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Il Nomos del Novecento. Letture e interpretazioni dell'elaborazione giusinternazionalistica di Carl Schmitt

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere Corso di laurea magistrale in Storia e Civiltà

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

“IL NOMOS DEL NOVECENTO.

LETTURE E INTERPRETAZIONI DELL'ELABORAZIONE GIUSINTERNAZIONALISTICA DI CARL SCHMITT”

RELATORE

Prof. Luca Baldissara

CANDIDATO Leonardo Lupino

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INDICE

INTRODUZIONE 4 Schmitt era nazista?

Schmitt e la storia

Il problema della guerra: il concetto discriminatorio di pace Il metodo: spregiudicata concretezza

CAPITOLO 1

LA TEORIA DEL NOMOS 14 La strada verso il Nomos: tra la fine di Weimar e la seconda Guerra Mondiale

Spazialità e diritto: che cos'è il Nomos?

Justissima Tellus: la terra è madre del diritto e della storia

Der Nomos der Erde: storia del diritto internazionale nelle epoche premoderne La conquista territoriale di un nuovo mondo: le prime linee globali

Le scoperte geografiche e la nascita della linea

La giustificazione della conquista territoriale: Francisco de Vitoria La nascita dello stato moderno

Lo Jus Publicum Europaeum L'Inghilterra: acme del mare Mare e tecnica

La nascita della tecnica

L'emisfero occidentale: cujus oeconomia ejus regio

Gli Stati Uniti d'America e la nuova guerra discriminatoria CAPITOLO 2

GUERRA E DIRITTO. LA PACE COME LIMITAZIONE DELLA VIOLENZA 48 Introduzione: irripetibilità come problema della storia

Guerra giusta e uso della morale nel conflitto armato

La ritualizzazione della violenza nella teoria di Emanuele Castrucci Un nuovo Nomos per il mondo: ostilità e grandi spazi

La Tirannia del valore di umanità

Danilo Zolo e il modello Santa Alleanza: la proposta di un pacifismo debole Conclusione

CAPITOLO 3

LA TEORIA DELLA GLOBALIZZAZIONE IN ALESSANDRO COLOMBO 74 La guerra e la violenza nell'epoca contemporanea

Caratteri tipici delle guerre negli ultimi 25 anni La retorica delle crisi

Secolo globale e secolo post-globale Conclusione

CAPITOLO 4

LA PROPOSTA INTERCULTURALE DI GUSTAVO GOZZI 91 Il programma di ricerca: una storia del diritto internazionale occidentale

La struttura triadica della ricostruzione storica

L'annientamento delle reciprocità: violenza e guerra nei rapporti tra Occidente e resto del mondo in confronto con Schmitt

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Diritti, popoli e civiltà

Decostruire il mondo arabo. Verso una prospettiva transculturale sui diritti umani Egemonia occidentale e dialogo culturale

Umano, non umano: perché il diritto internazionale continua ad essere dominato dal colonialismo

CAPITOLO 5

CARL SCHMITT, LA GLOBALIZZAZIONE E IL MONDO CONTEMPORANEO 126 Stato, grande spazio e Nomos

Le presunte anticipazioni Il ritorno della guerra

Carlo Galli: Schmitt e la fine del moderno

CONCLUSIONE 142 BIBLIOGRAFIA

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«Proprio da chi ha sostenuto che la verità è vera una volta sola, all’interno di determinate configurazioni di potere, viene l’invito a noi, perché pensiamo la verità, l’ordine e il disordine, del nostro tempo. Congedandoci, per quanto possiamo, dal lungo congedo schmittiano dalla modernità. Procedendo con Schmitt oltre Schmitt».

Queste parole sono tratte dalla recensione pubblicata da Carlo Galli il 15 gennaio 2016 sul quotidiano Il Manifesto dal titolo L’ordine politico dei grandi spazi e ci danno l'orizzonte entro il quale leggere e sfruttare il pensiero di Carl Schmitt. Procedere assieme oltrepassandolo significa propriamente utilizzare i suoi insegnamenti, sottoporli a giudizio tenendo fermo l'appiglio storico dal quale esse provengono e la realtà che essi dovrebbero essere in grado di rappresentare. Come si vedrà, sulla base di alcuni contributi della odierna cultura italiana, ritengo inefficace e oltremodo sbagliato attribuire a Schmitt doti di preveggenza o di anticipazione, ragion per cui si è sempre occupato di analisi del passato.

INTRODUZIONE

Schmitt era nazista?

Vexata Quaestio. Benché sia stata usata una gran quantità d'inchiostro, i termini del rapporto

ambivalente perché contrastato tra il regime hitleriano e il giurista di Plettenberg ha suscitato, continua e probabilmente continuerà – almeno finché si continuerà a giudicare un intellettuale non solo sulla base di ciò che ha scritto, ma anche, e talvolta soprattutto, per le scelte politiche fatte. In questo ha colpa lo stesso Schmitt che mai, neanche sul finire della vita, ha voluto fare i conti veramente col proprio passato ma ha preferito passare sotto silenzio la propria vicenda autobiografica e a domanda precisa si è trincerato dapprima in “non so, non ricordo” e poi “ciò che è scritto l'ho scritto in quanto giurista, come studioso della politica”. Era prigioniero di se stesso. Sia chiaro che qui non si cerca di impolverare tutto per evitare di prendere

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posizione; l'adesione al regime – negli anni 1933/1937 – è un fatto assodato che sarebbe storicamente ingiusto negare. Ciò che si vuol sottolineare – sulla scia dei grandi interpreti del pensiero schmittiano – è l'errore dato dal porre l'accento in modo continuato su questo problema. Come nel caso di Heidegger – altro “gigante maledetto” del pensiero novecentesco – non si può passare sotto silenzio l'adesione al nazismo derubricandolo a insignificante incidente biografico, che nulla modifica della sua teoria. Significherebbe piegare la ricostruzione storica a ideologia.

D'altra parte è altrettanto scorretto nonché fuorviante ricercare il nazismo in tutti gli anfratti del pensiero, come fosse il fil rouge che attraversa e sorregge l'intera opera. Nella sua decostruzione del razionalismo politico moderno e nella personale ricostruzione della storia occidentale alla luce della Nomostheorie è oltremodo errato sostenere che si tratti di travestimento dell'antisemitismo: il nesso amico/nemico che pone a base del politico (già nell'edizione del 1929) «è una teoria della decisione e del potere costituente, ovvero è l’energia di un aperto conflitto fra pari». Come per Heidegger, dunque, si parla di occasionalismo ovvero di inevitabile e irrimediabile precipitare del suo pensiero nella trappola che la contingenza storica gli ha preparato. Ha scelto di essere nazista perché ha pensato che questo fosse un punto di approdo necessario ma non sufficiente per poter continuare la propria battaglia contro il liberalismo.

Se a proposito della sua adesione al nazismo il dibattito rimane aperto, anche se infruttuoso, ciò che non si può negare è l'incredibile quantità bibliografica che si è sviluppata a partire da alcuni punti focali tratti dalla sua teoria: Schmitt rimane infatti uno degli autori più letti del Novecento in virtù di un pensiero che è andato incontro a tutti i nodi problematici più importanti del secolo. Si è occupato della crisi dello stato sul finire della belle époque, del concetto di imperialismo mascherato da interventismo umanitario, della rinascita della guerra

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giusta; ha precorso l'avvento di un sistema sempre più interconnesso, globalizzato (pur senza conoscere il termine). Ha problematizzato il Moderno anticipando l'età contemporanea.

Tuttavia, e questo è l'errore che Galli denuncia nel breve tratto che apre quest'introduzione, sarebbe semplicistico e oltremodo sbagliato prendere le categorie schmittiane e cercare di incastrarvisi la realtà, modellandola se questa risulta reticente. Il lavoro che qui presento cerca – sulla base di quattro importanti personalità della cultura italiana contemporanea, quali (in ordine alfabetico) Emanuele Castrucci, Alessandro Colombo, Gustavo Gozzi e Danilo Zolo – di mostrare come andare oltre Schmitt partendo da alcune questioni da egli sollevate. Già l'eterogeneità degli autori scelti dovrebbe far capire che la fortuna di Schmitt, oltre agli indubbi meriti scientifici, è figlia di una partecipazione alle più diverse discipline che nel corso degli anni gli sono valse l'accostamento da parte di politologi, filosofi e professori vari che di volta in volta hanno sottolineato un aspetto.

piuttosto che un altro.

Schmitt e la storia

«È significativo il fatto che l'uomo, quando si trova su una costa, guardi spontaneamente dalla terra verso il mare aperto, e non, al contrario, dal mare verso la terra»

(C.Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo)

«Io resto alla e sulla terra. Per me l'uomo è un figlio della terra e lo rimarrà fintantoché resta uomo»

(C.Schmitt, Dialogo sul nuovo spazio)

«Il problema dell'unità del mondo è un problema di auto-interpretazione storica dell’uomo»1:

in questa affermazione di Carl Schmitt si riassume efficacemente il nodo problematico che sorregge l'intero impianto di queste pagine: il processo di unificazione del mondo, le 1 C.Schmitt, L’unità del mondo, in “Trasgressioni”, 1 (1986), p.12.

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dinamiche planetarie di interconnessione dei fenomeni economici, sociali e politici – che vanno sotto il nome di globalizzazione – non possono essere adeguatamente interpretate se non ponendole in relazione con una riflessione più profonda sulla evoluzione storica dell'uomo.

Limitarsi perciò a considerazioni di cronaca sull’attualità, applicare un metodo sociologico senza inserirle in una prospettiva storica di ampio raggio, sarebbe un'operazione in grado sì di tracciare una fenomenologia dei problemi ma solo sulla superficie, senza toccare motivi e tendenze fondamentali. Seguendo le riflessioni di Schmitt, quello che si cercherà di fare quindi non sarà tanto un'analisi dei problemi attuali del mondo globalizzato, bensì il tentativo di tracciarne una genealogia e di individuarne presupposti storici.

Il presente tentativo prevede dapprima un'analisi di ciò che effettivamente è stato scritto da Carl Schmitt nel corso della sua lunga e articolata riflessione circa le relazioni internazionali, sulla base delle quali, in secondo luogo, mostrare se e in che modo queste siano ancora utili per comprendere la realtà attuale: ciò che Schmitt può insegnarci, comunque, è un metodo, un percorso, ma in nessun caso ci fornisce categorie interpretative, che nulla aggiungerebbero alla comprensione.

Considerata la natura di questo lavoro, non è stato possibile soffermarsi su tutti gli aspetti della vasta opera di Schmitt ragion per cui sono stati presi in considerazione solamente quegli elementi funzionali allo scopo di cui si è detto; non si sono analizzati, se non là dove si rivelasse strettamente necessario, gli scritti del primo Schmitt dedicati in prevalenza a temi di diritto pubblico e di diritto costituzionale, e alla originale teoria del politico, ma si è concentrata la nostra attenzione solo sulla seconda fase del suo pensiero, che potremmo datare a partire da quello che è stato definito «uno dei primi testi che narrano la storia della globalizzazione» 2, cioè dalla prima edizione di Terra e Mare. Una riflessione sulla storia del

2 F.Volpi, Il potere degli elementi in C.Schmitt, Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi, Milano 2002, p.135.

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mondo del 1942, nella quale emergono in primo piano tematiche di diritto internazionale

unitamente ad alcune considerazioni di una certa ampiezza sulla natura della storia universale. Si è ritenuto altresì doveroso soffermarsi su quegli aspetti complementari (tecnico-giuridici) di queste riflessioni e difatti si è trattato, ad esempio, in maniera approfondita la lettura schmittiana delle trasformazioni del concetto di guerra che rappresenta un momento centrale del processo di unificazione mondiale. Rilievo è stato dato anche a quelle considerazioni volte a smascherare le trasformazioni di natura spaziale e tecnico-economica che, annunciatesi nella modernità, hanno subìto nell’epoca attuale una decisiva accelerazione. A tener assieme tutto questo è quella sorta di “storia elementare” – fondata cioè sull’interazione degli elementi Terra, Mare, Aria – alla quale Schmitt ritorna ogni qual volta incontra nell'evoluzione storica un momento cruciale, un tempo in cui si avverte il passaggio da un epoca ad un altra.

Potrebbe però apparire strana l'idea di impostare un lavoro con finalità storiche, relativo cioè al pensare l'epoca globale, rifacendosi all’opera di Carl Schmitt, cioè non agli scritti di uno storico di professione, bensì ad un autore che si è sempre considerato in primis giurista e che oggi, pur nella contraddittorietà e scarsa limpidezza di alcune sue scelte 3, viene celebrato e

ricordato come uno dei più grandi del XX secolo; egli stesso, onde non lasciare adito a dubbi, afferma perentoriamente nelle pagine iniziali del suo capolavoro Der Nomos der Erde che «l’idea fondamentale del libro (...) è propriamente giuridica» 4. Se Schmitt non ci ha dunque

lasciato una trattazione sistematica di storiografia, è però tutta la sua opera ad essere intessuta di innumerevoli riferimenti storici, a basarsi su un metodo consapevolmente storico: «la scienza giuridica» afferma, «oggi si trova schiacciata tra teologia e tecnica, se non riesce ad affermare in una dimensione storica rettamente conosciuta il terreno della propria esistenza» 5.

Nel prosieguo dell'argomentazione si renderà più chiaro il senso di questo confronto, ma fin da ora è chiara la vocazione che anima tutto il lavoro di Schmitt; d'altra parte tutto il suo

3 Ovvio riferimento ai trascorsi con il nazismo

4 C.Schmitt, Il Nomos della terra, Adelphi, Milano, 1991, p.14. 5 Ibidem

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progetto scientifico – la sua ricerca di senso – si basa essenzialmente sull'attaccamento allo spazio concreto e sulla continua sovrapposizione delle più diverse discipline. Basterebbe del resto guardare all'alveo della tradizione giuridica all’interno della quale si inscrive, allorché dichiara il proprio debito e il proprio legame con l’opera di Savigny e Bachofen: “Bachofen è erede di Savigny. Egli ha sviluppato ciò che il fondatore della scuola giuridico-storica intendeva per storicità” 6.

Ma per coloro che si occupano di storia, forse è l'altro l'elemento che interessa maggiormente: la terra viene infatti considerata madre del diritto e della storia e in un certo senso si evoca senza mai pronunciarlo esplicitamente il concetto di Heimat, parola tedesca che non ha corrispettivi né nelle lingue neolatine né nell'inglese – dove infatti viene usata la forma tedesca – il cui significato si avvicina a “casa, piccola patria, luogo natio”, più propriamente “luogo nel quale ci si sente a casa”.7 Heimat porta con sé, infatti, la storia della formazione

della Germania quando attorno alla metà del XIX secolo in conseguenza dell'industrializzazione sempre più rapida si è assistito ad un vero e proprio esodo dalle campagne in favore delle nascenti città, diventate poli industriali. Questo inurbamento è stato visto, anche se non nell'immediato, come un'alienazione, come la perdita dell'identità della comunità di origine. In questa personale lettura, infatti, se i secoli XVIII e XIX rappresentano l'avanzata industriale, la spinta al progresso che pare inarrestabile, il Novecento è il secolo dello spazio, del ritorno del luogo concreto e della risposta politica allo sradicamento industriale. Il XX secolo infatti è segnato soprattutto dalla volontà di riappropriarsi delle proprie origini e dall'uso talvolta spregiudicato di ogni mezzo, compresi i più violenti, per riappropriarsi della propria storia o di quella che si vuole che sia.

Visto in questi termini, il Novecento appare come un secolo-ponte, il tempo nel quale vengono al pettine – spesso in maniera esplosiva – tutti nodi problematici precedenti, quasi

6 Ibidem

7 È possibile avvicinarle il significato originario del greco πατρίς, da cui deriva con uno spostamento di significato dettato dalla storia del suo utilizzo l'italiano patria.

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fosse la chiusura di una lunga epoca e contemporaneamente segna l'inizio di un nuovo mondo nel quale, come ha mostrato Bauman, il solido ha perso perché tutto si è fatto liquido. E Schmitt, che del Novecento è la figura più rappresentativa, mostra fedelmente questo disagio del trovarsi schiacciato tra un tempo già finito e un tempo non-ancora iniziato.

Il problema della guerra: il concetto discriminatorio di pace

«Io sono oggi – nonostante Quincy Wright – l'unico giurista di questa terra che abbia inteso ed esperito in tutte le sue profondità e in tutti i suoi fondamenti il problema della guerra giusta, inclusa, purtroppo la guerra civile». Con queste parole tratte dai suoi anni di ricerca in piena epoca norimberghiana, riunite e pubblicate come opera in Ex Captivitate Salus – magniloquente e al tempo stesso irritante manifestazione di quegli anni – Carl Schmitt ribadisce la propria novità rispetto a tutta la teoria giuridica precedente: l'essersi occupato del problema della guerra e della moralità che talvolta le è stata assegnata. Egli non è un teorico della guerra giusta ma se ne occupa in relazione al più generale problema del nesso tra potere politico e legittimazione storica dapprima indagando la struttura dello stato liberale, evidenziandone caratteri e limiti, e poi soffermandosi sulla relazione tra simili ad un livello superiore.

La sua ricostruzione storica parte dalla presa d'atto – attorno agli anni 40 del Novecento – dell'ormai avvenuto tramonto della più importante invenzione a carattere internazionale: la fine dello Jus Publicum Europaeum, il moderno diritto interstatale che si basa sulla categoria del nomos. La ricostruzione genealogica serve a Schmitt a mostrare come un determinato processo storico sia alla base del fondamento e insieme dell'efficacia di un altrettanto determinata declinazione della teoria della guerra giusta sia a proporre una soluzione che la maggioranza degli interpreti giudicano debole ma che in realtà rappresenta probabilmente una base imprescindibile a partire dalla quale iniziare un ripensamento totale dell'odierno sistema

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internazionale. Il presente capitolo ha questo come obiettivo: dopo aver ricostruito il pensiero schmittiano, vedere come due autori per molti versi antitetici, quali Emanuele Castrucci e Danilo Zolo basino le proprie proposte per un nuovo ordinamento internazionale sul disvelamento operato dal giurista di Plettenberg.

Il metodo: spregiudicata concretezza

Sistematico o antisistematico. Questo sembra essere il problema che gli interpreti di Schmitt devono affrontare nel momento in cui si scontrano con l'ambiguità della sua teoria del diritto. Il problema nasce nel momento in cui non si sottolinea adeguatamente il rapporto con la storia che le sue teorie intrattengono. Solo se pienamente contestualizzato nell'epoca in cui matura il suo pensiero, infatti, è possibile capirne lo sviluppo, individuarne le tappe fondamentali e l'evoluzione Mutando la realtà, mutano anche i problemi da affrontare. L'unico punto, infatti, su cui tutti gli studiosi sono d'accordo è proprio sulla concretezza del programma schmittiano il cui obiettivo polemico – almeno nei primi anni – è il formalismo giuridico, il che vuol dire essere contro le astratte definizioni concettuali, conformate a cosiddette norme, che si trovano nei moderni manuali. Polemica che poi assumerà anche caratteri più politici andando a contrastare il liberalismo – accusato di fare vuote astrazioni – e l'utilitarismo tipico della cultura anglosassone. La concretezza del giurista deve riassumersi in una necessaria aderenza alla realtà politica e istituzionale, terreni in cui opera proprio il giurista: è la presunta autonomia del giuridico ad essere messa sotto accusa; questa, infatti, altro non è che sradicamento della scienza giuridica e in definitiva sua cancellazione. Schmitt inizia ad occuparsi nei primi scritti attorno agli anni 20 del fondamento teoretico del diritto: né Sollen (il dover essere rappresentato da Hans Kelsen) né Nich-Sein (lo spettro del niente, che se mantenuto non avrebbe potuto rappresentare una solida base), bensì riportare il diritto alla sfera storica del Sein, all'essere inteso heideggerianamente. L'obiettivo perciò è riportare

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ordine nel disordine e ritiene che la soluzione migliore per essa sia la decisione, tentativo assai realistico, per la quale «sovrano è colui che decide sul caso d'eccezione»8. Con un salto –

che diverrà tipico nella sua teorizzazione successiva – dall'ambito più propriamente giuridico ad altri campi arriva ad affermare che la sovranità assume valore quasi teologico giacché «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello stato sono concetti teologici secolarizzati»9. Una tesi che, benché abbia avuto grande successo – tale che ha assunto la

forma stereotipata nella sua formulazione – possiede un carattere paradossalmente aporetico: la decisione è ontologicamente priva di fondamento. Colui che decide, il sovrano, è tale solo perché decide; la sua fondazione sta nel fatto che è riuscito a decidere manifestando una decisione. Predicato e attributo coincidono. Schmitt è consapevole di questo e cerca fin da subito una qualche forma alternativa che sia in grado di capitalizzare l'intuizione dell'inservibilità e del giusnaturalismo e del nichilismo. In soccorso gli viene la realtà storica, cosa che si ripeterà continuativamente: con la caduta della Repubblica di Weimar, vessillifero dell'erosione della forma-stato, il decisionismo mostra tutta la sua inadeguatezza nel contrastare il crollo del sistema post-westfaliano fondato sugli stati. L'ordinamento concreto, la realtà effettuale, rivelano perciò la propria efficacia come costruzione della nuova sede del politico. Questa crisi della decisione viene registrata con la pubblicazione nel 1934 dei “Tre

tipi di pensiero giuridico” dove non oppone più all'astratto normativista l'eroico decisionista

del caso d'eccezione, bensì il fautore dell'ordinamento concreto, colui che rapportandosi con la normalità recide il connotato della doverosità che rischia di contrapporsi a ciò che è esistenzialmente dato. La concretezza dell'ordine storico permette cioè di escludere l'elemento della decisione giacché la normalità spaziale ha in sé carica fondante sufficiente.

Individuato quindi il nuovo paradigma, dopo la catastrofe del Secondo conflitto mondiale, Schmitt si pone come obiettivo la realizzazione di un paradigma ermeneutico della politica in

8 C. Schmitt, Teologia politica, in Le categorie del 'politico', a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Adelphi, 1972, p. 33

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grado di contrastare gli esiti tragici della modernità individuando così un katéchon concreto contro la deriva nichilistica della tecnica e dell'universalizzante omologazione, vale a dire del pacifismo universalistico di stampo anglosassone.

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CAPITOLO 1

LA TEORIA DEL NOMOS

La strada verso il nomos: tra la fine di Weimar e la seconda Guerra Mondiale

Senza ripercorrere in maniera analitica il percorso travagliato che ha portato la Germania uscita distrutta dalla Grande guerra ed umiliata dai processi di pace parigini, a dotarsi di una costituzione che fosse un compromesso tra il principio liberale della rappresentanza e quello democratico della presenza, in chiave antibolscevica, ritengo opportuno chiarire in quali termini si è costituita la teoria dell'ordine concreto che fa da base – assieme al decisionismo, di cui si è già parlato – alla teoria internazionalistica del nomos.

Tra il 1930 e il gennaio del 1933 la repubblica di Weimar affronta la sua crisi finale poiché l'organizzazione dei poteri dello Stato, d'impianto liberale, non sembra essere più in grado di funzionare: con le elezioni del 14 settembre 1930 inizia infatti il periodo delle “maggioranze negative”, laddove cioè i partiti estremi (nazionalsocialisti e comunisti) divenuti maggioranza, riuscivano a paralizzare l'attività di governo dei partiti tradizionali sempre più deboli. Questa precarietà si ripercuote, ovviamente, anche nella società che deve affrontare una latente ma pesante guerra civile e nell'amministrazione che cerca l'ordine burocratico ma è sempre più in balia del pluralismo dei numerosi centri di potere (“Stato totale per debolezza” lo chiamerà Schmitt).

Questi ultimi anni della Repubblica sono lo scacchiere sul quale Schmitt mette in gioco tutto se stesso: è la partita della vita che decide di giocare contro i partiti antisistema sollecitando i governanti ad usare la decisione democratica (la legittimità fondamentale della costituzione) contro le norme e le istituzioni liberali (legalità). Richiamandosi all'art48 (secondo comma) della Costituzione10, suggerisce di affidare al presidente del Reich l'attività legislativa affinché

sull'esempio dell'istituzione della dittatura in epoca romana tuteli la democrazia e custodisca

10 L'articolo prevede che in caso di necessità e pericolo per lo Stato il presidente possa intervenire controfirmando i decreti del cancelliere, scavalcando in questo modo il Parlamento.

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l'essenza della costituzione (“Stato totale per energia”). La storia, come sappiamo, è andata nell'altra direzione, Hitler ha preso il potere e Schmitt ha aderito al partito nazista. Se all'epoca parve incredibile questa decisione, perché comunque si trattava di un grande pensatore che si era speso nel tentativo di contrastarne l'avvento, oggi è possibile – grazie anche alle interviste che Schmitt ha concesso – vederne la portata. Si è trattato di un gesto dettato non da identificazione ideologica quanto piuttosto dalla presunzione di poter aiutare – e magari modificare – la realizzazione dell'ordine nazista; utilizzare Hitler per poter oltrepassare l'ormai defunto Stato moderno liberal-democratico. Naturalmente quest'appoggio venne ricompensato sul piano personale sia con la cattedra di Diritto Pubblico a Berlino sia con altri incarichi pubblici.

In questi anni scrive una serie di saggi che lo fanno diventare il sommo giurista del Fuhrer – come recita il titolo di un'antologia italiana – che tenta di giustificare il nuovo potere che ha portato alla nascita un nuovo tipo di pensiero giuridico: l'ordine concreto.

Avendo la pretesa di sostituire sia il normativismo sia il decisionismo, l'ordine concreto afferma che la norma nasce dai concreti e diversi contesti in cui si articola la nazione e l'omogeneità razziale sostituisce l'uguaglianza dei cittadini. Popolo (base razziale), partito (organizzazione dell'energia politica) e Stato (burocrazia) formano assieme l'unità politica sulla cui sommità si erge la figura del Fuhrer, giudice supremo la cui decisione è indiscutibile perché sempre rivolta al bene supremo del popolo. Nonostante questa serie di interventi nel 1936 venne a mancare la fiducia da parte degli ambienti più intransigenti del partito nazista che lo accusarono di opportunismo giacché era rimasto nel profondo un intransigente cattolico reazionario, cosa che gli costò le cariche pubbliche: da questo momento decide di dedicarsi alla politica internazionale. È del 1939, infatti, il primo saggio interamente dedicato alla nascita di un nuovo ordine concreto internazionale che sia in grado di superare lo schema interstatale moderno11.

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Dedicato alla figlia, nel 1942 esce Terra e Mare grande ricostruzione, un po favolistica, della contrapposizione primigenia tra le potenze terrestri – con la loro consapevole spazialità, tutta incentrata sul valore dei confini e dei limiti – e le potenze marine, in-definite e plastiche che si rivolgono all'illimitato mare con senso di sfida, spinte dal desiderio di commercio. Ultima opera a cui accenno prima dell'analisi del grande affresco del nomos della Terra del 1950, è il saggio che viene scritto due-tre anni dopo Land und Meer dal titolo La condizione della

scienza giuridica moderna dove si è ormai rassegnato alla perdita definitiva di ogni potere da

parte del diritto sulle dinamiche politiche e sociali. L'età della tecnica che va profilandosi (in piena sintonia con ciò che scrivono tra gli altri Junger e Heidegger) deve essere affrontata oltrepassando l'ordine moderno, ma prima è necessario ricostruire la storia moderna sulla base di questo rapporto fra diritto e politica che ormai è crollato.

Spazialità e diritto: che cos'è il nomos ?

Il rapporto tra diritto e politica può essere definito come la circonferenza entro la quale si sviluppa il pensiero di Schmitt: dal decisionismo dei primi anni all'ordine concreto sotto il nazismo, alla teorizzazione del nomos – dopo la seconda guerra mondiale – una teoria che non è definibile razionalmente astraendola dalla realtà, ma ha un rapporto diretto con il concreto. Anzitutto dobbiamo ricordare che il diritto in Schmitt è unità di ordinamento e localizzazione (Ordnung und Ortung) vale a dire che la sua origine non risiede in un principio ideale ma va cercata nel rapporto con la terra e lo spazio. Sulla base di ciò, chiama nomos quel processo fondamentale di suddivisione dello spazio, combinazione strutturante di ordinamento e localizzazione che non ha nulla a che vedere con la legge (come solitamente viene tradotta) ma che indica questo radicamento orientato alla terra.

I vari ordinamenti che si sono succeduti nel corso della storia, allora, vanno compresi a partire dal loro nomos: originano tutti dalla conquista del territorio e dalla sua spartizione. Niente più

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decisione né contratto. «Il nomos [...], nel suo significato originario, indica proprio la piena “immediatezza” di una forza giuridica non mediata da leggi; è un evento storico costitutivo, un atto della legittimità che solo conferisce senso alla legalità della mera legge»12.

Il nomos primordiale corrisponde dunque a misura, ordinamento e forma che prese assieme costituiscono una concreta unità spaziale e si concretizzano nell'occupazione di terra, nella fondazione di una città o di una colonia, rappresentano quel momento in cui una tribù nomade si fa stanziale innalzando una parte della terra a campo di forza di un ordinamento: i soggetti instaurano un rapporto produttivo con la terra; essa viene divisa e coltivata andando perciò a sedimentarsi alla base del nuovo ordinamento. Come dice Kant "ripartisce sul territorio il mio e il tuo" ovvero il concetto di proprietà, ciò che secondo l'espressione inglese è il radical title. Stabilitosi su un territorio diventa ora necessario confermare i rapporti di forza attraverso la sfera dei diritti, cioè si sente il bisogno di determinare con un nuovo contenuto semantico la parola nomos: legge, ciò che regola la comunità politica (politeia). Il "nomos basileus", ovvero il nomos come sovrano, citato nel frammento 169 di Pindaro13 (in cui Eracle dopo aver

rubato i buoi di Gerione crea il diritto) tramandato da Erodoto e Platone, che comprende sovranità e legge - osserva Schmitt - è il nomos soggetto della sovranità cui si affida un'idea ordinante di società. Terra e giustizia, concretezza del principio giuridico, violenza ontologicamente ordinatrice costitutiva di un nuovo ordine: il diritto, ci ricorda Schmitt, prima di essere norma è organizzazione, struttura e forma istitutiva. Si tratta pur sempre di un diritto arbitrario del più forte, un atto non mediato da leggi ma immediato, un atto della legittimità che da solo conferisce senso alla legalità della legge.

Quando Schmitt cita l'Odissea di Omero dice che in greco arcaico Noos e Nous sono la mente invece, nomos indica la terra. Nell'Odissea Nous erano le città e fortezze, "nomos e nous" non sono uguali: in quanto il nous appartiene a chi pensa, nel nomos invece è insito il concetto di

12 C. Schmitt, cit, Il nomos della , p. 63

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recinzione; menti dei popoli è uguale a conoscere le leggi dei popoli, il pazzo è colui che non riconosce il nomos, la-nomos è il folle che non riconosce la legge. L'esempio del ciclope Polifemo che mangia i Proci i quali gli portavano in dono il vino è da uccidere perché antisociale.

Mentalità e città, usi e ordinamenti che regolano strutture delle comunità, costituiscono il primo nomos. Il Nous comprende tutte le usanze che appartengono alla collettività ai popoli, vale a dire il togliersi le scarpe, la subordinazione del lavoro femminile a quello maschile, il diritto che ha ognuno nel porre la sua sovranità entro il recinto, le tradizioni e la cultura , ma ogni nous risiede in un nomos specifico perché il nomos sta a simboleggiare la diversità degli ordinamenti. Schmitt aggiunge che il concetto di mente è un concetto che si ha con Cartesio che distingue le cose pensanti da quelle non pensanti (res exstensa del corpo), separazione tra materia pensante e non; tra mente e corpo, Kant distingue ciò che si vede da ciò che non si vede dell'uomo tra l'agire e la mente umana, tra il noumeno e il fenomeno. Schmitt arriva a dire che legge e mentalità per Omero non sono la stessa cosa. Oggi le cose sono cambiate – aggiunge Schmitt – poiché il distacco tra Nous e nomos è diventato grande: la vita è il nous, la mente è il nomos, le forme sono vissute come imposizioni esterne. L'uomo moderno è quello che vive il distacco tra la mentalità e la forma reale: tra la coscienza soggettiva ed oggettiva, come nella pazzia di Don Chisciotte o nella pazzia di Orlando.

Justissima tellus: la terra è madre del diritto e della storia

All'origine del processo storico vi è per Schmitt un fatto concreto che inaugura ogni nuova epoca e che radica sempre di più l'uomo “nel regno di senso della storia”; è un avvenimento di natura spaziale, è la conquista, l'appropriazione di terra (Land-nahme): questo nesso tra fenomeno storico e ordine spaziale – o se vogliamo tra uomo e ambiente – è il tratto tipico dell'analisi “nomoteica” schmittiana. Occupando un territorio, fondando una città o una

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colonia, l'uomo si colloca storicamente sia che conquisti uno spazio fino a quel momento libero sia che lo sottragga al legittimo possessore; è questo atto primordiale violento a fondare la storia e con essa il diritto.

È un atto che inaugura la coscienza storica di una comunità, che unisce in sé localizzazione in uno spazio (Ortung) e creazione di un ordinamento (Ordnung): tutte le regolamentazioni, le leggi, le istituzioni successive (lordo ordinatus) presuppongono questa acquisizione originaria di terra (lordo ordinans) e la altrettanto primitiva divisione del suolo (divisio primaeva) che ne consegue; non può cioè esservi storia di una comunità, storia umana, se non sulla base di tale radicamento nell'elemento terra.

Di tutto ciò è memoria la parola greca nomos, alla quale Schmitt vuole restituire la forza e grandezza primitive; il termine nomos, che ai nostri giorni viene perlopiù tradotto con legge, deriva dal verbo greco Nemein che in realtà possedeva in origine altri significati tra loro strettamente intrecciati, che stanno ad indicare: 1) la presa di possesso, la conquista che è in

primis conquista di terra, nomos cioè come Nehmen-Nahme (prendere, possesso) – 2) la

divisione e la spartizione della terra acquisita, l'istituzione di recinzioni e confini, l'attivazione di un regime di proprietà, dominium o imperium, nomos cioè come Teilen (dividere, spartire...) e infine – 3) il coltivare, il valorizzare il terreno spettante dalla divisione, e dunque la produzione, il consumo, nomos cioè come Weiden (pascolare...). Indipendentemente dalla esattezza filologica di queste etimologie, l'intento concettuale è chiaro: nei tre termini tedeschi

Nehmen-Teilen-Weiden che rinviano alla parola greca nomos, risuona l'accezione originaria

del termine, che rimanda a sua volta, dice Schmitt, “nel nostro contesto storico-giuridico” al “suo collegamento con un processo storico, con un atto costitutivo dell'ordinamento dello spazio”. È il tentativo di porre l'età presente in una prospettiva storica adeguata, di prenderne le distanze per meglio comprenderne le trasformazioni; se l'età contemporanea, l'età globale, è l'età della crisi dello Stato, (e Schmitt è il grande rappresentante di questa fine) riattivare

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l'originaria valenza spaziale del vocabolo nomos, serve a ricordare come ogni fenomeno politico rimandi alle condizioni spaziali dell'epoca in cui è sorto, venute meno o modificate le quali, la sua struttura non può che rivelarsi datata: «se nonostante tutto ciò io impiego di nuovo il termine nomos nel suo senso originario, non lo faccio per far rivivere di nuova vita artificiale miti sepolti, o per evocare vuote ombre. Il termine nomos è per noi utilizzabile perché in grado di preservare cognizioni che sorgono dalla problematica mondiale odierna, dal pericolo di essere scambiate con termini e concetti appartenenti alla scienza giuridica dello stato del secolo XIX»14. Detto altrimenti, per capire l'epoca imperialistica nata dalle macerie

del secondo conflitto mondiale e tracciare così una genealogia della crisi finale dell'entità Stato, occorre liberarsi della visione puramente legalistica dei fenomeni politici (nomos come imposizione legale, Ge-setz) che dimentica la valenza spaziale e finisce per proiettare il concetto di Stato in una dimensione a-temporale. Occorre dunque ritornare a leggere le dinamiche storiche agganciandole al loro sostrato nel quale si radicano e si evolvono. La terra – che nel linguaggio mitico è sempre madre, genitrice – custodisce in sé l'arché e

l'endechomenon, il principio e la possibilità del diritto e della storia: oltre a mettere a

disposizione confini naturali, si mostra pronta ad accogliere l'azione dell'uomo (justissima

tellus). Le trasformazioni storiche andranno quindi interpretate nei termini di trasformazioni

spaziali, di modifiche del nomos che le sorregge e le veicola, cioè del modo in cui gli uomini si appropriano, si spartiscono e coltivano la terra.

Der nomos der Erde : storia del diritto internazionale nelle epoche premoderne

Nell'analisi del diritto internazionale Schmitt indaga i rapporti di forza e di potenza tra gli stati distinguendo un diritto internazionale pre-globale che ignora il mare e che definisce la sovranità attraverso l'occupazione di Terra e Un diritto internazionale globale, lo jus publicum

europaeum, che si diffonde a partire dal 1492 con la scoperta del nuovo mondo che 14 C. Schmitt, Il nomos della terra, cit. p. 57

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concepisce lo spazio nella sua globalità terracquea. Questa storia si sviluppa secondo tre modelli che si susseguono progressivamente: il primo che si incontra è quello che basa la sua esistenza sul mancato riconoscimento dell'altro giacché si proclamava la propria esclusività: nel “diritto internazionale antico” non si aveva coscienza del mondo, le altre realtà erano sconosciute o tutt'al più prive d'interesse: le guerre venivano combattute, si desiderava incrementare il proprio potere ma in quanto private del diritto di appartenenza ad una comunità, i conflitti che scoppiavano erano violentissimi (“assoluti” avrebbe detto Clausewitz) e operavano in senso annichilente perché privi di qualsiasi messa in forma. Erano cioè guerre che prescindevano dal diritto. Quest'ordinamento pre-globale15 racchiude in sé

tutto il periodo storico anteriore alla scoperta del continente americano, millenni nei quali l'umanità ha vissuto attraverso l'immagine mitica della terra senza, tuttavia, averne piena consapevolezza. La terra (Erde), dice Schmitt, appariva nella forma di orbis, una sfera avvolta dalle acque sconosciute dell'Oceano con le colonne d'Ercole a fissarne il limes composta da regni che si autoproclamavano centro del mondo oltre il quale stava lo spazio nemico, aperto alle conquiste, alle occupazioni e alle colonizzazioni; tutto ciò comportò uno sviluppo terrestre della tecnica, dell'economia e delle comunicazioni poiché tutto il mondo si riduceva al proprio nomos.

L'elemento che domina la storia di questi millenni è la terraferma (Land), gli ordinamenti nascono e si sviluppano da essa: da qui si narra la storia. Anche le stesse civiltà potamiche (l'Impero assiro-babilonese tra il Tigri e l'Eufrate o l'Impero egizio sulle rive del Nilo) o quelle mediterranee trovano la loro ragion d'essere nel costante riferimento al territorio che lambiscono: saranno civiltà costiere ma non si emanciperanno mai da essa, saranno sempre vincolate alla vita dell'entroterra

È stato giustamente fatto osservare che il cuore di questi ordinamenti è la casa, simbolo che

15 «Tutti gli ordinamenti preglobali erano essenzialmente terranei, anche se comprendevano domini marittimi e talassocrazie» C. Schmitt, Il nomos della terra, cit, p.28

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rimanda ad un insieme di rapporti in cui vigono confini, sia pubblici che privati, diritto di proprietà e diritto familiare, mores e tradizioni: tutto nasce dalla terra e alla terra ritorna. Lo stesso Odisseo, incarnazione della sete di conoscenza, è dominato dalla pulsione del ritorno: il

nostos, la nostalgia della propria terra, possiede tutti i navigatori dei “mari interni” il cui

orizzonte ultimo rimane sempre e comunque quello costiero. Si lascia la casa, non la si abbandona.

Emblema e acme di questa epoca pre-globale è il mondo del Medioevo cristiano-europeo, la cui comprensione è determinante al fine di cogliere nella giusta prospettiva la nascita di quella “coscienza globale” che si annuncerà con l'età delle scoperte e l'avvio dell'evo moderno. Il diritto feudale, anche dopo la formidabile espansione islamica giunta nella costa settentrionale dell'Africa, continua ad ignorare il mare; la fede cristiana ha sostanzialmente lasciata immutata la geografia per dar spazio alla morale: la novitas permette al populus

christianus, eletto, di occupare ideologicamente il precedente ordinamento separandolo

nettamente dallo spazio di missione abitato da genti pagane; al di là vi è il territorio degli infedeli il cui destino è la conquista e l'occupazione

La proclamazione della res publica christiana opera la prima grande trasformazione: riconoscendosi come appartenenti al populus christianus, i regni europei limitano le proprie azioni belliche intendendole come manifestazione di una lotta per la riaffermazione di un diritto comune violato e quindi di un definitivo spostamento verso una valutazione teologico-morale dei conflitti. La grande novità è il darsi di questo mutuo riconoscimento tra entità territoriali cristiane e il conseguente ordinamento spaziale determinato dalla contrapposizione cristiano-non cristiano: tra i cristiani vige un regola che nei confronti dei pagani svanisce. La condotta bellica viene perciò limitata sulla base della figura della forza frenante (il katéchon) assunta dal cristianesimo. Secondo Schmitt, infatti, la visione della storia della fede cristiana non può prescindere dall'idea del katéchon, di un qualcuno o qualcosa che – secondo le parole

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di Paolo nella Seconda epistola ai Tessalonicesi – sia in grado di trattenere l'avvento dell'Anticristo, lo scatenarsi del mysterium iniquitatis; questa forza qui tenet riesce ad essere efficace, secondo Schmitt, proprio perché è radicata nel territorio, è definita spazialmente. L'Impero cristiano ha assunto questa funzione katéchontica nei confronti degli Ebrei, dell'Islam e in generale di coloro che vengono considerati hostes perpetui. Il katéchon è un muro di difesa contro l'Oriente ritenuto civilmente ed umanamente diverso; è lo strumento che preserva l'identità mantenendo fuori il nemico: da questo punto di vista mantiene la medesima funzione esercitata dall'Impero Romano16. Tuttavia contiene in sé “un effetto distruttivo e

sradicante” che già a partire dal XIII secolo è all'opera allorché l'unità della respublica

christiana, viene disarticola dall'interno: da un lato sotto l'azione della dottrina delle societates perfectae, secondo cui è possibile per ogni nazione perseguire autonomamente i

propri fini. Volendo sottrarsi al giogo dell'impero si appelleranno al noto principio “civitates

superiorem non recognoscentes” arrivando a confinare l'auctoritas del Sacerdotium nell'ambito puramente spirituale. Dall'altro in virtù della trasformazione dell'Impero in

semplice oggetto del potere dinastico in mano a poche famiglie germaniche, dismettendo in tal modo il ruolo escatologico del katéchon, e finendo per ricoprire un ruolo egemonico ormai sganciato dal concreto radicamento territoriale.17

Nonostante questi processi disgreganti, la delimitazioni spaziale tra territorio cristiano e territori non cristiani sopravviverà ancora a lungo e anzi si rivelerà fondamentale nella prima fase dell'età delle scoperte, quando un nuovo elemento, l'oceano, farà la sua comparsa imponendo una ripensamento totale del nomos: dall'equilibrio fra l'elemento terra e l'elemento mare nascerà la prima vera divisione del globo e vi si accompagnerà la creazione di un nuovo ordinamento terrestre, lo Stato moderno secolarizzato.

16 Sostiene Schmitt che i maggiori imperatori medievali quali Ottone il Grande e Federico Barbarossa «videro l'essenza storica della loro dignità imperiale nel fatto che lottavano, in qualità di katéchon contro lanticristo e i suoi alleati, rimandando cosi la fine dei tempi» C. Schmitt, L'unità del mondo, in L'unità del mondo. Sulla globalizzazione e altri scritti, Pgreco, 2013, p.11

17 «i giuristi di diritto romano dei secoli XIV e XV non erano più a conoscenza del fatto che limperatore possedeva questo compito del katéchon» C. Schmitt, Il nomos della terra, cit. p.49

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La conquista territoriale di un nuovo mondo: le prime linee globali

Come accennato, questa terza fase nell'evoluzione del diritto internazionale si sviluppa in due direzioni contemporaneamente, all'interno e all'esterno dell'Europa

Le scoperte geografiche e la nascita della linea18

In seguito alle scoperte geografiche sorge la necessità di un ordinamento spaziale che tenga presente queste nuove terre; si sviluppa perciò un pensiero fondato sulla contrapposizione tra superficie terrestre e superficie marina. Quest'epoca mostra come il desiderio di conquista del suolo americano porti alla lotta fratricida i popoli europei: dapprima portoghesi e spagnoli, seguiti poi da olandesi, inglesi e francesi, attraversano l'oceano per impossessarsi di un continente che considerano occupabile in quanto abitato da genti non cristiane.19 Quando ci si

è occupati di tracciare le prime linee globali mediante cui suddividere il globo volendo seguire l'esempio degli ordinamenti terrestri, si è tentato il più possibile di rendere visibile la presenza dei vari regimi.

Il primo tipo di linea ad esser cosciente della globalità, la cosiddetta raya, fissata nell'accordo di divisione ispano-portoghese di Tordesillas nel 1494, è tracciata all'incirca al centro dell'oceano atlantico; ratificato con l'imprimatur di papa Giulio II, questo accordo dal punto di vista spaziale è ancora predominato dalla dimensione terrestre: l'oceano non rappresenta ancora un nuovo tipo di esistenza storica, ma è semplicemente il medium, il veicolo di nuove, immense occupazioni di terra; d'altronde questa linea viene definita partiçiòn del mar oceano. Tutto questo risulta nuovamente evidente quando si tiene conto del fatto che nelle successive

18 «Il mondo originariamente terreno venne trasformato nellepoca delle scoperte geografiche, quando la terra fu per la prima volta compresa e misurata dalla coscienza globale dei popoli europei»

C. Schmitt, Il nomos della terra, cit. p.28

19 Sullo sfondo della prima fase delle scoperte, quella della conquista dellAmerica da parte della Corona di Castiglia, vigeva ancora la distinzione fra terre cristiane e non cristiane, viste quali territori liberamente occupabili sulla scorta di incarichi pontifici di missione: lautorità della Chiesa cattolica è ancora arbitro delle dispute internazionali, anzi «ne è addirittura il culmine, ma al tempo stesso anche la fine»; «sotto questo profilo la conquista spagnola è una continuazione di concetti di ordine spaziale della respublica christiana del medioevo».

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ripartizioni non si faceva alcuna distinzione tra l'occupazione terrestre (Landnahme) e occupazione marina (Seenahme): ai fini della sua assegnazione, le superfici erano equiparate; per fare solo un esempio nel 1526, nel Trattato di Saragozza, si traccia una seconda linea nell'oceano pacifico.

In questa prima fase d'occupazione gli incarichi di missione che il pontefice assegna equivalgono a titolo giuridico sebbene questi non assegni direttamente il possesso di terre: nella sostanza, il papa è garante dell'ordine extraeuropeo. Secondo la ricostruzione schmittiana, è dalle guerre di religione che divideranno la cristianità che nascerà un nuovo

ordo terrestre, chiuso e centralizzato, basato sulla contrapposizione tra gli Stati continentali in

risposta al quale si creerà un nuovo tipo di linea globale, la amity line che sfrutterà al meglio l'oceano.

Onde evitare di fraintenderne il significato, chiarisco che queste linee d'amicizia franco-inglesi – accennate per la prima volta in una clausola segreta del trattato ispano-francese di Cateau-Cambrésis del 1559 che passavano a sud per l'Equatore o il Tropico del Cancro, a ovest nell'Atlantico ad un grado di longitudine, passando per le Azzorre o le Canarie – appartengono all'epoca delle guerre di religione tra le potenze conquistatrici cattoliche e protestanti, quando cioè la lotta per la conquista del nuovo mondo si era trasformata in una lotta intestina alla cristianità, tra cattolicesimo romano e protestantesimo nordico.20

Tutti i primi eroi del mare, corsari, pirati inglesi, rochellois francesi, gueux olandesi,

buccaneers facevano parte di un unico vasto fronte genericamente protestante, che aveva nella

Spagna cattolica il nemico comune da combattere e in ciò consiste il loro concreto e decisivo significato storico; ma questo contrasto, che è insieme guerra di religione, guerra civile e guerra di conquista, può essere colto nella sua struttura fondamentale solo riconducendolo ad

20 «con la riforma, i popoli che diventarono protestanti si sottrassero apertamente a qualsiasi autorità del pontefice romano. La lotta per la conquista della nuova terra divenne una lotta tra riforma e controriforma, tra il cattolicesimo mondiale degli spagnoli e il protestantesimo mondiale degli ugonotti, degli olandesi e degli inglesi». C. Schmitt, Terra e mare, cit. p. 80

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una vera e propria guerra tra elementi: è il mare-oceano che rivendica i suoi diritti contro della

respublica christiana ormai in pieno disfacimento, è la lotta tra il mondo del mare libero e

l'universo della terraferma, nel quale ancora si radicavano le cattoliche Spagna e Portogallo. Qui sta il tentativo schmittiano di “mettere in luce i contrasti più profondi, le forze e le opposizioni ultime ed elementari”. Gli stessi bellicosi concetti teologici di quest'epoca sono al servizio di quella elementare opposizione tra lo scatenarsi delle energie marittime al cui servizio si mise la nuova religione guerriera calvinista, catturata dall'impulso del mare, e la difesa disperata di un ordo terrestre cattolico che si voleva eterno e universale, ma che proprio in quegli anni si vedrà sostituito dal nuovo sistema degli Stati europei secolarizzati: addirittura la stessa fede nella predestinazione e la coscienza della propria elezione che animava le comunità calviniste possono essere viste in una prospettiva storica come “la coscienza di appartenere a un mondo diverso da quello corrotto, condannato alla rovina... e la certezza di essere salvati, e la salvezza è alla fin fine, a dispetto di qualsiasi idea razionale, il senso decisivo di ogni storia del mondo”.

Solo su questo sfondo è possibile cogliere il senso delle amity lines; contrariamente alle rayas che presupponevano la presenza della Chiesa cattolica romana quale autorità comune riconosciuta, le nuove linee nate nel contesto delle lotte religiose, sono linee di guerra, hanno la precisa funzione di sgravare il suolo continentale dalla problematica intra-europea, per proiettarla in uno spazio libero, sottratto a qualsivoglia forma di diritto: beyond the line. Al di là finisce il vecchio mondo e inizia il nuovo mondo, la sconfinata libertà dei nuovi spazi: «in primo luogo uno spazio incalcolabile di terra libera, il nuovo mondo, l'America, il paese della libertà, vale a dire della libera conquista da parte degli europei, dove il vecchio diritto non vale. In secondo luogo il mare aperto, gli oceani scoperti da poco»21. Addirittura la

distinzione teorica – propria della filosofia politica – tra uno stato di natura nel quale vige la legge del più forte, homo omini lupus, e uno stato civile in cui regnano le garanzie del diritto,

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può essere messa in relazione con l'invenzione delle amity lines. Non solo Hobbes, ma addirittura lo stesso Locke – sebbene rifletta in un momento storico in cui la società civile americana si sta formando e l'età della pirateria è ormai passata – volendo significare il carattere disordinato e violento della condizione prestatale afferma che «in the beginning all

the world was America», in principio tutto il mondo era America. Prendendo spunto da

un'intuizione di Hegel il quale afferma che l'America è il paese della società civile ancora priva dello Stato, molti studiosi vedono una certa continuità tra quest'aspetto barbarico e la presenza ivi dello spazio della libera concorrenza, dell'economico e della pura deregulation dei capitali. Le nuove scoperte geografiche oltre che a segnare il passaggio dall'antico al moderno, da uno spazio pre- ad uno globale, segnano una grande innovazione sul piano dei rapporti tra gli stati: come è possibile, infatti, impedire il suicidio della civiltà occidentale, immersa com'è in devastanti guerre di religione? La risposta si trova proprio in questa possibilità di sfruttare i nuovi spazi come valvola di sfogo per far abbassare la pressione. Al di la delle linee di amicizia, infatti, si potrà fare guerra perché – usando un lessico schmittiano – vige uno Stato di eccezione dove è possibile sospendere la legalità; un nichilismo privo della differenza tra bene e male.

La giustificazione della conquista territoriale: Francisco de Vitoria

A completamento del panorama esterno, Schmitt dibatte la questione delle conquiste spagnole nelle Americhe, in particolare il trattamento degli Indios: come si pone il diritto internazionale difronte ad essi? L'analisi sulla legittimità della guerra prende le mosse da Francisco De Vitoria, teologo dominicano filosofo della tarda scolastica, che con le sue opere le Relectio de

Indis (1538) et Relectio de iure belli (1539), compie un analisi della conquista dell'America

cercando di rimanere neutrale, segnalando i pro e i contra di questa che lui chiama missione cristiana; pur intravedendo nella scoperta e nella conquista dell'America una certa continuità

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con l'ideale della Respubblica christiana i cui concetti di ordine spaziale sono elaborati nel Medioevo, la scoperta delle nuove terre sancisce la fine dell'universalismo del Papa e dell'imperatore dichiarando illegittimi tutti i titoli derivanti da una pretesa di dominio temporale di territori che appartengono agli indigeni: siamo oramai sul finire dell'idea teologica dell'evangelizzazione che cederà il passo all'inizio della cultura laica, per cui nascerà lo Stato territoriale e l'organizzazione moderna della politica internazionale. La scoperta dell'America segna perciò una fase di transizione dall'ordinamento medievale jus ad

gentium, all'ordinamento dello Jus publicum europaeum.

Sottolineando l'elemento umano e morale attraverso cui de Vittoria poteva dire che gli Indios d'America erano uomini e non bestie e dunque non li si poteva privare dei loro diritti anche se non cristiani, Schmitt nota con sarcasmo che egli non si è preso la responsabilità di affermare la legittima sovranità da parte di costoro. Il pensiero di de Vitoria risulta infatti ambiguo dato che se da una parte dichiara illegittima l'occupazione del nuovo territorio sulla base di un presunto diritto del primo occupante – l'America non è libera né priva di dominio – dall'altra riconosce però l'incarico pontificio di missione cristianizzante. La conquista dell'America viene dunque giudicata sotto il profilo della coscienza una barbarie in virtù dei metodi di cristianizzazione adoperati dagli Spagnoli – in questo simili agli indigeni – ma nel complesso l'intera vicenda deve essere giudicata positiva poiché dall'azione spagnola discende la cristianizzazione di quei popoli e l'allargamento del diritto del liberum commercium. Benché non cristiani, gli Indios non dovevano essere trattati come criminali , ma come semplici avversari di guerra: la stessa opera civilizzatrice non sarebbe dovuto avvenire attraverso una sottomissione violenta, che infatti sarebbe stata tollerata come guerra giusta solo qualora i barbari si fossero ribellati con violenza a quest'ondata civilizzatrice o qualora avessero oppresso ingiustamente altri popoli nella loro terra. Una questione di metodo, non di merito.

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La nascita dello stato moderno

Spostandoci dal versante esterno a quello interno, la grande risposta della terraferma alla sfida dei nuovi mari e dei nuovi oceani è lo Stato territoriale europeo. «Solo un ordinamento spaziale completamente diverso mise fine al diritto internazionale dell'Europa medioevale. Esso sorse con lo stato territoriale europeo spazialmente chiuso e accentrato, sovrano nei confronti dell'imperatore e del papa, ma anche di ogni altro vicino: uno stato che disponeva dinanzi a se di uno spazio libero e illimitato, destinato all'occupazione, nelle terre d'oltremare»22. Il processo di formazione dello Stato territoriale europeo, che pone fine al

millenario ordo della respublica christiana, è in primis un fenomeno di neutralizzazione politica delle guerre civili di religione, veicolo di una secolarizzazione di tutti i concetti di natura teologica che fino a quel momento avevano caratterizzato la vita politica europea. De-teologizzazione e razionalizzazione della vita pubblica vennero conseguite rivendicando alla decisione sovrana, la possibilità di avocare a sé le questioni interne di ordine religioso, onde evitare il ripresentarsi di conflitti intestini: “cujus regio, ejus religio”.

Silete theologi in munere alieno, esclamava Alberico Gentile, uno dei grandi giuristi, come

Bodin o Baltasar Ayala, che sullo scorcio del XVI secolo contribuirono alla creazione di una dottrina dello stato completamente secolarizzata, emancipando l'argomentazione giuridica e riuscendo anche a razionalizzazione e addirittura limitare la guerra sul suolo europeo. Proiettando i conflitti beyond the line è stato possibile umanizzare la guerra, almeno sul continente europeo. Ma dato che il problema della guerra giusta verrà approfondito nel prossimo capitolo, mi limito per il momento a quest'unico accenno. In conclusione, la nascita dello Stato territoriale chiuso è anche e soprattutto l'inizio di un nuovo ordinamento delimitato verso l'esterno da confini precisi capaci di regolare i rapporti con gli altri; è il principio del nuovo nomos che si sostituisce all'ordine medievale e che non potrà più ignorare la

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dimensione globale della terra e la nuova sfida lanciata dal mare-oceano. Dora in poi il sistema degli Stati sovrani europei sarà in grado di combattere questa sfida, di “trattenere” nei secoli successivi l'effetto sradicante di questo nuovo tipo di esistenza puramente marittima, di cui l'Inghilterra sarà la sola e incontrastata fautrice.

Lo

Jus Publicum europaeum

Mentre dunque a livello planetario la scoperta del Nuovo Mondo è l'evento fondamentale, nel territorio europeo lo è la nascita della moderna politica fondata sulla pluralità di entità statali sovrane e indipendenti, ciò che Schmitt chiama Jus Publicum europaeum.

Questo diritto interstatale permette l'eliminazione della sacralità imperiale medievale fondata sulla potestas spiritualis pontificia, riconducendo la religione al ruolo di instrumentum regni, come lo era stato in epoca romana: a scapito della diarchia Papato-Impero, si affermano quindi entità individuali territorialmente delimitate che nel suo costituirsi lottano duramente con la Chiesa di Roma. Essa infatti cerca di impedirne la nascita appellandosi ai principi di

potestas e veritas di cui si sente portatrice. Afferma perentoriamente Schmitt che la forza della

neutralizzazione della religione nella fondazione dello Stato nazionale è tale che non è possibile parlarne in questi termini prima della Riforma: è solo quando finisce la funzione di katéchontica dell'imperatore, e si comincia a governare il territorio indipendentemente dall'influenza della Chiesa, che nasce la modernità. La Chiesa ora è relegata a strumento di politica statale. La nuova realtà statale si caratterizza per la creazione di una superficie territoriale determinata, retta da un'attività politica centralizzata in grado di sottomettere e controllare ogni altro potere tramite l'istituzione di competenze legislative, amministrative e giurisdizionali. Il nuovo nomos è fondato sull'uguaglianza fattuale e giuridica nei rapporti tra gli stati. Con la fine della respublica christiana, in cui la "potestas spiritualis" della Chiesa fungeva da autorità riconosciuta nel dirimere le controversie internazionali, anche i teologi

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vengono esclusi dalla trattazione in materia di diritto internazionale, sostituiti oramai dai giuristi al servizio di un governo: il “Silete!” di Alberico Gentile si è realizzato.

Soggetto dello Jus publicum europaeum è lo Stato moderno; il nuovo diritto internazionale segnala “il passaggio decisivo dal diritto internazionale medioevale a quello moderno, da un sistema di pensiero ecclesiastico-teologico a uno giuridico statale”; con il nuovo nomos la guerra – almeno in Europa – non è legittimata, anzi viene sottoposta a limitazione. Da qui in avanti il fine del diritto internazionale sarà quello di creare un equilibrio tra le nazioni. Lo stato contro cui un altro muove guerra non può più essere considerato nemico dell'umanità contro cui è lecito muovere guerra in nome di una justa causa; l'ordinamento giuridico interstatale moderno definisce il nemico come justus hostis, cioè come un nemico le cui ragioni sono quanto meno equivalenti a quelle dell'avversario, pertanto è legittima ogni guerra interstatale condotta tra sovrani dotati di medesimi diritti. La squalificazione giuridica in nome di un principio teologico non ha più posto in Europa. Ormai de-teologizzato, lo stato laico non presuppone più l'unità della formazione religiosa, e anzi il principio medievale

cuius regio eius religio viene superato in nome della nuova divinità-Mercato: con la gestione

dell'economia e dell'ordinamento politico attraverso il libero mercato si diffonde il nuovo principio del "cuius regio, eius oeconomia".

L'Inghilterra23 : acme del mare

L'Inghilterra rimasta sempre fuori dalle guerre europee di terraferma, è elemento di congiunzione e di equilibrio tra i due diversi ordinamenti della terra e del mare, bensì proiettata verso il mare e il libero commercio sulle rotte oceaniche; essa si presenta come una

23 «L'Inghilterra era lisola che, dalla fine del XVI secolo, si era distaccata dal continente europeo ed aveva compiuto il passo verso unesistenza puramente marittima. Ciò è storicamente essenziale. Tutto il resto è

sovrastruttura» C.Schmitt, La contrapposizione planetaria tra Oriente e Occidente e la sua struttura storica, ed. il Mulino, Bologna 2004, p.154.

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vittoria dell'economia sulla politica, della libertà sull'assolutismo attraverso il costituzionalismo dell'Habeas Corpus e la Rivoluzione Inglese, ciò rappresenta il trionfo della ragione, sulla follia dei regimi continentali sempre in lite tra di loro: una vittoria, quindi, della pace sulla guerra. Anche se Schmitt sostiene che l'economia è una delle forme di neutralizzazione della politica, in quanto i fattori economici distolgono lo studioso dal primato della politica e dei processi storici. In realtà questo Seerecht o diritto del mare esprime le grandi linee di una politica certamente diversa da quella continentale, ma più insidiosa, fondata sul potere marittimo, sulla superiorità economica, sull'espansionismo coloniale, sul mantenimento dell'equilibrio tra le potenze europee (il che prefigura un diritto di intervento sul continente); sono le linee di fondo della politica estera inglese, anticipate dall'Utopia di Thomas More. La forma insulare costituisce da sola una difesa naturale contro il nemico, e rende superflua la presenza di eserciti stanziali, impedendo la nascita del militarismo: il costituzionalismo liberale può così celebrare i suoi fasti. Ma dove la forma continentale genera il fenomeno opposto - come in Germania - il costituzionalismo può essere solo uno strumento a servizio della politica estera inglese. L'avversione per il liberalismo riceve in tal modo un più saldo fondamento materiale. Lo sviluppo dello Stato moderno che prosegue con le scoperte e le conquiste geografiche, con l'espansione dell'impero britannico - dominatore dei mari e del globo - con l'esportazione del modello della civiltà europea nel nuovo mondo e si conclude con l'imporsi dell'America come arbitra delle sorti del pianeta: sarà paradossalmente, il Nuovo Continente - erede dello spirito occidentale, paladino dei valori di umanità, libertà e progresso che si erano affermati in Europa – ad avviare la dissoluzione dei principi della cultura europea.

Mare e tecnica

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l'Inghilterra è ancora attaccata alla realtà terrestre, i cavalieri combattono sul suolo francese e nell'isola ci si dedica all'allevamento di pecore per poter venderne la lana sui mercati delle Fiandre: la terraferma detta ritmi e regole. Nel giro di un secolo questo popolo di allevatori e cavalieri si è incredibilmente trasformato in un popolo di pirati, corsari, navigatori e balenieri, sono stati pionieri verso un nuovo tipo di esistenza storica. Questi “schiumatori del mare” hanno navigato verso “l'ignoto marino” che per la prima volta si mostrava in tutta la sua forza dirompente: alla ricerca della balena, essi si sono staccati dalla costa verso l'oceano, nella lotta con queste creature hanno toccato le profondità del mare mentre la bandiera nera dei pirati, “partigiani del mare”, simboleggia la conquista di una nuova libertà.

Sulla scia di portoghesi, spagnoli, francesi e olandesi si sono conquistati il dominio marittimo; rispetto ai predecessori, tuttavia, hanno introdotto alcune novità. Gli spagnoli conquistarono un immenso continente oltremare, ma la loro spinta si esaurì in una grande occupazione territoriale poiché a dispetto dei loro possedimenti non divennero mai un “popolo oceanico”, cioè non ebbero mai vero dominio sui mari e sulle rotte di collegamento. I portoghesi e gli olandesi furono vittime della propria dimensione territoriale che impedì alla loro vocazione marittima di trasformarsi in una piena affermazione mondiale, di conquista degli oceani. I francesi, infine, non proseguirono il grande slancio del protestantesimo ugonotto optando per un legame col cattolicesimo romano, cioè per la costruzione di un grande ordo territoriale. Perché solo gli inglesi hanno compiuto la grande occupazione del mare? Perché solo gli inglesi hanno accettato fino in fondo la sfida degli oceani? 24 La risposta va ricercata nella

storia della sua coscienza insulare: come si è visto, infatti, la semplice scoperta di continenti e oceani non è di per sé sufficiente a dar vita a un dominio sui mari del mondo – una cosa, infatti, è sfruttare una posizione costiera favorevole, fare del mare un semplice mezzo per conquistare altre terre, un'altra è decidersi per il mare in quanto elemento, farne l'habitat della

24 «gli scopritori europei si impadronirono solamente di terra. L'Inghilterra prese il mare» C.Schmitt, Dialogo sul nuovo spazio, Giuffré, Milano 1986, p.100.

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