• Non ci sono risultati.

Prefazione a Vincenza Pellegrino, Follie ragionate. Il male e la cura nelle parole dei pazienti psichiatrici, Torino Utet, pp. xi-xv.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Prefazione a Vincenza Pellegrino, Follie ragionate. Il male e la cura nelle parole dei pazienti psichiatrici, Torino Utet, pp. xi-xv."

Copied!
6
0
0

Testo completo

(1)

PREFAZIONE

Il folle «sragiona» spesso molto meno di quanto si creda, forse addirittura non sragiona mai.

Eugène Minkowski (1998: 45; ed. orig. 1997). Questo libro affronta un tema difficile, si occupa – con le parole di Eugenio Borgna – di quegli stati d’animo feriti e dolenti costitutivi del male mentale (Borgna 2010: xv). I contorni di questo peculiare modo di essere nel mondo vengono ricostruiti, non già attingendo al sapere degli psichiatri o alle testimonianze di coloro che – come amici o familiari – vivono nella propria quotidianità il riflessi di una sofferenza che non può che rimanere altrui. In questo libro il male mentale viene affrontato attingendo alle parole, alle narrazioni di chi è attraversato da questa condizione, di chi da anni, convive con il proprio male mentale. Tutto ciò colloca il contributo di Vincenza Pellegrino all’interno di una consolidata tradizione di ricerca, quella dello studio delle illness

narrative, fondata sui lavori, ormai classici, di Michael Bury (2001),

Arthur Frank (1985), Byron Good (1994, trad. it. 1999), Arthur Kleinaman (1988). In questo contesto, tuttavia, lo spazio riservato alle narrazioni di chi convive con il male mentale è – almeno così mi sembra – modesto. Sul male mentale, soprattutto quando si esprime nelle forme più severe, grava un pregiudizio che fa porta a ritenere difficile, se non impossibile, raccogliere discorsi sensati, narrazioni. Il folle vaneggia, ha smarrito la propria presenza, è incapace di legare fra loro passato presente e futuro1. FOLLIE RAGIONATE Follie ragionate sfida e vince questo pregiudizio: mostra, con le parole di Eugene Minkowski riportate in epigrafe, come il folle sragiona molto meno di quanto si creda. Tutto ciò, prima ancora di essere efficacemente argomentato da Vincenza Pellegrino, si mostra in modo evidente negli stralci di narrazione riprodotti nel testo, nelle parole dei pazienti cui il libro dà voce, che esprimono un sapere, una verità vissuta (sensu Foucault 1996, trad. it 2005) che colpisce per la sua forza.

Il libro è costruito attorno a quindici narrazioni autobiografiche, raccolte fra altrettanti pazienti dei servizi di salute mentale di Trieste. Si tratta di persone – uomini e donne – gravate da disturbi severi, con i

1 Nel testo alludo a quanto Todorov definisce come “discorso psicotico”; una produzione discorsiva caratterizzata dall’assenza di un solido legame narrativo fra passato, presente e futuro e, più in generale, dall’incapacità di tessere un legame fra sé e mondo (Todorov 1978, trad. it. 1999: 83-91).

(2)

quali convivono da molti anni: dieci almeno e mediamente sedici. Vincenza Pellegrino analizza questi materiali combinando in modo convincente tecniche di ricerca qualitative e quantitative, senza indulgere nella retorica della triangolazione che attribuisce all’adozione di metodi misti un valore in sé, una garanzia di oggettività. In questo lavoro gli strumenti della semantica quantitativa, l’analisi delle co-occorrenze lessicali, l’analisi delle corrispondenze multiple, l’analisi dei gruppi svolgono – questa è la mia lettura – una funzione euristica, aiutano a mettere in forma un insieme di quesiti cui l’autrice risponde tornando ai testi nella loro interezza, distillandone il senso.

Costruito attraverso una meditata combinazione di brani tratti dalle interviste e riflessioni teoriche, FOLLIE RAGIONATE Follie ragionate mostra l’assoluta permeabilità del confine che separa il normale dal patologico (Canguilhem 1966, trad. it. 1998). Emerge come le forme di sofferenza psichica oggetto dell’attenzione della psichiatria altro non siano che una versione accentuata «delle nostre tristezze, delle nostre angosce, delle nostre inquietudini, delle nostre speranze resistenti, delle nostre fragilità, delle illusioni» (pag. 14). È evidente la distanza che separa questa postura teorica da quella che ha condotto alla più importante rivoluzione scientifica (nell’accezione kuhniana) della psichiatria novecentesca: la nascita della psichiatria diagnostica, che ha nel DSM, nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il proprio monumento (vedi Horwitz 2002:56; Maturo 2007; Cardano, Lepori 2012: 88 ss.). Il sapere tassonomico alla base del DSM conduce a distinzioni nette, senza sfumature, fra il normale e il patologico e fra le diverse forme di quest’ultimo. Il patologico è tale in forza di un’alterazione del sistema neurochimico del cervello (Horwitz, 2002: 132) o a una compromissione dei neurotrasmettitori (Lane, 2007: 2), identificate e trattate nella più totale indifferenza alle caratteristiche del contesto entro il quale i sintomi del malessere prendono forma.

Il confronto con questa espressione del sapere psichiatrico (che forse in quel di Trieste non raccoglie molti consensi) consente di mettere in luce un’altra importante indicazione che emerge dal libro di Pellegrino. Tutti i pazienti interpellati mostrano di saper riconoscere il nesso che lega la loro vita, il loro percorso biografico, il contesto nel quale hanno vissuto, all’irrompere del male mentale.

La lettura – appassionante – delle storie di vita che Pellegrino ha raccolto accogliendo l’invito di Peppe dell’Acqua a costruire un archivio delle memorie dei pazienti triestini (pag. 252), mostrano anche importanti differenze che le separano le une dalle altre. FOLLIE RAGIONATE Follie ragionate rende visibili queste differenze attingendo agli strumenti della critica della letteratura, in particolare quello di genere, reso operativo ricorrendo al modello narratologico di Algirdas Julien Greimas. Emergono così narrazioni tragiche, cavalleresche, saghe

(3)

eroiche ed altro ancora, che il lettore avrà modo di apprezzare nel testo. Quel che mi preme dire qui è che le narrazioni raccolte non esprimono solo dolore, afflizione, perdita. Molte delle narrazioni raccolte mostrano i tratti di ciò che Arthur Frank definisce come “quest narrative”, narrazioni nelle quali il protagonista attraversa i territori della malattia conquistando un maggior controllo di sé e della propria vita, usando la malattia come un’occasione di auto-affermazione (Frank 1995: 115-136).

Ciò si lega a quanto costituisce il contributo distintivo di questo lavoro e ciò che ha reso – almeno ai miei occhi – più interessante la sua lettura, l’efficace rappresentazione di quanto l’autrice definisce “dimora nella malattia”. La scelta di puntare l’attenzione su pazienti, per così dire, navigati consente di esaminare da vicino, in dettaglio, le strategie di fronteggiamento del male mentale messe a punto da ciascuno di loro. Pellegrino mostra un repertorio di storie (quelle che definisce “saga eroica ad incremento”) nelle quali si profila un’immagine insolita di paziente psichiatrico, capace di «produrre salute dentro la malattia» (pag. 184), di dominare la propria sofferenza, forte di un sapere, non già “per scienza”, ma “per esperienza”, un sapere profano (sensu Freidson 2002) che restituisce agency, controllo2. Si profila qui, espressa in un idioma vissuto, la nozione di recovery, di riconquista della propria vita definita in un registro che è insieme chiaro e realistico. Ecco come Margherita descrive questa condizione che evoca l’immagine di Ulisse che resiste alle lusinghe delle sirene, accettando i propri limiti, riconoscendo le proprie debolezze.

«Negli anni non è il male che cambia, quello va e viene. Sono io che cambio. Nel pensiero di me, io mi penso staccata dal male e mi penso come domatrice. Io cambio anche quando lui non cambia. All’inizio era molto diverso, mi pensavo tutt’uno con la malattia. Il momento peggiore è stata la prima ricaduta, l’idea che per quanto facessi sarei ripassata di lì. Un circolo senza uscita, che ti suggerisce di suicidarti. Ma adesso è diverso. Conosco la sopravvivenza, mi conosco nel male, mi sono fedele nel male. Io mi vedo nel tunnel, ed è come finirlo. Questa è la ciclicità, la mia ciclicità almeno, ed è inevitabile, puntuale, orribile, familiare e orribile. Mi dico: ecco, oggi ti senti così, ci risiamo, come quella volta, che sei entrata nel circolo in quel

2 La contrapposizione fra i due tipi di sapere richiamati nel testo, il “sapere per scienza”, proprio dei professionisti della salute, e il “sapere per esperienza” proprio di chi è abitato dalla sofferenza viene, tipicamente, messa a tema all’interno del movimento degli uditori di voci, un movimento internazionale impegnato nella demedicalizzazione dell’esperienza delle voci, di quanto nel gergo psichiatrico viene definito con la locuzione “allucinazioni uditive verbali” (vedi Romme, Escher, Dillon et al. 2010; Cardano, Lepori 2012).

(4)

modo... Mi ritrovo continuamente a paragonare momenti a momenti, date ad altre date, periodi a periodi, sono l’esperta del tagliare e ricucire la vita per farne anelli, del ripassare nelle condizioni per starci meglio, per conoscermi lì dentro. E più mi allontano dall’inizio, dall’entrata del tunnel, e più torna, più torna l’infanzia al centro dei miei confronti. Sorprendente, anche per me. Il tunnel della crisi depressiva è nero e resta nero, ma col passare degli anni diventa il nero con occhi abituati a guardare la stanza buia. Non nero come contrario di luce. Non ho più un ricordo fisico della luce semplice, forse è questo. L’idea di fine del male non è più l’idea del prima. L’uscita è qualcosa che si pensa o no, non è qualcosa che si vive o no, ed è questo che mi sono guadagnata in tanti anni. (pag. 189)

Alla base di questa capacità di «vedere anche al buio (p. 121), di sapersi orientare anche fra le pareti oscure del tunnel, poggia sull’accettazione della propria differenza, che nel caso di Margherita assume i tratti di una sorta di orgoglio. Colgo questo aspetto nelle parole di Margherita, laddove sostiene come «la depressione molto spesso è indice di qualità

interiori molto elevate» (p. 111).

Questa rappresentazione di sé e della propria condizione che, nel repertorio di storie analizzate nel volume, si profila fra i pazienti più colti, perlopiù donne, parrebbe – almeno di primo acchito – contrapporsi a quelle di chi, meno colto e sorpreso nella prima età adulta dal male mentale, rappresenta una diversità mai accettata e raffigurata in un registro bio-medico, inconsapevolmente sintonico con quello del

Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Questa

raffigurazione della propria condizione emerge nella narrazione di Carlo.

«Il primo contatto con il centro di igiene mentale l’ho avuto circa quindici anni fa a causa di un grave esaurimento nervoso. Però i medici mi avevano diagnosticato una schizofrenia da paranoie ma io non sono mai stato in paranoia in vita mia quindi non capisco perché loro hanno reagito così nei miei confronti. Adesso frequento il Club Z. e per me è tutta un’altra cosa, c’è gente poco normale e gente normale, non è che siamo tutti pazzi qua dentro, anche se non scherziamo neanche noi. Ho avuto quell’esaurimento nervoso perché avevo un locale mio che è durato solo cinque mesi perché la polizia mi ha fatto chiudere a causa delle troppe chiamate, dei troppi interventi; ma i poliziotti ha fatto apposta a chiudermi il locale perché, a differenza degli altri gestori, io facevo pagare il conto anche a loro, come a tutti i

(5)

clienti. La causa del mio esaurimento non era la schizofrenia paranoide ma semplicemente l’adrenalina che dal cuore mi andava al cervello.» (pag. 216)

La spiegazione elaborata da Carlo per dar conto del proprio malessere, un alterazione del cervello imputata a un versamento di adrenalina, ricorda molto da vicino quella che raccolsi, alcuni anni or sono, dalla voce di un paziente torinese, che chiamerò Vito (vedi Cardano 2008). Vito qualificò la propria condizione come una "malattia" di cui descrisse i sintomi e le cause in chiave rigorosamente bio-medica. Vito era persuaso che la malattia di cui soffre fosse stata innescata dalle proprie intemperanze sessuali in adolescenza, segnatamente da un indulgere eccessivo alla masturbazione. Il legame fra questi comportamenti e l'irrompere del male mentale venne definito in modo analitico, istituendo una connessione fra la biochimica dell'atto sessuale e il funzionamento delle cellule cerebrali, nei termini riportati di seguito.

«Quando si raggiunge l’orgasmo […] il nostro cervello secerne fitoormoni [probabilmente intende dire «ferormoni»], questi fitoormoni secondo me hanno la capacità di inibire i nostri neuroni. Inibiscono i neuroni nel senso che perdono eee perdono proprio l’energia […] e poi dopo il nostro cervello la ricupera dopo qualche giorno, dopo che… dopo qualche giorno la recupera, due tre, quattro giorni. Però se questo avviene molto frequentemente […] da uno a una o due volte al giorno, o ogni due giorni, questo qua, eee non si dà la possibilità al cervello di recuperare e quindi si sfocia in un caso depressivo. Secondo me è così… è una tesi tutta mia eh, ma io penso che sia questo il motivo… Non so, molti dottori dicono che mi sbaglio, quel e quell’altro ma, secondo me…»

Ebbene l’accostamento di queste due interpretazioni del male mentale, suggerisce una chiave di lettura che, almeno così mi pare, attenua la distanza che separa i discorsi dei due pazienti triestini interpellati dall’autrice, Carlo e Margherita. Nelle loro parole possiamo riconoscere una radice comune, la volontà di opporsi al regime discorsivo – egemone nella nostra società – che attribuisce al male mentale uno stigma, un marchio che aggredisce lo status di persona di chi vive questa condizione. Questa chiave di lettura porta a qualificare le rappresentazioni di sé e del proprio malessere rese da Margherita e Carlo come “contro-discorsi” (Armstrong, Murphy, 2011), come pratiche di resistenza, che l’una e l’altro mettono in forma attingendo alle risorse culturali di cui dispongono. Margherita – più attrezzata – affronta di

(6)

petto lo stigma e lo ribalta, riconoscendo, nella depressione il segno di una sensibilità più acuta e, in sé, la capacità di usare la propria sensibilità per vedere anche nel buio3. Carlo – meno colto – si oppone allo stigma, dissolvendo l’etichetta di “schizofrenia da paranoie” in un gorgo di adrenalina, usando il discorso bio-medico (non diversamente in questo da Vito) come un espediente che lo solleva da ogni responsabilità morale, da ogni colpa del suo malessere e lo protegge dallo stigma della schizofrenia.

Il gioco di confronti fra le narrazioni che compongono questo libro, con altre che ho raccolto io stesso (Cardano 2007) e altre ancora che provengono da contesti più remoti (Romme, Escher, Dillon et al. 2010) mette in luce – mi sento di dire – più la continuità che la specificità del contesto triestino. A Trieste, forse, il mix di questo genere di discorsi è più sbilanciato verso la valorizzazione della differenza che accompagna il male mentale. Mettere alla prova quest’ultima tesi configura un’interessante sfida di ricerca che meriterebbe di essere raccolta.

MARIO CARDANO

3 Questo processo di valorizzazione della propria differenza si mostra, forse con maggior

nitore, nella testimonianza di Jaqui Dillon, Chair della rete britannica del movimento degli Uditori di voci, che si esprime nei termini riportati di seguito. «Cominciai a rendermi conto che ero abitata da diverse persone. Queste “voci” avevano differenti nomi e identità. Avevano differenti e distinte personalità. Questa consapevolezza generò in me un sorprendente conforto. La percezione della mia propria identità mutò. Passai dall’essere “me” all’essere “noi”. (…) Iniziai a comprendere che le mie voci erano sé dissociati che si costituivano come rappresentazioni internalizzate del mondo nel qua-le ero cresciuta. Questi vari sé erano stati creati dalla mia esperienza. (…) Fui commossa nel constatare ciò che la mia mente era riuscita ad inventarsi. Talvolta sentivo di aver creato un’opera d’arte». (Cardano, Lepori 2012: 105).

Riferimenti

Documenti correlati

così facendo non si riesce a interpretare il presente e, di conseguenza, non si può prefigurare il futuro. Viceversa il vero ricercatore - cioè colui che lavora con passione,

Sapere d’Europa segnala invece l’esigenza di far emergere quanto – invenzioni e saperi diffusi, prassi e tradizioni collettive – si trova annidato nell’humus di Venezia e

Micromilling experiments on green feedstock workpieces produced by extrusion AM generally milled slots with good edge integrity and surface quality. Some of the defects

I tempi dell’ambasceria del maggio-giugno 1355 si ricostruiscono abbastanza agevolmente dalle polizze di pagamento agli ambascia-.. tori e ad altri messi impegnati nella

Il secondo contributo, “Negoziazione del conflitto ambientale in tema di rifiuti: sindrome Nimby o Nimto?”, dal punto di vista dell’ambiente: questo è un saggio che lo studioso ed

The different concentration of OX-C-NS, applied before Hypoxia, induced a significant reduction of cell mortality compared to C-NS without oxygen. Also, the application of OX-C-NS

Credo sia necessario e urgentissimo cominciare ad assumere atteggiamenti coerenti con le conclusioni di questo eccellente Editoriale, non solo nel caso del testosterone ma