che i ritardati pagamenti alle imprese dell’indotto sono per la Fiat una fonte di finanziamento a basso costo.

E ancora sulla politica, e in questo caso sul Pd. Ma come possiamo stupirci che Marchionne pretenda 120 ore di straordinario obbligatorio (magari a fine turno con aumento dei rischi sul lavoro e

diminuzione della produttività) se è stato il Pd, con il ministro di allora, Damiano, a proporre l’abolizione della contribuzione aggiuntiva sugli straordinari, incentivando pratiche del genere? Per quanto riguarda il governo attuale, il diktat di Marchionne arriva invece come il cacio sui

maccheroni, rappresenta un tassello verso lo smantellamento dello statuto dei lavoratori tanto auspicato dai nostri governanti fin dal Libro bianco sul mercato del lavoro, che ha costituito la base della legge 30 del 2003. I termini della proposta Fiat si inseriscono in un clima generale che dà per scontata la

necessità di derogare alle regole sancite dal diritto del lavoro per salvaguardare l’occupazione. Non deve stupire che le imprese oggi offrano condizioni di lavoro peggiorative rispetto ai diritti acquisiti. Si sentono legittimate a farlo grazie al clima culturale, all’ideologia neoliberista dominante e alla complicità del governo.

Con la legge 30/2003 sono stati introdotti tutti i possibili strumenti di flessibilità. Realizzata la massima flessibilità del lavoro si punta a toccare il diritto di sciopero, ad allungare la giornata lavorativa

attraverso gli straordinari, a intensificare i ritmi, a penalizzare l’assenza per malattia, a limitare il diritto al riposo. Tutto questo sotto lo sguardo benevolo del governo e purtroppo con il benestare di gran parte dell’opposizione. In Germania tutto ciò sarebbe impensabile anche per l’attuale governo centrista. Qualunque governo, di destra o di sinistra, con un minimo di rispettabilità e di attenzione al bene collettivo avrebbe aperto un tavolo di trattative, avrebbe cercato una qualche forma di mediazione. Invece questo governo si è schierato immediatamente dalla parte padronale usando i diktat di Marchionne a Pomigliano prima e a Mirafiori poi per attaccare i diritti dei lavoratori.

È anche vero che se è emersa la proposta Fiat ciò è dovuto allo smembramento della classe operaia; non perché gli operai siano pochi – sono ancora una quota importante della forza lavoro – ma perché sono frammentati e divisi, sia all’interno del paese che a livello internazionale. Una frammentazione dovuta alla crescente deregolamentazione del lavoro, al sopravvento del cosiddetto modello neoliberista, all’enfasi sulla competizione che ha sovrastato l’idea di solidarietà.

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Ma le politiche industriali di questo Paese dove sono? Le politiche di ricerca e innovazione chi le fa? Maggioranza e opposizione su questi temi non hanno nemmeno mezza idea da gettare nel dibattito. In questo contesto possiamo forse aspettarci un atteggiamento responsabile dalla Fiat?

Peraltro, considerato l’eccesso di capacità produttiva nel mercato dell’auto in Europa, sarebbe

auspicabile la ridefinizione di politiche a livello europeo, per evitare guerre fratricide che puntano sulla diminuzione del costo del lavoro. Sarebbe necessario coinvolgere la Commissione europea, l’Europa dovrebbe assumere il ruolo guida necessario al processo di ristrutturazione, come è stato fatto dal 1994 al 2001 per il settore aerospaziale.

Infine, ancora una questione sulla politica, questa volta locale. La Fiat per investire avrà bisogno di infrastrutture nell’area di Mirafiori. E allora il sindaco può aprire un tavolo subordinando investimenti e servizi a un atteggiamento più aperto di Fiat nei confronti di sindacati e lavoratori.

E’ quasi surreale che la politica – anche da sinistra – non abbia nemmeno tentato di intervenire e poi si produca oggi, quando la spada di Damocle pende unicamente sulla testa degli operai, in uno squallido balletto “io voterei sì” “io voterei no”.

Tra diritti mercificati e rappresentanza negata, qui non è in discussione solo il tema del lavoro, ma il tema più ampio di quale società vogliamo costruire. Una società che ruota intorno a un consumismo sempre più sfrenato, in cui si vuole produrre senza rispetto per i diritti, con turni massacranti, in cui i concetti di riposo, sicurezza e rappresentanza sociale siano banditi? Di questa società l’accordo Fiat è solo la punta avanzata applicata a un settore specifico.

Ma se la politica, se gli altri sindacati, se la cittadinanza di fronte a tutto ciò è inerte, cosa può fare la Fiom?

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