Benoit Caudoux, L’écriture et l’éthique: Rousseau et le sentiment de l’extériorité, Honoré Champion, coll. «Les Dix-huitièmes siècles», n. 178, Paris, 2015, 784 pp.
Il poderoso volume di Benoit Caudoux, rielaborazione di una tesi di dottorato diretta da Colas Duflo, colpisce innanzitutto il lettore per l’ambizione del progetto che lo anima. Interrogarsi sul nesso tra scrittura e morale nell’opera di Rousseau – evocato sin dal titolo dell’opera – vuol dire non soltanto partire dall’assunto che l’intera produzione rousseauiana possa (o addirittura debba) essere letta come programmaticamente filosofica, ma implica inevitabilmente un’interpretazione complessiva di tale produzione. Si tratta di una sfida indubbiamente complessa all’interno di un panorama di studi estremamente ampio e caratterizzato da una crescente specializzazione, che viene tuttavia portata egregiamente a compimento da Caudoux, che si propone di collocare sin dall’introduzione il suo lavoro interpretativo – impresa assai ardua! – sulla scia di una delle più fortunate letture novecentesche dell’opera di Rousseau, ossia quella di Jean Starobinski.
La tesi attorno a cui ruota l’interpretazione di Caudoux è in realtà piuttosto lineare e non del tutto nuova: partendo dall’assunto che la scrittura di Rousseau debba essere considerata una écriture de la sensibilité, cioè una pratica di scrittura che implica un rapporto morale con il mondo oggettuale e con gli altri individui, egli si oppone con nettezza a tutte quelle interpretazioni (basti pensare a Charles Taylor o a Arthur Melzer) che hanno visto nel Ginevrino il capostipite di una cultura del narcisismo, che si esaurirebbe in un’acritica esaltazione dell’io. Da qui la rivalutazione di quel sentimento dell’esteriorità che è evocato nel sottotitolo, il quale non contraddirebbe, ma rafforzerebbe il pensiero filosofico rousseauiano inteso, socraticamente, come conoscenza dell’interiorità.
Questo assunto di base è indagato nelle cinque parti in cui è suddivisa l’opera, costruita a partire da un criterio al tempo stesso logico e cronologico. La premessa per comprendere la dialettica che Rousseau instaura tra morale e scrittura sarebbe la sua peculiare concezione della filosofia, costruita in opposizione a quella degli altri philosophes e connotata da un’imprescindibile dimensione dialogica. Da questa definizione del sapere filosofico discende la ricostruzione della teoria del segno in Rousseau, interpretato primariamente come un segno dialogico – necessariamente trasposto nella scrittura – in grado d’instaurare una comunicazione morale tra gli individui. Se queste prime due parti del lavoro sono dominate da una prospettiva sincronica, la terza parte, intitolata Histoire, nature et vérité, ambisce a ricostruire in una prospettiva strettamente “genealogica” l’evoluzione del pensiero morale e religioso di Rousseau, mettendo in luce, come punti nodali, il progressivo rafforzarsi di una venatura scettica e il passaggio da una morale storica o sensitiva, incentrata sullo studio “scientifico” dell’interazione tra ambiente esterno e interiorità, a una morale assiomatica, prettamente filosofica e teologica. La maturazione sul piano dottrinale si rifletterebbe, su quello letterario, nella scelta di uno stile che si fa via via più “intransitivo” (per usare un’espressione dell’autore), senza tuttavia rinunciare a quella sua originaria funzione dialogica e referenziale, da cui dipende la possibilità stessa di cogliere la verità. Questa tesi, illustrata nella quarta parte dell’opera attraverso un’analisi approfondita della Lettre sur la Providence indirizzata a Voltaire e delle Lettres morales scritte per Madame d’Houdetot, viene estesa nella quinta e ultima parte del libro alla produzione politica di Rousseau. Qui l’Autore indaga il legame tra il pensiero politico del Ginevrino – convenzionalmente considerato la parte filosoficamente “forte” della sua produzione – con il “nuovo” regime di scrittura filosofica, finzionale e autoreferenziale, che trova la sua massima espressione nella produzione autobiografica.
Al di là di uno sviluppo, sostanzialmente chiaro e testualmente documentato, della linea argomentativa principale, L’écriture et l’éthique presenta diversi spunti di riflessione interessanti, che spaziano da un’interpretazione non banale della presenza del “mito” di Robinson Crusoe nell’Émile (pp. 318-331), alla confutazione della lettura “postmoderna” di Rousseau proposta da Derrida (pp. 345-372). L’opera, forse anche a causa dell’ampiezza del suo progetto, non è tuttavia esente da alcuni difetti, riconducibili a due ordini di motivazioni principali. In primo luogo, la scelta di approfondire certi testi a discapito di altri non appare sempre giustificata con chiarezza. Perché ad esempio, limitare lo studio dell’evoluzione della scrittura di Rousseau a due testi pressoché coevi come la Lettre sur la Providence (1756) e le Lettres morales (1758), non prendendo invece in considerazione gli scritti in cui lo stesso Rousseau teorizza l’importanza filosofica dell’atto di scrivere (come ad esempio la seconda Préface della Nouvelle Héloïse)? Il secondo limite che emerge, almeno in certe sezioni del lavoro, è l’assenza di un confronto sistematico con la letteratura critica
inerente ai problemi affrontati. Ciò si nota soprattutto nelle pagine dedicate alla morale sensitiva, nelle quali l’Autore sembra ignorare completamente sia le interpretazioni “classiche” sul tormentato progetto filosofico mai realizzato di Rousseau (come quelle di Gilson o di Leduc Fayette), sia gli sviluppi più recenti (Le Menthéour), che avrebbero indubbiamente potuto fornire maggiore profondità – e a tratti anche maggiore problematicità – alla sua interpretazione.
Si tratta tuttavia di limiti che non inficiano la bontà di fondo del lavoro di Caudoux che, pur essendo probabilmente meno innovativo di quanto vorrebbe, rappresenta una valida sintesi – sorretta da uno stile espositivo elegante e chiaro – di alcune grandi tematiche del dibattito filosofico contemporaneo su Rousseau, come lo statuto della filosofia, la teoria del segno e, soprattutto, l’invenzione di una nuova tipologia di scrittura filosofica incentrata sulla sinergia tra finzione e realtà. [M. Me.]