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Cambiamenti alle misure di contrasto alla povertà. Una valutazione del "Progetto SIA sul territorio di Lucca"

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA Facoltà di Scienze Politiche

Corso di laurea magistrale Management dei Servizi Sciali.

Cambiamenti delle misure di contrasto alla povertà.

Svolgimento e Valutazione

del Progetto SIA

presso il Comune di Lucca.

Relatore : Chiar.mo Prof. Tesi di Laurea di:

GABRIELE TOMEI ISABELLA AVENA

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Indice.

1 Introduzione

1

2 Povertà un fenomeno semplice quanto complesso.

3

2.1 La povertà tra ieri ed oggi: uno sguardo al passato. 6

2.2 Verso una nuova visione di povertà. 9

2.2.1 Integrazione come principio 10

2.3 Strategia Europa 2020: Verso un’ultima tappa? 12

2.4 Il caso Italiano 16

3 Povertà nel percorso di vita

18

3.1 Il concetto di tempo 18

3.2 La dinamicità della povertà e la questione sociale. 21

3.3 Visione monetaria 23

3.4 Trasferimenti economici a confronto 26

4 Da una visione “Passiva” ad una “Attiva”

28

4.1 Approcci all’attivazione 30

4.2 Un esempio di politiche attive 33

4.2.1 Work + Welfare = Workfare 36

4.3 Esempi di politiche del lavoro in Europa 38

4.4 Inclusione attiva nel territorio italiano 40

5 Progetto SIA (Sostegno di Inclusione Attiva)

42

5.1 Punti salienti del Primo Decreto del Progetto SIA. 44

5.2 Figure professionali ed il ruolo dell’assistente sociale 47

5.3 La sperimentazione delle 12 città italiane 49

5.4 Modifiche apportate al Decreto SIA 52

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6 Implementazione Progetto SIA presso il Comune di Lucca

55

6.1 Il flusso di processo “Sostegno all’Inclusione Attiva” 56

6.2 Il ruolo del Terzo Settore 57

6.3 Un po’ di numeri 58

7 Una valutazione realista del progetto

61

7.1 Punti salienti dello studio 65

7.2 Quesiti alla valutazione 68

7.3 Risposte ai quesiti 70

7.3.1 Primo quesito: ruolo degli operatori 70

7.3.2 Secondo quesito: caratteristiche dei principali beneficiari 71 7.3.3 Terzo quesito: modalità, ambiti e proposte di attivazione 73 7.3.4 Quarto quesito: visione interna e riflessioni sulle modalità assunte 74

8 Conclusioni

76

Riferimenti bibliografici

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1

1.Introduzione.

In Italia, ad oggi, l’incidenza della povertà continua ad avere un peso considerevole. Nel 2016 si stimavano ancora 1 milione e 619 mila famiglie residenti in condizione di povertà assoluta. All’interno di questa tesi si vuole affrontare da vicino il tema della povertà, a partire dal diverso modo di intenderla sulla base dei contesti di riferimento fino a giungere alle misure che sono state proposte per contrastarla, volgendo particolare attenzione sulle caratteristiche e sulle modalità di intervento del Progetto SIA. In questo contesto così articolato si comprende come sia sempre più necessario definire misure di contrasto alla povertà che siano in grado di compensare, o meglio, superare tale condizione tramite nuove modalità di attivazione.

Nella prima parte di questa tesi viene trattato il concetto di povertà, partendo da una prima difficoltà: definirla in modo univoco sulla base del contesto geografico e culturale di riferimento andando poi ad affrontare anche il modo differente di viverla per chi in tale situazione ci si trova. Verranno affrontati temi indispensabili per la sua comprensione, facendo una distinzione tra povertà assoluta e relativa, fino a giungere a comprendere il concetto di povertà soggettiva. A seguire viene illustrato un excursus storico sulle modalità di riconoscere ed affrontare il tema della povertà dalle prime policy risalenti il 1601, alla recente strategia Europa 2020.

Nel secondo capitolo vengono affrontati i temi della povertà all’interno del percorso di vita del singolo individuo. Fare riferimento al corso di vita significa porre attenzione alla condizione della persona soggetta a povertà, facendo riferimento sia alla persona intesa come individuo singolo rientrante in una fascia di età specifica, sia come soggetto con un proprio bagaglio culturale.

Andando avanti, all’interno del terzo capitolo verranno affrontate le tematiche riguardanti le misure di contrasto, dal passaggio da una visione definita passiva ad una attiva. Viene affrontato il modo in cui cambia la mission delle politiche per la lotta alla povertà, che rende l’erogazione del contributo condizionale a specifici comportamenti da mettere in atto da parte dei beneficiari, portando alla luce le difficoltà relative al caso. Vengono affrontate inoltre alcuni esempi di politiche attive.

A partire dal quarto capitolo si va più nello specifico prendendo in esame uno dei progetti da poco terminato nel territorio italiano, il Progetto SIA. Vengono illustrate a riguardo modalità, limiti, requisiti richiesti e forme di attivazione previste. Importante

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andare a visionare quelle che sono le figure professionali coinvolte nella gestione, a partire dal flusso di domande alla creazione del percorso personalizzato.

Infine, nell’ultima parte di questo elaborato, si è passati dalla teoria alla pratica, andando ad individuare come questo progetto è stato messo in atto in uno dei Comuni della Regione Toscana: il Comune di Lucca. All’interno di questo territorio è stata svolta una ricerca sulle modalità operative e di gestione, andando anche a vagliare nello specifico le modalità di assunzione di responsabilità degli utenti, creando infine una valutazione sulla riuscita dello stesso. Il ruolo dei professionisti risulta indispensabile, come indispensabile è identificare le risorse possibili da mettere a disposizione.

Attraverso questa breve indagine sono emersi quindi punti di forza e debolezza del progetto SIA all’interno del contesto di riferimento, le difficoltà da parte dei professionisti coinvolti ed anche la loro visione delle modalità operative che all’interno dei progetti come il Progetto SIA, non dovrebbero mancare.

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2. Povertà un fenomeno semplice quanto complesso.

Sempre più spesso sentiamo parlare di povertà come un fenomeno che richiede una molteplicità di risorse e mezzi per poterne far fronte. Il termine notoriamente è definibile come “assenza delle risorse monetarie occorrenti per garantire a sé e alla propria famiglia dignitose condizioni materiali di vita” (Townsend, 1979). Così presentato, questo, sembra un concetto molto semplice, ma se guardiamo in profondità è possibile individuare alcuni aspetti che ne rilevano la reale complessità. Questi aspetti, dipendono in particolare da alcune peculiarità confrontabili all’esterno, tra cui il contesto geografico e culturale in cui il fenomeno viene osservato, la prospettiva con cui viene interpretato ed infine anche dal periodo storico di riferimento. Molte possono essere infatti le definizioni che possiamo riscontrare, una tra queste, la provocatoria citazione di Majid Rahnema in The Post-Development Reader, 1997 che citava:

Esistono tanti poveri e tante percezioni della povertà quanti sono gli esseri umani

oppure come afferma l’autore Marco Zupi, che ponendosi dal punto di vista delle persone che vivono questa condizione afferma:

Povertà significa per le persone la mancanza di opportunità di scelte che consentano uno standard di vita dignitoso e, quindi, non soltanto povertà

di reddito, ma povertà in tutte le molteplici voci che compogono la nozione di sviluppo (salute, accesso alle risorse autostima, relazioni

sociali)

Questa difficoltà di definizione porta conseguentemente problemi di misurazione del fenomeno stesso, così come altrettanto difficile si presenta la possibilità di stabilire in termini quantitativi la sua variabilità, pertanto come questa sia aumentata o diminuita nel tempo. A questo proposito si possono individuare i principali indici di povertà disponibili, ognuno dei quali ha offerto il suo prezioso contributo per la comprensione del fenomeno.

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- L’indice di diffusione (headcount ratio), detta misura esprime la diffusione della povertà nella popolazione in esame. E’ il rapporto tra il numero di individui il cui reddito è al di sotto della linea di povertà (q) ed il numero totale di individui della popolazione. Purtroppo, come si può osservare, tale indice non descrive adeguatamente il fenomeno in esame, dal momento che non è capace di specificare “quanto sono poveri” gli stessi poveri(Vedi anche Baldini e Toso, 2004, p. 107)

- L’indice di intensità (income gap ratio), indica di quanto in percentuale il reddito dei poveri è inferiore alla linea di povertà

- L’indice di Sen (1976), da cui prende il nome dal suo ideatore, un indicatore che sintetizza le informazioni sulla diffusione, l’intensità e la disuguaglianza. Lo studioso Sen dopo aver giudicato inadeguato il modo di analizzare il fenomeno in questione da parte dei due indici, procedette illustrando altre caratteristiche ritenute desiderabili per degli indicatori di “povertà”. All’interno di tale indice le misure che lo compongono assumono tutte valori compresi tra 0 e 1 e l’indice assume valori in quell’insieme: l’indicatore è pari a 0 nel caso in cui tutti gli individui, o tutte le famiglie, abbiano lo stesso reddito mentre è uguale a 1 se tutta la popolazione ha reddito nullo.

Pur se in forme diverse, il fenomeno della povertà, sembra essere stato sempre presente, ma oggi diversamente del passato, in cui il fenomeno era poco documentato, possiamo reperire maggiori informazioni a riguardo. In primo luogo si può affermare che, la povertà, è un processo che muta e si produce nel tempo, che ne rende indispensabile l’analisi dei processi di quelle che chiamano le “trappole della povertà”. Queste cosiddette trappole, creano circoli viziosi che si perpetuano nel tempo.

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Una prima distinzione importante sul concetto, quando si cerca di studiare tale fenomeno, è la differenza assoluta o relativa. Per quanto riguarda la prima, la povertà assoluta, equivale al mancato soddisfacimento di bisogni di base, e si fa riferimento all'idea del semplice tenore di vita ritenuto minimo accettabile. Nella povertà relativa invece, è considerato povero colui che “gode di risorse significativamente inferiori ad una qualche misura media delle risorse disponibili tra i membri della società in cui vive” (Mendola 2002, p. 18) cioè che dispone di mezzi in quantità inferiore rispetto a quelle possedute dagli individui della società in cui vive.

Nel 2016 si stima siano 1 milione e 619mila le famiglie residenti in condizione di povertà assoluta, nelle quali vivono 4 milioni e 742mila individui. Rispetto al 2015 si rileva una sostanziale stabilità della povertà assoluta in termini sia di famiglie sia di individui. […] Anche la povertà relativa risulta stabile rispetto al 2015. Nel 2016 riguarda il 10,6% delle famiglie residenti (10,4% nel 2015), per un totale di 2 milioni 734mila, e 8 milioni 465mila individui, il 14,0% dei residenti (13,7% l'anno precedente). Analogamente a quanto registrato per la povertà assoluta, nel 2016 la povertà relativa è più diffusa tra le famiglie con 4 componenti (17,1%) o 5 componenti e più (30,9%).

Ai medesimi livelli di povertà oggettiva possono corrispondere diverse percezioni di povertà soggettiva, legate al contesto sociale, culturale ed economico in cui è inserita la famiglia (Boeri e Brandolini, 2005).

Un contributo importante ci viene offerto dall’istituto di studi e analisi economica (ISAE) che utilizza il concetto di «povertà soggettiva» (2009) per indicare coloro che possono essere definiti «soggettivamente poveri», ossia quegli individui il cui reddito familiare è inferiore rispetto a quello da loro ritenuto «adeguato», ovvero necessario per condurre un’esistenza, «senza lussi ma senza privarsi del necessario» (ISAE 2009). Questa distinzione a prima vista può risultare troppo individuale ed esclusiva, ma si tratta in realtà di una dimensione rilevante in quanto, risulta inopportuno definire la povertà semplicemente una mancanza di risorse, poiché comprende anche l’inidoneità di tradurre le proprie capacità in funzionamenti, cioè quando non si è in grado di mettere in pratica le proprie capacità intese come capitale umano. Considerato ciò possiamo comprendere l’importanza effettiva della definizione di povertà soggettiva, sottolineando l’entità della singola percezione della propria condizione, percezioni che

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orientano le scelte ed i comportamenti delle persone. Nonostante ciò, è comunque possibile individuare una storia evolutiva della povertà, tenendo in considerazione le differenti accezioni e modi di farne fronte.

2.1 La povertà tra ieri ed oggi. Uno sguardo al passato.

Se diamo uno sguardo al passato, si può riconoscere che la povertà è sempre esistita, anche se in forme e modalità differenti. Facendo un breve excursus possiamo individuare che fin dai tempi remoti veniva considerata una condizione naturale, in ben definiti strati della società. Già dal medioevo si possono riscontrare delle prime distinzioni di come questa condizione fosse considerata. La visione medievale della povertà distingueva in primis la povertà involontaria la quale era meritevole di beneficenza, cioè quella che colpiva bambini, anziani ed invalidi, e poi la povertà intesa

come volontaria in cui vedeva colpiti principalmente vagabondi e criminali.

Quest’ultima, per la sicurezza della popolazione era concepita come oggetto di repressione che doveva essere debellato. Andando avanti nella modernità le cose non cambiarono di molto, si continuava ad assistere ad una distinzione netta fra coloro ritenuti in grado di mantenersi nonostante le condizioni precarie e coloro invece che vivevano un’assoluta dipendenza dall’assistenza pubblica.

Una tra le prime policy di contrasto alla povertà risale al 1601, protrattosi fino al 1834, la Old Poor Law. Questa policy, venne considerata come un sistema di assistenza rivolto agli strati più bassi della popolazione, in particolare erano interventi definiti di stabilizzazione sociale, che agivano attraverso un sostegno rivolto al capo famiglia che, pur in condizione lavorativa, versava in una situazione di disagio. Dando uno sguardo più ampio, si può scorgere, che nel XVII secolo il sistema di assistenza era più complesso e si contavano tre capisaldi del sistema: la Poor Law appena citata, che oltre a quanto già detto precedentemente, affidava anche l'assistenza dei poveri alle parrocchie e istituiva quelle che prendono il nome di poorhouse, un vero e proprio ospizio per i poveri; lo Statute of Artificers che prevedeva l'imposizione del lavoro, regolava l’ apprendistato, le tariffe salariali e prevedeva inoltre controlli salariali annuali da parte di pubblici ufficiali. Infine vi era lo Act of Settlement and Removal (1662) che

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limitava la mobilità dei cittadini, con lo scopo di proteggere le parrocchie "migliori" dall'afflusso di indigenti.

L'aiuto era estremamente limitato, finalizzato alla mera sopravvivenza fisica, mentre prevalevano gli aspetti repressivi e punitivi. In particolare, verso i poveri considerati non meritevoli, era posta l'alternativa tra lavoro coatto o reclusione, e varie forme di restrizione della libertà (diritti politici e civili e libertà di movimento; Geremek, 2003; Simmel, 1908). Come si può vedere, si può percepire fin dalle radici delle politiche di contrasto alla povertà, la presenza della distinzione tra poveri meritevoli e non meritevoli; una distinzione, come osserva Kazepov, che (2011; p.105) “fa sentire ancora oggi i suoi effetti nell'architettura istituzionale dei sistemi di assistenza sociale di diversi paesi”. In poche parole, il povero poteva essere assistito solo se incolpevole per la propria condizione, altrimenti andava trattato come un delinquente.

Successivamente, si inizia a parlare dei “nuovi poveri”, siamo nel periodo che intercorre il 1760-1830, durante la rivoluzione industriale. In questo nuovo contesto, pieno di trasformazioni sia sul piano industriale che culturale, la povertà comincia ad essere avvertita come una condizione sociale, soprattutto nei centri industriali. Le classi povere a cui appartenevano gli operai, si trovavano a fronteggiare non solo un mondo radicalmente nuovo, ma anche nuovissime difficoltà di vita. L’intera famiglia si trasformò profondamente perché i salari erano talmente bassi che entrambi i genitori dovevano lavorare. Il problema delle abitazioni fu una delle più drammatiche conseguenze della Rivoluzione Industriale, i nuovi centri che così si venivano a creare, infatti, non erano strutturati per tenere il passo con il grande flusso di lavoratori che arrivavano in città dalla campagna. In tale situazione, la precarietà abitativa era all'ordine del giorno, ma oltre a questa problematica se ne aggiungevano altre che rendevano la vita della popolazione media del tempo sempre più difficoltosa, come ad esempio le condizioni anti igieniche in cui viveva la popolazione o come la mancata tutela verso i minori, costretti ad utilizzare il tempo una volta dedicato all’istruzione al lavoro nelle fabbriche. Durante questa fase, gli interventi di protezione sociale erano rivolte a determinate classi sociali, orfani, minori e poveri. Un punto di svolta si ebbe in questo lasso di tempo con l’introduzione per la prima volta di un’assicurazione sociale che permetteva ai lavoratori una tutela sugli infortuni. Come avvenne, in altri contesti, esempio noto in Germania, verso il 1883 in cui venne introdotto l’assicurazione sociale

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dal cancelliere Bismarck, che “obbligava” i propri operai a dei versamenti, accollandosi così per intero il costo della sicurezza del lavoro. Ulteriore fase si ebbe nel 1942, anno in cui nel Regno Unito, venne introdotto il Rapporto Beveridge che prevedeva l'estensione dell' assicurazione sociale a quasi tutti i cittadini, indipendentemente dai contributi versati. Nel periodo che intercorse fino agli anni 80, la situazione a grandi linee rimase in equilibrio. Solo a partire dagli anni 80 vennero introdotte diverse misure di carattere eterogeneo, ossia, misure assistenziali con diversi aspetti nei vari paesi europei. Emergono in particolare all’interno di un nuovo quadro paradigmatico, il post-fordismo, le cui caratteristiche aiutano a descrivere il nuovo assetto che si venne ad instaurare nella società nel suo complesso. Si individua qui una povertà diversa, dovuta alla fragilizzazione delle reti di supporto familiari e dalla marginalizzazione nel mercato del lavoro che escludevano sempre più gli individui dai circuiti sociali (R. Castel). La povertà post-fordista è l’effetto della minor domanda di forza lavoro seguita dall’introduzione delle nuove tecnologie che porta un aumento della disoccupazione ed un processo di fratturazione sociale. Sempre con riferimento alla condizione espressa prima, tali misure hanno mantenuto la tipica forma di assistenza che oggi chiameremo passiva.

Per concludere questa breve panoramica della povertà nel tempo possiamo affermare che, fino al periodo da poco citato, il post-fordista, ancora non vi era una soddisfacente documentazione ed una pubblicazione sistemica di dati e ricerche sulla povertà. Si dovette aspettare l’istituzione della Commissione d’indagine sulla povertà negli anni 80 per averne una. A partire da quegli anni, diventò così evidente, non solo la rilevanza del tema ma anche le varie sfaccettature che richiesero un impegno ed un elaborazione delle politiche differenti.

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2.2 Verso una nuova visione di povertà.

A partire dalla seconda metà degli anni 80 e primi anni 90, le misure di contrasto alla povertà subirono importanti cambiamenti. Mentre la crisi del modello fordista aveva portato con se i limiti degli approcci fino ad allora in uso, in quanto legati ad una visione passiva della persona assoggettata del contributo, l’evoluzione di queste misure di contrasto, diedero avvio ad una concezione di politica che includeva la persona stessa in modalità di gestione più complesse.

Le politiche di welfare sono dunque state sempre più concepite intorno all’idea che l’esclusione sociale sia un problema da risolvere principalmente con un reddito ottenuto attraverso la partecipazione al mercato del lavoro e non tramite l’accesso ai fondi dell’assistenza e della previdenza. Secondo i sostenitori di questa ipotesi, ciò contribuirebbe all’inclusione dei potenziali aventi diritto ai sussidi e alla riduzione della spesa pubblica per la protezione sociale, salvaguardando allo stesso tempo la possibilità di erogare misure di sostegno economico per coloro che, non avendo alcuna possibilità di accedere a un’occupazione, risultano effettivamente «meritevoli» di un supporto da parte dello stato (Villa, 2007).

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2.2.1 Integrazione come principio

A livello Europeo, nonostante i differenti e divergenti contesti dei singoli membri, è stato avviato un processo di riforma di welfare volto a produrre una politica sociale integrata. Si voleva creare un discorso pubblico congiunto con obiettivo la creazione di un mercato unico. Con l’attuazione del primo Piano d’Azione Sociale nel 1972 la dimensione sociale iniziò ad avere un peso diverso in quanto si cominciava a comprendere l’importanza dell’incidenza delle politiche e delle iniziative che miravano a coinvolgere l’ambito dei diritti sul lavoro e delle pari opportunità. Iniziativa seguita poi dall’approvazione della Carta comunitaria dei diritti sociali comunitari che ampliò ancora di più il suo spettro coinvolgendo la protezione all’infanzia e degli adolescenti. Ma solo a partire dagli anni ‘90 la dimensione sociale entra a far parte delle politiche europee, spesso affiancando le strategie contro la povertà e dell’esclusione sociale a quelle a sostegno del mercato del lavoro. Le preoccupazioni per gli squilibri strutturali e la crescita disomogenea in Europa avevano condotto alla creazione di una politica sociale più attiva a livello comunitario. Bisogna attendere il 1992, per far si che si venga via via avvalorando una visione sempre più vicina a quella che conosciamo noi oggi, con l’annessione di un Protocollo sociale al Trattato dell’Unione sottoscritto a Maastricht. Attraverso questa annessione, le politiche europee fanno propria la dimensione sociale con la volontà, da parte degli stati firmatari, di realizzare una base comune di diritti sociali orientati al coinvolgimento della persona, affiancando le strategie contro la povertà all’esclusione sociale ovvero al sostegno del mercato del lavoro. Questo modello ideale inizia a diventare concreto a partire da due programmi in particolare, il cosiddetto Piano d’Azione Sociale (1995-1997) che porta come bandiera la volontà di armonizzare se pur in contesti e capacità di intervento diverse, una programmazione di politica sociale ed economica. Il secondo invece, il Trattato di Amsterdam (1999), in cui si cita in modo importante e per la prima volta la lotta contro l’esclusione sociale. Attraverso questi atti si inaugura un programma che si basa su un approccio integrato tra le politiche del lavoro per una maggiore occupazione e le politiche di welfare, che creano la premessa per quelle misure di contrasto verso l’inclusione sociale tramite un vero e proprio approccio preventivo all’esclusione. Si evidenzia come, tramite questa evoluzione si vengono a creare dei veri e propri principi che guideranno nel tempo le politiche di contrasto alla povertà. Un approccio di

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tipo integrato, come principio guida, invoca l’importanza di occupazione ma anche di affiancamento alle situazione di esclusione per avere il giusto sostegno ad uno stile di vita dignitoso, con inclusa la realizzazione di diritti sociali comuni volti ad un continuo sviluppo e garanzia.

Altro momento di svolta lo ritroviamo nel 2000, anno in cui l’Agenda Sociale Europea (2000-2005) iniziò a riconoscere per gli stati membri la necessità di far fronte ad ulteriori sfide, tra cui quelle nate dalle esigenze economiche, dalla crescente disparità di reddito e dai cambiamenti demografici. Si chiedeva, in questo nuovo contesto, un supporto maggiore al reddito, che non fosse semplicemente di supporto alla persona ma che fosse anche attivo cioè capace di promuovere un coinvolgimento della persona interessata. La tesi sottostante è la stessa delle politiche di welfare to work (Barbier), che inaugurava una nuova generazione di politiche sociali e del lavoro, dove il welfare state da erogatore di dispostivi di tutela e di protezione passiva diviene produttore di servizi promozionali e personalizzati (Lodigiani Riva, 2011).

Questa continua evoluzione dovuta dai cambiamenti che ogni giorno i vari paesi dovettero affrontare, evidenzia l’importanza di rivolgere lo sguardo all’interno delle dinamiche tra paesi, ed anche al bisogno nascente di integrazione tra gli strumenti di supporto che si avvicinano sempre di più ai bisogni reali, ed a quelle dinamiche che condurrebbero con il tempo, alla creazione di un rete collegata ma soprattutto inclusiva. Al culmine di questa evoluzione, più vicino a noi si può individuare un ulteriore passaggio, una strategia volta al continuo miglioramento di un modello già esistente, che però per la prima volta si propone una prova di crescita definita dagli stessi creatori, più intelligente, la nuova Strategia dell’Unione Europea 2020.

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2.3 Strategia Europa 2020: Verso un’ultima tappa?

Nel giugno 2010 presso la Commissione Europea, il Coniglio europeo svolse un incontro in cui si posero le basi per un nuova strategia in cui il tema della povertà era stato messo in primo piano, con l’intento di riuscire a creare un piano per una crescita che coinvolgesse l’intera Europa: definita dalla commissione stessa il programma dell’UE per la crescita e l’occupazione per il decennio in corso. Questa strategia pose l'accento su una crescita intelligente, come mezzo per superare le carenze strutturali dell’economia europea, migliorarne la competitività, la produttività e favorire l’affermarsi di un’economia di mercato sociale sostenibile. In poche parole fu intrapreso come tentativo concreto di soddisfare un bisogno di crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva. Tra i capisaldi di questo modello, si può individuare la volontà di ridurre di 20 milioni le persone a rischio di povertà o di esclusione sociale nei territori compresi in questa strategia.

Una dimostrazione di come si siano sviluppati i progressi della strategia si possono riscontrare nei Risultati della consultazione pubblica sulla strategia Europa 2020 (Bruxelles, 2015) pubblicati tramite il documento “Comunicazione della commissione al parlamento europeo, al consiglio, al comitato economico e sociale europeo e al comitato delle regioni”. Si può riscontrare da tale documento che sono aumentate le differenze tra le regioni di uno stesso Stato membro e dei vari Stati membri. Nel 2000 la differenza tra il miglior e il peggior risultato era di 22,7 punti percentuali e i tassi di occupazione variavano dal 55,3% della Bulgaria al 78,0% della Danimarca. Invece se andiamo a guardare l’obiettivo riguardante l’inclusione sociale, secondo i dati Eurostat (2011), la quota di popolazione che risultava a rischio di povertà o esclusione sociale risultava: in Italia il 28,2%; in Francia il 18,19%; in Germania il 19,66%; nel Regno unito il 22,49%; in Spagna il 26,80%.

In Italia, pertanto, l’obiettivo di ridurre il numero di persone a rischio o in condizioni di povertà e di esclusione sociale di almeno 20 milioni di unità è stato mancato. Se guardiano i numeri, all’interno del nostro Paese nel 2010 si contava che l'11,0% delle famiglie era relativamente povero ed il 4,6% lo era in termini assoluti. Nel 2016 la povertà assoluta ha coinvolto il 6,3% delle famiglie e la povertà relativa il 10,6%, periodo di riferimento: (Anno 2016 Data di pubblicazione: giovedì 13 luglio 2017).

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Facendo un confronto delle politiche contro la povertà nei principali Paesi europei, emergono alcune principali caratteristiche.

In Germania ad esempio l’obiettivo centrale dell’assistenza sociale si individua nel rafforzamento dell’autonomia e dell’iniziativa individuale.

Tra i sistemi in vita troviamo:

- I sussidi per il sostentamento. Aiuto erogato in denaro calcolato in base alla differenza tra il fabbisogno assistenziale per il sostentamento individuale (diverso per sei tipologie di nucleo familiare) i redditi e i valori patrimoniali;

- L’ integrazione al minimo. Rivolto alle persone anziane ed a coloro a cui viene constatata una capacità lavorativa ridotta. Questa prestazione viene calcolata come il sussidio per il sostentamento, ma riconosciuta per la durata di un anno;

- I sussidi per l’assistenza sanitaria, equivalenti alle prestazioni dell’assicurazione obbligatoria;

- I sussidi per l’integrazione delle persone disabili, le quali vengono commisurate al fabbisogno assistenziale del disabile e possono essere erogate sotto forma di “budget individuale”;

- I sussidi per l’assistenza continua, rivolte alle persone che hanno bisogno di assistenza continuativa a domicilio;

- Il sussidio per il superamento di particolari difficoltà sociali, destinato alle persone che vivono in una situazione particolarmente gravosa connessa a difficoltà di natura sociale (per esempio i senzatetto);

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- Ed infine i sussidi in altre circostanze che comprendono vari tipi di prestazioni, ad esempio per continuare la conduzione della casa, per gli anziani e i non vedenti.

Invece se diamo uno sguardo in Francia le prestazioni in caso di fragilità sociale sono rivolte a 4 grandi aree di utenza. Nelle prime 2 aree troviamo, anziani e disabili, a cui vengono integrate le prestazioni di previdenza sociale nel caso in cui non possiedono una posizione assicurativa sufficiente. Nelle altre 2 aree si inseriscono i minori e coloro che versano in condizione di povertà/esclusione sociale, considerati come persone che non dispongono di risorse sufficienti e senza impiego. Le persone rientranti in quest’ultima regione, possono usufruire di alcuni aiuti:

- RSA, reddito di solidarietà attiva. Strumento creato per agevolare l’accesso al lavoro. Questo sussidio, viene erogato per periodi della durata di 3 mesi che possono essere rinnovati, e l’importo della prestazione varia in base alla situazione familiare.

- ATA, sussidio temporaneo di attesa. Fornisce invece un reddito temporaneo a quelle persone in cerca di occupazione (persone in attesa di reintegrazione, i richiedenti asilo, alcuni stranieri) che non hanno diritto alle prestazioni dell'assicurazione contro la disoccupazione. Ma i beneficiari, a loro volta, devono intraprendere azioni positive finalizzate al recupero dell'attività lavorativa.

- ASS, sussidio di solidarietà specifico, che garantisce un reddito minimo alle persone che sono in grado di lavorare ma che non soddisfano i requisiti necessari a percepire una pensione ad aliquota piena.

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In Spagna, si distinguono le prestazione tra le categorie di disoccupati, a cui spetta il diritto a un’indennità sociale di disoccupazione e al reddito di integrazione.

- L’indennità sociale, può essere corrisposta a coloro che non hanno diritto a una prestazione contributiva poiché non hanno versato contributi per un periodo sufficiente e ai beneficiari dell’indennità contributiva che risultano ancora disoccupati al termine del periodo di erogazione previsto.

- Il reddito di integrazione attiva viene erogato ai disoccupati di lunga durata di età superiore ai 45 anni (ma inferiore ai 65 anni), ma anche ai lavoratori emigranti che rientrano, ai disabili e alle vittime di violenza domestica o di genere.

- Infine vi sono le prestazioni per l'assistenza a lungo termine possono essere concesse a persone prive di autonomia fisica, mentale, intellettuale o sensoriale che necessitano dell'aiuto di terzi per compiere gli atti quotidiani della vita. Possono essere erogate prestazioni in natura o in denaro.

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2.4 Il caso Italiano.

In Italia il sistema di protezione sociale è stato finora privo di uno strumento universale di contrasto alla povertà. La prima politica nazionale contro la povertà fu la sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento durante il governo Prodi (1996), su proposta della Commissione nazionale contro la povertà della Presidenza del Consiglio dei Ministri. La fase sperimentale del RMI fu istituita con il Decreto legislativo n. 237 del 18 giugno 1998, in 39 comuni italiani rappresentativi di tutto il territorio nazionale: 6 nel Nord, 11 nel centro e 22 nel Mezzogiorno. Il decreto definisce il RMI "una misura di contrasto della povertà e dell´esclusione sociale attraverso il sostegno delle condizioni economiche e sociali delle persone esposte al rischio della marginalità sociale ed impossibilitate a provvedere per cause psichiche, fisiche e sociali al mantenimento prossimo e dei figli" (art. 1, comma 1). Nel 2011 la Commissione d´Indagine sull´Esclusione Sociale (CIES) nel suo rapporto annuale, rese pubblici i dati di riscontro della sperimentazione, si evidenziò nei due anni di sperimentazione la presentazione di 55.522 domande di RMI di cui ne furono accolte 34.730 corrispondenti a 85.000 individui circa, pari all´1,5% della popolazione dei 39 Comuni.

L´entrata in vigore della legge di riforma dell´assistenza (legge 8 novembre 2000, n. 328 - legge quadro sul sistema integrato di interventi e servizi sociali) portò ulteriori cambiamenti. La legge quadro definisce come universale diritto soggettivo la possibilità di beneficiare di prestazioni economiche, e di questo diritto lo Stato, le Regioni ed i Comuni devono farsi garanti, assicurando i “livelli essenziali delle prestazioni”, così da rendere esigibili i diritti sociali che la legge bene inquadra e definisce. I livelli essenziali da assicurare a tutti i cittadini comprendono, tra l’altro, “misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito e servizi di accompagnamento”, e quindi gli interventi economici messi fin ora in campo dai comuni come misura facoltativa cessano di essere discrezionali ed entrano a pieno titolo fra gli interventi che possiamo definire “obbligatori” […] tra i soggetti rientranti in questa manovra sono nella sostanza del tutto simili a quelli destinatari della sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento. Queste misure risultano tra l’altro ancora dipendenti dalle decisioni politiche e di governo, e pongono l’Italia un passo indietro rispetto alla maggioranza dei paesi europei sul terreno dei diritti di cittadinanza sociale.

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In seguito, la programmazione (2014-2020) dei fondi strutturali europei ha stabilito di destinare non meno del 23,1% del Fondo sociale europeo (FSE) alle politiche d’inclusione sociale: 1,2 miliardi di euro. Oltre l’80% delle risorse dei programmi operativi nazionali (PON Inclusione) è stato destinato ad accompagnare l’introduzione del Sostegno all’Inclusione Attiva (SIA) e in particolare della sua componente attiva (tirocini, corsi di formazione, servizi conciliazione vita-lavoro, ecc.). La componente passiva del SIA viene finanziata con fondi nazionali che ammontano per il 2016 a 750 milioni di euro (dal 2017 il finanziamento previsto è di un miliardo di euro annuo) e prevede trasferimenti monetari proporzionati al numero dei minori presenti nel nucleo familiare. Da Gennaio 2018, tale strumento, verrà assorbito da una nuova misura nazionale, il Reddito di Inclusione Sociale (REI) che permetterà un ulteriore aumento dei nuclei beneficiari perché resi meno stringenti i requisiti del nucleo familiare, integrando alla fascia già compresa gli over55 disoccupati da almeno tre mesi. Ciò richiede un conseguente riassetto da parte dei servizi e degli enti coinvolti.

Il sistema di protezione sociale italiano è stato a lungo privo di uno strumento universale di contrasto alla povertà e solo negli ultimi anni è stato messo in discussione il tema sulle norme relative al riordino delle prestazioni, al sistema degli interventi e dei servizi sociali. I nuovi obiettivi che hanno guidato questo percorso si possono riscontrare nella volontà di introdurre una misura nazionale per il contrasto alla povertà: il bisogno di razionalizzare le prestazioni di natura assistenziale, nonché le prestazioni di natura previdenziale, entrambe sottoposte alla prova dei mezzi. Per cui si è reso necessario il bisogno di riordinare la normativa in materia di servizi sociali, sulla base di principi generali, tra i quali l’ inclusione attiva e l’universalismo selettivo nell’accesso alle prestazioni.

Concludendo questa prima parte, si può affermare che, attraverso questa linea del tempo si può cogliere da un lato l’importanza del bisogno di una definizione che riesca a comprendere in modo integrato l’ampiezza e le multiformi sfaccettature di questo concetto racchiuso nella parola Povertà. Dall’altro si concepisce in modo chiaro il bisogno di creare vere e proprie misure di contrasto che vengano via via modificate e modellate sulla base dei vari contesti e dei bisogni che con l’andare del tempo possono variare, per rendere il raggiungimento degli obiettivi sempre più concreto.

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3. Povertà nel percorso di vita. 3.1 Il concetto di tempo

Individuano la difficoltà nel definire la povertà in modo univoco e nell'individuare un intervento universale per farne fronte, si giunge a comprendere che le modalità di contrasto alla stessa richiedano continui approfondimenti ed aggiustamenti, affermando pertanto che l’approccio al problema della povertà riprende visioni diverse in base al contesto di riferimento che non è mai del tutto stabile ma muta con il passare del tempo. Il contesto in cui viviamo e siamo inseriti dalla nascita ci rimanda una serie di input e stimoli che modellano e modificano i nostri stili di vita e ci orientano nelle decisioni. Il concetto di tempo quando si parla di povertà è fondamentale, sia inteso come periodo storico di vita, sia inteso come il concetto stesso di povertà che si perpetua e si mantiene nella vita della singola persona. Per quanto riguarda la prima definizione di tempo, ovvero inteso come periodo storico, vi è un legame al corso di vita di ogni singolo individuo: con esso si vuole evidenziare il fatto che la povertà assume forme diverse a seconda della fase di vita in cui si trova un individuo o una famiglia (Rinaldi,2006). Fare riferimento al corso di vita significa porre attenzione alla condizione della persona soggetta a povertà, se stia vivendo come persona sola in una fascia di età specifica, cioè, se anziana, se madre sola, se vi è la presenza di un minore in famiglia ecc. Per capire meglio il concetto è molto utile fare riferimento alle parole di due studiosi che si sono interessati al fenomeno, ovvero Leisering e Leibfried (1999, p.6):

fare riferimento al “corso di vita” significa analizzare la povertà in una prospettiva dinamica strutturata sia dagli ordinamenti istituzionali sia dagli orizzonti biografici individuali. Questi due livelli interagiscono definendo la struttura temporale dell’intero arco di vita degli individui.

Volgendo lo sguardo alla popolazione italiana, in particolare facendo ricorso ai rapporti Istat, la povertà si conferma come fenomeno costante che colpisce soprattutto le famiglie numerose, i minori ed anche i giovani.

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La classificazione delle famiglie in Italia avviene distinguendole tra povere e non povere. Questa differenziazione si ottiene attraverso “la linea convenzionale di povertà” calcolata dall’Istat sulla base del reddito individuale o familiare. Al di sotto di tale linea si viene considerato povero o meno. All’interno di questo quadro è possibile individuare ulteriori suddivisioni che ci permettono di individuare gruppi di famiglie distinte in base alla distanza della loro spesa mensile dalla linea di povertà, classificandole in: sicuramente povere, appena povere, quasi povere e sicuramente non povere. Una prima considerazione da fare è che da quanto emerge dalle ultime analisi Istat, il quadro è sostanzialmente stabile rispetto al 2015 in quanto:

- Nel 2016 le famiglie “sicuramente” povere (che hanno livelli di spesa mensile equivalente inferiori alla linea standard di oltre il 20%) sono il 5,6%, quota che sale a 10,5% nel Mezzogiorno.

- È “appena” povero (ovvero ha una spesa inferiore alla linea di non oltre 20%) il 5,0% delle famiglie residenti (9,2% nel Mezzogiorno); tra queste, più della metà (2,8%), presenta livelli di spesa per consumi molto prossimi alla linea di povertà (inferiori di non oltre il 10%); il valore nel Mezzogiorno è pari a 5,5%.

- È invece “quasi” povero il 7,0% delle famiglie (spesa superiore alla linea di non oltre 20%) mentre il 3,3% ha valori di spesa superiori alla linea di povertà di non oltre 10%, quote che salgono rispettivamente a 11,1% e 5,9% nel Mezzogiorno.

- Le famiglie “sicuramente non” povere, infine, sono l’82,4% del totale, con valori pari a 90,1% nel Nord, 84,8% nel Centro e 69,2% nel Mezzogiorno. (ISTAT, 2017).

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Importante è comprendere il funzionamento della linea convenzionale della povertà che stima come detto l’incidenza della povertà, individuando un livello di reddito sotto al quale si viene definiti poveri. Ad esempio, il calcolo della soglia di povertà assoluta fornitaci dall’ Istat, viene definita come la rappresentazione del valore monetario del paniere di beni, integrando ad esso l’età dei componenti di una famiglia e la ripartizione geografica. Molti sono pertanto i fattori che possono far oscillare una famiglia su questa soglia. Per queste famiglie è sufficiente uno scostamento minimo nel reddito mensile (un breve periodo di cassa integrazione, l’abbreviarsi di un contratto di lavoro, temporaneo, l’allungarsi del periodo di latenza tra successive prestazioni occasionali..) per entrare a far parte della categoria dei “relativamente poveri” (CIES, 2009. P.II).

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3.2 La dinamicità della povertà e la questione sociale.

Questa oscillazione di reddito che porta gli individui e le famiglie ad essere considerate in uno o in un altro modo, sottolinea la dinamicità della povertà, intesa non solo come evento nella sua visione generale, ma anche come caso singolo di una persona nella sua soggettività.

La povertà non è tanto una caratteristica di gruppi di individui, quanto piuttosto un evento o un fase nel corso di vita individuale. Le esperienze di povertà hanno un inizio, una specifica durata, un certo corso, e spesso una fine. Uscire dalla povertà è possibile. Essere povero in un certo punto nel tempo non implica necessariamente diventare un membro permanente di un gruppo di individui poveri. (Leisering e Leibfried, 1999, p.9)

Questo riferimento degli studiosi Leisering e Leibfried, può essere considerato uno spartiacque perché fino ad allora il senso comune intendeva la povertà come statica, come un circolo vizioso che incatenava e cronicizzava la situazione vissuta, come un’eredità trasmessa all’interno della stessa famiglia.

Nonostante questo però, attraverso delle ricerche più recenti, si può comprendere che la povertà è anche ai nostri giorni correlata ad altri fattori ben specifici. Tramite una ricerca effettuata dall’associazione Save the Children, si possono individuare infatti, situazioni e dati che riguardano maggiormente la povertà legata ad un dato contesto di vita. Si individua pertanto come la probabilità di vivere una condizione di precarietà viene associata anche solo per la “sfortuna” di essere nati in una famiglia ubicata in una determinata parte del mondo, invece che in un’altra. All'interno della stessa ricerca e nello specifico, volgendo l’attenzione al nostro Paese, i dati rendono noto che in Italia la povertà cognitiva è ancora significativamente associata allo status socio-economico e culturale della famiglia (Rapporto Nazionale PISA, 2012). Più di un terzo dei minori di 15 anni che vivono nel 20% delle famiglie più disagiate (o primo quinto) non raggiunge i livelli minimi di competenze in matematica e lettura, rispetto a meno del 10% dei

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quindicenni che vivono in famiglie con i livelli socioeconomici e culturali più elevati (ultimo quinto o “top 20%”). Il contesto educativo e culturale all’interno del quale i bambini vivono, a partire dalla propria casa, definita “comunità educante”, è altrettanto importante per la loro formazione educativa. La povertà cognitiva diminuisce significativamente tra i minori appartenenti a nuclei familiari con un livello socio-economico e culturale più basso quando hanno la possibilità di utilizzare internet a casa e di essere stimolati culturalmente, attraverso il contatto con la musica, l’arte, la lettura (Save the Children, 2015).

Oltre ad un aiuto inteso come trasferimenti economici, quindi, sembra indispensabile andare ad operare nel contesto stesso, andare laddove il problema si perpetua. Ognuno di noi nasce in una parte del mondo, geograficamente inteso, vivendo e crescendo con il bagaglio culturale che lo circonda. Oltre a questa parte di mondo però ce ne sono altre, migliori o peggiori che siano, che il soggetto può conoscere per modificare la propria biografia. Venire a contatto con culture, idee, sviluppi tecnologici e professionali diversi, possono dare un contributo in più nello spronare la ricerca del cambiamento di vita. Ciò è immaginabile soprattutto per i giovani curiosi che non si accontentano di ciò che hanno e decidono di rischiare. Questo cambiamento personale sembra nascere tramite un percorso lineare e semplice ma, nel passaggio dalla teoria alla pratica, questa ricerca e curiosità richiedono una conoscenza in più. Tali conoscenze non si riferiscono soltanto a quelle che vengono apprese unicamente all’interno delle strutture scolastiche o lavorative, si riferiscono anche a quelle che nascono dalla rete relazionale, poiché le reti personali con le quali veniamo maggiormente a contatto, possono farci rendere conto di ciò che possiamo pretendere dalla vita. Questo discorso deve essere necessariamente collegato alla nozione di capitale sociale definita dallo studioso Bourdieu: il “capitale sociale” è da intendere come bagaglio all’interno del quale reperire tutto il necessario a dare utili sostegni. Prendendo il contributo a noi offerto dallo stesso Bourdieu in collaborazione a Wacquant (1992) definiamo il capitale sociale come segue:

Somma delle risorse, reali e virtuali, che derivano a un individuo, o a un gruppo, dall’essere parte di relazioni durature, e più o meno istituzionalizzate, fatte di conoscenze e riconoscimenti reciproci.

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Aumentando il proprio capitale sociale, aumentano conseguentemente le probabilità di far fronte in modo positivo alle proprie vicissitudini ed alla povertà integralmente intesa.

3.3 Visione monetaria.

Quando si parla di povertà è importante andare ad individuare il capitale sociale di cui si dispone e la rete relazionale in cui si è inseriti. Ma ciò non basta, non possiamo limitarci ad individuare unicamente i supporti sociali, ovviamente anche la parte monetaria ha la sua funzione fondamentale. Come abbiamo visto nel precedente capitolo, la prima politica nazionale contro la povertà fu la sperimentazione del “Reddito Minimo di Inserimento” durante il governo Prodi (1996), una misura di contrasto della povertà e dell´esclusione sociale attraverso il sostegno delle condizioni economiche e sociali istituita con il Decreto legislativo n. 237/1998, in 39 comuni italiani rappresentativi di tutto il territorio nazionale. Si configura pertanto come la prima misura di contrasto alla povertà a carattere nazionale, in quanto fino ad allora tali misure si caratterizzavano come locali, peccando di eccessiva categorizzazione e discrezionalità. Il sistema di welfare italiano era quindi privo di una misura trasparente ed omogenea.

Gli interventi di RMI (Reddito Minimo di Inserimento), sono in linea di principio universalistici e selettivi, ovvero interventi che offrono servizi a tutti coloro che ne hanno bisogno, considerato però che avendo a che fare con risorse economiche scarse, vengono assegnati in base al reddito economico delle famiglie con reddito inferiore ad una soglia prestabilita. La situazione economica familiare nel suo complesso si individua tramite l’ISE (l’indicatore della situazione economica).

L’indicatore ISE è stato previsto dalla delega contenuta nell’art. 59, commi 51 e 52 della legge finanziaria 27 dicembre 1997, n. 449, ed attuato dal d.lgs n. 109 del 1998 successivamente modificato con decreto correttivo n. 130 del 1999. Questo strumento, è stato considerato inadeguato ai fini dell’individuazione dei soggetti meritevoli di prestazioni agevolate […] In sintesi, esse discendono all’esistenza di consistenti settori di economia sommersa, nella divaricazione tra reddito fiscale e consistenza del

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patrimonio immobiliare, nella incapacità del criterio fiscale a far emergere la situazione economica complessiva del nucleo familiare. Si è così prevista una disciplina che anche nell’ambito delle prestazioni sociali agevolate consentisse agli enti erogatori di definire la soglia di accesso secondo criteri unificati sia di valutazione della situazione economica, sia di dichiarazione da parte degli utenti delle informazioni richieste ai fini del calcolo del parametro. L’adozione di un indicatore uniforme della situazione economica ai fini dell’accesso alle prestazioni sociali agevolate costituisce un approdo recente, dopo due diverse fasi nelle quali, inizialmente, non esistevano criteri, preferendosi una scelta universalistica(Ghersi).

Ritornando nello specifico al RMI, facendo riferimento al Rapporto ISAE (Istituto di Studi e Analisi Economica), nel riquadro dedicato ai trasferimenti monetari, si può individuare come nel caso di un adulto solo senza figli, il trasferimento abbia coperto la differenza fra 269 euro ed il reddito individuale. Questo strumento, già in fase di sperimentazione, ha portato alla luce alcune criticità. In primo luogo, bisogna porre attenzione al contesto perché, questa misura di contrasto, rivolgendosi laddove il bisogno era più evidente, portava con se risultati differenti da territorio a territorio. Questa differenza scaturiva dai costi che i Comuni hanno dovuto accollarsi per il finanziamento del personale, pertanto, sempre facendo riferimento al Rapporto ISAE, i costi medi mensili per il personale, in relazione a ciascun nucleo, sono passati da 225 euro al sud a 775 al nord.

Queste criticità riscontrate con il RMI, sembrano poi perpetuarsi nel nuovo programma di contrasto alla povertà, ovvero nel RUI (Reddito di Ultima istanza) introdotto dalla legge finanziaria del 2004 in linea con la volontà del Governo di attuare la norma presente nella Legge quadro sull’assistenza (L. 328/2000, art. 23).

La legge Finanziaria all’articolo 16, primo comma, recita:

“Nei limiti delle risorse preordinate allo scopo dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali nell’ambito del Fondo nazionale per le politiche sociali (…), lo Stato concorre al finanziamento delle Regioni che istituiscono il Reddito di ultima istanza quale strumento di accompagnamento economico ai programmi di

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inserimento sociale, destinato ai nuclei familiari a rischio di esclusione sociale e i cui componenti non siano beneficiari di ammortizzatori sociali destinati a soggetti privi di lavoro”.

Il co-finanziamento rivolto alle Regioni e Comuni portava in evidenza le stesse criticità, ovvero una difficoltà alla risoluzione del problema della povertà proprio in quei contesti in cui il bisogno era maggiore.

Considerando quindi le misure di contrasto alla povertà, il fattore economico è molto importante. Sulla base di questo si può realmente considerare le opportunità da mettere in atto all’interno del territorio. L’obiezione più forte è, ed è sempre stata, quella dell’insostenibilità finanziaria della misura di reddito minimo. Le stime del costo per la sua introduzione elaborate dall’Irs nel 2003 erano di 3.200 milioni di euro, le stime recenti del Cies di 4 miliardi. Non è una somma astronomica, anzi è una somma contenuta, pari a meno di un decimo della spesa sociale nel suo insieme. Gradualità e selettività dovrebbero essere le parole d’ordine: si può infatti introdurla riducendo inizialmente il livello reddituale cui integrare i redditi delle famiglie povere, e prevedendo, ad esempio, altri selettori temporanei, quali la composizione della famiglia ed il suo carico assistenziale, purché si salvaguardino i livelli essenziali. Potrebbe anche non essere tutta spesa aggiuntiva. Infatti, non si riuscirà mai ad introdurre una misura universalistica (e più in generale a realizzare una riforma compiuta delle politiche sociali), senza sottoporre a verifica le misure esistenti e senza riformare quelle che in prospettiva possono essere riassorbite in una misura più complessiva di integrazione dei redditi, che consideri e valorizzi anche particolari condizioni individuali, familiari e sociali(D. Mesini ed E. Ranci Ortigosa 2011.

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3.4 Trasferimenti economici a confronto.

Fin’ora l’attenzione è stata rivolta unicamente al contesto italiano, individuando così già nel nostro territorio differenze regionali sostanziali. Ma ciò non è l’unica differenza riscontrabile, infatti il welfare italiano, si differenzia anche dai diversi paesi europei. Il nostro infatti è un welfare definito familistico, cioè che fa riferimento non al singolo individuo bensì alla famiglia. Oltre a ciò un’altra importante differenza si riscontra nelle capacità redistributive. Il welfare italiano risulta nel suo complesso poco redistributivo nel confronto internazionale: dai dati dell’Eurostat risulta che la riduzione del rischio di povertà ed esclusione sociale dovuta ai trasferimenti sociali (pensioni incluse) è in Italia molto inferiore della media degli altri paesi europei e di quella dei principali paesi dell’area dell’euro. Tale peculiarità è particolarmente accentuata nel caso dei minori. Per loro, i trasferimenti aiutano a ridurre il rischio di povertà ed esclusione di 10 punti percentuali in Italia, contro valori pari a 16 e 18 punti in Germania e in Francia, rispettivamente. Ciò riflette sia la composizione della spesa sia limiti nel disegno delle singole misure. Ne risulta complessivamente un quadro in cui i diversi strumenti di contrasto alla povertà operano privi di una logica unitaria, risultando caratterizzati da requisiti di accesso diversi (V. Curigliano, 2017)

La programmazione dei fondi strutturali europei 2014-2020, in considerazione degli effetti della recessione economica, ha stabilito di destinare non meno del 23,1% del Fondo sociale europeo (FSE) alle politiche di inclusione sociale, ampliando la possibilità di finanziare anche azioni che non erano presenti nella programmazione precedente, al fine di contrastare la povertà (R. Cicciomessere, 2017).

Il fondo sociale europeo, contemporaneamente ha cofinanziato anche il Programma Operativo Nazionale (PON) Inclusione 2014-2020. Attraverso il documento redatto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, si riscontra come per la prima volta i fondi strutturali intervengono a supporto delle politiche di inclusione sociale. Il PON, in particolare, intende contribuire al processo che mira a definire i livelli minimi di alcune prestazioni sociali, affinché queste siano garantite in modo uniforme in tutte le regioni italiane, superando l'attuale disomogeneità territoriale (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2017).

Il PON inclusione è strutturato in cinque assi prioritari, ognuno dei quali ha una sua finalità e dotazione finanziaria (Roberto Cicciomessere, 2017):

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- Asse 1 e Asse 2 “Sostegno a persone in povertà e marginalità estrema”, con una dotazione finanziaria pari a poco più di un miliardo di euro;

- Asse 3 “Sistemi e modelli di intervento sociale”, con risorse che ammontano a meno di 100 milioni di euro, ha l’obiettivo di supportare le amministrazioni responsabili dell’attuazione di misure sociali, nonché dell’integrazione delle comunità e delle persone a rischio di emarginazione attraverso azioni di sistema o progetti pilota volti alla condivisione di standard e modelli;

- Asse 4 “Capacità amministrativa”, con una dotazione finanziaria pari a poco più di 10 milioni di euro, mira ad accrescere l’efficacia degli interventi attraverso il rafforzamento della capacità istituzionale e amministrativa di programmazione e gestione delle politiche sociali e, in particolare, a rafforzare gli strumenti di governance che possono accompagnare il processo definitorio dei livelli essenziali delle prestazioni sociali;

- l’Asse 5 “Assistenza Tecnica”, con risorse pari a circa 53 milioni di euro, punta a rendere più efficiente il funzionamento delle strutture che si occupano di programmazione, gestione, sorveglianza, controllo e valutazione del PON.

All'interno dell’Asse 1 e dell’Asse 2 appena individuati, si va ad attingere anche per i nuovi progetti posti in essere negli ultimi tempi, ovvero il progetto SIA (Sostegno per lì inclusione attiva), ed il progetto REI (Reddito di inclusione), predisponendo circa l’85% del budget complessivo.

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4. Da una visione “Passiva” ad una “Attiva”.

Quando parliamo di politiche di contrasto alla povertà, parliamo di interventi a favore di categorie di persone che, a causa di difficoltà economiche richiedono l’intervento dello Stato per far fronte alla loro condizione. Le politiche hanno subito con il tempo vari cambiamenti, riguardanti sia le modalità di erogazione dei contributi e degli aiuti, sia la stessa mission, ovvero gli obiettivi desiderabili che un ente, istituzione o organizzazione si prefigge come fine auspicabile. Per quanto riguarda le finalità, a partire dalle prime politiche di intervento, ritroviamo quelle a titolo di sostegno, cioè, quelle politiche che vengono definite di tipo “passivo”. Un esempio ne sono i sussidi: strumenti rivolti ad ammortizzare le ripercussioni sociali della condizione in cui ci si trova, attraverso i quali si tende ad attenuare le conseguenze di una situazione difficile. In Italia, come abbiamo visto nel capitolo precedente, abbiamo una tradizione di politiche di contrasto alla povertà, volte alla “semplice” erogazione di contributi verso quelle categorie di persone che non riescono a raggiungere una data soglia. L’Italia è stata tradizionalmente caratterizzata dalla presenza di istituzioni di welfare di tipo bismarckiano, cioè un welfare che finanziava le prestazioni previdenziali solo grazie alla contribuzione versata dai lavoratori, prestazioni che venivano poi proporzionate ai livelli di reddito raggiunto. In questa visione, quindi l’accesso alla protezione sociale è funzione della partecipazione al mercato del lavoro. In un sistema di protezione sociale di questo tipo, i benefici sono legati al possesso di un reddito e le prestazioni sono finanziate attraverso i contributi sociali (C. Agostini, 2015).

Per quanto riguarda le politiche passive, un ulteriore esempio lo possiamo individuare all’interno della logica delle politiche di sostegno al reddito. Questo tipo di politiche vengono definite di carattere passivo perché vanno a sostenere quei nuclei con mancanza di risorse economiche necessarie al sostentamento, ma senza condizionare l’erogazione del contributo a specifici comportamenti o azioni da mettere in atto da parte dei beneficiari, non vanno ad incidere quindi sulla causa che arreca difficoltà. A partire dalla fine degli anni ’80, a questa visione delle politiche di welfare si inizia ad apportare delle modifiche importanti. Se fino ad allora la povertà si riteneva di esser superata tramite l’accesso a fondi per la sussistenza, a partire da quel momento, l’attenzione si volse soprattutto all’idea che l’esclusione sociale fosse un problema da risolvere dalla radice. Non serviva più creare un benessere riscontrabile a breve periodo,

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dando un sollievo immediato, ma doveva essere un intervento volto ad eliminarne le cause, ad andare ad individuare cosa nel meccanismo andasse storto. Tutto ciò portò all’idea che le politiche di contrasto alla povertà avevano bisogno di una ri-modificazione, si passò pertanto da una logica di politica passiva ad un attiva. Quando parliamo di politiche attive, ci riferiamo a quelle politiche che mirano a rimuovere le cause della povertà e dell’esclusione sociale:

Alla base sta l’idea che la povertà e l’esclusione sciale siano il risultato di comportamenti o condizioni che possono essere almeno parzialmente manipolati mediante l’uso di risorse pubbliche o interventi di tipo regolativo (obblighi e divieti). Le politiche passive invece intendono curare i sintomi e alleviare le conseguenze della povertà. Esse quindi agiscono non cui comportamenti messi in atto dagli individui, bensì direttamente sulle loro condizioni di vita (Martini. 1997, p.7).

All’interno di questo cambiamento, si delinea l’importanza e la centralità della persona a cui il contributo a sostegno si riferisce. Questi cambiamenti infatti non riguardano solo gli organi che definiscono le linee guida delle politiche e le implementano, questo importante cambiamento si ripercuote soprattutto sulla persona a cui si rivolge la politica. Da questo momento la persona soggetta ad un politica attiva ricopre un ruolo fondamentale, un ruolo che lo vede protagonista e responsabile della propria condizione.

Tutto ciò però non è semplice, il cambiamento che ne consegue non è così lineare come sembra richiede infatti per entrambi le parti momenti di riflessione e di raccordo per poter individuare le modalità migliori al fine di giungere insieme ad una possibile risoluzione del problema.

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4.1 Approcci all’attivazione

Quando si parla di attivazione, si considera che la persona a cui si faccia riferimento debba svolgere delle azioni dirette ad uscire dalla propria condizione di bisogno. Mettere in atto comportamenti che vadano ad allontanarsi dalla solite modalità di gestione di una situazione, questo perché si presuppone che, trovandosi la persona in una condizione di povertà, ciò che è stato posto in essere fino ad allora non consente un risultato differente rispetto a quello che si sta vivendo.

Gli Stati nazionali europei hanno prodotto forme diverse di attivazione sintetizzabili in quattro approcci generali (cfr. Van Berkel e Møller, 2002):

- Il primo approccio, denominato degli ottimisti dell’autonomia, fa esclusivo affidamento sulle capacità e volontà dei soggetti di realizzare forme di inclusione e partecipazione attraverso la propria iniziativa e secondo i propri bisogni.

- Il secondo approccio, detto degli ottimisti dell’indipendenza dal welfare, sostiene che l’intervento dello Stato non aiuta l’iniziativa privata delle persone. I dispositivi di welfare creano dipendenza. Pertanto il libero mercato non regolato fornirà sufficienti opportunità ed incentivi per inserirsi nel mondo del lavoro.

- Il terzo approccio, sostenuto dagli ottimisti del paternalismo, prevede che lo Stato prescriva alcuni canali d’inclusione per sviluppare emancipazione. Questi percorsi «forzati» sono propri di molti paesi dell’Unione.

- Infine, il quarto approccio include gli ottimisti dell’attivazione. Essi sostengono l’opportunità di far leva sulle motivazioni personali per stimolare la partecipazione. Tuttavia, chi aderisce a questa corrente di pensiero è

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dell’opinione che una parte dei gruppi oggetto delle politiche sociali è priva delle risorse indispensabili per realizzare l’inclusione attraverso la partecipazione, anche quando i bisogni di base sono soddisfatti. Per tale motivo le azioni di politica sociale hanno lo scopo di accompagnare i soggetti più svantaggiati nel loro percorso di emancipazione.

Attraverso questa breve distinzione di modalità volte all’attivazione, si individua come vi siano diverse visioni tante quante sono i diversi approcci da parte delle politiche per far fronte alla propria condizione. Queste divergenze di approcci devono sempre e comunque fare riferimento a molte variabili come il contesto a cui si riferiscono, le politiche fino a quel momento attive in quel dato territorio ed infine anche le possibilità in termini di capacità della persona che deve attivarsi.

Le risposte ad un medesima situazione di difficoltà posso essere differenti in base alla persona che l’affronta, ciò dipende molto dalle conoscenze delle persone interessate. Ogni singolo individuo, deve in primo luogo essere in grado di comprendere la propria situazione e di conoscere le modalità utili a sé. Andando nello specifico possiamo considerare alcuni concetti che ci rendono questa loro difficoltà più comprensibile. Prima di tutto c’è un problema di asimmetria informativa, ovvero la condizione di mercato in cui “alcuni soggetti dispongono di un’informazione che altri non hanno” (Philips). Da una parte, pertanto, non tutti coloro che si trovano in una situazione di bisogno hanno la stessa conoscenza, esperienza, capacità di gestire le risposte di cui si dispone e la probabilità di reperire le informazioni utili, dall’altra si aggiungono ad essa anche i fattori culturali e sentimentali come l’insicurezza e l’incertezza che condizionano particolarmente l’impegno e l’attivazione delle persone. Un buon numero di cittadini a cui viene richiesto di attivarsi per fuoriuscire in modo autonomo dalla propria condizione di difficoltà, non possiede informazioni e conoscenze adeguate. Non sempre sono in grado di mettere in atto meccanismi che garantiscono la qualità di queste azioni o di avere una corretta capacità di giudizio. Alcuni più di altri, non riescono ad attivarsi non per mancanza di volontà nel farlo, ma appunto per carenza di informazioni utili.

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