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Divergenze teoriche e vite parallele. Gustav Bergmann, Hans Kelsen e le teoria pura del diritto

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Academic year: 2021

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(1)QUADERNI FIORENTINI per la storia del pensiero giuridico moderno. 47 (2018).

(2) GUIDO BONINO-GIOVANNI DAMELE (*). DIVERGENZE TEORICHE E VITE PARALLELE GUSTAV BERGMANN, HANS KELSEN E LA TEORIA PURA DEL DIRITTO 1. Introduzione. — 2. Kelsen in America. — 3. Kelsen, Kant e gli epigoni. — 4. Bergmann: un profilo. — 5. La critica a Kelsen. — 6. Una fase di transizione?. 1.. Introduzione.. Quando fu costretto a trasferirsi negli Stati Uniti nel 1940, Hans Kelsen sapeva, probabilmente, che la fama che lo precedeva gli avrebbe permesso di godere, nella comunità giuridica americana, di unanime considerazione. Tuttavia, a tale prestigio non fece riscontro un’altrettanto unanime accettazione delle sue teorie, la cui influenza nell’ambiente giuridico-filosofico statunitense sarebbe rimasta un fenomeno marginale. I motivi di tale marginalità sono noti e sono stati oggetto di varie ricostruzioni. In primo luogo, l’influenza del realismo giuridico e le (incipienti) fortune della filosofia analitica oltreoceano privavano la teoria del diritto kelseniana di buona parte del contesto filosofico e giuridico nel quale si era sviluppata. L’influenza neokantiana, in particolare, rendeva il linguaggio kelseniano scarsamente appetibile in una comunità giuridica, come quella americana, che aveva ormai visto affermarsi gli approcci realisti ed empiristi all’analisi del diritto. Si potrebbe dire, insomma, che il pensiero di Kelsen appariva ancora troppo ‘continentale’ agli occhi degli americani tanto dal punto di vista filosofico, quanto dal punto di vista giuridico. (*) Guido Bonino è autore dei paragrafi 4 e 5, Giovanni Damele è autore dei paragrafi 2, 3 e 6. Il primo paragrafo è frutto di riflessione comune..

(3) 508. QUADERNI FIORENTINI XLVII. (2018). Un recente libro (1) dedicato alla ricezione del pensiero kelseniano negli Stati Uniti ha messo in luce molti aspetti di queste fondamentali ambiguità. Essi vanno certamente letti anche alla luce dei tentativi di periodizzazione dell’opera kelseniana, compiuti soprattutto da Stanley Paulson (2), il quale ha inteso mettere in luce un processo di progressiva ma complessa ‘emancipazione’ della teoria pura del diritto dalle influenze neokantiane. Un processo probabilmente avvenuto anche sotto le sollecitazioni del contesto accademico e giuridico americano. Appaiono perciò particolarmente interessanti, ai fini della ricostruzione della ricezione della teoria kelseniana in America, tre articoli a essa dedicati dal filosofo austriaco (anch’egli emigrato negli Stati Uniti) Gustav Bergmann e pubblicati su « Ethics » tra il 1945 e il 1947, negli anni, cioè, che coincidono con e immediatamente seguono la pubblicazione, avvenuta appunto nel 1945, della General Theory of Law and State (3). Com’è noto, la General Theory venne concepita da Kelsen come un’ampia riconfigurazione dell’impianto teorico della teoria pura del diritto, con l’intento in primo luogo di farla conoscere nel contesto giuridico-accademico americano. Recensendo il libro, Bergmann non tralascia di notare come esso fosse stato scritto in tedesco e solo in seguito tradotto in inglese. Un aspetto non superficiale, dal punto di vista dello stesso Bergmann: bersaglio critico dei suoi articoli, come vedremo, è proprio la (1) Hans Kelsen in America — Selective Affinities and the Mysteries of Academic Influence, a cura di D.A.J. Telman, Cham, Springer, 2016. (2) In questo articolo si farà riferimento, in particolare a Normativity and Norms. Critical Perspectives on Kelsenian Themes, a cura di S.L. Paulson e B. Litschewski Paulson, Oxford, Clarendon Press, 1998; S.L. PAULSON, Four Phases in Hans Kelsen’s Legal Theory? Reflections on a Periodization (recensione a C. Heidemann, Die Norm als Tatsache. Zur Normentheorie Hans Kelsens), in « Oxford Journal of Legal Studies », 18 (1998), 1, pp. 153-166; ID., Arriving at a Defensible Periodization of Hans Kelsen’s Legal Theory, in « Oxford Journal of Legal Studies », 19 (1999), 2, pp. 351-364; ID., Metamorphosis in Hans Kelsen’s Legal Philosophy, in « The Modern Law Review », 80 (2017), 5, pp. 860-894. (3) G. BERGMANN, recensione a W. Ebenstein, The Pure Theory of Law, in « Ethics », LVI (1945), 1, pp. 71-72; G. BERGMANN, L. ZERBY, The Formalism in Kelsen’s Pure Theory of Law, in « Ethics », LV (1945), 2, pp. 110-130 (su Lewis Zerby cfr. infra par. 5 e in part. la n. 40); G. BERGMANN, recensione a H. Kelsen, The General Theory of Law and State, in « Ethics », LVII (1947), 3, pp. 213-215..

(4) GUIDO BONINO-GIOVANNI DAMELE. 509. difficoltà kelseniana a liberarsi da un linguaggio filosofico ‘tedesco’ che costituisce, ai suoi occhi, il principale limite della teoria pura del diritto, accrescendone le ambiguità. Si può dire insomma che Bergmann abbia voluto porre in evidenza, nel momento in cui la teoria pura kelseniana si presentava all’ambiente accademico e giuridico americano, le difficoltà e le ambiguità con le quali, in un certo senso, lo stesso Kelsen dovrà confrontarsi nell’ultima fase della sua produzione scientifica. Questo articolo intende, semplicemente, ricostruire il contesto che ha condotto Bergmann, il quale non era un giurista di professione, a recensire e commentare la teoria del diritto kelseniana. Il secondo paragrafo accennerà brevemente alla vicenda della ricezione della teoria pura nel contesto giuridico-accademico statunitense. Il terzo approfondirà brevemente alcuni aspetti del neokantismo kelseniano centrali per comprendere la critica di Bergmann, collocandoli nel contesto delle ‘fasi’ del pensiero kelseniano. Il quarto e il quinto saranno dedicati a Bergmann: ai tre testi critici e al loro contesto teorico. Il sesto, infine, inquadrerà la critica bergmanniana alla luce della fase cruciale dello sviluppo del pensiero kelseniano che occupa i decenni Quaranta e Cinquanta. Concludendo l’articolo scritto con Lewis Zerby, Bergmann accostava Kelsen a Weber: due autori che compiono uno « sforzo vigoroso » in direzione della fondazione di una scienza sociale oggettiva. In questo sforzo, che Bergmann rappresenta come un percorso « verso Ovest », né l’uno né l’altro sarebbero riusciti a liberarsi della « superflua complessità » della « metafisica tedesca » (4). Nel caso di Weber, morto nel 1920 nel pieno della sua produzione intellettuale, tale percorso di liberazione dalle ‘pastoie metafisiche’, nota Bergmann, sarebbe stato in qualche modo portato a compimento dai teorici anglosassoni che ne hanno sviluppato il pensiero. Quanto a Kelsen, che sarebbe vissuto ancora quasi trent’anni, si può dire, in un certo senso, che abbia intrapreso lo stesso percorso autonomamente. (4) BERGMANN, ZERBY, The Formalism in Kelsen’s Pure Theory of Law, cit., p. 130..

(5) 510. 2.. QUADERNI FIORENTINI XLVII. (2018). Kelsen in America.. Nato a Praga nel 1881, Hans Kelsen visse buona parte della sua carriera accademica a Vienna, dove la famiglia si era trasferita già nel 1884. Fu nell’università dell’allora capitale asburgica che egli ottenne, nel 1911, il primo incarico come Privatdozent di filosofia del diritto e dello Stato (Staatsrecht und Rechtsphilosophie) e che, dopo la prima guerra mondiale, fu nominato professore Extraordinarius (nel 1918) e Ordinarius (1919) di diritto pubblico e amministrativo (Staats- und Verwaltungsrecht). Nota è anche la sua attività fondamentale nella configurazione istituzionale della neonata Repubblica Austriaca e in particolare nella creazione della Corte Costituzionale austriaca, della quale fu membro dal 1921 al 1930 (5). Gli anni viennesi di Kelsen coincisero quindi con uno dei periodi più turbolenti ma anche intellettualmente più vivaci della storia della capitale austriaca: quella che è stata definita come l’epoca aurea del modernismo viennese, sulla quale Kelsen ha esercitato, nel suo ambito di studi, un’influenza centrale (6). Dal punto di vista filosofico, è sufficiente citare l’importanza cruciale del Wiener Kreis, con il quale Kelsen ebbe, anche attraverso alcuni dei suoi allievi (7), diversi punti di contatto e del quale fece parte anche l’altro protagonista di questo articolo, Gustav Bergmann. Gli anni successivi al 1930 furono, invece, anni travagliati per Kelsen, a causa del difficile clima politico austriaco, prima, e delle persecuzioni legate tanto alle sue posizioni politiche quanto alle sue origini ebraiche (8), poi. L’opposizione del Partito Cristiano Sociale austriaco alla sua attività di giudice costituzionale lo spinse infatti alle dimissioni e a un primo trasferimento, nel 1930, a Colonia. Qui, dopo soli tre anni, fu costretto ad abbandonare l’incarico presso la (5) Cfr. D.A.J. TELMAN, Introduction: Hans Kelsen for Americans, in Hans Kelsen in America, cit., p. 2 e ss., con rif. in part. a R.A. MÉTALL, Hans Kelsen: Leben und Werk, Vienna, Verlag Franz Deuticke, 1969. (6) C. JABLONER, Kelsen and his Circle: The Viennese Years, in « European Journal of International Law », 1998, 9, pp. 368-385. (7) In particolare, Felix Kaufmann; sui rapporti tra Kelsen e il Circolo di Vienna cfr., tra l’altro, ivi, pp. 378-382. (8) Kelsen, nato a Praga in una famiglia germanofona della media borghesia ebraica, si era convertito al cattolicesimo già nel 1905, nel periodo in cui lavorava alla sua dissertazione dottorale sulla Teoria dello Stato in Dante, e al protestantesimo luterano nel 1911, subito prima del matrimonio con Margarete Bondi (1890-1973)..

(6) GUIDO BONINO-GIOVANNI DAMELE. 511. locale università a causa delle sue origini ebraiche e a trasferirsi nuovamente, questa volta a Ginevra dove, nel 1934, pubblicò la prima edizione della Teoria pura del diritto. Quando il quasi sessantenne Kelsen e sua moglie Margarete lasciavano Ginevra, ormai circondata da un’Europa in guerra, nella primavera del 1940 e raggiungevano gli Stati Uniti, la sua fama come teorico del diritto era, dunque, ormai più che consolidata. Nel Nuovo Mondo egli avrebbe trovato, però, un ambiente allo stesso tempo incline a riconoscerne l’autorevolezza di studioso e poco propenso ad accogliere la sua grande architettura teorica. Né si può dire che il trasferimento sia stato, anche dal punto di vista accademico, del tutto agevole. Non avendo ottenuto un incarico permanente in una facoltà di diritto, Kelsen ricevette inizialmente il sostegno della Rockefeller Foundation, grazie al quale poté insegnare alla Harvard Law School. Soltanto nel 1945 ottenne un incarico, significativamente nel Department of Political Sciences, a Berkeley, dove concluse la sua carriera accademica e anche, nel 1973, la sua esistenza (9). In questo contesto, è sufficiente fare un veloce riferimento alle ragioni della scarsa (o nulla) accoglienza incontrata dalla teoria pura kelseniana nell’ambiente giuridico e accademico americano. Come si è già detto, l’ambiente giuridico e quello più specificatamente filosofico-giuridico apparivano estranei ai contenuti e alle forme della riflessione kelseniana. La consolidata base teorica fornita dal realismo giuridico americano e dal pensiero di giuristi come Karl Llewellyn e Oliver Wendell Holmes costituivano un primo, notevole ostacolo, che può essere velocemente riassunto con le note parole di Harold Laski il quale, riprendendo il celebre ‘motto’ holmesiano sulla vita del diritto come esperienza e non come logica, qualificava la teoria pura come uno sterile esercizio di logica, che non riguarda la « vita » del di-. (9) Sulle difficoltà di Kelsen a ottenere un incarico permanente negli Stati Uniti si veda, tra l’altro, H. KELSEN, Autobiografia (1947), p. 135 e ss., in ID., Scritti Autobiografici, trad. e cura di M.G. Losano, Reggio Emilia, Diabasis, 2008 e C. NITSCH, « Holmes Lectures, 1940-41 ». Studio storico-critico su Kelsen in America, in H. KELSEN, Diritto e pace nelle relazioni internazionali. Le Oliver Wendell Holmes Lectures, 1940-1941, a cura di C. Nitsch, Milano, Giuffrè, 2009, pp. VIII-XXXI..

(7) 512. QUADERNI FIORENTINI XLVII. (2018). ritto (10). L’accusa a Kelsen di aver prodotto una teoria aridamente ‘formalista’ (che, come vedremo, sarà ripresa, con maggiore profondità analitica, da Bergmann) era quindi già un luogo comune, più o meno fondato, nel contesto filosofico giuridico americano. A ciò si aggiunga, e anche a questo si è già fatto accenno, la percepita estraneità della riflessione kelseniana precedente agli anni Quaranta rispetto a un contesto di common law. È stata infine notata, anche, l’influenza di un contesto accademico come quello americano, così differente da quello europeo continentale e nel quale l’insegnamento giuridico prescindeva in buona parte dall’approccio filosofico, facendo sì che gli studenti delle facoltà giuridiche americane non avessero né la preparazione né l’interesse per affrontare un insegnamento condotto nei termini astratti dei ‘principi fondamentali’ del diritto (11). Si tratta di questioni note e largamente discusse sulle quali non vale la pena dilungarsi. Esse stabiliscono, appunto, le coordinate della ricezione della teoria pura kelseniana, coordinate sulle quali si allinea l’intervento di Gustav Bergmann, usando come punto di appoggio il tema del ‘neokantismo’ kelseniano. 3.. Kelsen, Kant e gli epigoni.. Come si vedrà in seguito, dunque, uno dei principali obiettivi polemici di Bergmann è il ‘neokantismo’ di Kelsen, ossia la matrice filosofica che più marcatamente caratterizza l’elaborazione filosofico-giuridica kelseniana, in particolare dagli anni Venti e fino, grosso modo, agli anni Cinquanta. In una lettera scritta nel 1933 a Renato Treves, in occasione della traduzione italiana del Grundriß einer allgemeinen Theorie des Staates del 1926, Kelsen riconosceva la correttezza della lettura neokantiana della propria teoria, facendo esplicito riferimento, in particolare, a Hermann Cohen (12). Per (10) « Granted its postulates, I believe the pure theory to be unanswerable but I believe also that its substance is an exercise in logic and not in life »: H. LASKI, A Grammar of Politics, London, Allen & Unwin, 1938, p. vi, cit. in TELMAN, Introduction: Hans Kelsen for Americans, cit., p. 3. (11) TELMAN, Introduction: Hans Kelsen for Americans, cit., p. 4. (12) « È del tutto vero che il fondamento filosofico della dottrina pura del diritto è la filosofia di Kant, precisamente nell’interpretazione che ne è stata data da Cohen. A.

(8) GUIDO BONINO-GIOVANNI DAMELE. 513. quest’ultimo, notava Kelsen, la Critica della ragion pura andava intesa come una « teoria dell’esperienza ». La teoria pura kelseniana, da questo punto di vista, non rappresentava che un’applicazione — anzi, la più « fruttuosa » applicazione, nelle parole dello stesso Kelsen — del « metodo trascendentale » in ambito giuridico. Essa è « empirista », continuava Kelsen, proprio nel senso in cui è empirista la filosofia trascendentale kantiana o, affermava altrove, « nel senso proprio della gnoseologia kantiana », per cui « la scienza del diritto, intesa come conoscenza del diritto, come tutte le conoscenze ha carattere costitutivo e quindi ‘produce’ il proprio oggetto nella misura in cui lo concepisce come un tutto intelligibile. Come il caos delle percezioni sensoriali diviene cosmo (cioè natura intesa come sistema unitario) grazie alla conoscenza scientifica che vi introduce l’ordine, così la massa delle norme giuridiche generali e individuali, statuite dagli organi giuridici, cioè il materiale offerto alla conoscenza giuridica, diviene un sistema unitario e coerente, cioè un ordinamento giuridico, grazie all’attività conoscitiva della scienza giuridica » (13). L’atto cognitivo crea quindi il suo oggetto, nel senso di una « creazione epistemologica » e non in quello della « produzione di oggetti mediante il lavoro umano » o della « produzione del diritto da parte dell’autorità giuridica » (14). Così, la separazione kelseniana tra Sein e Sollen era funzionale a garantire la costruzione di una teoria pura del diritto, attraverso l’introduzione di una categoria trascendentale (apparte-. tal proposito riveste la massima importanza il fatto che io, così come Cohen ha inteso la Critica della ragion pura di Kant come una teoria dell’esperienza, cerco di applicare il metodo trascendentale ad una teoria del diritto positivo » (H. KELSEN, Dottrina pura del diritto, ‘labandismo’ e neokantismo. Una lettera a Renato Treves, in H. KELSEN, R. TREVES, Formalismo giuridico e realtà sociale, a cura di S. Paulson, Napoli, Esi, 1992, p. 52). Sulle influenze neokantiane sull’opera di Kelsen si veda anche S. PAULSON, The Neo-Kantian Dimension of Kelsen’s Pure Theory of Law, in « Oxford Journal of Legal Studies », 12 1992, 3, pp. 311-332. (13) H. KELSEN, La dottrina pura del diritto, Torino, Einaudi, 1966, p. 89. C.vo mio. (14) Ivi; cfr. anche B. CELANO La teoria del diritto di Hans Kelsen. Una introduzione critica, Bologna, il Mulino, 1999, n. 54, pp. 134-135 e PAULSON, Metamorphosis in Hans Kelsen’s Legal Philosophy, cit., n. 86, p. 881..

(9) 514. QUADERNI FIORENTINI XLVII. (2018). nente al mondo del Sollen appunto, cioè l’imputazione [Zurechnung]) analoga a quella di causalità (15). Kelsen poteva allora rivendicare, nella lettera a Treves, di essere giunto laddove Cohen, e lo stesso Kant, non avevano voluto, traendo le dovute conseguenze dei loro presupposti teorici anche nel campo della filosofia del diritto. Proprio come Kant, infatti, Cohen non poteva essere disposto ad accettare l’inevitabile esito relativistico, sul piano etico, dell’introduzione di una categoria puramente formale della validità a priori nell’ambito delle « norme positive che determinano la vita sociale ». In tal modo, tanto Kant, quanto il suo epigono, finivano per rifugiarsi nuovamente in una filosofia del diritto di stampo giusnaturalistico, non comprendendo che, nel sistema ideale della filosofia kantiana, solo una teoria del diritto positivo poteva idealmente corrispondere a una teoria della natura in quanto esperienza (16). (15) Tra i diversi passi kelseniani sul punto, basta qui citare la nota pagina della prima edizione della Reine Rechtslehre: « Come la legge naturale connette un determinato fatto come causa a un altro come effetto, così la legge giuridica connette la condizione con la conseguenza del diritto (cioè con la così detta conseguenza dell’illecito). Nell’un caso la forma della connessione dei fatti è la causalità, nell’altro è l’imputazione in cui la dottrina pura del diritto ravvisa la speciale struttura del diritto. Come l’effetto è attribuito alla sua causa, così la conseguenza giuridica è attribuita alla sua condizione giuridica, ma quella non può essere causalmente prodotta da questa. La conseguenza del diritto (o della violazione del diritto) è imputata alla condizione giuridica. [...] L’espressione di questo rapporto designato come ‘imputazione’ [...] non è altro che il dover essere (das Sollen) con cui la dottrina pura del diritto rappresenta il diritto positivo; così come la necessità (das Müssen) è l’espressione della legge di causalità. [...] La legge naturale dice: Se c’è A deve necessariamente (muss) esserci B; la legge giuridica dice: Se c’è A deve (soll) esserci B, senza che, con ciò, essa dica nulla del valore, cioè del valore morale o politico, di questo rapporto. In tal modo il dovere continua a sussistere come categoria relativamente a priori per la comprensione del materiale giuridico empirico » (H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino, Einaudi, 1967, pp. 63-64). Cfr. PAULSON, Metamorphosis in Hans Kelsen’s Legal Philosophy, cit., p. 882 e l’idea del ‘filtro Kantiano’: « Kelsen si confronta con la legge di Hume, con il problema di come sia possibile passare da un insieme di proposizioni descrittive, fattuali a una che contiene una componente normativa. Mentre Hume ritiene tale passaggio impossibile, Kelsen torna a Kant — o, più precisamente, a quello che interpreta come il filtro kantiano » [trad. mia]. Per una critica della distinzione kelseniana tra Sein e Sollen cfr. anche L. FERRAJOLI, La logica del diritto. Dieci aporie nell’opera di Hans Kelsen, Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 3-26. (16) KELSEN, Dottrina pura del diritto, ‘labandismo’ e neokantismo, cit., p. 52. Cfr. anche ID., L’idea di diritto naturale e l’essenza del diritto positivo, Appendice a ID., Teoria generale del diritto e dello stato, Milano, Etas, 2000, pp. 452-453: « La lotta che.

(10) GUIDO BONINO-GIOVANNI DAMELE. 515. Come ha efficacemente riassunto Paulson, la presupposizione della categoria del Sollen è insomma una diretta conseguenza e insieme un irrinunciabile presupposto del postulato della ‘purezza’, il quale costituisce a sua volta il punto di partenza della teoria kelseniana, precludendo ogni esito non soltanto in direzione del giusnaturalismo, ma soprattutto di qualsiasi tipo di positivismo giuridico basato su fatti sociali. Tale presupposto funzionava, insomma, da fondamento filosofico per introdurre da un lato la radicale distinzione tra la scienza normativa e le scienze sociali (in particolare la sociologia) basate su proposizioni fattuali, dall’altro il loro parallelismo in quanto scienze descrittive (di norme, l’una, di fatti le altre). Questo brevissimo (e certamente sommario) accenno ai presupposti kantiani della filosofia del diritto kelseniana dev’essere inteso al solo fine di inquadrare proprio i tre obiettivi polemici di Bergmann, i quali appaiono nella teoria di Kelsen intimamente e inevitabilmente legati: l’ossessione per la ‘purezza’ della teoria, la distinzione tra Sein e Sollen e la separazione tra Kulturwissenschaften e Naturwissenschaften (per quanto, in questo caso, come vedremo, la distinzione vada riarticolata, dal punto di vista di Kelsen, alla luce della distinzione tra la scienza giuridica come scienza normativa e la sociologia — del diritto — come scienza esplicativa). Tre aspetti, appunto, intimamente e inevitabilmente legati proprio in ragione delle premesse neokantiane della filosofia del diritto kelseniana. Ciò che Bergmann intenderà sottolineare, insomma, sarà proprio il contrasto tra tali premesse e le ambizioni analitiche della stessa teoria del diritto kelseniana. Donde le pesanti bordate rivolte contro [Kant] [...] sostenne contro la metafisica [...] non venne da lui spinta effettivamente fino alle sue estreme conclusioni. [...] La funzione che la ‘cosa in sé’ riveste nel suo sistema rivela una buona dose di trascendenza metafisica. Per questa ragione, non troviamo in lui una franca e inequivocabile confessione di relativismo, che costituisce l’inevitabile conseguenza di ogni reale eliminazione della metafisica. [...] E ciò è ancor più evidente nella sua filosofia della pratica. Proprio qui, dove è il centro della dottrina cristiana, il dualismo metafisico di questa, quello stesso dualismo che Kant aveva così persistentemente combattuto nella sua filosofia teoretica, ne ha completamente invaso il sistema. A questo punto Kant ha abbandonato il suo metodo della logica trascendentale. [...] Accadde così che Kant, la cui filosofia trascendentale era eccellentemente destinata a provvedere i fondamenti di una dottrina giuridica e politica positivistica, rimase, come filosofo del diritto, nel solco della dottrina giusnaturalistica »..

(11) 516. QUADERNI FIORENTINI XLVII. (2018). la ‘sbornia’ metafisica (« Kelsen’s bothersome metaphysics », « simply pedantry, a hangover from German metaphysics » (17)) che Bergmann ravvisava nei testi di quello stesso Kelsen che, nella lettera a Treves citata sopra, rivendicava con un certo orgoglio il superamento, operato dalla sua teoria pura del diritto, degli ultimi residui metafisici che ancora inquinavano la filosofia kantiana e il neokantismo marburghese di Cohen. Si tratta di un paradosso apparente, poiché del tutto in linea con l’immagine suggerita da Bergmann in chiusura all’articolo scritto con Zerby: quella di un Kelsen rimasto a metà del guado e di una teoria kelseniana ancora pesantemente segnata da un linguaggio metafisico ereditato dalla cultura filosofica tedesca (18). Significativo, dal punto di vista dell’analisi delle tensioni interne introdotte nella teoria pura del diritto dalla metafisica kantiana, è proprio il modo in cui Bergmann rileva la contraddizione kelseniana tra l’asserita impossibilità di interpretare l’etica come scienza e l’idea di una scienza giuridica come scienza di un « tipo particolare di oggettivo dover essere ». L’« ambiguità » dell’assiologia kelseniana (ossia della natura della teoria etica e delle sue relazioni con la teoria del diritto e con la sociologia, definita da Bergmann come « la scienza che si occupa delle ideologie »), sembra suggerire che l’etica filosofica altro non sia che mera ideologia: si tratta, nota Bergmann, di una « strana posizione » per un neokantiano (19). Visto dal punto di vista di Bergmann, in altre parole, l’approccio giusnaturalistico di Cohen, criticato da Kelsen nella lettera a Treves, risolveva in realtà il rapporto tra etica e diritto in termini kantianamente più coerenti del preteso relativismo etico di Kelsen. Per quanto concerne, infine, l’immagine di un Kelsen ‘a metà del guado’, occorre notare come tanto la recensione firmata da Bergmann della General Theory of Law and State, quanto l’articolo pubblicato in coautoria con Lewis Zerby si collochino in una fase cruciale dell’evoluzione del pensiero kelseniano, che è possibile collocare tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta del secolo XX e che prelude alla pro(17) BERGMANN, recensione a H. Kelsen, The General Theory of Law and State, cit., p. 215. (18) BERGMANN, ZERBY, The Formalism in Kelsen’s Pure Theory of Law, cit., p. 130. (19) Ivi, p. 111..

(12) GUIDO BONINO-GIOVANNI DAMELE. 517. fonda revisione compiuta dall’ultimo Kelsen sul proprio edificio teorico (del periodo, cioè, incluso tra la Teoria pura del 1960 e la postuma Teoria generale delle norme pubblicata nel 1979). L’esatto carattere di questa fase — se possa essere qualificata come una fase di transizione o come una prima fondamentale svolta — è stato oggetto di discussione tra gli studiosi kelseniani (20). Sicuramente, il trasferimento negli Stati Uniti coincise, non a caso, con l’affievolirsi dell’impronta neokantiana. Bruno Celano ha notato come nelle pubblicazioni in inglese di Kelsen si trovi ‘scarsissima traccia’ del neokantismo kelseniano (21). Bergmann avrebbe certamente escluso dall’elenco la General Theory del 1945, la cui prima stesura, come si è detto, era comunque in tedesco e che, soprattutto, gli appariva come scritta ‘filosoficamente’ in tedesco. Stanley Paulson ha fornito, nel tempo, una ricostruzione articolata della transizione di Kelsen dall’impianto neokantiano a un nuovo impianto teorico ‘scettico’. Com’è noto, reagendo alla quadripartizione dell’evoluzione del pensiero kelseniano compiuta da Heidemann (una prima fase costruttivista, una seconda — tra gli anni Venti e Trenta — propriamente trascendentale, una terza — intorno agli anni Quaranta e Cinquanta — realista e infine una quarta — l’ultimo Kelsen — analitico-linguistica), Paulson ha inizialmente proposto una tripartizione tra una prima fase costruttivista, una seconda — che include un ampio periodo dal 1922 al 1960 — trascendentale e infine una terza che corrisponde alla fase analitico-linguistica di Heidemann e che Paulson denomina ‘scettica’. La seconda, tuttavia — ed è questo il punto che ci interessa — andrebbe ulteriormente suddivisa, secondo Paulson, in una prima fase ‘classica’ e una seconda — tra il 1935 e il 1960 — di transizione. La fase ‘realista’ del pensiero kelseniano, così come identificata da Heidemann, inizierebbe dopo la pubblicazione della prima Teoria pura (1934) e si protrarrebbe fino alla sua seconda edizione (1960), includendo quindi quest’ul(20) Il riferimento, in particolare, è alla controversia Heidemann-Paulson sulle ‘fasi’ del pensiero kelseniano. Cfr., tra l’altro, PAULSON, Four Phases in Hans Kelsen’s Legal Theory? Reflections on a Periodization, cit.; ID., Arriving at a Defensible Periodization of Hans Kelsen’s Legal Theory, cit.; C. HEIDEMANN, Norms, Facts, and Judgments. A Reply to S.L. Paulson, in « Oxford Journal of Legal Studies », 19 (1999), 2, pp. 245-350. (21) CELANO, La teoria del diritto di Hans Kelsen, cit., p. 134, n. 54..

(13) 518. QUADERNI FIORENTINI XLVII. (2018). tima e la General Theory of Law and State recensita da Bergmann. Fulcro di questa svolta epistemologica sarebbe l’interpretazione (implicitamente sostenuta) dell’attività cognitiva, nell’ambito della scienza giuridica, come una riproduzione descrittiva di oggetti previamente dati: una nozione in netto contrasto con la fase trascendentale di Kelsen, cioè con l’idea kantiana secondo cui l’atto cognitivo è caratteristicamente costitutivo, nel senso che ‘produce’ il suo oggetto. Punto di maturazione della svolta sarebbe quindi l’introduzione del termine Rechtssatz (proposizione di diritto) per designare « univocamente la proposizione con cui la scienza giuridica descrive una Rechtsnorm (una norma giuridica) » (22). Per Paulson, invece, tale fase non potrebbe essere qualificata come un’autentica svolta, non essendo possibile dividere nettamente, come fa Heidemann, tra una fase neo-kantiana basata sulla concezione secondo cui la norma giuridica è identica al giudizio ipotetico della scienza del diritto e una fase ‘realista’ nella quale, appunto, la norma non è prodotta dall’atto cognitivo ma soltanto riflessa, descritta o « descrittivamente riprodotta » dai giudizi della scienza del diritto. Più recentemente, Paulson ha riconosciuto, sì, l’esistenza di una « precoce rivoluzione » in senso humeano compiuta negli anni 1939/ 40 (23), seguita tuttavia da un « ritorno all’ordine » in direzione di una ripresa dell’impronta kantiana, ancorché parzialmente diluita. L’introduzione del termine Rechtssatz rappresenterebbe, secondo questa ricostruzione, una traccia permanente di tale temporanea rivoluzione. In realtà, gli effetti reali di un autentico, radicale ripensamento si farebbero sentire solo in seguito, e cioè a partire dal 1960, dopo la pubblicazione della seconda edizione della Teoria pura, con il radicale cambiamento di prospettiva di Kelsen sul tema dell’applicabilità della logica alle norme o, meglio, con il rigetto del parallelismo tra il principio di non contraddizione e il conflitto tra (22) Cfr. M.G. LOSANO, Avvertenza terminologica, in KELSEN, La dottrina pura del diritto, cit., pp. XCVI, XCVIII. Cfr. anche CELANO, La teoria del diritto di Hans Kelsen, cit., pp. 183-184, in par. n. 12. (23) PAULSON, Metamorphosis in Hans Kelsen’s Legal Philosophy, cit., p. 885 e ss.; Paulson fa qui riferimento, in particolare, a H. KELSEN, Vergeltung und Kausalität. Eine soziologische Untersuchung, The Hague-Chicago, W.P. Van Stockum & ZoonUniversity of Chicago Press, 1941..

(14) GUIDO BONINO-GIOVANNI DAMELE. 519. norme. Sarebbe soltanto questa, autentica, svolta a fare finalmente crollare come un castello di carte tutta la costruzione neokantiana, facendo cedere, insieme a quel parallelismo, anche il corrispondente parallelismo tra Sein e Sollen, tra la categoria trascendentale della causalità e quella dell’imputazione. Come si vedrà, in un certo senso le osservazioni critiche di Bergmann bene si adeguano alla ricostruzione di questa fase dello sviluppo del pensiero kelseniano compiuta da Paulson, indirizzate come sono a colpirne, soprattutto, i residui neokantiani ancora presenti. Per comprenderlo, vale allora la pena di dire qualcosa di più su Bergmann, sulla sua critica alla teoria kelseniana e sui suoi fondamenti filosofici. 4.. Bergmann: un profilo.. Gustav Bergmann (1906-1987) ha condiviso con Kelsen la stazione di partenza e quella di arrivo del suo percorso di studioso: rispettivamente Vienna e gli Stati Uniti (24). Tuttavia, e non solo per ovvie ragioni anagrafiche, il trasferimento americano di Bergmann presenta certamente modalità più dimesse. Bergmann si era laureato in matematica all’università di Vienna nel 1928, sotto la guida del topologo Walther Mayer. Intanto, a partire dal 1926, aveva incominciato a frequentare le riunioni del Circolo di Vienna, invitato — a quanto pare — da Friedrich Waismann e Hans Hahn. Insieme a Kurt Gödel, Bergmann era il più giovane membro del circolo, e probabilmente la sua partecipazione si limitava a un ruolo perlopiù passivo. Nel 1930-31 Bergmann andò a lavorare a Berlino al seguito del suo maestro Walther Mayer, che era diventato un collaboratore di Albert Einstein. Terminata questa esperienza berlinese, al suo ritorno a Vienna, Bergmann trovò che il circolo era caduto sotto l’incantesimo di Wittgenstein, un cambiamento che non riscuoteva il suo gradimento (come avrebbe osservato in seguito, si sentiva molto più vicino al côté carnapiano del circolo) (25). Ebbe anche modo in (24) Per una più dettagliata biografia di Bergmann vedi G. BONINO, Anatomia del realismo. Saggio su Gustav Bergmann, Bologna, il Mulino, 2009, cap. I. (25) Per i ricordi di Bergmann intorno al Circolo di Vienna vedi G. BERGMANN, Erinnerungen an der Wiener Kreis. Brief an Otto Neurath, in Vertriebene Vernunft, vol..

(15) 520. QUADERNI FIORENTINI XLVII. (2018). questo periodo di conoscere gli ambienti legati alla psicoanalisi: si sottopose egli stesso a un trattamento psicoanalitico (conclusosi, secondo lo stesso Bergmann, con successo (26)) e scrisse un articolo per la rivista « Imago », dedicata all’applicazione della psicoanalisi alle scienze umane. Evidentemente di famiglia non particolarmente benestante, Bergmann si rese conto che la sua qualifica di matematico, unita al fatto di essere ebreo, non gli fornivano sufficienti garanzie di sostentamento nell’Austria sempre più antisemita degli anni trenta. Fino a quel momento si era guadagnato da vivere insegnando nelle scuole, e cercando al contempo di proseguire la sua attività scientifica in ambito matematico, ma ora gli sembrava opportuno cercare un’occupazione più sicura. Per questa ragione decise di iscriversi alla facoltà di legge, dove si laureò nel 1936. In quegli anni Kelsen insegnava a Ginevra, ma Bergmann ebbe comunque modo di assistere ad alcune sue lezioni a Vienna ed entrò inoltre in stretto contatto con ambienti kelseniani frequentando il cosiddetto ‘Circolo di Fleischer’, un gruppo di scienziati, giuristi ed esperti di questioni sociali che si riuniva intorno a Georg Fleischer, un allievo di Kelsen (27). Nel 1938 Bergmann aveva ormai trovato lavoro in uno studio legale, ma dopo l’Anschluss capì che la sua stessa incolumità era in pericolo. Con l’aiuto di Mayer (che già nel 1933 aveva seguito Einstein a Princeton) e quello, anche economico, di Otto Neurath, riuscì a scappare negli Stati Uniti. La moglie, che lo aveva seguito di II: Emigration und Exil österreichischer Wissenschaft, a cura di F. Stadler, Wien, Lit Verlag, 1988, pp. 171-180. Si tratta di una memoria in forma di lettera rivolta a Otto Neurath, che Bergmann aveva scritto su richiesta dello stesso Neurath e per sdebitarsi dell’aiuto che questi gli aveva fornito per la fuga in America. (26) Vedi lettera di Gustav Bergmann a Laurence D. Smith dell’11 novembre 1980, Papers of Gustav Bergmann, Special Collections Department, University of Iowa Libraries, Iowa City, Iowa, IX E 6-29/4. (27) Alcune notizie su Fleischer e il suo circolo possono essere trovate in F. STADLER, Studien zum Wiener Kreis. Ursprung, Entwicklung und Wirkung des logischen Empirismus im Kontext, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1997, pp. 660-661; C. JABLONER, Georg Fleischer, in R. Walter, C. Jabloner, K. Zeleny (a cura di), Der Kreis um Hans Kelsen, Schriftenreihe des Hans Kelsen Instituts 30, Wien, 2008, pp. 99-113; T. EHS, Vertreibung in drei Schritten. Hans Kelsens Netzwerk und die Anfänge österreichischer Politikwissenschaft, in « Österreichische Zeitschrift für Geschichtswissenschaften », XXI (2010), 3, pp. 146-173..

(16) GUIDO BONINO-GIOVANNI DAMELE. 521. lì a poco insieme alla figlia di pochi anni, appena arrivata negli Stati Uniti subì un grave tracollo psichico, forse anche a causa delle difficoltà delle fuga (in seguito Bergmann si sarebbe risposato con un’americana). Nei primi, difficili tempi negli Stati Uniti Bergmann aveva sperato di trovare un’occupazione come contabile, ma poi, grazie all’interessamento dello psicologo Kurt Lewin, riuscì a introdursi all’università dell’Iowa, dapprima con un joint appointment dei dipartimenti di psicologia e di filosofia, poi presso il solo dipartimento di filosofia, dove si sarebbe svolta la sua intera carriera. Si deve notare che fino a quel momento Bergmann non si era mai occupato professionalmente di filosofia, né aveva mai compiuto studi formali in questa disciplina, nonostante un chiaro interesse dimostrato dalla sua partecipazione, per qualche anno, agli incontri del Circolo di Vienna. Fu solo negli Stati Uniti che Bergmann diventò un filosofo a tutti gli effetti. Nei primi anni il suo principale ambito di ricerche fu la filosofia della scienza, con una particolare attenzione per la metodologia della psicologia (numerosi sono i suoi lavori in collaborazione con lo psicologo comportamentista Kenneth W. Spence). In seguito il suo raggio d’azione si estese all’ontologia, che sarebbe presto diventata il suo interesse quasi esclusivo. L’interesse per l’ontologia si combinava in Bergmann — a prima vista piuttosto stranamente — alla fedeltà per il rigido positivismo che aveva caratterizzato la prima fase del Circolo di Vienna (28). Questa combinazione insolita trova una spiegazione nel metodo che Bergmann riteneva proprio della filosofia: il cosiddetto ‘metodo del linguaggio ideale’ (29), ovvero semplicemente il metodo, per Bergmann e i suoi allievi. Per evitare le difficoltà e le confusioni caratteristiche della metafisica tradizionale, Bergmann pensava che ci si dovesse servire dello strumento costituito da un linguaggio ideale, cioè un linguaggio tale per cui: (i) in esso sia possibile (28) Per una caratterizzazione di Bergmann come al tempo stesso un ontologo e un positivista vedi F. WILSON, Placing Bergmann, in Ontology and Analysis. Essays and Recollections on Gustav Bergmann, a cura di L. Addis, G. Jesson ed E. Tegtemeier, Frankfurt a.M., Ontos, 2007, pp. 185-274. (29) Riflessioni sul metodo della filosofia si trovano sparpagliate nell’intera opera di Bergmann. Per una presentazione approfondita del metodo bergmanniano vedi BONINO, Anatomia del realismo, cit., cap. II..

(17) 522. QUADERNI FIORENTINI XLVII. (2018). esprimere, almeno schematicamente e in linea di principio, tutti gli aspetti e gli ambiti della nostra esperienza; (ii) in esso non sia possibile esprimere nessun enunciato ‘filosofico’ problematico (cioè i nonsensi della metafisica tradizionale rifiutati dai positivisti logici); (iii) parlando della sua sintassi e della sua semantica per mezzo del linguaggio ordinario, sia possibile esplicare tutti gli enunciati filosofici problematici. Date queste condizioni, non si può mai essere sicuri che un certo linguaggio sia il linguaggio ideale: si può sempre scoprire un nuovo aspetto dell’esperienza, precedentemente non considerato, che sfugge alle capacità espressive del linguaggio proposto, ecc. Compito di un filosofo è quello di proporre un linguaggio che possa ambire a essere quello ideale, sperando che superi le prove future, per poi discutere i problemi filosofici secondo il metodo suggerito dalla condizione (iii). Quando è impegnato in quest’ultima attività, il filosofo parla esplicitamente solo della sintassi e della semantica del presunto linguaggio ideale, e in ciò consiste la specificità della filosofia posteriore alla svolta linguistica (30). Ma non per questo il filosofo non parla anche, indirettamente, del mondo. Per Bergmann il fatto che un certo linguaggio sia (o meglio, possa essere) o non sia il linguaggio ideale ci dice qualcosa sul mondo: se per parlare adeguatamente del mondo (di tutti gli aspetti e gli ambiti dell’esperienza) abbiamo bisogno di un linguaggio ideale dotato di certe caratteristiche, ciò dipende dalla circostanza che il mondo è fatto in un certo modo piuttosto che in un altro. Consideriamo un esempio. Se dovessimo scoprire che per esprimere in modo adeguato tutti gli aspetti della nostra esperienza abbiamo bisogno di un linguaggio dotato di due tipi di costanti, individuali e predicative, ciò dipenderebbe dal fatto — e quindi significherebbe — che nel mondo esistono sia particolari, sia universali (la dottrina metafisica tradizionale del realismo). (30) Bergmann sembra essere stato l’inventore dell’espressione « linguistic turn », presente in diversi suoi scritti dei primi anni cinquanta (vedi soprattutto G. BERGMANN, Semantics, in A History of Philosophical Systems, a cura di V. Ferm, New York, Philosophical Library, 1950, pp. 183-192, poi in ID., The Metaphysics of Logical Positivism, Madison, University of Wisconsin Press, 19672, pp. 17-29; ID., Two Types of Linguistic Philosophy, in « Review of Metaphysics », V (1952), pp. 417-438, poi in ID., The Metaphysics of Logical Positivism, cit., pp. 106-131..

(18) GUIDO BONINO-GIOVANNI DAMELE. 523. L’idea che parlando del linguaggio che usiamo per descrivere il mondo riusciamo anche, indirettamente, a parlare del mondo, è il frutto della combinazione selettiva di due altre idee, provenienti rispettivamente dal Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein e da Carnap, una combinazione che Bergmann attua in modo consapevole e in buona misura esplicito. Da Wittgenstein viene l’idea che il fatto che parliamo del mondo con un certo linguaggio ci riveli qualcosa sul mondo stesso. In Wittgenstein, però, questa tesi è avviluppata, per così dire, nella dottrina della distinzione tra dire e mostrare, cioè della distinzione tra ciò che un linguaggio dice e ciò che in esso si mostra, ma non può essere detto. Per Wittgenstein il fatto che il linguaggio con cui parliamo del mondo sia fatto in un certo modo mostra certe caratteristiche fondamentali (ontologiche, si potrebbe dire) del mondo stesso, ma il possesso di queste caratteristiche non può essere detto. Questa conclusione misticheggiante non poteva piacere a Bergmann (si vedano anche le osservazioni sul suo scarso apprezzamento per la fase ‘wittgensteiniana’ del Circolo di Vienna), che per evitarla si rivolge alla soluzione carnapiana (ma già adombrata da Bertrand Russell nell’Introduzione al Tractatus) basata sull’idea dell’ascesa semantica: ciò che non può essere detto in un linguaggio lo si può dire, in modo indiretto, in un metalinguaggio. Così, per dire che esistono gli universali, possiamo dire che il linguaggio ideale contiene costanti predicative. Ma anche nella posizione di Carnap c’è un aspetto che Bergmann non poteva apprezzare: per Carnap la scelta tra diversi sistemi di riferimento (cioè, nel quadro di Bergmann, tra diversi linguaggi che aspirano alla qualifica di linguaggio ideale) è una scelta di carattere pratico, e non comporta dunque questioni cognitive. In altre parole, per Carnap non ha senso domandarsi se un sistema di riferimento sia vero: semplicemente decidiamo di servirci di quello che risulta più comodo, economico, ecc. Per Bergmann tale scelta ha invece un’autentica portata cognitiva; anzi, a proposito del linguaggio ideale non si può propriamente parlare di scelta: è il mondo stesso che in ultima analisi determina quale linguaggio possa essere considerato ideale. Su questo punto, evidentemente, Bergmann si colloca dalla parte della ‘serietà’ ontologica del Tractatus, anziché da quella del convenzionalismo pragmatico di Carnap..

(19) 524. QUADERNI FIORENTINI XLVII. (2018). Un’ultima osservazione sulla concezione bergmanniana dell’ontologia si rende necessaria per comprendere le critiche a Kelsen. L’applicazione del metodo del linguaggio ideale, secondo Bergmann, richiede il soddisfacimento di alcune condizioni supplementari. In particolare, quando si procede all’interpretazione dello schema sintattico che viene proposto come linguaggio ideale, i riferimenti assegnati alle costanti descrittive (cioè non logiche) devono sempre essere oggetti di acquaintance; in caso contrario, non sapremmo letteralmente di che cosa stiamo parlando. Questo precetto prende il nome di principio di acquaintance, e racchiude secondo Bergmann il nucleo filosofico fondamentale dell’empirismo. La fedeltà a questo principio rappresenta anche la difesa di quelli che per Bergmann erano gli ideali originari del Circolo di Vienna, ben esemplificati dalla Logische Aufbau der Welt di Carnap del 1928, contro i pericolosi cedimenti introdotti dallo stesso Carnap negli anni trenta con il cosiddetto ‘indebolimento dei criteri di significanza empirica’. 5.. La critica a Kelsen.. Come si è già osservato, la vera e propria carriera filosofica di Bergmann ebbe inizio negli Stati Uniti. Naturalmente Bergmann giungeva negli Stati Uniti già dotato di un ricco bagaglio culturale, tipicamente austro-tedesco, accumulato nella Vienna degli anni venti e trenta. Tuttavia, da un punto di vista strettamente filosofico, il suo unico significativo punto di riferimento era stato fino a quel momento il Circolo di Vienna, e in particolare Rudolf Carnap, con l’aggiunta di quelli che Bergmann chiamava gli ‘analisti classici’: G.E. Moore, Russell e Wittgenstein. Per parecchio tempo, la sua elaborazione filosofica consistette principalmente in una reinterpretazione critica originale — ma al tempo stesso in una difesa — delle concezioni proprie del primo Circolo di Vienna. Solo nella maturità Bergmann ampliò l’orizzonte dei propri riferimenti filosofici. C’è una certa ironia nel fatto che tale ampliamento si sia indirizzato proprio verso una tradizione tipicamente austriaca come quella brentaniana: l’opus maius di Bergmann, Realism. A Critique of.

(20) GUIDO BONINO-GIOVANNI DAMELE. 525. Brentano and Meinong (31), tratta appunto di Brentano e Meinong, come il sottotitolo indica chiaramente, ed è dedicato « To the glorious memory of Alexius Meinong ». E Brentano, Meinong, Husserl furono importanti fonti di ispirazione per la fase matura della filosofia di Bergmann. In un certo senso era abbastanza naturale che un filosofo intento a stabilire una forma di realismo privo di compromessi si rivolgesse alla tradizione austriaca, da sempre incline al realismo, in opposizione alle tendenze idealistiche tipiche della tradizione kantiana e post-kantiana specificamente tedesca (32). L’ironia consiste nel fatto che questa scoperta sia avvenuta per Bergmann in terra americana, quando aveva ormai abbandonato definitivamente l’Austria da molti anni. Un ruolo importante nella scoperta del filone brentaniano da parte di Bergmann fu svolto, a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta, da Reinhardt Grossmann, un giovane studente tedesco (un’altra ironia) che era venuto da Berlino a Iowa City proprio per studiare con Bergmann. Grossmann possedeva già una vasta conoscenza della filosofia di Brentano, e il suo entusiasmo agì probabilmente da catalizzatore per indirizzare gli interessi e le curiosità di Bergmann in quella direzione. Ma ancora prima dell’incontro con Grossmann, Bergmann si era già imbattuto in Brentano e nella tematica dell’intenzionalità — centrale per il suo progetto di realismo — in forma indiretta, attraverso Moore e il suo Some Main Problems of Philosophy (33). Nel 1953-54 Bergmann aveva tenuto un seminario su questo libro, pubblicato nel 1953 ma che riproduceva lezioni tenute da Moore nel 1910-11; questa lettura fu verosimilmente cruciale per (31) G. BERGMANN, Realism. A Critique of Brentano and Meinong, Madison, University of Wisconsin Press, 1967. (32) Sulle specificità della tradizione filosofica austriaca in opposizione a quella tedesca esiste un’ampia letteratura. Vedi, tra tutti, R. HALLER, Studien zur österreichischen Philosophie, Amsterdam, Rodopi, 1979; From Bolzano to Wittgenstein. The Tradition of Austrian Philosophy, a cura di J.C. Nyíri, Wien, Hölder-Pichler-Tempsky, 1981; B. SMITH, Austrian Philosophy. The Legacy of Franz Brentano, La Salle, Open Court, 1994; Austrian Philosophy Past and Present, a cura di K. Lehrer e J.C. Marek, Dordrecht, Kluwer, 1996. (33) G.E. MOORE, Some Main Problems of Philosophy, London, George Allen & Unwin, 1953..

(21) 526. QUADERNI FIORENTINI XLVII. (2018). l’elaborazione di Intentionality (34), articolo centrale nella produzione di Bergmann. I temi e le idee che a Bergmann interessavano in Moore erano proprio quelli che Moore attingeva alla tradizione brentaniana, direttamente o per il tramite dei suoi maestri James Ward e G.F. Stout. E così, un po’ paradossalmente, Bergmann fu introdotto alla scoperta della propria tradizione filosofica nazionale attraverso la mediazione della filosofia di lingua inglese. Questa complessa dialettica tra tradizioni filosofiche (di partenza, di arrivo, di ritorno) è arricchita dagli sforzi di assimilazione da parte di Bergmann all’ambiente culturale e filosofico americano, accompagnati da una parallela assimilazione sociale: Bergmann sposò in seconde nozze un’americana, fu sempre molto grato al paese che gli aveva offerto rifugio dopo la fuga dai nazisti, rifiutò dopo la guerra offerte di posizioni accademiche in Austria, divenne nel 1968 presidente dell’American Philosophical Association, aderì alla chiesa unitariana (per ragioni di mero conformismo sociale), ecc. Al tempo stesso si dedicò a un’attività, discreta ma attenta, di mediatore tra la produzione filosofica in lingua tedesca, o comunque legata all’emigrazione tedesca, e il pubblico americano, soprattutto attraverso l’attività recensoria (non sempre benevola). Per la produzione in lingua tedesca si possono citare le recensioni a opere di Leopold Goetz, Wolfgang Stegmüller, Ottokar Blaha, Eino Kaila (35), a cui aggiungere quelle dedicate alla coppia di immigrati Egon Brunswik ed Else Frenkel-Brunswik (36) e a Wolfgang Köhler (37). (34) G. BERGMANN, Intentionality, in « Archivio di filosofia », 3 (1955), pp. 177-216, poi in ID., Meaning and Existence, Madison, University of Wisconsin Press, 1959, pp. 3-38. (35) Vedi rispettivamente la recensione a L. Goetz, Die Entstehung der Ordnung, in « Philosophy and Phenomenological Research », XV (1954), pp. 287-288; a W. Stegmüller, Metaphysik, Wissenschaft, Skepsis, in « Philosophical Review », LXIV (1955), pp. 665-667; a O. Blaha, Logische Wirklichkeitsstruktur und personaler Seinsgrund, in « Philosophical Review », LXV (1956), pp. 265-267; a E. Kaila, Terminalkausalität und Quantenmechanik, in « Philosophical Review », LXVII (1958), pp. 424-426. (36) Vedi la recensione a E. Brunswik, The Conceptual Framework of Psychology, in « Psychological Bulletin », XLIX (1952), pp. 654-656; a E. Frenkel-Brunswik, Psychoanalysis and the Unity of Science, in « Journal of Philosophy », LII (1955), pp. 692-695. (37) Vedi la recensione a W. Köhler, Gestalt Psychology, in « Psychological Bulletin », XLV (1948), pp. 353-355..

(22) GUIDO BONINO-GIOVANNI DAMELE. 527. L’attenzione da parte di Bergmann per la produzione di Kelsen si deve collocare nel contesto di questa attività più o meno periferica di mediazione culturale. Ma l’interesse di Bergmann per Kelsen è periferico anche in un altro senso: nella sua vita Bergmann si dedicò quasi esclusivamente a temi di ontologia e di filosofia della scienza, e rarissimi sono gli scritti espressamente riconducibili a temi di carattere giuridico o etico-politico, anche in senso lato. Tra questi pochissimi spiccano quelli dedicati a Kelsen: una recensione a The General Theory of Law and State (38); una recensione a The Pure Theory of Law di William Ebenstein (39), un libro che ha il merito di costituire « la prima esposizione scientifica, competente e piuttosto completa della Teoria Pura » (40) che sia stata prodotta in lingua inglese; l’articolo The Formalism in Kelsen’s Pure Theory of Law (41), scritto da Bergmann in collaborazione con Lewis Zerby. In termini molto generali, Bergmann distingue nell’opera di Kelsen una parte che si potrebbe chiamare più strettamente filosofia del diritto, e che consiste prevalentemente nella chiarificazione dei concetti giuridici (in questo senso sarebbe un erede, per quanto inconsapevole, dell’analytical jurisprudence di John Austin), e in una parte che appartiene invece alla filosofia tout court (essenzialmente metafisica ed epistemologia). Per quanto riguarda la filosofia del diritto in senso stretto, Bergmann (e Zerby, ma d’ora in poi si farà riferimento al solo Bergmann, per le ragioni indicate nella nota 41) ritiene che i lavori di Kelsen siano per molti aspetti esemplari e che forniscano analisi spesso eccellenti. Questa valutazione è però resa più ambigua dalla strategia retorico-espositiva adottata da Bergmann. Da una parte, infatti, egli cerca di ricondurre questo aspetto del lavoro di Kelsen a precedenti che possano essere più familiari (38) BERGMANN, recensione a H. Kelsen, The General Theory of Law and State, cit. (39) BERGMANN, recensione a W. Ebenstein, The Pure Theory of Law, cit. (40) Ivi, p. 71. (41) BERGMANN, ZERBY, The Formalism in Kelsen’s Pure Theory of Law, cit. Nello stesso anno 1945 Lewis Zerby si era addottorato all’università dell’Iowa sotto la guida di Bergmann con una tesi dal titolo Hans Kelsen’s Reine Rechtslehre. L’articolo riprende in buona parte le analisi e le conclusioni della tesi di Zerby. È noto che Bergmann era un supervisore di tesi piuttosto ingombrante, così che sia la tesi, sia l’articolo si possono verosimilmente considerare come opera congiunta di Zerby e Bergmann..

(23) 528. QUADERNI FIORENTINI XLVII. (2018). a un pubblico di lingua inglese, come l’analytical jurisprudence di Austin. Questa scelta ha certamente lo scopo di rendere la presentazione più comprensibile a lettori poco avvezzi alla tradizione filosofico-giuridica tedesca, ma è forse anche dettata dall’esigenza di esprimere apprezzamento per la tradizione anglo-americana, in parte per sincera ammirazione verso un approccio lontano da quello in cui Bergmann si era formato, in parte per il desiderio di mostrarsi riconoscente nei confronti della sua nuova patria: questa ambivalenza tra identità europea e americana è un tratto costante di Bergmann. In ogni caso il risultato è quello di sminuire in qualche misura l’originalità di Kelsen. Ma d’altra parte Bergmann ritiene anche che le analisi di Kelsen siano in genere migliori rispetto a quelle della tradizione anglo-americana. C’è poi l’aspetto filosofico tout court del lavoro di Kelsen, e qui secondo Bergmann si incontrano non solo gravi errori e deficienze, ma anche vere e proprie ingenuità. Su questo piano la tradizione anglo-americana, e specialmente il realismo giuridico, gli appaiono indubbiamente superiori. Nella sua tesi Zerby riassume efficacemente questo intreccio: Le analisi giuridiche di Kelsen, benché siano in sé per molti aspetti superiori a qualunque lavoro prodotto in paesi anglosassoni, sono mescolate con un’epistemologia che è estranea e a mio parere inferiore rispetto a quella praticata dai filosofi analitici inglesi e americani. Perciò Kelsen è giuridicamente avanti a noi, ma filosoficamente dietro.. Per poi aggiungere, forse un po’ maliziosamente, che « Per entrambe queste ragioni egli non è ancora adeguatamente apprezzato » (42). È infine opinione di Bergmann che i difetti metafisici ed epistemologici del lavoro di Kelsen non possano non generare difficoltà e confusioni anche nella parte più strettamente giuridica, per altri aspetti così ammirevole. Dunque gli errori più gravi di Kelsen riguardano secondo Bergmann il piano metafisico-epistemologico, per poi ‘stingere’ anche su quello più strettamente filosofico-giuridico, almeno nelle sue parti più astratte. Come il titolo stesso indica, l’articolo di (42) L. ZERBY, Hans Kelsen’s Reine Rechtslehre, dissertazione di PhD, University of Iowa, 1945, p. 4..

(24) GUIDO BONINO-GIOVANNI DAMELE. 529. Bergmann e Zerby si concentra sul tema del ‘formalismo’ kelseniano, cercando di mostrare come in esso coesistano diversi sensi di ‘formale’, talora confusi l’uno con l’altro, e come gli errori metafisico-epistemologici si intreccino a tale confusione. Non si ricostruirà qui nella sua completezza l’intricata rete di distinzioni, osservazioni e argomentazioni di Bergmann a questo proposito; si fornirà solo qualche indicazione sulla cornice generale della discussione e un esempio particolarmente rappresentativo. L’idea di fondo è che Kelsen parli del carattere formale del diritto e della scienza giuridica in almeno tre sensi distinti e tra loro indipendenti (43). Il primo senso è quello per cui la teoria del diritto deve essere pura, deve cioè escludere considerazioni ideologiche e politiche. Il secondo senso è ricondotto da Bergmann all’idea kantiana per cui ciò che è formale è categoriale: la legge può essere conosciuta solo se ricondotta sotto una speciale categoria (nel senso kantiano), espressa dalla clausola ipotetica delitto-sanzione (l’imputazione); da questa presunta necessità epistemica, e perciò dall’esistenza di questa forma categoriale, Kelsen ricaverebbe anche l’esistenza del suo oggetto, cioè le norme in quanto appartenenti a uno specifico dominio ontologico: quello del Sollen (è inutile ripetere che per Bergmann risultano ingiustificate tanto la tesi epistemologica, quanto quella ontologica). C’è poi un terzo senso in cui il diritto in sé e certi aspetti della teoria del diritto possono essere detti formali: è questa un’accezione non specificamente filosofica di ‘formale’, secondo cui il diritto in quanto tale è caratterizzato (di fatto, non per ragioni di necessità categoriale) da tratti strutturali, molto generali, altamente astratti. Si tratta, insomma, della teoria formalistica per cui ciò che caratterizza il diritto è la sua forma (invariabile) e non il suo contenuto (variabile). È proprio su questo piano che la teoria di Kelsen mostra, secondo la valutazione di Bergmann, tutta la sua profondità analitica. Tuttavia, forse trascinato da un émpito filosofico tipico della cultura tedesca, egli finisce talvolta per confondere questo senso di ‘formale’ con il secondo. In questo modo, per esempio, a partire dalla corretta osservazione che il diritto possiede caratteristiche formali (nella terza accezione del termine) universali, (43) Una classificazione simile, ma con qualche differenza soprattutto espositiva, si può trovare nella tesi di Zerby, ivi, cap. IV..

(25) 530. QUADERNI FIORENTINI XLVII. (2018). Kelsen fonda, attraverso una serie di slittamenti terminologici e di cortocircuiti logici, il primato del diritto internazionale, pretendendo in qualche modo di dedurlo trascendentalmente da categorie formali (nella seconda accezione del termine) (44). Naturalmente, la possibilità di queste confusioni nasce dalla presenza stessa nel pensiero di Kelsen di quella che per Bergmann è la seconda accezione, del tutto incongrua, di ‘formale’. In altre parole, la radice delle difficoltà si deve ricercare negli errori metafisico-epistemologici di Kelsen. Ma quali sono esattamente questi errori metafisico-epistemologici, gli errori che Kelsen commette quando ambisce a occuparsi di filosofia tout court? Al livello della cultura di sfondo che governa molte delle scelte di Kelsen, Bergmann indica come errori l’accettazione della distinzione tra Kulturwissenschaften e Naturwissenschaften, nonché una certa reverenza per la categoria del Verstehen. Si tratta di concetti tipici della cultura filosofica tedesca (non austriaca!), per i quali Bergmann non ha molta pazienza: « Tutti conosciamo [...], se non altro per il lago di inchiostro che ci è stato versato dentro, il preteso abisso tra Kulturwissenschaft e Naturwissenschaft e le varie e concomitanti fusioni, confusioni e ipostatizzazioni romantiche di fatti e norme. E tutti abbiamo perso l’orientamento nella nebbia del Verstehen, spessa come una minestra » (45). Ma l’errore più grave — il « paradosso fondamentale » (46) — (44) Anche in questo caso, tale posizione affonda le sue radici nella dimensione neokantiana della teoria di Kelsen, evidente soprattutto nei testi degli anni Venti. Si veda, a questo proposito, il saggio Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts (Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, Milano, Giuffrè, 1989). Come ha notato Danilo Zolo (La guerra, il diritto e la pace in Hans Kelsen, in « Filosofia Politica », 12 (1998), 2, pp. 187-208), « Il carattere unitario dell’universo giuridico (e, in esso, il primato dell’ordinamento internazionale) è per Kelsen un’‘ipotesi epistemologica’ che corrisponde ad una opzione generalissima a favore dell’oggettività della conoscenza: presuppone una ‘oggettiva ragione universale’ e una ‘concezione oggettivistica del mondo’. [...] [Il] primato del diritto internazionale è imposto da esigenze logico-concettuali (‘normologiche’) interne all’interpretazione scientifica, e cioè unitaria ed oggettiva, del diritto: si tratta di un’ipotesi che ‘deve essere accettata se si intende interpretare le relazioni sociali come relazioni giuridiche’ ». (45) BERGMANN, recensione a W. Ebenstein, The Pure Theory of Law, cit., p. 72. (46) BERGMANN, ZERBY, The Formalism in Kelsen’s Pure Theory of Law, cit., p. 119..

(26) GUIDO BONINO-GIOVANNI DAMELE. 531. è la distinzione, ontologica ed epistemologica, tra un regno del Sein e un regno del Sollen, l’idea che, in aggiunta ai fatti, ci siano anche norme, dotate di una peculiare forma di esistenza e conoscibili per mezzo di apposite categorie. Si tratta della tesi del « realismo deontologico » (47), che male si accorda con il lavoro analitico di Kelsen, ma che soprattutto è semplicemente e radicalmente sbagliata, e può apparire dotata di una certa plausibilità solo grazie alle confusioni cui si è accennato. Per Bergmann è ovvio che non esistono norme in aggiunta ai fatti, che l’unica forma di esistenza delle norme è quella di fenomeni sociopsicologici, e che dunque non sono richiesti strumenti epistemici speciali per la loro conoscenza. Ciò non significa, secondo Bergmann, che gli imperativi siano, da un punto di vista logico, linguistico e psicologico, indistinguibili dagli indicativi (48). L’ovvietà di queste posizioni viene presentata da Bergmann come tale perlomeno per chi si ponga come positivista logico o come « analista filosofico » (49) (oggi forse diremmo ‘filosofo analitico’). Che, pur con questa specificazione, le tesi di Bergmann siano davvero ovvie rimane naturalmente alquanto dubbio. Rivolgendosi a un pubblico americano, Bergmann poteva cercare di rendere più plausibile questa affermazione richiamandosi al realismo giuridico (47) Ivi, p. 112. (48) Questo spunto (ivi, p. 116) non viene però sviluppato: Bergmann non ambisce a dedicarsi in prima persona e in modo costruttivo alla filosofia del diritto, né più in generale a una teoria dei valori. Un suo allievo, però, Thomas Storer, aveva pubblicato su questo tema un articolo che Bergmann cita con approvazione: The Logic of Value Imperatives, in « Philosophy of Science », XIII (1946), 1, pp. 25-40. In questo articolo Storer sviluppa la sintassi di un sistema di logica enunciativa che possa adattarsi agli imperativi oltre che agli indicativi. La peculiarità degli imperativi che viene presa in considerazione (ma non se ne escludono altre) è costituita dall’esistenza di tre ‘livelli’ (degrees) di rightness di un imperativo secondo un certa dottrina etica sostantiva, che Storer propone di rappresentare per mezzo di una logica a tre valori (morale, amorale, immorale); sono poi proposte tavole di valori per i connettivi enunciativi che possono combinare enunciati imperativi con enunciati imperativi o enunciati imperativi con enunciati indicativi. Purtroppo, la morte prematura di Storer impedì ulteriori sviluppi. Si deve comunque osservare che l’articolo evita accuratamente di trarre conseguenze ontologiche o epistemologiche dalle presunte particolarità linguistiche degli imperativi. (49) BERGMANN, recensione a H. Kelsen, The General Theory of Law and State, cit., p. 215..

(27) 532. QUADERNI FIORENTINI XLVII. (2018). (che infatti viene presentato come sostanzialmente corretto). Ma il punto fondamentale è che per Bergmann queste tesi sono ovvie perché costituiscono il nucleo centrale della sua filosofia, o almeno ne sono dei corollari. Innanzitutto, e un po’ brutalmente, l’idea che le norme — in quanto distinte dai fatti — possano essere costituenti della realtà (cioè possiedano un autonomo status ontologico) rappresenta una violazione del principio di acquaintance: abbiamo acquaintance di fatti, ma sarebbe grottesco sostenere che possiamo avere acquaintance di norme. Ma in secondo luogo, la medesima idea si scontra anche con un’altra tenace e fondamentale convinzione di Bergmann, che giustifica in modo più specifico la sua ostilità verso le norme. L’ontologia proposta da Bergmann è un’ontologia dei complessi; il modello esplicativo — per così dire — di un’analisi ontologica è sempre quello di un complesso che è formato dai suoi costituenti (semplici); i costituenti, a loro volta, si trovano nel complesso (naturalmente, in un senso non spaziale). Un fatto, per esempio, è analizzato da Bergmann come un’entità complessa, costituita da uno o più particolari e un universale (proprietà o relazione). Esiste per Bergmann un’importante alternativa alle ontologie dei complessi: le ontologie delle funzioni (l’esempio più significativo è quello dell’ontologia di Gottlob Frege). Le ontologie delle funzioni non sono basate sulla distinzione tra entità semplici e complesse e sull’idea che le entità semplici possano essere costituenti di quelle complesse, ma piuttosto sulla nozione di funzione. Una funzione è la coordinazione di un’entità (l’argomento) con un’altra entità (il valore). Consideriamo l’esempio di una macchia rossa. Nell’ontologia dei complessi di Bergmann questa deve essere analizzata come un complesso (il fatto che la macchia è rossa) che ha come costituenti un particolare (che funge da individuatore) e un universale (il colore rosso). Nell’ontologia delle funzioni di Frege la stessa situazione sarebbe analizzata come l’applicazione della funzione essere rosso a un certo oggetto x, una funzione che coordinerebbe l’oggetto x a un altro oggetto, il valore di verità Vero. Tralasciando difficoltà minori, Bergmann ritiene che le ontologie delle funzioni debbano essere rifiutate per una ragione di fondo: assumere il concetto di funzione come primitivo è inaccettabile.

(28) GUIDO BONINO-GIOVANNI DAMELE. 533. perché introduce al livello fondamentale dell’ontologia un elemento di soggettività e di antropocentrismo che dovrebbe invece essere eliminato. La coordinazione tra entità è infatti un’azione, qualcosa che viene fatto, e deve dunque essere fatto da qualcuno. Caratterizzare una funzione (come potrebbe apparire ragionevole) come una regola di coordinazione anziché come una coordinazione non risolve il problema, perché anche la nozione di regola sembra implicare in qualche modo il riferimento a qualcuno che la segue o la deve seguire. Ora, che cosa potrebbero essere le norme per Bergmann, se non regole? È interessante osservare che queste argomentazioni, sia quella basata sul principio di acquaintance, sia quella basata sul sospetto nei confronti della nozione di regola (50), non erano ancora state sviluppate esplicitamente da Bergmann nel momento in cui scriveva l’articolo e le recensioni su Kelsen, per quanto potessero certamente essere presenti in forma implicita nelle sue riflessioni. È come se l’occasione fornita dalla critica a Kelsen offrisse a Bergmann la possibilità di accennare per la prima volta — seppure brevemente — ad alcune delle tesi centrali della sua filosofia. Può rimanere una legittima curiosità su quale potesse essere la posizione di Bergmann, in positivo, intorno allo status delle norme e dei ‘valori’. Come si è già accennato, il rifiuto dell’esistenza di un regno del Sollen e di canali epistemici speciali per la sua conoscenza non implica per Bergmann il totale disconoscimento di certe caratteristiche specifiche degli enunciati imperativi o di quelli che vengono comunemente chiamati ‘valori’. Non è però possibile trovare negli scritti di Bergmann una riflessione approfondita su questi temi, che certamente esulavano dai suoi interessi principali. Qualche suggerimento, per capire almeno quale potesse essere l’inclinazione di fondo, può venire da un articolo del 1951 su argomenti affini, dovuto a May Brodbeck, allieva di Bergmann che si dedicò prevalentemente alla filosofia della scienza, in particolare delle scienze (50) Di principio di acquaintance si parla in molti degli scritti di Bergmann, ma comunque mai prima degli anni qui considerati. Per la critica alle ontologie delle funzioni si deve aspettare anche di più: vedi soprattutto G. BERGMANN, Frege’s Hidden Nominalism, in « Philosophical Review », LXVII (1958), pp. 437-459, poi in ID., Meaning and Existence, cit., pp. 205-224, e ID., Realism, cit., capp. I-II..

(29) 534. QUADERNI FIORENTINI XLVII. (2018). sociali. In questo breve articolo (51) Brodbeck si domandava se fosse possibile combinare (i) il non-naturalismo etico di Hume e di Moore, secondo cui i termini etici non sono riducibili a termini non etici e gli enunciati normativi non possono essere derivati da enunciati non normativi con (ii) un naturalismo di fondo tale per cui non si è disposti ad accettare che proprietà come buono siano sullo stesso piano (magari in un regno separato) di proprietà come giallo. E la risposta di Brodbeck era positiva: il non naturalismo nel senso di Hume o Moore si può spiegare con il fatto che proprietà come buono sono colte come fenomenologicamente primitive, e non risultano dunque definibili; ma ciò non implica che esse non siano soggettive nel senso ordinario del termine, né che richiedano una speciale facoltà conoscitiva intuitiva e non empirica. Ciò è presumibilmente reso possibile da un processo psicologico di ‘condizionamento morale’, che per mezzo di associazioni fa sì che veniamo ad avere esperienza di buono come della proprietà semplice di un oggetto (un po’ come accade per proprietà come divertente) o — aggiunge Brodbeck — di certi imperativi ipotetici come di imperativi categorici. In realtà l’articolo si concentra sul caso dei valori morali, mentre quello degli imperativi è appena accennato e viene considerato, forse sbrigativamente, come assimilabile. Non si può certo dire che questi brevi accenni costituiscano una vera e propria teoria metaetica, né tantomeno una spiegazione esauriente della natura delle norme e del loro posto nel mondo, ma — per quel che valgono — rappresentano fedelmente la posizione dello stesso Bergmann, per sua esplicita dichiarazione (52). (51) M. BRODBECK, Toward a Naturalistic “Non-Naturalistic” Ethic, in « Philosophical Studies », II (1951), pp. 7-11. (52) Vedi G. BERGMANN, Logical Atomism, Elementarism, and the Analysis of Value, in « Philosophical Studies », II (1951), pp. 85-92, poi in ID., The Metaphysics of Logical Positivism, cit., pp. 243-254, dove Bergmann osserva, con prosa caratteristicamente contorta: « In un recente saggio la signorina Brodbeck mi ha del tutto correttamente attribuito la seguente opinione. Per negare che certe caratteristiche come la bontà o la bellezza siano oggettive o ‘là fuori’ nel senso in cui lo sono le forme e i colori, non è necessario negare che esse siano indefinibili, nel senso in cui la maggior parte dei positivisti sostiene che non lo siano. Se le cose stanno così, si possono evitare, come ho accennato e come la signorina Brodbeck argomenta efficacemente, gli ovvi difetti del cosiddetto naturalismo in etica ed estetica, e tuttavia non impegnarsi a ciò che non siamo.

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