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La disfunzione endoteliale e la biodisponibilità di ossido nitrico migliorano la stratificazione dei pazienti a maggior rischio di rimodellamento microcircolatorio

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Academic year: 2021

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Scuola di Medicina

Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia

Tesi di Laurea Magistrale

La disfunzione endoteliale e la biodisponibilità di ossido nitrico

migliorano la stratificazione dei pazienti a maggior rischio di

rimodellamento microcircolatorio

Relatore:

Chiar.mo Prof. Stefano Taddei

Correlatore:

Dott. Stefano Masi

Candidato:

Ilaria Perrotta

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Sommario

1. Riassunto Analitico 3

2. Introduzione 9

2.1 Epidemiologia delle malattie cardiovascolari 9 2.1.1 Morbilità e mortalità in Europa delle malattie cardiovascolari 10 2.1.2 Morbilità e mortalità in Italia per malattia cardiovascolare 12

2.2 Fattori di rischio cardiovascolare 13

2.2.1 Classici fattori di rischio non modificabili 13 2.2.2 Classici fattori di rischio modificabili 14 2.2.3 Nuovi fattori di rischio cardiovascolare 16 2.2.4 Altre condizioni che incrementano il rischio cardiovascolare 18

2.3 core di rischio cardiovascolare 19

2.3.1 Framingham Risk Score 20

2.3.1.1 Limiti del Framingham Risk Score 21

2.3.2 Heart SCORE 26 2.4 Il microcircolo 27 2.4.1 rimodellamento vascolare 28 2.4.2 imodellamento eutrofico 29 2.4.3 Rimodellamento ipertrofico 30 2.4.4 La rarefazione miscovascolare 31

2.4.5 Ruolo prognostico del rimodellamento vascolare 32

2.4.6 Metodi lo studio del microcircolo 33

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2.5.3 La disfunzione endoteliale 43

2.5.4 Fonti di disfunzione endoteliale 46

2.5.4.1 Lo stress ossidativo 46

2.5.4.2 infiammazione cronica 48

2.5.4.3 L’infezione 50

2.5.4.4 Ruolo dello shear stress 50

2.5.5 Fattori di rischio cardiovascolare e disfunzione endoteliale 51

2.5.5.1 Diabete mellito 52 2.5.5.2 Dislipidemia 53 2.5.5.3 Ipertensione 54 2.5.5.4 Fumo 55 2.5.5.5 Invecchiamento 55 2.5.5.6 Obesità 55

2.5.6 Valutazione della funzione endoteliale 56 2.6 Relazione tra la disfunzione endoteliale ed il rimodellamento vascolare 60

3. Scopi 62 4. Metodi 64 4.1 Popolazione studiata 64 4.3 Misurazioni 65 4.4 Analisi Statistica 68 5. Risultati 71 6. Discussione 83 7. Conclusioni 88 8. Bibliografia 89 9. Ringraziamenti 97

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1. Riassunto Analitico

Le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morbosità, invalidità e mortalità a livello mondiale. Esse sono spesso conseguenza della patologia arteriosclerotica, che può manifestarsi clinicamente in forma di malattie ischemiche del cuore (infarto acuto del miocardio e angina pectoris), malattie cerebrovascolari (ictus ischemico ed emorragico), arteriopatie periferiche (arteriopatia obliterante degli arti inferiori) o patologie aortiche (aneurisma dell’aorta). La prevenzione della malattia aterosclerotica è quindi fondamentale al fine di ridurre la prevalenza delle sue complicanze nella popolazione generale e, quindi, le spese sanitarie connesse alla loro gestione. Per un’adeguata prevenzione è importante identificare i pazienti a maggior rischio in modo da istituire terapie efficaci e precoci prevalentemente in coloro che hanno maggior probabilità di sviluppare complicazioni della patologia aterosclerotica. Sulla base di dati epidemiologici raccolti in grandi studi prospettici, sono stati elaborati nel corso degli anni numerosi algoritmi per la definizione del rischio globale del paziente, che ovviamente si basano sulla combinazione di diversi fattori di rischio per i quali è stata dimostrata una relazione causale nel favorire l’inizio e la progressione della patologia aterosclerotica. Gli algoritmi più utilizzati nel mondo occidentale sono: il Framingham Score, adottato principalmente per la definizione del rischio cardiovascolare in America, ed il Systematic Coronary risk Evaluation (SCORE), maggiormente utilizzato nelle popolazioni Europee. Sebbene entrambe abbiano dimostrato di predire efficacemente il rischio cardiovascolare (RCV) a 10 anni, esiste una percentuale consistente di tale rischio che non risulta spiegata dai comuni fattori di rischio cardiovascolare (CVRF) e, di conseguenza, dagli algoritmi clinici sviluppati dalla loro combinazione.

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legate alla patologia. Nell’evoluzione della patologia aterosclerotica, un passo fondamentale e precoce è lo sviluppo di disfunzione endoteliale. Infatti, da studi condotti nei primi anni ‘90 è stato chiaramente dimostrato come l’endotelio non svolga semplicemente il ruolo di barriera tra flusso ematico e parete vascolare, ma abbia funzioni di vero e proprio organo paracrino, autocrino ed endocrino con un ruolo cruciale nella regolazione dell’omeostasi vascolare. Se in condizioni fisiologiche l’endotelio svolge attività anti-aterosclerotiche, quali garantire la vasodilatazione, inibire l’attivazione piastrinica, la proliferazione e migrazione delle fibrocellule muscolari lisce della parete vascolare e la diapedesi di cellule infiammatorie, in seguito ad esposizione ai fattori di rischio cardiovascolari le cellule endoteliali assumono un fenotipo attivato, che si caratterizza per una perdita di tali funzioni protettive, con produzione di citochine pro-infiammatorie e molecole reattive dell’ossigeno che possono favorire il processo aterosclerotico. Un ruolo fondamentale nella regolazione delle attività vascolari dell’endotelio è svolto dall’ossido nitrico (NO). La produzione di questo gas da parte della NO sintasi endoteliale è fondamentale nel regolare tutte le funzioni anti- aterosclerotiche delle cellule endoteliali. In condizioni di attivazione e disfunzione endoteliale, si assiste ad una ridotta biodisponibilità di NO endoteliale con conseguente perdita delle sue attività benefiche nella regolazione dell’omeostasi vascolare.

Tutti i principali fattori di rischio cardiovascolare, inclusi l’invecchiamento, la menopausa, l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito, l’ipercolesterolemia e l’iperomocisteinemia, sono in grado di indurre disfunzione endoteliale. In queste condizioni la vasodilatazione endotelio- dipendente è ridotta sia a livello delle strutture vascolari periferiche, che a livello di quelle coronariche. Ciò è principalmente dovuto ad una ridotta biodisponibilità di ossido nitrico (NO). E’ stata dimostrata, attraverso studi trasversali e longitudinali, la potenziale influenza della disfunzione endoteliale sul rimodellamento dei vasi di grosso calibro; altrettanto non è stato verificato a livello del microcircolo, che resta inesplorato. Eppure, l'alterazione strutturale del

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microcircolo è ritenuta la prima manifestazione di danno d'organo dovuto all'esposizione a CVRF e i fattori che ne determinano la progressione potrebbero costituire dei marcatori significativi per identificare precocemente gli individui a maggior rischio di patologia cardiovascolare aterosclerotica. Queste anomalie spesso si presentano con ispessimento della parete vascolare e riduzione del lume. Ne risulterà un aumento del rapporto media-lume (M/L), il cui valore è capace di predire il rischio di eventi cardiovascolari in popolazioni ad alto e basso rischio cardiovascolare. Oltre ai parametri appena visti, un altro parametro è frequentemente utilizzato per descrivere il rimodellamento del microcircolo, si tratta dell’area trasversa della tonaca media (MCSA). Esso, insieme al valore del rapporto M/L, ci consente di distinguere due differenti tipi di rimodellamento: eutrofico e ipertrofico. Il primo è caratterizzato da aumento del rapporto M/L con MCSA invariata; il secondo, invece, si associa ad un incremento di entrambi a sottolineare il processo ipertrofico/iperplastico che ne favorisce lo sviluppo. Questa differenza è rilevante in quanto alcuni studi epidemiologici hanno dimostrato che un rimodellamento ipertrofico ha un significato prognostico peggiore rispetto a quello eutrofico.

L’obiettivo di questa tesi è stato, quindi, quello di analizzare i rapporti che intercorrono tra FRCV, disfunzione endoteliale e parametri di rimodellamento microvascolare. Nello specifico gli scopi sono quelli di valutare:

1) se la funzione endoteliale può fornire informazioni aggiuntive sulla gravità del rimodellamento microvascolare rispetto a quelle ottenute dall’Heart SCORE per definire il rischio cardiovascolare del paziente;

2) se il rapporto tra funzione endoteliale e rimodellamento microvascolare differisce nei soggetti a basso o alto rischio cardiovascolare;

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4) se la funzione endoteliale e l’esposizione ai CVRF (definita dall’Heart SCORE) siano associati a pattern di rimodellamento microvascolare diversi (eutrofico o ipertrofico).

Per dare risposta a queste domande è stato utilizzato un database della Società Italiana per l'Ipertensione Arteriosa (SIIA) che raccoglie i dati di 356 pazienti con informazioni di rimodellamento microvascolare provenienti da 4 centri Italiani: Brescia (BR), Pisa (PI), Milano (MI) e Roma (RM). Le informazioni sul rapporto M/L, MCSA, funzione endoteliale e disponibilità di NO nelle piccole arterie di resistenza sono state acquisite utilizzando la miografia a pressione o a filo a partire da biopsie effettuate su tessuto adiposo sottocutaneo nel corso di interventi chirurgici in regime di elezione. Da questo campione sono state isolate le piccole arterie di resistenza che, montate su un miografo, sono state utilizzate per ottenere le informazioni di interesse.

Dato che molte biopsie di tessuto sottocutaneo sono state prelevate nel corso di interventi di chirurgia bariatrica, la popolazione dello studio presentava una larga proporzione di pazienti obesi. Per verificare se i dati ottenuti dall’analisi statistica potessero essere applicabili anche alla popolazione non obesa, è stata condotta un’ulteriore analisi limitata alla categoria di individui non obesi. Per calcolare il rischio cardiovascolare globale di ciascun paziente è stato impiegato l’Heart SCORE (HS).

Come previsto l’HS risultava associato con i parametri di rimodellamento microvascolare: i soggetti con HS maggiore presentavano un rapporto M/L e un MCSA aumentati. Anche la funzione endoteliale e la biodisponibilità di NO erano associate al rimodellamento microvascolare ma secondo un rapporto inverso: maggiore era la riduzione della funzione endoteliale o della biodisponibilità di NO e maggiore era il rimodellamento microvascolare.

Utilizzando l’HS e la funzione endoteliale o la biodisponibilità di NO nello stesso modello di regressione lineare come variabili indipendenti e messi in relazione al rapporto M/L e MCSA come

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variabili dipendenti, solamente la funzione endoteliale e la biodisponibilità di NO rimanevano significativamente associata al rapporto M/L ed alla MCSA, mentre le associazioni dell’HS non risultavano più associate.

Dato che questo suggerisce un ruolo superiore della disfunzione endoteliale e della biodisponibilità di NO nel favorire il rimodellamento microvascolare rispetto ai fattori di rischio cardiovascolare è stata eseguita un’analisi di riclassificazione per determinare la proporzione di pazienti correttamente identificati come a rischio di rimodellamento vascolare severo e non-severo quando all’HS veniva aggiunta l’informazione relativa alla disfunzione endoteliale o della biodisponibilità di NO. Questa analisi ha confermato come l’aggiunta della funzione endoteliale e della biodisponibilità di NO all’HS consentisse una miglior identificazione dei pazienti a rischio di rimodellamento microvascolare severo e non-severo.

I rapporti tra funzione endoteliale, biodisponibilità di NO, CVRF e parametri di rimodellamento risultavano simili in soggetti ad alto e basso rischio cardiovascolare calcolato sulla base dell’HS. Inoltre, mentre un grave deficit di disponibilità di NO era associato a un pattern di rimodellamento prevalentemente di tipo ipertrofico, un HS più elevato presentava un’associazione significativa con un pattern di rimodellamento di tipo eutrofico.

Ripetendo le analisi nella sola popolazione di pazienti non obesi, i risultati risultavano immodificati. Questi dati suggeriscono che la funzione endoteliale e la biodisponibilità di NO potrebbero rappresentare fattori coinvolti nel rimodellamento microvascolare, ed avere un ruolo aggiuntivo nei confronti di quest’ultimo rispetto ai CVRF. Inoltre, l’analisi presentata nella tesi suggerisce che l’aggiunta della funzione endoteliale e biodisponibilità di NO all’HS, consentirebbe una miglior

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indicazione alla valutazione della funzione endoteliale per migliorare la prevenzione delle patologie cardiovascolari attraverso la precoce identificazione degli individui a maggior rischio di prognosi negativa.

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2. Introduzione

Le malattie cardiovascolari attualmente costituiscono la principali cause di morbosità, invalidità e mortalità a livello mondiale. Spesse sono dovute alla patologia aterosclerotica e si manifestano sul piano clinico sotto forma di malattie ischemiche del cuore (infarto acuto del miocardio e angina pectoris), malattie cerebrovascolari (ictus ischemico ed emorragico), arteriopatie periferiche (arteriopatia obliterante degli arti inferiori) o patologie aortiche (aneurisma dell’aorta). L’impatto delle malattie cardiovascolari non è solamente dovuto alle loto complicanze acute, ma si manifesta anche e soprattutto sotto forma di sequele croniche nei soggetti che vanno incontro ad eventi non fatali, con notevoli ripercussioni sulla qualità della vita e sui costi economici e sociali.

Nonostante il prolungamento della durata della vita media in Italia nel corso degli ultimi anni, l’apporto delle malattie cardiovascolari rimane il fattore più decisivo sull’andamento verso il basso della mortalità. Sebbene esista una notevole componente genetica nel definire il rischio cardiovascolare di ogni individuo, una notevole porzione di tale rischio è attribuibile a fattori per la gran parte modificabili come l’ipertensione arteriosa, l’ipercolesterolemia, l’obesità, il fumo ed il diabete.

2.1 Epidemiologia delle malattie cardiovascolari

Le malattie cardiovascolari (MCV) costituiscono la principale causa di morte a livello globale; attualmente esse sono responsabili del 31.5% dei decessi[1]; di questi l’80% si verificano nei paesi in via di sviluppo. Queste statistiche di mortalità sembrano essere valide anche a livello Europeo, dove dal 2011 al 2014 le MCV costituivano la principale causa di morte (nel 2008 sono state

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2.1.1 Morbilità e mortalità in Europa delle malattie cardiovascolari

Il terzo Global Burden of Disease Study (GBD) ha riportato i dati di morbilità e mortalità mondiali dal 1990 al 2015, utilizzando anche un indice socio-demografico (Socio-demographic Index, SDI) basato sulla combinazione di tre fattori (reddito pro-capite, livello di istruzione e tasso totale di fertilità) per ottenere una stima della probabilità di esito atteso in base ai fattori socio-economici di ciascun paese, da paragonare con l’effettivo tasso osservato[2-4]

A livello globale, dal 1990 al 2015 il tasso di mortalità standardizzato per età ha mostrato una riduzione pari al 28,5%. Questo si è tradotto in un aumento dell’aspettativa di vita di 10,2 anni nello stesso periodo di riferimento dello studio.

Il report ha inoltre evidenziato come, nei paesi a più basso SDI si stia affermando un fenomeno noto come “transizione epidemiologica”. Con questo termine si vuole indicare l’evidenza di una progressiva riduzione della mortalità per le malattie infettive, neonatali e per deficit nutrizionali con concomitante incremento dell’incidenza delle patologie simili a quella dei paesi più sviluppati. Questo emerge chiaramente analizzando a livello globale gli anni di vita in salute persi (DALY), un indice che considera sia la morte prematura che la disabilità secondaria alla malattia: si nota un importante aumento di DALY dovuto a patologie non infettive.

Nel 2015, il 32,1% dei casi di morte a livello globale era riconducibile a malattie cardiovascolari [1]. Di queste, l'85,1% era dovuto a malattia ischemica cardiaca e ictus. I decessi per malattie cardiovascolari erano maggiori nelle donne dove rappresentavano il 49% delle morti, mentre negli uomini erano responsabili di circa il 40%.

Osservando la tendenza negli anni precedenti al 2015, nonostante il numero assoluto di morti sia aumentato del 12,5%, il tasso di mortalità standardizzato per età dovuto a malattie cardiovascolari si è ridotto del 15,6%. Questo è sicuramente dovuto alla promozione di interventi sanitari mirati a

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prevenire e trattare più efficacemente le complicanze acute dovute a queste patologie, sebbene questo abbia causato un incremento della disabilità cronica dovuta alle stesse patologie. Tale risultato è evidente se si analizza la classifica delle malattie in base al numero di DALY prodotti: ne emerge che dal 1990 al 2015 le malattie cardiovascolari sono passate dalla terza alla prima posizione. Meritevole di attenzione è il confronto, in termini di malattia ischemia cardiaca, tra i paesi dell'Europa dell'Est e quelli dell'Ovest. Al 1990, la Danimarca e la Russia erano le nazioni con mostravano un rapporto osservato/atteso del tasso di DALY per le malattie cardiovascolari pari rispettivamente a 1,51 e 2,24. Dal 1990 al 2015 entrambe hanno avuto un miglioramento del proprio SDI. Tuttavia, malgrado una tendenza simile di miglioramento, solo la Danimarca ha registrato un’effettiva riduzione del rapporto osservato/atteso, mentre la Russia ha subito un peggioramento o nessuna variazione dello stesso rapporto. Simili dati sono stati ottenuti dal confronto di altre nazioni orientali ed occidentali.

Analizzando la proporzione di morti per causa cardiovascolare secondaria all'esposizione ad una determinata categoria di rischio, si osserva una netta discrepanza tra i dati registrati in Europa occidentale e in quella orientale. Dal 1990 al 2015 tale valore si è ridotto sono nei Paesi occidentali per tutte le categorie di rischio (ambientale, comportamentale e metabolica), al contrario, nei Paesi orientali non si sono osservate variazioni rilevanti.

Le prospettive future non sembrano incoraggianti. Infatti, è stato stimato un aumento dei costi socio-economici correlati a MCV (stimati tramite il parametro DALY), passando da 85 milioni di DALY del 1990 a quasi 150 milioni di DALY nel 2020 a livello globale. In Europa solo 5 nazioni hanno DALY per MCV per 1000 abitanti maggiore 150: Ucraina (194/1000), Russia (181/1000), Bulgaria (167/1000), Bielorussia (163/1000), and Lettonia (153/1000). Cinque nazioni hanno

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2.1.2 Morbilità e mortalità in Italia per malattia cardiovascolare

Anche l’Italia non si discosta da quella che è la tendenza mondiale in termini di mortalità legata alle MCV [6]. Dal 1990 al 2015, infatti, esse sono risultate la prima causa di morte sebbene sia stata registrata una riduzione del loro peso sulla mortalità globale del 10,84% (da 42,12% morti per cause cardiovascolari sul totale dei decessi nel 1990 a 37,56% nel 2015). Questi dati confermano quelli dell’ISTAT che riportano 220.200 decessi per MCV nel 2014 (96.071 negli uomini e 124.129 nelle donne); di questi, 69.653 decessi sono stati causati da malattie ischemiche cardiache (35.714 negli uomini e 33.939 nelle donne) e 57.230 a malattie cerebrovascolari (22.609 negli uomini e 34.621 nelle donne). Dall’analisi dei tassi di mortalità standardizzati per uomini e donne per l’anno 2013 per MCV emerge che negli uomini la mortalità è trascurabile fino a 40 anni, inizia ad emergere come causa significativa di mortalità fra 40 e 50 anni, per poi aumentare in maniera esponenziale con l’avanzare dell’età; nelle donne, l’età alla quale si osserva un significativo incremento della mortalità per MCV è posticipata di circa 10 anni, comparendo intorno ai 60 anni e crescendo rapidamente dopo i 70 anni. Nel 2015 i tassi di ospedalizzazione per MCV nelle donne sono risultati essere, come negli anni precedenti, meno della metà di quelli degli uomini, e questo avviene sia per l’infarto acuto del miocardio (nel 2015 pari a 374,5 ricoveri per 100.000 uomini vs 148,8 ricoveri per 100.000 donne) che per le altre forme acute e subacute di ischemia cardiaca (nel 2015 pari a 509,4 ricoveri per 100.000 uomini vs 194,4 ricoveri per 100.000 donne) e per le malattie ischemiche nel loro complesso (nel 2015 pari a 869,8 ricoveri per 100.000 uomini vs 297,9 ricoveri per 100.000 donne).

2.2 Fattori di rischio cardiovascolare

I fattori di rischio che contribuiscono all’insorgere delle malattie cardiovascolari sono di due tipi: non modificabili e modificabili.

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2.2.1 Classici fattori di rischio non modificabili

Età, sesso, storia familiare ed etnia sono tutti fattori di rischio cardiovascolare non modificabili. Sebbene non siano aggredibili tramite intervento terapeutico diretto, rimangono importanti determinanti per ottenere una corretta stratificazione del rischio.

Il più importante fattore non modificabile del rischio cardiovascolare è l'età [7]. Esso è di particolare rilevanza non solo per il peso relativo importante rispetto agli altri fattori di rischio, ma anche in considerazione dell’invecchiamento generale della popolazione. L’età pone inoltre importanti difficoltà nella gestione della terapia farmacologica, a causa della diversa farmacocinetica e farmacodinamica di molti farmaci indotte dalle modifiche della composizione corporea legate all’invecchiamento. Inoltre, l’invecchiamento altera direttamente l’omeostasi vascolare favorendo lo sviluppo di disfunzione endoteliale[8], principalmente legato ad un’alterazione della biodisponibilità dell’ossido nitrico (NO) ed a un’eccessiva produzione di specie reattive dell'ossigeno (ROS). L’età si associa anche a modificazioni strutturali dei vasi, caratterizzate da un aumento dello spessore della parete in rapporto al lume interno, con possibile aumento delle resistenze periferiche al flusso.

Oltre all’età, il sesso[9] gioca un ruolo nella determinazione del richio cardiovascolare: sebbene le MCV siano la principale causa di mortalità nelle donne, i tassi di incidenza sono paragonabili a quelli degli uomini di 10 anni più giovani, un effetto che potrebbe dipendere dall’importante ruolo protettivo degli estrogeni nei confronti delle malattie cardiovascolari. La storia familiare precoce, in particolare se comprensiva di eventi cardiovascolari in giovane età, è altrettanto importante nel definire il rischio cardiovascolare del paziente [10, 11], riflettendo il contributo genetico alla MCV.

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2.2.2 Classici fattori di rischio modificabili

I fattori modificabili sono i più importanti dal momento che agendo su di essi attraverso provvedimenti idonei è possibile prevenire o ritardare la comparsa di MCV. Alcuni di questi, trattandosi di condizioni patologiche, sono aggredibili farmacologicamente; altri invece sono riconducibili ad abitudini nocive di vita.

L'ipertensione è un importante fattore di rischio modificabile per le patologie renali, cardiovascolari e cerebrovascolari ed il fattore di rischio responsabile della maggiore mortalità e morbilità a livello globale [13]. Vi è una grande quantità di prove che i valori pressori sono fortemente associati alla malattia cardiovascolare[14] e che la terapia antiipertensiva comporta una significativa riduzione degli eventi cardiovascolari che è direttamente proporzionale al grado di riduzione della PA. Lo sviluppo di ipertensione arteriosa si deve ad una complessa modificazione della fisiopatologia cardiovascolare, indotta dall’interazione di fattori sia genetici che ambientali. Mentre gli studi epidemiologici hanno migliorato la comprensione dell’influenza dei fattori ambientali sulla pressione sanguigna, in particolare in relazione a dieta e l'esercizio fisico, l'esatto ruolo della genetica in questo contesto è stato difficile da definire rispetto all'ambiente condiviso spesso presente nelle famiglie e nelle comunità.

Usando i dati della pressione arteriosa acquisiti in tre generazioni consecutive del Framingham Heart Study, Niiranen et al. hanno dimostrato che l'aumento della pressione sanguigna, non solo nei genitori, ma anche nei nonni, è associato al rischio della stessa condizione negli individui di terza generazione [15]. Con l'avvento dell'era genomica, è stato possibile confermare la complessa base poligenica all’origine dell’ipertensione arteriosa, su cui si instaurano influenze ambientali che possono anche esercitare effetti attraverso cambiamenti epigenetici [16, 17].

Le alterazioni metaboliche (incremento dei livelli di colesterolo e trigliceridi plasmatici) costituiscono un’importante fattore di rischio cardiovascolare modificabile [18, 19]. Il ruolo

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fondamentale del colesterolo totale e, soprattutto, di quello contenuto nelle lipoproteine a bassa densità (LDL) nel determinare l’inizio e l’evoluzione del processo aterosclerotico è stato confermato da numerosissime evidenze sperimentali e da trial clinici che hanno chiaramente dimostrato come la terapia con statine sia in grado di ridurre significativamente il rischio di eventi cardiovascolari. Attualmente, l'attenzione inizia a focalizzarsi anche sul possibile ruolo dei trigliceridi e di numerosi altri marker coinvolti nel metabolismo dei lipidi come l'apolipoproteina B e la fosfolipasi A2, i cui livelli sono stati identificati come altamente predittivi del rischio cardiovascolare in ampi studi epidemiologici prospettici.

Il diabete mellito è una malattia crescente: i pazienti sono considerati ad alto rischio indipendentemente da altri fattori. Valori glicemici persistentemente elevati correlano positivamente con le complicanze vascolari[20, 21]. L'iperglicemia porta alla generazione di prodotti finali della glicazione avanzata (AGE), che si accumulano nella parete del vaso alterando l'integrità strutturale dell'endotelio e della membrana basale e impedendo l'attività dell’ NO. Anche una ridotta tolleranza al glucosio per comporta un aumento del rischio. Il trattamento ipoglicemizzante riduce in genere sia le complicanze microvascolari che quelle macrovascolari.

Tra i comportamenti nocivi, che costituiscono fattori di rischio cardiovascolare modificabili, troviamo: il fumo[22], che rappresenta una delle principali cause di malattia coronarica, ictus, aneurisma aortico e malattia vascolare periferica. Il rischio si manifesta sia come aumento del rischio di trombosi nei vasi minori sia come aumento della severità delle lesioni aterosclerotiche nei vasi di grosso calibro. I rischi dovuti al fumo di sigaretta aumentano proporzionalmente con la quantità di sigarette fumate e con la durata dell’abitudine al fumo. I rischi non vengono ridotti fumando sigarette con minor contenuto di catrame e nicotina, mentre coloro che fumano pipe o

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sigaretta riduce i rischi di malattia, sebbene il rischio possa rimanere elevato per un decennio o più dal momento della cessazione.

Anche l'obesità [23] che costituisce un problema di salute pubblica globale, ha conseguenze cardiovascolari negative dovute a molteplici cambiamenti fisiopatologici: i pazienti obesi hanno maggiori probabilità di essere ipertesi e di sviluppare diabete mellito di tipo 2 rispetto ai pazienti magri. Inoltre l’obesità è caratterizzata da disfunzione endoteliale associata a una condizione di infiammazione vascolare di basso grado. Tale condizione è secondaria all’anomala produzione di citochine pro-infiammatorie, incluso il fattore di necrosi tissutale alfa (TNF- α). Il TNF-α, generato in piccoli vasi o all'interno del tessuto adiposo perivascolare (PVAT) di pazienti obesi, stimola la produzione di specie reattive dell'ossigeno, principalmente attraverso l'attivazione della NAD(P)H ossidasi, che a sua volta riduce la disponibilità di NO. Questa condizione contribuisce direttamente ai cambiamenti vascolari, favorendo lo sviluppo e l'accelerazione del processo vascolare aterotrombotico. Oltre al fumo di sigaretta, la mancanza di esercizio fisico, una dieta ad alto contenuto di sale e l’eccesso di alcol sono fattori di rischio comportamentali aggiuntivi in questi pazienti.

2.2.3 Nuovi fattori di rischio cardiovascolare

Numerosi nuovi marcatori di rischio cardiovascolare sono stati descritti negli ultimi anni. L'ipotesi infiammatoria dell'aterosclerosi ha portato a considerare marcatori di infiammazione sistemica. In particolare, è stato dimostrato che la proteina C-reattiva (PCR) è positivamente associata al rischio cardiovascolare [24].

I progressi tecnologici hanno permesso di studiare il genoma alla ricerca di marker del rischio cardiovascolare genetico. Studi condotti su tutto il genoma hanno identificato polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs) del gene 9p21 e del locus LPA 6q26-q27 associati a rimodellamento vascolare [25].

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La consapevolezza dell'esistenza ed importanza di ulteriori marcatori o fattori di rischio biochimici sta crescendo, dato che i comuni fattori cardiovascolari sono in grado di spiegare solo una porzione del rischio di MCV del paziente. Ad esempio, l'uso crescente della velocità di filtrazione glomerulare stimato in base ai valori di creatinina sierica, ha portato ad una maggiore coscienza dell’importanza della malattia renale cronica, anche nelle sue fasi iniziali, come importante fattore di rischio cardiovascolare [26]. Ulteriori misure associate al rischio cardiovascolare del soggetto includono la microalbuminuria [27], la cistatina C[28], l’acido urico [29] e l’omocisteina[30]. Nel 2005 sono stati pubblicati i risultati di un’ampia metanalisi [31] in cui è stata riscontrata una forte associazione tra il livello di fibrinogenemia e il rischio di cardiopatia ischemica, ictus e altre patologie sia vascolari che non vascolari in adulti sani di mezza età.

I marker cardiaci troponina T e peptide natriuretico B hanno entrambi valore predittivo in pazienti senza malattia cardiaca diagnosticata[32, 33].

Marcatori di rischio meno noti includono le adipochine, la leptina[34], l'adiponectina[35], la resistina[36] e l'osteoprotegerina che modula il metabolismo osseo[37]. Tuttavia, non è chiaro quale dei seguenti biomarcatori sia più utile e se, clinicamente, aggiungano ulteriori informazioni rispetto a quelle già fornite dai fattori di rischio già noti da tempo.

2.2.4 Altre condizioni che incrementano il rischio cardiovascolare

Molte patologie sono state associate ad aumento del rischio cardiovascolare. Tra queste le più importanti sono la malattia renale cronica [26] e l’artrite reumatoide [38] prese in considerazione nell’algoritmo QRISK2 raccomandato dalle linee guida NICE (National Institute for Heart and Care

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Inoltre, una classe socioeconomica bassa è riconosciuta come un possibile fattore di rischio tanto che la sua introduzione in modelli predittivi più recenti è in corso di discussione. Sebbene lo status socioeconomico non favorirebbe un rischio diretto di MCV, la sua associazione con una maggiore prevalenza di fattori di rischio come fumo e obesità, prevenzione non ottimale poterebbe giustificarne la forte relazione con le MCV.

Infine, l’assunzione cronica di alcuni farmaci è stata associata ad un aumento del rischio cardiovascolare. Per alcune categorie di FANS (Coxib), ad esempio, sono stati riportati dati relativi ad un aumento degli eventi avversi cardiovascolari sebbene il loro ruolo nel favorire la patologia cardiovascolare sia ancora controverso [44].

In maniera analoga, l’assunzione cronica di antidepressivi triciclici sembra associarsi ad un incrementato rischio di cardiopatia ischemica [45], anche se su questa associazione potrebbe influire la depressione stessa che è stata suggerita come vero e proprio fattore di rischio cardiovascolare.

Altre classi di farmaci che sono state associate ad un incrementato rischio cardiovascolare sono alcuni chemioterapici [46] [47], i triptani per il trattamento dell’ emicrania [48] e alcuni antiepilettici [49].

In sintesi, le malattie cardiovascolari rappresentano un problema di importanza globale e l'identificazione degli individui a rischio è essenziale al fine di ottimizzare le strategie terapeutiche e ridurre i costi legati alle complicazioni a lungo termine. Come discusso precedentemente, esistono numerosi fattori di rischio cardiovascolare, alcuni dei quali sono non modificabili come l'invecchiamento, il sesso e la familiarità, ed altri modificabili come l’ipertensione arteriosa e la dislipidemia che possono rappresentare importanti bersagli per le strategie di intervento e prevenzione. Numerosi algoritmi per la stratificazione del rischio cardiovascolare sono stati sviluppati e risultano ampiamente utilizzati nella pratica clinica. Essi sono in gran parte basati su

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fattori di rischio convenzionali, fornendo mezzi oggettivi e chiari per quantificare il rischio. L'integrazione di questi sistemi di punteggio in molte linee guida nazionali e internazionali consente la distribuzione razionale ed economica delle risorse e migliora la qualità delle decisioni cliniche. 2.3 Score di rischio cardiovascolare

Numerosi algoritmi di rischio sono utilizzati nella pratica clinica, in gran parte basati sul livello di esposizione ai comuni fattori di rischio cardiovascolare. Essi forniscono strumenti oggettivi e immediati per quantificare il rischio, e pertanto il loro utilizzo è raccomandato in molte linee guida nazionali e internazionali per una corretta stratificazione di rischio del paziente. Un ulteriore vantaggio dato dall’utilizzo di questi algoritmi nella pratica clinica risiede nella possibilità di rivalutare il paziente sulla base del cambiamento complessivo del rischio cardiovascolare indotto dalla terapia, consentendo di valutar la reale efficacia dell’intervento terapeutico.

Secondo tali algoritmi, i pazienti vengono stratificati in categorie di rischio da basso a molto elevato. L’attribuzione di una percentuale di rischio permette, quindi, di comparare profili di rischio differenti e di agire, con adeguato trattamento, sulle differenti componenti patogene.

Gli algoritmi più utilizzati nel mondo occidentale sono: il Framingham Score, adottato principalmente per la definizione del rischio cardiovascolare in America, ed il Systematic Coronary risk Evaluation (SCORE), maggiormente utilizzato nelle popolazioni Europee. Sebbene entrambe abbiano dimostrato di predire efficacemente il rischio cardiovascolare, permane una notevole incertezza in merito al modo migliore di utilizzare gli score, compresa la scelta dell'algoritmo più adeguato nell’individuazione e nel trattamento di soggetti a rischio. Inoltre, una proporzione significativa di soggetti della popolazione generale sembrano sfuggire ad una corretta caratterizzazione del rischio quando eseguita sulla base di tali algoritmi.

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2.3.1 Framingham Risk Score

L'11 ottobre 2018, il Framingham Heart Study[50] ha celebrato 70 anni dallo studio del suo primo partecipante nel 1948. Durante questo periodo, lo studio ha fornito informazioni approfondite sull'epidemiologia delle malattie cardiovascolari e dei suoi fattori di rischio. L'origine dello studio è legata alle vicende di salute personale del presidente Franklin D. Roosevelt, il quale è deceduto prematuramente per cardiopatia ipertensiva e infarto del miocardio nel 1945. Questo evento probabilmente ha avuto un ruolo fondamentale nel promuovere la creazione del Framingham Heart Study nel 1948 sotto la direzione del National Heart Institute e con la collaborazione dell’Università di Boston. Negli anni '40, le malattie cardiovascolari erano diventate la prima causa di mortalità tra gli americani, essendo responsabili del 50% di tutte le morti. Il Framingham Heart Study, iniziato 1948, era indirizzato ad identificare quali fossero i più comuni fattori di rischio delle malattie cardiovascolari attraverso lo studio di un’intera comunità urbana di Framingham nel Massachusetts. Un campione di 5.209 uomini e donne di età compresa tra i 30 ed i 62 anni sono quindi stati sottoposti periodicamente ad esami medici ed approfondite interviste sullo stile di vita ogni due anni. Nel 1971 la ricerca ha coinvolto anche la generazione successiva rappresentata da 5124 figli e coniugi del campione di popolazione originario arruolato nella prima fase dello studio. Nel 2002 è stata coinvolta anche la terza generazione di partecipanti. Nel corso degli anni, l’attento monitoraggio della popolazione di Framingham ha portato alla identificazione dei principali fattori di rischio di malattie cardiovascolari e alla comprensione della complessa interazione tra fattori genetici ed ambientali nello sviluppo della patologia aterosclerotica. Il Framingham Heart Study continua ancora oggi a fornire importanti informazioni sui meccanismi e fattori di rischio della malattia aterosclerotica, anche grazie all’adozione di moderne tecniche diagnostiche come l’ecocardiografia, la risonanza magnetica di cuore e cervello, la tomografia computerizzata e la densitometria ossea (utile nel monitoraggio dell’osteoporosi).

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Gli scores per la predizione del rischio cardiovascolare elaborati sulle caratteristiche della popolazione del Framingham Heart Study continuano ad essere, al giorno d’oggi, quelli maggiormente utilizzati nella pratica clinica e sono stati oggetto di numerosi studi di validazione esterna in altre popolazioni.

L’algoritmo di rischio di Framingham per stabilire il rischio cardiovascolare dei pazienti in prevenzione primaria include i seguenti parametri: età, sesso, valori pressori, colesterolo totale e HDL, presenza di diabete, ipertrofia ventricolare sinistra, fumo. Il valore ricavato dalla somma dei punteggi assegnati ad ogni fattore per ciascun soggetto corrispondeva ad una percentuale di rischio, stimato a 10 anni, per infarto miocardico acuto, scompenso cardiaco e stroke.

2.3.1.1 Limiti del Framingham Risk Score

L’utilizzo di un algoritmo per la definizione del rischio a 10 anni ha il limite di sovrastimare il peso dell’età nella definizione del rischio complessivo del paziente, mentre soggetti giovani, che hanno basso rischio di sviluppare eventi cardiovascolari nell’arco dei 10 anni, anche quando hanno valori di fattori di rischio particolarmente elevati, rimangono in classi di rischio relativamente basse [51]. Questo rappresenta un problema in quanto l’aterosclerosi è una malattia cronica con una lunga fase preclinica. Quindi, soggetti giovani con un elevata esposizione ai fattori di rischio cardiovascolari, potrebbero rappresentare in realtà coloro a maggior rischio futuro di eventi. Per questo, basandosi sulla popolazione del Framingham Heart Study sono stati sviluppati algoritmi per il calcolo del rischio cardiovascolare a lungo termine (lifetime risk), al fine di rimodulare l’impatto dovuto all’età. Per elaborare tali algoritmi sono stati ultilizzati i dati raccolti durante un follow up di circa 32 anni (in media) del Framingham Heart study, inerenti non solo ai comuni fattori di rischio

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altamente predittivi degli eventi ed il loro impatto risultava maggiore nei soggetti di età più giovane. Questi dati suggeriscono che gli algoritmi di previsione a 10 anni possono essere sub- ottimali a lungo termine, specialmente se applicate a donne e uomini più giovani che presentano un profilo di fattori di rischio avversi.

Le figure 1 e 2 mettono a confronto il rischio a 30 anni e quello a 10 anni di sviluppare malattia cardiovascolare stimato in donne e uomini di 25 anni, rispettivamente. Lo stesso confronto su individui di 45 anni è riportato nelle figure 3 e 4. I risultati per il primo gruppo sono stati sorprendenti, in particolare per il campione femminile: mentre il rischio a 10 anni risulta essere trascurabile (2.5% nelle donne e 5% negli uomini), quello a 30 anni offre una stima almeno dieci volte superiore nei soggetti che presentano tutti i CVRF.

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Figura 1: rischio a 10aa e 30aa in donne di 25aa

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Figura 3: rischio a 10aa e 30aa in donne di 45aa

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Un ulteriore limite del FRS risiede nella sua scarsa applicabilità alla popolazione europea, in particolare quella sud-europea e, nello specifico, quella italiana, dove sovrastima il rischio essendo stato sviluppato su di una popolazione di ipertesi come gli statunitensi, con fattori di rischio superiori a quelli medi europei[54]. Inoltre il FRS è discutibile in quanto non considera alcuni fattori di rischio cardiovascolare importanti quali la familiarità per malattie cardiovascolari ed il livello di attività fisica.

Le prestazioni del FRS quando applicate in diverse popolazioni hanno mostrato risultati talora incoerenti [55, 56]. Uno studio sistematico che ha affrontato la relazione tra i tassi di eventi previsti e osservati con il FRS nelle popolazioni statunitensi e non statunitensi ha rilevato che in alcune coorti era necessario un adeguamento per la scarsa accuratezza del FRS nel predire eventi cardiovascolari. Inoltre, il FRS è stato sviluppato in una popolazione con un'età media di 49 anni e nessun soggetto incluso nell’analisi statistica aveva un’età superiore a 74 anni. Conseguentemente, la previsione del rischio effettivo con FRS è risultata meno efficace negli anziani rispetto agli adulti di mezza età. Questo si ritiene in parte dovuto anche al fatto che alcuni fattori di rischio tradizionali hanno associazioni più deboli con rischio di malattia coronarica negli anziani; ad esempio, il colesterolo totale e il colesterolo LDL sono forti fattori di rischio cardiovascolare nella mezza età ma sembrano avere un minor peso nei soggetti anziani. Questo sembra essere confermato dai dati dell’Health ABC Study che, includendo una popolazione di individui di età media di 73,5 anni senza malattia cardiovascolare pregressa, ha mostrato come il FRS avesse una scarsa capacità di discriminare tra le persone che avrebbero sviluppato eventi cardiovascolari rispetto coloro che sarebbero rimasti liberi da malattia, con una previsione di rischio assoluto sottostimata del 51% nelle donne e dell'8% negli uomini.

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2.3.2 Heart SCORE

Il progetto, completamente creato da gruppi di ricerca europei, nasce come alternativa al Framingham Risk Score [57]. I ricercatori, che hanno raccolto dati epidemiologici provenienti da 12 diversi paesi europei, ritenevano indispensabile non solo elaborare un algoritmo esclusivamente europeo, ma che fosse anche adattabile a paesi ad alto e basso rischio cardiovascolare. Sono stati esclusi, nella selezione della popolazione da analizzare, i soggetti con pregressi eventi cardiaci e l’outcome è stato definito come la comparsa di eventi cardiovascolari fatali entro 10 anni di follow- up. Dall’analisi dei dati sono state elaborate carte di rischio cardiovascolare ed è stato elaborato l’algoritmo Systematic Coronary risk Evaluation (SCORE) che è stato successivamente raccomandato dalla Società Europea di Cardiologia per valutare il rischio di eventi cardiovascolari potenzialmente fatali a 10 anni in pazienti con età>40 anni[58]. Le carte di rischio prendono in esame il sesso, l’età, la pressione sistolica, il fumo ed il colesterolo totale o il rapporto tra colesterolo totale e HDL. I pazienti diabetici sono stati definiti ad alto rischio di default.

Tali carte sono state costruite sia per le popolazioni di paesi ad alto rischio (come Danimarca, Gran Bretagna, Norvegia), sia per quelle a basso rischio (Italia, Spagna e Belgio). Il merito di questo studio sta nell’aver concepito un algoritmo semplice data l’immediatezza del risultato, ma al tempo stesso applicabile a differenti realtà e con l’aggiunta, in appendice, di alcune indicazioni matematiche per calcolare il rischio a lungo termine di ciascun paziente, ricalibrando l’età per il numero di anni di esposizione al fattore di rischio stesso. In particolare, il ritenere l’età non come variabile anagrafica, ma come anni di esposizione al rischio permette di superare uno dei maggiori limiti tipici di ogni algoritmo sinora formulato dove i pazienti anziani, a parità di altri fattori, hanno un rischio inevitabilmente maggiore rispetto a pazienti più giovani. Infatti un paziente giovane è potenzialmente esposto più a lungo a fattori di rischio che ne compromettono la prognosi rispetto a un paziente anziano. Ciò che influenza il rischio non è dunque l’età anagrafica bensì gli anni di

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esposizione; inoltre, se la scelta inerente il trattamento di un paziente dipende dal valore totale del rischio calcolato, considerando la sola età anagrafica si rischia di riservare in trattamento solo ai pazienti più anziani.

2.4 Il microcircolo

Il microcircolo rappresenta la sezione del distretto vascolare arterioso nella quale avviene la maggior parte della dissipazione di energia per resistenza al flusso, ed è rappresentato dalle piccole arterie (diametro compreso tra 100-300 micron), dalle arteriole (diametro inferiore a 100 micron) e dalla rete capillare (diametro intorno ai 7 micron) [59] . Le piccole arterie contribuiscono probabilmente per il 30-50% alla caduta pressoria pre-capillare, mentre un ulteriore 30% di riduzione della pressione è dovuta al passaggio del sangue attraverso le arteriole di 50-100 micron.

La Figura 5 rappresenta un ipotetico esempio di caduta pressoria sanguigna nel sistema vascolare periferico (le curve pressorie potrebbero, ovviamente, differire per vari tessuti/organi).

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2.4.1 Il rimodellamento vascolare

Nel 1967, Likoff et al. [60] descrissero una coorte di pazienti con angina pectoris e anomalie elettrocardiografiche tipiche di ischemia miocardica, ma con coronarie epicardiche apparentemente normali all’angiografia, suggerendo un possibile disturbo coronarico microvascolare come causa dei sintomi e segni riscontrati [61]. Negli anni a seguire è progressivamente diventato sempre più evidente come la disfunzione del microcircolo potesse contribuire a segni e sintomi di ischemia miocardica in molti pazienti che non presentavano stenosi epicardica coronarica, tanto che Cannon e Epstein hanno introdotto il termine di "angina microvascolare" [62].

Nell'era attuale, un numero crescente di pazienti con sintomi di ischemia miocardica non presentano segni di coronaropatia stenosante od ostruttiva all’angiografia [63]. Almeno la metà di questi pazienti ha una disfunzione vascolare coronarica quantificabile, in grado di provocare ischemia con test provocatori. Questa condizione è sempre più riconosciuta come una componente essenziale nello spettro della cardiopatia ischemica.

E’ stato osservato che le alterazioni delle piccole arterie di resistenza possono svolgere un ruolo significativo nella patogenesi e fisiopatologia del danno d’organo legato all’esposizione ai fattori di rischio cardiovascolare, ed in particolare all'ipertensione [64]. Alterazioni strutturali, meccaniche e funzionali dei piccoli vasi causano una riduzione del lume e delle capacità di dilatazione del vaso, con conseguente aumento delle resistenze vascolari e della pressione sistemica. L'ipertensione, infatti, si associa ad un ispessimento della tonaca media, a riduzione del lume vasale e, di conseguenza, ad un aumento del rapporto media/lume (M/L) nei piccoli vasi di resistenza[65]. Queste alterazioni sono anticipate da modificazioni di parete a livello molecolare e funzionale: le più precoci riguarderebbero l’espressione e/o la localizzazione dei componenti della matrice extracellulare [66].

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Il fenomeno di fibrosi vascolare determina la deposizione di proteine come il collagene, l’elastina, la fibrillina, la fibronectina e i proteoglicani nella tonaca media partecipando al rimodellamento strutturale del vaso[67]. E’ stato dimostrato in studi condotti su topi trattati cronicamente con AngII un aumento della deposizione di collagene nella tonaca media vascolare nelle piccole arterie di resistenza, dimostrando il possibile coinvolgimento del sistema renina-angiotensina-aldosterone nel promuovere il rimodellamento micro-vascolare [68]. E’ stato dimostrata anche un aumentata espressione di mRNA e della sintesi di collagene di tipo I e III nei fibroblasti di pazienti con ipertensione essenziale[69].

Le alterazioni molecolari e funzionali nel contesto della parete vascolare si manifestano precocemente nel soggetto esposto a FRCV e conducono ad anomalie strutturali dei vasi, cambiamenti nelle caratteristiche di crescita, morte e migrazione cellulare, oltre a modifiche nella sintesi e degradazione della matrice extracellulare. Tali alterazioni si manifestano prevalentemente come cambiamento dello spessore della parete del vaso che si può associare anche ad alterazione delle dimensioni del lume vascolare [70, 71]. In particolare, Folkow[71] e Sivertsson[70] hanno dimostrato, alcuni anni fa, che l’aumento del rapporto M/L determina una maggiore vasocostrizione per qualunque grado di accorciamento delle fibrocellule muscolari lisce vascolari. Tale fenomeno è assai importante nel mantenimento e, probabilmente, anche nella progressione della malattia ipertensiva.

2.4.2 Riodellamento eutrofico

Il rimodellamento eutrofico è un pattern caratterizzato dall’aumentato rapporto M/L senza modificazione della quantità totale di sostanza nella parete vascolare dal momento che i valori di

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rimodellamento eutrofico si riscontra in modelli in cui il sistema renina-angiotensina-aldosterone risulta iperattivato come, ad esempio, nelle arterie di resistenza di topi resi ipertesi tramite pompa ad infusione dell’angiotensina II [73] o nei topi 2-kidney 1clip Goldblatt[74]. Nell’uomo, questo tipo di rimodellamento è spesso osservato nell’ipertensione primaria[72]. Un’ipotesi che spiegherebbe il rimodellamento in assenza di alterazione della quantità di materiale di parete è l’associazione di crescita e apoptosi, prefigurando un sistema in cui la morte programmata delle cellule situate perifericamente può portare ad un ampliamento del diametro vascolare esterno compensato dalla crescita cellulare sul versante interno. L'apoptosi è stata segnalata in vari modelli di ipertensione, come nell’aorta di topi trattati con deossicorticosterone acetato[75] e nei topi sottoposti ad infusione cronica con angiotensina II [76]. E’ stato inoltre riportato che le connessioni tra le cellule muscolari lisce vascolari e la matrice extracellulare potrebbero divenire più labili, permettendo in questo modo lo scorrimento dei diversi strati cellulari l’uno sull’altro. Sembra quindi probabile che il processo di rimodellamento vascolare sia intimamente connesso con alterazioni delle proteine della matrice extracellulare. Ta queste, quelle che appaiono più importanti sono le integrine alfa-V [77] e la transglutaminasi tissutale[78].

2.4.3 Rimodellamento ipertrofico

Il rimodellamento ipertrofico è un pattern caratterizzato da crescita cellulare, dovuta a ipertrofia o iperplasia delle cellule muscolari lisce vascolari o ad aumentata deposizione di proteine extracellulari. Questo comporta un aumento non solo del rapporto M/L ma anche di MCSA. Sperimentalmente il rimodellamento ipertrofico si osserva in topi con ipertensione indotta attraverso la somministrazione cronica di angiotensina II con minipompe sottocutanee a rilascio intermittente [68]. E’ stato ipotizzato di recente che l’aumento dello stress parietale possa costituire uno stimolo importante per il rimodellamento ipertrofico, dal momento che esso provoca un’anomala attività miogena vascolare. La reattività miogena è una risposta vasocostrittoria

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all’aumento della pressione endoluminale; essa è necessaria a garantire l’autoregolazione del flusso d’organo e l’omeostasi della pressione capillare. La perdita di tale attività miogena è stata riscontrata in pazienti che presentavano rimodellamento ipertrofico delle piccole arterie[79]. Anche l’attivazione del sistema delle endoteline sembra implicata nell’origine del rimodellamento ipertrofico[80].

2.4.4 La rarefazione microvascolare

Non solo il diametro dei singoli vasi ma anche il numero assoluto di quelli perfusi contribuisce a determinare la resistenza vascolare. Una rarefazione di circa il 42% delle arteriole di terzo ordine aumenterebbe la resistenza al flusso del 21% [81]. La rarefazione vascolare può essere definita sia ‘funzionale’, quando i vasi non sono temporaneamente perfusi, che ‘anatomica’, quando il flusso diviene permanentemente assente per alterazioni strutturali della parete vascolare. Molti studi hanno riportato la presenza di rarefazione microvascolare in diversi distretti vascolari di animali ipertesi; i dati disponibili per gli esseri umani sono relativamente scarsi. Una riduzione della densità arteriolare e capillare nel microcircolo retinico è stata osservata nei pazienti ipertesi [82]. Allo stesso modo, con la microscopia capillare, è stata apprezzata una riduzione del 20% della densità capillare ungueale[83]. Utilizzando la stessa tecnica, Antonios et al. [84, 85] hanno anche dimostrato rarefazione capillare nella pelle delle dita di pazienti con ipertensione essenziale o ipertensione borderline, e anche nella progenie normotesa di pazienti con ipertensione essenziale. Recentemente è stata dimostrata la presenza di rarefazione del microcircolo anche nei pazienti obesi senza concomitante aumento dei valori pressori, suggerendo che tale alterazione possa risultare dal rimodellamento microvascolare indotto da diverse condizioni patologiche, non solo legate a fattori emodinamici locali alterati dalla presenza di ipertensione.

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basale non può mostrare direttamente i capillari che non sono perfusi a riposo, l’esame prevede l’induzione di una congestione venosa per alcuni minuti al fine di valutare il reclutamento di vasi arteriosi precedentemente non perfusi.

2.4.5 Ruolo prognostico del rimodellamento vascolare

Il rimodellamento delle piccole arterie di resistenza è caratterizzato da un restringimento del lume e dall’aumento del rapporto M/L; esso porta a un aumento della resistenza al flusso anche in condizioni di dilatazione massimale, cioè in assenza di tono vascolare. Una correlazione significativa tra la riserva coronarica e il rimodellamento delle arteriole sottocutanee è stato rilevato nei pazienti ipertesi[86], suggerendo che alterazioni strutturali nelle arteriole di resistenza possono essere presenti contemporaneamente in diversi distretti vascolari, determinando anche clinicamente alterazioni importanti, tra cui quelle a carico della circolazione coronarica. Risale al 2003 il primo studio che ha confermato un possibile ruolo prognostico del rimodellamento microvascolare nei confronti del rischio cardiovascolare. Reclutando 129 pazienti ad alto rischio [87] e sottoponendoli a biopsia del grasso sottocutaneo gli autori sono stati in grado di dimostrare come un rapporto M/L maggiore misurato con miografia a filo fosse associato ad una minor sopravvivenza libera da eventi cardiovascolari. Solo la pressione differenziale (P = 0,009) ed il rapporto M/L (P <0,0001) erano significativamente associati al verificarsi di eventi cardiovascolari. Dati simili sono stati ottenuti anche da Mathiassen et al.[88] in una popolazione di pazienti con ipertensione essenziale. Più recentemente, Buus et al. [89] ha dimostrato come il ruolo prognostico del rapporto M/L delle arteriole sottocutanee nei confronti degli eventi cardiovascolari rimanesse importante anche durante il trattamento antipertensivo. Ciò suggerisce che il danno microcircolatorio, sebbene precoce, è di difficile regressione una volta instaurato e dovrebbe essere prevenuto anziché trattato al fine di migliorare l’outcome dai pazienti.

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2.4.6 Metodi lo studio del microcircolo

I metodi per la valutazione delle alterazioni strutturali microvascolari[59] disponibili per l' uomo sono relativamente pochi (Tabella 1).

Tabella 1 Vantaggi e svantaggi delle tecniche usate comunemente per la valutazione funzionale e

del rimodellamento delle piccole arterie

Tecnica Vantaggi Svantaggi

Istologia Facile da analizzare; il campione può essere conservato; economico

Microinvasiva; artefatti dovuti alla fissazione, colorazione e disidratazione; possibile coartazione dei campioni.

Pletismografia Facile accesso; poco costoso; valutazione della minima resistenza vascolare nell'avambraccio;

stimolazione farmacologica

Esigenze di buone prestazioni; necessità di standardizzazione, formazione e organizzazione del personale

Micromiografia a filo e a pressione

Tecnica ben standardizzata, valutazione della morfologia e della funzione vascolare; valutazione di parametri con significato prognostico (rapporto media-lumen) con elevata sensibilità, specificità e precisione; dati funzionali affidabili e riproducibili (migliore valutazione con la micromiografia a pressione) e dati morfologici (più precisi con la micromiografia a filo).

Microinvasiva; personale ben preparato; errori dovuti a danni meccanici del vaso.

Flussimetria laser doppler (distretto retinico)

Non invasivo; facile accesso al distretto vascolare; correla con i parametri ottenuti con la micromiografia.

Non ampiamente utilizzata; è necessaria ulteriore convalida e standardizzazione della tecnica.

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primi metodi utilizzati per lo studio del microcircolo è la valutazione della resistenza vascolare minima nell'avambraccio, con tecnica pletismografica (Tabella 1). Il flusso massimo di ogni distretto corporeo è correlato con il rapporto M/L delle arteriole di resistenza. Per tale valutazione, è quindi necessario che il distretto studiato sia in uno stato di massima vasodilatazione. Questo può essere ottenuto negli umani dalla combinazione di ischemia, sforzo muscolare, calore o stimoli farmacologici vasodilatatori. Dal flusso sanguigno massimo è possibile calcolare la resistenza vascolare minima, che rappresenta un indice indiretto di alterazione strutturale microvascolare, con l'ulteriore vantaggio di una valutazione in-vivo. La tecnica pletismografia richiede l'occlusione del ritorno venoso dal braccio, ottenuto attraverso il gonfiaggio di un bracciale fino ad una pressione superiore a quella venosa. Il volume del braccio, in questo caso, dipenderà dalla quantità di sangue presente nel distretto che, essendo il circolo venoso occluso, dipenderà dalla capacità del distretto arterioso di ospitare il sangue. Il volume a disposizione dipenderà, a sua volta, dall’entità della risposta vasodilatatoria a stimoli endotelio dipendenti e dalla capacità di reclutamento capillare. Quindi, maggiore sarà il volume a disposizione per la redistribuzione del sangue nel circolo arterioso, maggiore sarà il volume del braccio. Esso può essere misurato, durante occlusione venosa, con un estensimetro a mercurio, che valuta l'aumento del volume nell'avambraccio. In assenza di flusso venoso, l’ aumento di volume è proporzionale al flusso arterioso.

Nonostante la pletismografia venosa possa dare importanti informazioni sulla funzione e struttura del microcircolo, l'approccio metodologico che ha avuto una più ampia diffusione è rappresentato dalla micromiografia, in quanto consente una valutazione più affidabile e diretta della struttura nonché dei cambiamenti all'interno della parete vascolare e degli aspetti funzionali (Tabella 1). La micromiografia a filo sviluppata da Mulvany e Halpern negli anni '70, fu successivamente applicata in modelli animali di ipertensione e in diversi distretti vascolari (mesenterico, cerebrale, coronarico, renale, femorale, ecc.). Nelle arterie mesenteriche di topi, la micromiografia ha mostrato una buona

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sensibilità nel rilevare rimodellamento microvascolare anche di minima entità. La tecnica della micromiografia è stata utilizzata anche per la valutazione della morfologia e della funzione di piccole arterie ottenute da biopsie di tessuto sottocutaneo proveniente dal gluteo o dalla regione addominale (Figura 6, in individui normotesi, ipertesi od obesi [90, 91].

Figura 6 Biopsia del grasso sottocutaneo

La tecnica micromiografica in vivo ex vitro consente di studiare arterie isolate di piccolo calibro (100-300 μm), ottenute tramite biopsia del tessuto sottocutaneo della parete addominale o dei glutei, durante un intervento chirurgico in elezione (Figura 6). Esistono due varianti della tecnica micromiografica: a filo ed a pressione. Nella tecnica micromiografica a filo (wired micromyograph) il vaso può essere sottoposto ad uno stiramento meccanico oppure mantenuto ad uno stretch costante, e stimolato a contrarsi, permettendo così la misurazione della tensione attiva sviluppata. La tecnica micromiografica a pressione, invece, prevede l'incannulamento di entrambe le estremità

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contenente liquido di Krebs arricchito con una miscela composta da 95% di O2 e 5% di CO2 ad un

pH di 7.4-7.45 e ad una temperatura costante di 37°C. Gli studi vengono effettuati alla pressione costante di 45mmHg all'interno del vaso in esame (60 mmHg nell'animale). Grazie ad un microscopio collegato ad una telecamera, è possibile visualizzare il vaso su monitor; un software apposito consente di ricavare le misure dello spessore parietale del vaso e del suo diametro. Inoltre, il software consente di monitorare i cambiamenti di diametro del vaso indotti dall’infusione al suo interno di sostanze agoniste od antagoniste della funzione endoteliale.

Gli studi micromiografici in vitro hanno l'indubbio vantaggio di consentire una misurazione precisa ed accurata delle caratteristiche morfologiche e funzionali dei piccoli vasi, esente da artefatti da fissazione propri degli studi istologici. Inoltre, consentono di studiare numerosi meccanismi fisiopatologici attraverso l'uso di agonisti ed antagonisti di pathways potenzialmente coinvolti nella regolazione della funzione endoteliale, non altrimenti utilizzabili negli studi in vivo. Il limite di questa tecnica, quando applicata all'uomo, è essenzialmente legato alla relativa invasività della procedura, motivo per cui è spesso riservata a pazienti che devono essere comunque sottoposti ad intervento chirurgico, dai quali risulta più facile ottenere la biopsia di tessuto sottocutaneo per l’isolamento delle arteriole.

Nel corso dell’ultimo decennio, si sono sempre più affermati approcci non invasivi per la valutazione del danno microvascolare basate sulla valutazione delle caratteristiche morfostrutturali del distretto vascolare retinico, essendo l'unico che può essere visto direttamente attraverso strumenti come un oftalmoscopio o una lampada a fessura. La circolazione cerebrale e quella retinica condividono caratteristiche anatomiche, fisiologiche ed embriologiche. Per questo, le alterazioni a carico del circolo retinico risultano spesso riscontrabili anche a livello delle arteriole cerebrali dei pazienti ipertesi. Uno dei primi tentativi di quantificare con precisione l’alterazione vascolare retinica è stato fatto da Wong et al.[92]. Gli autori hanno calcolato il rapporto arterioso-

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venoso (AVR) in segmenti circolari della retina. Tale rapporto era più piccolo nei pazienti ipertesi rispetto ai controlli normotesi[92]. Inoltre, una recente meta-analisi ha dimostrato che il restringimento retinico arteriolare e la dilatazione venosa si associano indipendentemente ad un aumentato rischio di ipertensione, supportando l'ipotesi che il microcircolo retinico può essere usato per studiare le alterazioni microcircolatorie indotte dall’ipertensione.

Un approccio aggiuntivo è stato proposto da Hughes et al.[93]: la topologia e l'architettura del microcircolo retinico sono state confrontate in 20 soggetti normotesi, 20 pazienti con ipertensione essenziale e 20 pazienti con ipertensione maligna. Le immagini retiniche digitalizzate sono state analizzate mediante un nuovo metodo di analisi multiscala utilizzando un programma semi- automatizzato per quantificare le proprietà geometriche e topologiche delle diramazioni arteriolari e venose. Dal loro studio è risultato che l’ipertensione essenziale era associata ad un aumentato rapporto M/L arteriolare (P <0,01) con alterazioni anche in termini di rarefazione arteriolare. Questi cambiamenti nella rete arteriolare erano particolarmente evidenti nell’ipertensione severa dove era possibile riscontrare anche una maggiore tortuosità e rarefazione venosa rispetto ai soggetti normotesi[93]. Sulla base di questi dati gli autori hanno concluso che l'ipertensione è associata con marcate alterazioni topologiche della vascolarizzazione retinica e che la quantificazione di questi cambiamenti potrebbe essere un utile nuovo approccio alla valutazione del danno d’organo legato all'ipertensione[93].

Ancora più recentemente, Harazny et al.[94] ha proposto un’ulteriore approccio: il metodo si basa sull'associazione tra la misurazione del diametro esterno dell'arteriola retinica e la valutazione del diametro interno con flussimetria laser doppler. Il confronto tra le due immagini, definite come 'immagine di riflessione' e 'immagine di perfusione', è fatto da un software dedicato. Ciò consente di

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Un aumento ancora più marcato è presente nei pazienti ipertesi con una storia di evento cerebrovascolare. Il rapporto M/L delle arteriole retiniche era strettamente associato ai valori della pressione arteriosa.

Uno studio recente ha confrontato il rapporto M/L delle arteriole retiniche, valutato con flussimetria laser doppler e rapporto M/L nelle arteriole di resistenza sottocutanee mediante micromiografia a filo negli stessi individui. Esso ha riscontrato una buona concordanza tra le due tecniche, con un coefficiente di regressione >0,76.

Nell'ipertensione sperimentale, l'aumento delle resistenze periferiche si verifica a livello del microcircolo. È stato chiaramente dimostrato che lo spessore delle pareti è aumentato rispetto al lume interno e che questa alterazione contribuisce alla resistenza periferica e alla ridurre riduzione del flusso agli organi. Il riscontro di tali alterazioni strutturali rappresenta un fattore prognosticamente rilevante in termini di sviluppo del danno d'organo o eventi cardiovascolari, permettendoci così una previsione di complicazioni dell’ ipertensione.

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2.5 Ruolo dell’endotelio nell’aterosclerosi

L’aterosclerosi è una malattia sistemica multifocale e progressiva che dà luogo a sintomi e segni assai differenti tra loro e tardivamente rispetto alla sua insorgenza. Il termine “arteriosclerosi” venne usato per la prima volta oltre un secolo fa quando Lobstein descrisse delle forme di arteriopatia caratterizzate da “indurimento” della parete arteriosa. Lobstein parlò allora di lesioni arteriose macroscopiche determinate da quel processo infiammatorio che nel 1904 viene definito da Marchand “aterosclerosi”. La patologia aterosclerotica interessa tutti i distretti cardiovascolari, a partire da modifiche che avvengono precocemente nelle arterie di piccolo calibro, per poi evolvere verso l’interessamento dei vasi di calibro maggiore con formazione di placche aterosclerotiche formate prevalentemente da tessuto fibroso e materiale lipidico. Non a caso, il termine aterosclerosi deriva dal greco “athera” che significa poltiglia, indicando in questo modo il core lipidico della placca aterosclerotica. La placca aterosclerotica è la più subdola delle patologie dell’albero arterioso, specie coronarico manifestandosi in maniera silente e subcritica nella maggior parte dei soggetti già dopo i 20 anni.

Nel corso della sua storia naturale la placca cresce progressivamente e se supera la soglia critica di stenosi (>75%), si manifesta clinicamente sotto sforzo o in condizioni in cui c’è una discrepanza fra domanda di substrati metabolici da parte del miocardio e capacità di fornirli da parte del circolo coronarico. In queste condizioni si ha il passaggio ad un metabolismo anaerobico con produzione di lattati a livello di tutti i tessuti a valle, con comparsa di dolore tipico dell’angina. La placca aterosclerotica può anche complicarsi con fenomeni patologici acuti, segno di instabilità (placca instabile), che possono evolvere verso complicanze gravi come l’infarto miocardico o la morte improvvisa. Nell’evoluzione della patologia aterosclerotica, un passo fondamentale e precoce è lo

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