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Antropologia in quota

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Academic year: 2021

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EtnoAntropologia, 8 (2) 2020 - ISSN 2284-0176

Antropologia in quota

Introduzione

Laura Bonato

«Una regione unica al centro dell’Europa»: così Bätzing (2005), prendendo atto della loro posizione privilegiata, ha definito le Alpi, che già in epoca romana erano il crocevia della rete degli scambi economici e culturali europei. È infatti un’area strategica che nel corso del tempo si è sempre più distinta come una “macro-regione” caratterizzata da sovrapposizioni di elementi culturali, sociali, economici e politici di cui si cercherà di dare conto nelle pagine che seguono.

Nei primi due decenni del nuovo millennio le Alpi italiane hanno conosciuto mutamenti demografici e socio-economici rapidi e in larga misura imprevisti o addirittura imprevedibili. Proprio intorno al 2000, dopo un secolo e mezzo di spopolamento, si è manifestata un’inversione di tendenza ben documentata anche da studi etnografici che hanno offerto contributi significativi ad un serrato dibattito sul “ritorno alla montagna”: cosa vuol dire abitare la montagna? Si è montanari per nascita, per scelta o per necessità? Più recentemente, il baricentro degli studi si è spostato sui “montanari per forza” e sulla possibilità che le Alpi, e più in generale la montagna italiana, possano rappresentare un banco di prova per esperienze innovative di accoglienza diffusa. Gli ultimissimi anni hanno però visto un drastico calo del numero di rifugiati e richiedenti asilo e il deflagrare dell’epidemia di Covid-19 ha ora ulteriormente contribuito a sospingere i “montanari per forza” ai margini del discorso politico e mediatico.

Il contributo di Pier Paolo Viazzo e Roberta Clara Zanini, Le Alpi italiane:

bilancio antropologico di un ventennio di mutamenti, propone un quadro

antropologico di due decenni di mutamento nelle Alpi italiane. Pur senza la pretesa di proporre analisi che allo stato attuale sarebbero quanto meno affrettate, segnala tuttavia come la crisi scatenata dall’epidemia stia riportando l’attenzione sulle comunità di montagna. Gli autori si interrogano sulle necessità socio-assistenziali di aree marginali e demograficamente anziane, sul rapporto fra città e montagna, sulle dinamiche di dipendenza – o co-dipendenza? – fra territori contigui eppure non paritari e, in ultima analisi, sulle geometrie variabili che le comunità montane assumono in rapporto alla

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consistenza e alle caratteristiche delle loro popolazioni, la cui composizione nelle Alpi è in molti casi considerevolmente cambiata in questo ventennio. In Ritualità d’alta quota, tra politiche culturali e sostenibilità chi scrive indaga nello specifico le Alpi piemontesi, dove in determinati contesti il rapporto tra abitanti e territorio alpino ha innescato processi virtuosi di sviluppo locale che si pongono come pratiche interessanti per l’impostazione di politiche territoriali per la montagna effettivamente orientate ai reali bisogni degli abitanti. Un caso esemplare, in questo senso, è la nascita negli ultimi anni di associazioni o attività il cui obiettivo è reintrodurre sul territorio colture storicamente documentate ma scomparse, mettendo in atto – a volte anche inconsapevolmente – una vera e propria patrimonializzazione di quelli che erano i saper fare ma anche i momenti comunitari che ruotavano intorno alle diverse pratiche. In particolare, la festa è un’occasione per presentare gli antichi mestieri, i manufatti e gli abiti della tradizione, ma anche il recupero di terreni adibiti oggi alla coltivazione, e per commercializzare i prodotti da essa ottenuti, richiamando numerosi turisti.

Condividere un bosco: un confronto tra regimi del patrimonio in val di Fiemme è il titolo del contributo di Nicola Martellozzo, che considera alcune

conseguenze dell'avvicendamento storico tra due modelli di patrimonio. Gran parte del territorio della valle è costituito da pascoli e foreste: 20.000 ettari sono proprietà della sola Magnifica Comunità di Fiemme (MCF), un'istituzione di origine medievale (XII d.C.) che per secoli ha gestito autonomamente quest’area, modellando il paesaggio di Fiemme con le proprie attività selvicolturali. Gli Statuti garantiscono ai membri della MCF (vicini) la proprietà comune di foreste e pascoli, con il diritto di accesso esclusivo alle risorse naturali. Questa condizione “anomala” rispetto agli ordinamenti statali è sopravvissuta anche nell'attuale ordinamento italiano: né pubblico né privato, per gran parte della sua storia il territorio della MCF è stato pensato e gestito come un commons, un sistema di risorse auto-organizzato, duraturo e auto-governato. Più che di una sostituzione, è più corretto parlare di progressivo avvicendamento con un secondo modello di patrimonio già presente nella dimensione culturale della MCF, quello cioè di un bene comunitario ereditato (heritage), molto più vicino al senso dato a questo termine oggi quando parliamo di “patrimonializzazione”. Dagli anni Cinquanta la gestione forestale congiunta (regionale, demaniale e locale), il turismo e le pratiche di tutela ambientale hanno costruito il patrimonio forestale per come viene inteso oggi. Per molti versi il passaggio da commons a heritage costituisce la sfida maggiore mossa dalla modernità alla MCF; una sfida ancora da risolvere, e di cui vogliamo restituire due aspetti specifici: (a) il gap generazionale all'interno della MCF, come spostamento dei giovani verso altre attività di valorizzazione del patrimonio forestale, su tutti il turismo; (b) la recente sensibilità ecologica, aspetto centrale del branding

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turistico della Valle, talvolta proiettato retrospettivamente in modo acritico (reinvenzione della tradizione).

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