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Illusioni, panacee, miti nell’insegnamento-apprendimento della matematica.

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Academic year: 2021

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848. D’Amore B., Fandiño Pinilla M. I. (2014). Illusioni, panacee, miti nell’insegnamento-apprendimento della matematica. Difficoltà in Matematica. 11, 1, 89-109.

Illusioni, panacee, miti

nell’insegnamento-apprendimento della matematica

Bruno D’Amore1 – Martha Isabel Fandiño Pinilla2

1MESCUD, Universidad Distrital Francisco José de Caldas, Bogotà 2NRD, Dipartimento di Matematica, Università di Bologna

bruno.damore@unibo.it

http://www.incontriconlamatematica.net/sitoufficialebm/index.php www.dm.unibo.it/rsddm

Abstract. The world of teaching - learning of mathematics is often subject to fashions, dreams, illusions of finding a

panacea for the cognitive success of the students. Although this feature developed mainly in the 70s and 80s, it has never fully subsided and it seems that teachers are always looking for recipes for successful teaching. This article examines this interesting phenomenon and gives reasons to explain why such panaceas cannot exist.

Resumen. El mundo de la enseñanza - aprendizaje de la matemática es a menudo sujeto a modas, sueños, ilusiones de encontrar una panacea para el éxito cognitivo de los estudiantes. Aunque esta característica se ha desarrollado principalmente en los años 70 y 80, nunca se ha desvanecido definitivamente y parece que los profesores siempre están buscando recetas para enseñar con éxito. En este artículo se analiza este fenómeno interesante y se dan razones para explicar que estas panaceas no pueden existir.

Sunto. Il mondo dell’insegnamento – apprendimento della matematica è spesso soggetto a mode, a sogni, a illusioni di trovare una panacea per il successo cognitivo degli allievi. Nonostante questa caratteristica si sia sviluppata soprattutto negli anni ’70 e ’80, non è mai definitivamente tramontata e sembra che gli insegnanti siano sempre alla ricerca di ricette per insegnare con successo. In questo articolo si esamina questo interessante fenomeno e si danno motivazioni per spiegare che tali panacee non possono esistere.

Keywords: tools for the teaching of mathematics, historical evolution of mathematics education, teacher training in

mathematics

Palabras clave: instrumentos para la enseñanza de la matemática, evolución histórica de la educación matemática,

formación de docentes en matemática

Parole chiave: strumenti per l’insegnamento della matematica, evoluzione storica della didattica della matematica, formazione dei docenti di matematica

0. Premessa.

«Se ci fosse un modo sicuro per fare i soldi, lo applicherei». «Se esistesse un rimedio preventivo per ogni malattia, lo userei». «Se esistesse un modo certo per vincere alla lotteria, giocherei». Illusioni? Tutti noi, persone razionali, ne siamo convinti.

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«Siccome mi hanno detto che il tal metodo è perfetto per far apprendere la matematica ai miei studenti, io lo uso senza remore e con tutta la fiducia».

E qui la razionalità crolla: ogni tanto appare un metodo, un personaggio, un’illusione nuova e trionfa la fame di ricette, di modalità sicure, di panacee.

Inutile ricordare che la ricerca didattica (quella vera, quella scientifica, quella sottoposta a prove e ad analisi critiche incrociate da parte della comunità internazionale) ha dimostrato in più modi e in più riprese che illusioni del genere sono pure fantasie e che non può esistere un metodo sicuro, anzi che dire “un metodo” è già dizione di per sé destinata all’insuccesso, perché la scelta di una sola metodologia di insegnamento preclude l’apprendimento in aula, se ci sono più individui destinati ad apprendere.

Costoro continueranno a sperperare soldi correndo dietro a catene di Sant’Antonio, a curarsi avvelenandosi con medicine improvvisate senza controlli, a buttare danaro faticosamente guadagnato in lotterie ed estrazioni assurde sognando il miracolo, …, a insegnare con un metodo senza controlli basandosi solo sul sentito dire e sul bisogno di guaritori e panacee.

Una rassegna storica delle illusioni e delle idee distorte della didattica può essere d’aiuto a superare i fraintendimenti; ma, lo sappiamo già, non servirà ai creduloni acritici, in cerca di facili ricette, i quali certo non sono abituali lettori di questa rivista, anzi di nessuna rivista.

1. Le idee illusorie.

Alcune stolte panacee che hanno indirizzato il complesso processo di insegnamento – apprendimento della matematica sono state basate su idee illusorie.

a) La logica

Il sogno. «Insegniamo la logica a tutti, fin dalla scuola dell’infanzia, calcando un po’ la mano nella scuola primaria e sviluppandola nella scuola secondaria; i ragazzi apprenderanno le basi stesse della matematica, impareranno a ragionare, a far uso di deduzione, a dimostrare».

Ci siamo caduti tutti, un’illusione che sembrava l’uovo di Colombo; ma poi si sono fatte ricerche opportune e si è visto che questa decisione relativa all’insegnamento complica l’apprendimento; nessun quattordicenne ha mai capito davvero che cosa volesse dire “implicazione materiale” in logica (in particolare: se A è proposizione falsa e B pure è falsa, come diavolo fa A→B ad essere vera?) (D’Amore, 1991).

Si è anche visto, grazie alla ricerca, che gli studenti non riuscivano ad aggrapparsi alla logica per condurre ragionamenti significativi, argomentazioni convincenti, dimostrazioni formalmente ben fondate. Anzi che molti studenti ricorrevano per la dimostrazione spontanea non alla logica a base aristotelica appresa, ma a quella indiana (nyaya) (D’Amore, 2005).

Insegnare la logica si è dimostrato errore strategico e metodologico, peggio che tempo perso, azione affettivamente dannosa perché contribuiva ad allontanare sempre più studenti dalla matematica. Recupero. Il che non vuol dire che non si debba insegnare la logica, se si vuole farlo (in modo adeguato e opportuno); essa è parte della matematica come l’aritmetica o la geometria o la probabilità; bisogna solo convincersi che non risolve alcun problema metadidattico più generale, non è una panacea che conduce da sola alla dimostrazione o, più in generale, all’apprendimento.

b) L’insiemistica

Molte argomentazioni della matematica sono di tipo collettivo, non riguardano cioè gli individui ma le classi; per esempio: tutti i quadrati sono (anche) rombi; il che si può dire: ogni quadrato è un rombo. Esse, come ci ha insegnato Leonhard Euler, si possono rappresentare con opportuni grafici che illustrano a meraviglia quella che poi è stata chiamata “teoria elementare degli insiemi”. Anzi, come hanno fatto vedere bene i Bourbakisti, la matematica può ridursi a studio di strutture e dunque

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può essere basata del tutto sulla teoria degli insiemi come linguaggio formale. Su questa strada, d’altra parte, si era già lanciato Felix Klein con le sue definizioni strutturali di geometria che riducono le varie geometrie a gruppi algebrici particolari. Dunque…

Il sogno. «Privilegiamo nelle scuole, a partire dalla scuola dell’infanzia, la teoria degli insiemi, una teoria non eccessivamente formale, e trattiamo quella e solo quella fino a che non sia così radicata nelle conoscenze dello studente da permettergli di inserire in questo contesto logico – linguistico - rappresentativo qualsiasi aspetto della matematica».

E su questo fondamento onirico si fonda l’avventura iniziata negli anni ’70 che portò il nome di

Nuova Matematica e che si basava quasi del tutto sullo studio di una teoria (che qualcuno chiamava

ingenua) degli insiemi.

Ci siamo caduti tutti, sembrava così ragionevole.

Ma poi si assisteva al fenomeno seguente: i bambini imparavano che cosa vuol dire (almeno su esempi particolari) insieme vuoto, insieme universo, intersezione, sottoinsieme, appartenenza ecc., ma non sapevano fare né addizioni né sottrazioni. E qualche insegnante chiedeva giustamente all’esperto: Ma quando potrò fare le addizioni? (Un’analisi critica dell’uso della cosiddetta “insiemistica” in aula già si rintracciava a metà degli anni ’70; si veda D’Amore, 1975).

Le ricerche condotte in tutto il mondo, anche in Italia, mostrarono che si trattava di un sogno, lontano da ogni realtà apprenditiva e la teoria degli insiemi venne così abbandonata in fretta e furia. Recupero. Il che non significa che non si possa disegnare un grafico nel quale si parli di certi insiemi di oggetti matematici, come il seguente:

Chiunque lo sa interpretare: ogni quadrato è un rombo, ma ci sono dei rombi che non sono quadrati. Vogliamo dire che non occorre sviluppare una teoria apposta per disegnare un grafico dal significato così banale e intuitivo (Brousseau, D’Amore, 2008).

Né vuol dire che sia bandita la parola “insieme” dal vocabolario scolastico, ma solo che non occorre sviluppare teorie specifiche; e che la parola “insieme” può essere rimpiazzata da “raccolta” o cose simili.

c) I diagrammi di flusso

I diagrammi di flusso sono nati nell’àmbito della rappresentazione grafica per fornire dei modelli visibili di algoritmi, procedure ordinate di qualsiasi tipo, sequenze di operazioni. In inglese si chiamano flow charts e hanno avuto un grande sviluppo soprattutto in informatica. Sono state create delle forme convenzionali per indicare la tipologia di oggetto in questione, per esempio rettangoli, rombi, esagoni, parallelogrammi, figure geometriche smussate ecc. Fra queste forme vengono poste delle frecce per indicare l’ordine da seguire nelle sequenze di operazioni o di istruzioni. Si tratta dunque di un caso specifico dei cosiddetti diagrammi a blocchi che servono ad individuare procedure.

Il sogno. «Usiamo i diagrammi di flusso per rappresentare la procedura da seguire per risolvere problemi scolastici, facendo dunque coincidere il ragionamento risolutivo con la sua rappresentazione procedurale. Questo aiuterà i bambini a riflettere sulle procedure e dunque aumenterà la capacità di risolvere i problemi».

Ci sono due punti sui quali riflettere. quadrati

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C1) Nella risoluzione di un problema, di un qualsiasi problema, c’è un momento creativo, anzi è proprio questo fatto che contraddistingue la risoluzione di un problema, rispetto alla esecuzione di una operazione o alla risoluzione di un esercizio; nessuna rappresentazione grafica, per quanto accurata, di un problema, facilita la capacità di affrontare con successo il momento creativo (strategico, dicono alcuni) da mettere in campo (D’Amore, 1995).

C2) La difficoltà di descrivere il relativo diagramma di flusso è sempre enormemente superiore a quella di risolvere un problema scolastico, a qualsiasi livello di età, specie nelle scuole primarie e medie.

Per cui, alla già ben nota difficoltà degli studenti di risolvere i problemi non si era data una risposta in termini di reale aiuto, ma di ulteriore difficoltà spesso insuperabile. Ogni bambino o ragazzo, intervistato, dichiarava di avere difficoltà con il disegno del diagramma di flusso anche quando avrebbe saputo risolvere il problema senza. Abbiamo registrazioni video (a disposizione di tutti gli interessati) di bambini che asseriscono di saper risolvere il problema ma di non saper disegnare il diagramma di flusso, essi dichiarano però che sanno di doverlo disegnare perché è quel che l’insegnante pretende (D’Amore, Fandiño Pinilla, Marazzani, Sbaragli, 2008; D’Amore, Marazzani, 2011).

Ovvio che, in tutto il mondo, questa illusione è stata abbattuta e il ricorso a questi strumenti è stato totalmente abbandonato (D’Amore, 2014).

Recupero. Il che non vuol dire che non si possano usare sequenze per indicare l’ordine delle operazioni da fare, anzi talvolta è assai utile. Ci spieghiamo con un esempio.

Sappiamo tutti che il bambino di scuola primaria tende ad usare il segno di uguaglianza in senso procedurale e non relazionale, come è invece auspicato dall’azione di insegnamento – apprendimento (Camici et al., 2002).

Ciò significa che vari bambini risolveranno il problema:

Un cartolaio acquista 12 scatole di penne che contengono ciascuna 6 penne; ogni penna costa 2 euro. Quanto spende il cartolaio?

nel modo seguente: 12×6=72×2=144 invece che: 12×6=72 72×2=144

perché ritengono che il segno = significhi “dà”, indichi cioè una procedura.

[Naturalmente, sono possibili varie interpretazioni del fenomeno; esso è sempre stato spiegato, appunto, con un uso comunicativo, mentre potrebbe invece essere il risultato di una oggettivazione da parte del bambino. Dunque potrebbe essere spiegato come una rappresentazione abbreviata o condensata del procedimento seguito per giungere alla risposta. Le due espressioni sono simili dal punto di vista semiotico ma non dal punto di vista semantico. Le due funzioni, oggettivazione e comunicazione, sono fondamentalmente distinte e portano a giudizi assai diversi per quanto concerne la valutazione della produzione dell’allievo (Duval, 1995a, b)].

Più ricercatori di tutto il mondo hanno suggerito allora di proporre ai bambini di usare una freccia al posto del segno = per appropriarsi del significato di uguaglianza un po’ alla volta (Boero, 1986; analisi critiche più moderne in: D’Amore, 2014).

Dunque, è opportuno far prendere coscienza al bambino del fatto che si tratta di eseguire due operazioni e che la seconda è consequenziale alla prima, nella risoluzione del problema. Forse l’uso di un grafico opportuno, nel quale appaia una freccia, sarebbe utile.

d) La ricerca di algoritmi e ricette per risolvere problemi

Più in generale, sono fallimentari tutti i sogni creati nel tempo come aiuto sicuro per far sì che i bambini risolvano problemi scolastici con successo,

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sta attento come se lo stare attento fosse ordinabile dall’esterno o condizione sufficiente per l’apprendimento

leggi bene il testo come se il testo non potesse essere disegnato o comunque altrimenti rappresentato; e poi il “leggere bene” non ha un significato preciso; il bambino potrebbe leggere bene il testo, parola per parola, e non capirne il senso complessivo leggi bene la domanda come se la domanda fosse sempre chiara,

esplicita o presente

cerchia i dati come se i dati fossero sempre tutti utili, tutti presenti, tutti numerici

sottolinea la domanda come se la domanda avesse bisogno di rilievo; ci sono poi problemi impossibili nei quali sottolineare la domanda porta fatalmente a insuccesso

cerca la parolina-chiave che ti aiuta a capire la parolina-chiave è un tranello diabolico; gli studi seri di didattica hanno mostrato come questo sia fallimentare; prendiamo questo esempio: “Ho 3 palline ma per giocare me ne servono 7; quante ne devo aggiungere a quelle che ho già?”; la famosa “parolina” è “aggiungere”? E allora il bambino eseguirà una addizione e non l’auspicata sottrazione

qual è l’operazione da fare (o il procedimento da seguire)

come se fosse l’operazione da eseguire (o il procedimento da seguire) a caratterizzare un problema

cerca di capire se il numero che devi trovare deve aumentare (e allora si tratta o di addizione o di moltiplicazione) oppure diminuire (e allora …)

le operazioni che aumentano o che diminuiscono sono uno dei tranelli più aberranti che l’insegnante può tendere ai proprio allievi; ecco una moltiplicazione che non aumenta: 12×0,5

e altre indicazioni simili.

(Su tutto ciò, si veda: Brousseau, D’Amore, 2008).

e) Il laboratorio di matematica

Negli anni ’60 e ’70 si è sviluppata l’idea di non limitare l’insegnamento – apprendimento alla sola aula e alla sola teoria, ma di estenderlo al “fare”, anche per quanto concerne la matematica. Si trattava di ideare attività manuali nelle quali il concetto matematico da raggiungere veniva modellizzato concretamente e lo studente era invitato da solo o in gruppo ad entrare in un vero e proprio atelier, dotato di strumenti da bricolage, per realizzare manufatti che assolvevano a certi compiti e che erano illustrazioni concrete di idee matematiche.

Il sogno. «Se lo studente fa, costruisce, la matematica della e nella realtà, quel che tale matematica porta con sé costituirà un efficace apprendimento. Vale senza dubbio il celebre motto: Se faccio, capisco».

Si studiarono allora mille attività che realizzassero questo obiettivo che, a prima vista, sembra non riguardare la matematica, di per sé astratta. (Per esempio, Caldelli, D’Amore, 1986; D’Amore, 1990-91).

Sulla base del laboratorio, poi, si proponevano mostre per rinforzare la motivazione e, allo stesso tempo, per rendere partecipi gli studenti del processo di diffusione degli apprendimenti.

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Nei primi anni ’80 molti Provveditorati agli Studi, sensibili a questo genere di esperienze didattiche, concedevano un cosiddetto “distacco”; alcuni insegnanti cambiavano il loro status docente e diventavano esperti di laboratorio. Ciò avvenne soprattutto a Bologna città e provincia (Imola, Castel San Pietro) e Lugo (Ravenna).

Il laboratorio, nella nostra concezione, è un luogo diverso dall’aula, dotato di tutti gli strumenti necessari, nel quale c’è un apposito tecnico che aiuta i ragazzi dal punto di vista concreto; nella discussione fra insegnante e allievi, in aula, viene messo in evidenza un problema concettuale matematico, viene interpretato da un punto di vista concreto, si trasforma nel progetto di un manufatto che realizzi certe condizioni e che risolva certi problemi effettivi. Da solo o in gruppo, lo studente, in certi orari, abbandona l’aula e si trasferisce in laboratorio dove il progetto deve essere trasformato in oggetto concreto. Il manufatto finito viene discusso dal gruppo e con il tecnico e poi, superato l’esame, viene portato in aula, proposto all’insegnante e ai compagni di classe dal punto di vista matematico.

I risultati erano considerati eccellenti e dunque il consenso attorno a questa modalità era totale. Ma, già a metà degli anni ’80, le nostre analisi didattiche e le osservazioni empiriche in aula cominciavano a mostrare i limiti di questa metodologia didattica (D’Amore, 1988). Come già più volte abbiamo detto, l’unicità metodologica non può portare, per sua stessa natura, a un successo apprenditivo totale. Nel laboratorio si manifestavano casi di rifiuto della metodologia, per esempio da parte di studenti poco inclini al bricolage; si rilevavano situazioni analoghe a quelle del contratto didattico in aula; una volta costruito l’oggetto – modello, si riscontravano difficoltà a reinterpretarlo sulla base del problema matematico che l’aveva fatto costruire; e mille altri problemi didattici. Iniziammo dunque a rivedere questa metodologia didattica, a denunciarne le carenze, a mostrarne i lati deboli. Oggi, il laboratorio di matematica ancora esiste, anche se con mille sfaccettature diverse; per esempio c’è chi non ritiene necessario (come invece è per noi) un luogo diverso dall’aula, ma solo un tempo diverso; c’è chi non ritiene necessario (come invece è per noi) un tecnico che non coincida con l’insegnante (ma allora il contratto didattico a volte prende il sopravvento). Il laboratorio esiste, tanto è vero che si tratta di una eccellente modalità alla quale si fa ancora riferimento. Ma pochi sanno degli studi critici al riguardo e ancora qualcuno pensa al laboratorio come a una panacea, una metodologia del tutto positiva.

Recupero. Continuiamo a credere che pensare a un oggetto matematico astratto dal punto di vista concreto, per illustrare con manufatti idonei certe proprietà, sia tutto sommato positivo; ma riteniamo pure che l’insegnante che reputa di voler sfruttare tale metodologia debba essere reso consapevole dei limiti di essa (D’Amore, Marazzani, 2005).

2. Gli strumenti illusori.

Alcune stolte panacee che hanno indirizzato il complesso processo di insegnamento – apprendimento della matematica sono state basate su strumenti illusori. Ne vediamo solo alcuni.

a) Le reglettes o numeri in colore

Abbiamo già avuto modo di evidenziare le manchevolezze didattiche che si nascondevano dietro questi strumenti, che pure hanno goduto di vasta popolarità ed hanno avuto successo intercontinentale. L’idea di aggiungere alle già tante varianti semiotiche relative ai numeri naturali quella cromatica, piacevole e dunque attraente, nasconde insidie non banali (Locatello, Meloni, Sbaragli, 2008).

La prima è che non c’è alcuna logica cromatica nei modelli delle operazioni elementari; i colori sono del tutto casuali, né potrebbe essere altrimenti.

La seconda è che i numeri che si citano rappresentano misure lineari, altezze di parallelepipedi che hanno tutti la stessa base, ma differenti altezze; ma non c’è né un’interpretazione cardinale né una

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ordinale dei numeri (a meno di forzature innaturali); dunque si perdono o si dimenticano significati importanti che formano parte della costruzione cognitiva dell’insieme dei numeri naturali.

La terza è che non c’è alcuna rappresentazione del numero zero, se non l’assenza dell’oggetto; dunque non si può rappresentare 7+0; il numero 0 è bandito da questo strumento.

Recupero. Il che non significa che non si debbano usare le reglettes o numeri in colore, ogni strumento ha delle sue potenzialità positive, in questo caso il controllo diretto, la gradevolezza dell’oggetto in sé, la possibilità di fare addizioni per semplice accostamento; l’importante è non cadere nell’inganno illusorio della panacea: questo strumento ha risvolti assai negativi che è bene conoscere, bisogna non idealizzare lo strumento come fosse il migliore possibile, come fosse la soluzione di tutti i problemi. Perché così non è. Dunque, è necessario conoscere bene vantaggi e svantaggi, per usare quello strumento, qualsiasi strumento, con acutezza e capacità critica. Occorre dominare lo strumento e non esserne dominati.

b) Gli abaci

La prima volta che abbiamo visto usare un abaco in una scuola primaria, primi anni ’70, ci venne presentato come uno strumento per passare in modo quasi automatico da una base numerica all’altra; non per nulla si chiamavano allora “abaci multibase”. C’era allora la folle idea che, per poter dominare i nuovi strumenti informatici che cominciavano a fare il loro ingresso nelle aule, si dovessero dominare più basi numeriche: la dieci, ovviamente, ma anche la quattro, la sei, la due … Sogno. «Per poter usare i PC (qualcuno diceva: per poter programmare), i bambini devono saper gestire i calcoli in base due» (il che spiega anche il momentaneo successo del cosiddetto minicomputer di George Papy, un quadrato di cartoncino diviso dalle due mediane in quattro quadratini che davano valori diversi alle pedine poste in ciascuno di essi).

Ovviamente oggi sappiamo che tutto ciò è straordinariamente e totalmente inutile; ma resta la proposta culturale che sempre ci viene suggerita ed evidenziata per controbattere alle nostre perplessità: l’abaco è un buon strumento per far sapere ai nostri allievi che non esiste solo la base dieci. Fin da allora, abbiamo replicato agli insegnanti (e continuiamo a farlo) che ci sembra assai più interessante far notare che esistono sistemi numerici posizionali e non posizionali, perché questo mostra agli allievi quanto importante e geniale sia l’idea del sistema posizionale che genera, per esempio, algoritmi di calcolo semplici e rapidi, per eseguire i quali non servono abaci, sassolini o altri strumenti concreti, ma solo un foglio di carta o una penna. Si provi infatti ad eseguire la banale moltiplicazione 14×6 nel sistema romano: XIV×VI …

A questo punto, l’abaco diventa uno strumento sì obsoleto, ma curioso, interessante, purché serva non solo a rappresentare i numeri, ma anche ad eseguire (tentare di eseguire) le operazioni.

Tra le meraviglie che un sistema posizionale è in grado di creare e proporre, c’è la macchina calcolatrice; noi tutti la usiamo in base dieci, anche se al suo interno il funzionamento è in base due, ma noi usufruttuari non ce ne accorgiamo affatto. Noi siamo sempre stati fautori consapevoli della opportunità di far usare in aula la macchina calcolatrice (Fandiño Pinilla, 2008).

Dunque, l’abaco è uno strumento semplice e accattivante che però va ripensato nella sua funzione didattica, un oggetto storico, collocato nel tempo, interessante, ma non certo panacea. Si può usare, male non fa, soprattutto per mostrare il significato del valore posizionale delle cifre all’interno dei numerali che esprimono numeri naturali: ai bambini risulta subito evidente. Ma deve essere oggetto concreto, da toccare con le mani, non solo un disegno alla lavagna o sul libro di testo.

Ma qui s’annida un altro strano modo di vedere le cose; sulla prima colonna a destra dell’abaco dei numeri naturali, quella delle unità, che può contenere da zero a nove palline forate (o gettoni o fiches o altro), si mettano palline incolori o multicolorate o bianche o nere a caso, senza dare importanza ai colori. Abbiamo ahinoi sentito dire che le palline delle unità devono essere bianche e quelle delle decine rosse: ciascuna pallina rossa vale dieci bianche. Questa strampalata idea è contraria al senso stesso del valore posizionale delle cifre; sarebbe come dire che nel numerale 322 la cifra 2 al centro va colorata in rosso mentre la cifra 2 a destra in nero. Ma il bello del significato del valore posizionale è che una cifra, la stessa cifra, ha valore diverso a seconda del posto, non del

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colore. Supponiamo che un bambino al buio prenda in mano tre palline e le stringa nel suo pugno. Accendiamo la luce. Alla domanda: quante palline hai nella mano?, la risposta ragionevole attesa è: “Tre”, non è, non deve essere: “Non lo so perché dipende dal colore”.

Non capiremo mai perché ci si inventino idee bizzarre, contrarie alla matematica, che complicano cose semplicissime. Io infilo delle palline forate una alla volta nella prima colonna a destra dell’abaco; fino a nove, va tutto bene; quanto tento di mettere la decima, so già che non ci riuscirò perché la colonna è troppo corta; allora tolgo tutte le nove palline già messe e ne metto una sola nella seconda colonna, contando da destra, quella delle decine. Quella pallina rappresenta dieci palline non in base a un colore, ma in base alla posizione.

L’abaco, dunque, con tutti i suoi annessi e connessi, va ripensato daccapo; abbiamo cercato di evidenziare gli aspetti positivi e negativi del suo uso scolastico. Quelli negativi sono tanti.

Anche nuove versioni dell’abaco, che abbiamo visto apparire negli ultimi lustri a più riprese, hanno certamente potenzialità positive, ma non devono illudere troppo; sono strumenti, null’altro, non solo risolutivi, non costituiscono panacee. Ben vengano, se sono tenuti sotto controllo critico dal punto di vista dell’apprendimento, ma non devono costituire nuovi miraggi o creare nuove ricette.

Recupero. Ciò non significa che non si debba usare l’abaco, dunque, antico o moderno, nelle sue varie versioni; va bene usarlo, ma con attenzione critica e, soprattutto, non pensandolo come panacea.

c) I blocchi logici

Uno dei due autori di questo scritto (lo chiameremo B) ha conosciuto Zoltan Dienes a Cognola di Trento il 7 ottobre 1980 durante un convegno internazionale indetto dal CNR Italia e dall’UMI (Unione Matematica Italiana). Dienes era uno dei più noti studiosi di insegnamento della matematica del mondo intero. B ebbe poi modo di frequentarlo, perché Dienes divenne il direttore dell’IRPA (Istituto Regionale di Psicopedagogia dell’Apprendimento), con sede a Bologna, Istituto voluto da Angelo Pescarini, studioso di insegnamento della matematica, docente universitario di matematica. Nell’IRPA, B lavorò molto a lungo, con Francesco Speranza, come coordinatore della sezione matematica. Il modello dell’IRPA venne poi assunto dal Ministero Italiano della Istruzione e della Ricerca per creare gli IRRSAE (Istituti Regionali di Ricerca, Sperimentazione e Aggiornamento Educativi), un’idea geniale destinata però all’involuzione; crediamo di poter affermare che essi ebbero il loro momento d’oro quando, promulgati i cosiddetti Nuovi Programmi Ministeriali nel 1985, agli IRRSAE venne affidata una formazione in servizio capillare di tutti gli insegnanti di scuola primaria, un evento unico nella storia della scuola italiana.

Le idee di Dienes circolavano con estrema disinvoltura non solo nelle scuole italiane ma anche di vari Paesi del mondo; ma la critica serrata e perfetta che venne condotta da Guy Brousseau a metà degli anni ’80 (Brousseau, 1986; si veda anche: D’Amore, Fandiño Pinilla, Marazzani, Sarrazy, 2010) stroncò ogni illusione che si era creata attorno alle proposte di Dienes, non solo i suoi famosi e onnipresenti blocchi logici, ma proprio tutta la sua costruzione teorica. Brousseau arrivò a definire un “effetto Dienes” in forma del tutto negativa, con una analisi che era talmente potente ed evidente da eliminare ogni possibilità di reazione (D’Amore, Fandiño Pinilla, Marazzani, Sarrazy, 2010). Alla fine degli anni ’80, la stella Dienes era definitivamente tramontata; i nuovi didatti, sulla scia dello studio della teoria delle situazioni, avevano già eliminato ogni riferimento a quelle idee, a meno che non si trattasse di fare una storia della didattica della matematica (l’idea di didattica A, come “ars docendi” ha proprio il suo fondamento nelle teorie di Dienes) (D’Amore, 1999).

Ma alcuni valorosi e generosi vecchi paladini del famoso matematico ungherese resistevano e non credevano alla ineluttabilità degli eventi; tanto che il giorno 8 maggio 1993, su iniziativa di alcuni direttori didattici romagnoli (soprattutto forlivesi e ravennati), si tenne a Forlì, in una elegante sala del centro, quello che gli organizzatori avrebbero voluto fosse un duello a sangue fra il vecchio eroe dei blocchi logici e un giovane esponente di questa nuova didattica dell’apprendimento che, nata in Francia, aveva fatto piazza pulita di tutte le illusioni e le panacee, creando una disciplina scientifica. Quegli organizzatori scelsero B per il duello cruento, credendo, sperando, favorendo, una netta

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vittoria del vecchio eroe della didattica come Ars e una netta sconfitta a furor di popolo dell’esponente della didattica B, l’epistemologia dell’apprendimento della matematica. Le età dei contendenti erano notevolmente diverse: 77 anni l’uno, 46 l’altro. La sala era strapiena di due tipologie di pubblico: insegnanti di matematica soprattutto di scuola primaria di una certa età e giovani studenti universitari di matematica, indirizzo didattico (come si diceva allora) che seguivano i corsi di didattica della matematica del contendente più giovane, B.

Gli organizzatori non avevano tenuto conto di un fattore importante; Dienes era, è, una persona di grande intelligenza, che aveva studiato le accuse rivolte alla sua teoria e le aveva capite.

Per motivi di prestigio e di età, la prima battuta del duello venne affidata a Dienes, il quale spiegò quale era stato il suo sogno nel creare la propria teoria, quali erano state le sue aspettative nel creare i suoi strumenti, in particolare i blocchi logici; ma spiegò anche che si era reso conto da solo (fosse vero o no, fu un gran bel colpo teatrale da parte sua) della debolezza cognitiva del suo lavoro; raccontò che, di fronte all’uso che dei suoi strumenti vedeva fare, si era da solo messo le mani nei capelli ed aveva singhiozzato: «Dio mio, che cosa ho combinato». E il gesto teatrale fu assai eloquente.

La sorpresa fu così forte che dai giovani si levò uno spontaneo applauso di stima, seguito poi da imbarazzo e sorpresa da parte degli organizzatori e degli insegnanti più anziani presenti; ma non vi fu sorpresa da parte di B perché, proprio poco prima dell’inizio, questi era stato avvicinato dalla moglie di Dienes la quale gli aveva chiesto di non essere eccessivamente brutale, consapevoli entrambi come erano che la battaglia era persa in partenza.

Pochi conoscono nella sua interezza questa storia che non poteva più restare segreta, ed è per questo che ci siamo decisi a raccontarla.

I blocchi logici hanno avuto una fortuna mondiale, sono stati usati da quasi una generazione di studenti; ma nessuna scatola preconfezionata può produrre apprendimento; può produrre apprendimento locale e circostanziato, questo sì; ma, come abbiamo già scritto a lungo in molte altre occasioni, il transfer cognitivo non è automatico e gli apprendimenti legati ad un ambiente prefabbricato e precostituito, se avvengono, avvengono in esso, perché l’apprendimento dell’essere umano è situato e il suo transfer o la sua generalizzazione è compito tipico della didattica, non è spontaneo. I “materiali strutturati”, come vennero chiamati nella loro generalità, se producono apprendimento, lo producono interno a essi stessi, localmente, dunque servono a poco, se non a nulla, o sono addirittura controproducenti.

Un bambino impara certo, a modo suo, a riconoscere che “l’insieme dei tondi gialli è un sottoinsieme dei tondi”, ma questo non gli serve a concludere spontaneamente, come avrebbe voluto la mathématique vivante di Dienes, che “l’insieme dei quadrati è un sottoinsieme dell’insieme dei rombi”; questa affermazione va appresa a parte, non è conseguenza diretta, non si basa su quel che il bambino ha appreso giocando - operando con i blocchi logici. Tanto meno, poi, il sogno, che si fa fatica a credere davvero teorizzato, che, giocando con 4 note musicali e applicando loro una certa qual operazione binaria interna, a 7 anni, il bambino davvero “strutturasse la sua mente” per imparare il concetto di gruppo astratto in algebra strutturale, in modo che fosse già disponibile ad imparare le strutture algebriche dello stesso tipo, come quella formata dalle isometrie con l’operazione binaria di composizione. A rileggere oggi questi sogni, non si riesce a credere che, davvero, qualcuno abbia potuto ragionevolmente pensare che questo fosse possibile. Ma lo studio di Brousseau (1986) aveva già perfettamente messo a nudo la vacuità di tutto ciò. Dunque, i blocchi logici e tutti quegli strumenti che andarono sotto il nome di materiale strutturato sono stati sottoposti a critiche scientifiche severe che ne hanno rivelato i profondi difetti. Oggi molti usano i blocchi logici come componenti per costruire ambienti, città, strade, casette … (D’Amore, 2002).

Recupero. Il che non vuol dire che non si possano usare, basta che non siano confusi con panacee inesistenti e che chi li fa usare ai propri allievi lo faccia cum grano salis, consapevole dei limiti, senza vacue illusioni. Tutto quel che di matematica si può fare con i blocchi logici si può fare con foglie, tappi di bottiglia, soldatini, figurine.

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d) In generale, strumenti, strumentini, materiali strutturati già predefiniti

Lo stesso discorso si può fare relativamente a strumenti e strumentini che ancora qualcuno (forse in buona fede, ma solo per ignoranza scientifica) inventa e propone, accompagnati da sogni illusori basati sul nulla e legati alla facilità con la quale certi insegnanti si lasciano abbindolare da speranze create grazie a manufatti che promettono miracoli.

Strumenti così, semplicemente, non esistono, non possono esistere.

Recupero. Il che non vuol dire che non debbano essere usati in assoluto; si possono usare, basta essere consapevoli che non sono, che non possono essere, panacee.

e) Uso della storia della matematica nell’insegnamento della matematica

Riteniamo che, così come la letteratura si studia attraverso la storia, possa essere interessante dare informazioni di carattere storico agli studenti. C’è una bella differenza fra l’italiano di Dante Alighieri e quello di Italo Calvino. Sembra sempre che la matematica sia astorica, che Pitagora, Cartesio e Peano siano colleghi contemporanei, mentre fra il primo e l’ultimo c’è un intervallo di 2500 anni il che, abbiamo visto, colpisce molto non solo gli studenti.

Sempre dal punto di vista dell’apprendimento dell’allievo, siamo stati partecipi attivi del fatto che molte questioni matematiche possono facilmente e significativamente essere proposte agli allievi chiamando in causa fatti storici e abbiamo fortemente contribuito a creare materiale adatto a questa trasposizione didattica (solo come esempio: D’Amore, Speranza, 1989, 1992, 1995; ma i contributi in tal senso di vari autori sono molti di più).

Anzi, abbiamo teorizzato il fatto che l’uso della storia possa avvenire su tre piani distinti: epistemologico - critico, cronologico e aneddotico, con funzioni didattiche profondamente diverse (D’Amore, 2004).

Sul piano della formazione degli insegnanti, poi, abbiamo sempre insistito sull’importanza di una formazione:

in prima battuta disciplinare (apparteniamo ancora alla vecchia guardia, di coloro che ritengono che: non può insegnare la disciplina X chi non è ottimo conoscitore di X),

in seconda battuta didattica (conoscere la disciplina X è condizione necessaria ma non sufficiente per insegnare X: oggi esiste la didattica disciplinare di X),

in terza battuta storica ed epistemologica.

Questa ultima, che qualcuno non capisce, non solo è necessaria per motivi culturali (che a noi sembrano ovvii) ma anche professionale: la didattica della matematica e più precisamente la teoria degli ostacoli (D’Amore, 1999) ha ampiamente mostrato l’esistenza di ostacoli epistemologici all’apprendimento della matematica (D’Amore, Radford, Bagni, 2006; D’Amore, Fandiño Pinilla, Marazzani, Sbaragli, 2008); se davvero si vuol aiutare uno studente in difficoltà e se la natura dell’ostacolo è di tipo epistemologico, la conoscenza della storia (anche epistemologica) dell’oggetto matematico che si è trasformato in ostacolo all’apprendimento è necessaria.

Il sogno. «Se per introdurre ogni oggetto della matematica che si vuol far apprendere si dedica tempo alla storia di esso o almeno al personaggio umano che l’ha creato, allora si attiverà interesse verso l’oggetto ed esso verrà appreso con assoluta certezza».

Pur essendo strenui difensori dell’uso (almeno potenziale) della storia nel processo di insegnamento - apprendimento della matematica, dobbiamo denunciare il fatto che questa ingenua equazione non funziona. Certo, avere sempre a disposizione un contesto storico male non fa, anzi produce cultura e potenzialità accattivante, ma la certezza di attivare l’interesse e di raggiungere di conseguenza l’apprendimento non sono così banalmente legate a questi fattori e a questi contenuti.

Recupero. Con queste limitazioni ragionevoli, riteniamo tuttavia che la conoscenza della storia e dell’epistemologia della matematica siano necessari agli insegnanti, ma non è detto che debbano necessariamente essere usati come strumento didattico esplicito con gli studenti; se si decide di farlo, occorre molta cautela. Di per sé, questo strumento metodologico costituisce uno straordinario strumento, ma non costituisce una panacea.

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f) Adozione di curricola o di progetti stranieri

Sogno. «La X (nome di un Paese straniero) arriva sempre prima alle prove PISA (o cose analoghe: gli studenti sono più preparati, la scuola funziona meglio, …). Dunque potremmo adottare il curricolo di X anche nel nostro Paese».

Sogno analogo. «Il Progetto Y è bellissimo, nel Paese che l’ha prodotto funziona benissimo. La matematica che contiene è bella, moderna, efficace, semplice e concreta. Lo traduciamo nella nostra lingua e lo introduciamo anche da noi».

Questi sogni, vagamente esterofili, pur nelle loro ovvie ed evidenti differenze, sono analoghi.

In certi Paesi del mondo, che si autoconsideravano di livello sociale inferiore a X, venivano chiamati “esperti” Xesi, ci si affidava a loro per la formazione degli insegnanti sui nuovi curricola e si assorbivano le loro esperienze. Potremmo fare vari esempi concreti, con i quali abbiamo avuto a che fare, ma li risparmiamo.

Questo atteggiamento è sempre stato fallimentare.

Il curricolo matematico di un Paese esprime, deve esprimere, anche la storia sociale, la storia culturale, di quel Paese, non può essere asettico, aculturale, astorico. Non abbiamo mai avuto conoscenza di un solo esempio positivo.

Analogamente, relativamente ai Progetti stranieri. In Italia sono stati tradotti i progetti RICME (ungherese) (nel 1976), Nuffield (dal 1967) e School Mathematics Project (dal 1972) (inglesi), Scottish Mathematics Project (fu tradotto solo in minima parte negli anni ’70) e Fife Project (1978) (scozzesi) e tanti tanti altri; affascinanti, stimolanti, curiosi, ma poi abbandonati perché lontani dalla sensibilità dei docenti.

Un Progetto rispecchia l’identità culturale, matematica, epistemologica del Paese in cui nasce, la pratica didattica di quel Paese, un certo modo di pensare. Certo, qualcosa di buono, uno spunto, si può sempre cogliere. Per esempio, in Italia si definisce l’angolo come parte di piano illimitata compresa tra (qualsiasi cosa ciò significhi) due semirette che hanno in comune l’origine, e sappiamo che questo crea enormi difficoltà di costruzione cognitiva da parte degli allievi; nel Progetto SMP l’angolo è definito operativamente come rotazione di una semiretta rispetto ad un’altra fissa, avendo le due semirette l’origine in comune; quel che posso fare, come insegnante, è inserire anche questo modo di proporre l’oggetto in aula; due modalità cattureranno la capacità cognitiva dei miei allievi più di quanto possa fare una sola.

Ma ritenere che un progetto importato totalmente, lontano dalle mie abitudini docenti, solo perché straniero, solo perché fa parte di un complesso ben articolato, funzionerà di sicuro, è a dir poco ingenuo.

Un progetto didattico, un curriculum devono essere condivisi, pensati, costruiti di comune accordo, devono rispettare il modo di pensare e d’essere professionista di ogni singolo insegnante.

Recupero. Il che non vuol dire che un curriculum straniero o un progetto altrui non possano dare delle idee concrete (metodologiche e concettuali) all’insegnante, anzi, lo faranno di sicuro. Ma affidarsi ad essi con fede ingenua e acritica, certo non aiuta il processo professionale di insegnamento – apprendimento. La conoscenza di curricola e progetti stranieri è certo di grande aiuto critico perché apre al mondo e di certo suggerisce idee stimolanti. L’uso acritico non può essere una panacea.

Una nota a f)

Confermiamo che, a nostro avviso, un curricolo o un progetto sono l’espressione di una cultura locale, quella di un Paese, e ne rappresentano in qualche modo la storia.

Ma i risultati della ricerca in didattica della matematica, invece, sono universali. Il contratto didattico, il fenomeno della formazione di misconcezioni, l’inadeguatezza di certi modelli intuitivi rispetto ai modelli formali, le difficoltà di gestire trasformazioni semiotiche, il problema dell’apprendimento della generalizzazione etc., sono l’evidenziazione di problematiche di carattere apprenditivo che si possono pensare come comuni a tutti i Paesi.

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Alcuni studiosi, recentemente, hanno voluto mettere in dubbio questa ultima frase, proponendo che gli studi di didattica della matematica debbano essere locali e dunque focalizzati al Paese, alle sue tradizioni, alla sua storia culturale. Noi non escludiamo che ci possano essere considerazioni di questo tipo da fare (anzi, ne siamo consapevoli, anche in accordo con: D’Ambrosio, 2002); ma, in generale, l’interesse della didattica della matematica è generale e non locale.

3. Alcune affermazioni per concludere.

Il bisogno di ricette uccide la professionalità degli insegnanti.

Quel che non capiamo è perché ci debba essere questa affannosa ricerca di ricette. Il processo di insegnamento – apprendimento è complesso, inutile farsi illusioni. E poi, ogni studente apprende a modo suo (Fandiño Pinilla, 2001).

Nessuno può insegnarti a insegnare, la tua classe è un unicum.

Bisogna diffidare, di norma, da chi si propone come qualcuno in grado di insegnare a insegnare. Il compito della ricerca in didattica della matematica non è questo. Al contrario: lasciando piena libertà al professionista dell’educazione, cioè all’insegnante, di usare le metodologie che crede (al plurale), il compito della ricerca in didattica della matematica è di mostrare e proporre strumenti concreti per interpretare le situazioni d’aula il cui schema, assai più complesso di quel che potrebbe apparire, è formato da: insegnante, allievo, Sapere (D’Amore, 1999; D’Amore, Fandiño Pinilla, 2002).

L’uso di una sola metodologia di insegnamento è fallimentare.

Siccome ogni studente apprende a modo suo, l’uso di una sola metodologia o modalità didattica non può che avere successo su alcuni individui, ma certo non su tutti. Usando più modalità si aumenta la possibilità di favorire l’apprendimento del maggior numero possibile di studenti presenti in aula (D’Amore, 1999).

Solo la ricerca scientifica valida i risultati.

Mai fidarsi di chi non sottopone a giudizio scientifico serio e pertinente ciò che presenta come proposte di insegnamento. Non ci si può fidare di un medico esterno al servizio sanitario o estraneo alla comunità scientifica solo perché ha un sorriso ammaliante. Meglio fidarsi di un professionista serio, che segue corsi di formazione in servizio, che sappia mettere la sua competenza e la sua esperienza al vaglio della comunità scientifica. Il paragone è ovvio.

Le analisi didattiche serie e scientifiche mostrano (talvolta a sorpresa) che certe attività date per scontate nascondono problemi cognitivi.

Ci limitiamo solo a un esempio. Nella scuola primaria si usa la retta o linea dei numeri naturali; c’è chi la fa partire da 0, chi da 1. Essa è talmente diffusa che si finisce con il credere che sia un modello perfetto dei numeri naturali (il cui insieme indichiamo con N). Ma gli studi analitici, per esempio quelli condotti dalla scuola di Athanasios Gagatsis (per esempio: Gagatsis, Shiakalli, Panaoura, 2003; Elia, 2011; ma i lavori critici sono tanti), hanno mostrato varie difficoltà e incongruenze.

Cominciamo a pensare al fatto che il modello di N rappresentato dalla linea dei numeri è solo un modello ordinale, non cardinale, dunque non rappresenta una parte cospicua dei significati intuitivi di N; in altre parole, quel modello da solo non è abbastanza ricco. Esso rappresenta più una successione ordinata che non un insieme numerico i cui oggetti sono in grado di rispondere alla domanda: “Quanti sono?”.

(13)

E poi: perché le distanze fra un numero n e il suo successivo n+1 devono essere uguali? Non c’è motivo al mondo, se si pensa che, in N, fra n e n+1 non c’è nulla, c’è il vuoto, l’insieme N ordinato è discreto. C’è poi il problema che i numeri naturali servono anche nel campo della misura; in tal caso la linea dei numeri si può pensare come il bordo scritto di un righello, per cui i numeri indicano distanze dall’estremo 0. Una confusione incredibile che l’adulto forse domina (anche se abbiamo qualche dubbio) ma il bambino no.

E poi c’è il problema delle operazioni. In N l’operazione 3+5 ha come modello intuitivo, spesso proposto dallo stesso insegnante come unico, il “mettere insieme delle cardinalità”, la cardinalità 3 (un insieme di 3 palline) con la 5 (un altro insieme di 5 palline). Ma nella linea dei numeri questo modello intuitivo è stravolto e quello corretto è di tipo ordinale: partire da 3 e fare 5 passi, o salti, verso destra. 3+5 non andrebbe nemmeno più scritto così, quasi non ha senso scritto così. Si tratta di un nuovo modello, assai poco intuitivo, che funziona solo perché si è supposto, alla base, un isomorfismo fra i modelli cardinale e ordinale. Molti bambini, per esempio, sono in difficoltà nell’interpretare sulla linea dei numeri una operazione come 5+0 che, per loro, non ha senso. Per non parlare poi della sottrazione, che crea problemi inattesi che sono sotto gli occhi di tutti gli insegnanti. Se poi la linea numerica è fatta iniziare da 1, allora tutto ciò non solo perde senso, è addirittura sbagliato.

Abbiamo preso come esempio questo modello di N tanto diffuso, per far capire che strumenti che sembrano inoffensivi e ingenui, adottati da tutti, nascondono invece insidie profonde; lo abbiamo scelto proprio per la sua diffusione, per suggerire attenzioni critiche a tutti gli insegnanti, professionisti della formazione dei cittadini di domani.

Che cosa sarebbe poi la moltiplicazione sulla linea dei numeri? Come si passa dalla addizione alla moltiplicazione? Di solito ci si ferma a addizione e sottrazione proprio perché il modello linea dei numeri non permette di andare avanti; e, sembra ovvio, un modello che non permette di andare avanti, evidentemente non è un gran modello.

Recupero. Il che non significa che non si debba usare questo modello di N, significa solo che, chi lo usa, lo deve guardare con molta attenzione critica e non credere che sia didatticamente indolore. (In generale su questo punto si veda: D’Amore, 1999).

4. Il nodo centrale: la formazione dei docenti di matematica

Formare insegnanti di matematica di qualsiasi livello scolastico, come abbiamo già detto, comporta formazione matematica (in primis), formazione in didattica della matematica, formazione in storia ed epistemologia della matematica; lo abbiamo più volte ribadito. Ma tutto quanto abbiamo qui voluto evidenziare rientra in una capacità critica che deve diventare sensibilità del futuro docente. Solo questa sensibilità dovrebbe per sempre eliminare la corsa affannosa alla ricerca di una ricetta; e bandire per sempre dal mondo della scuola coloro che le propongono.

Ma la sensibilità non si può insegnare, dipende in modo specifico dalla personalità professionale del docente. Continuando nell’esempio della medicina, che ogni tanto proponiamo, tutti noi auspichiamo di avere a che fare con medici non solo competenti, ma anche sensibili.

5. Conclusione.

Abbiamo voluto scrivere queste poche pagine e in questa forma così colloquiale solo per contrastare l’insorgere di pseudo “novità didattiche” che ogni tanto appaiono e che fanno felici gli insegnanti più ingenui, alla caccia di facili ricette.

(14)

Il nostro mestiere di formatori di esseri umani non è facile, non è riconducibile a ricette, è un mestiere creativo che ogni giorno ha bisogno della nostra capacità critica, sempre vigile e attenta. Se fosse riconducibile a ricette, chiunque lo potrebbe fare, e con successo. Eppure ci irrita quando un estraneo al mondo della formazione ci critica e ci suggerisce metodi diversi o tempi diversi da quelli che noi riteniamo congeniali. Se l’insegnamento fosse solo applicazione di ricette, chiunque potrebbe fare il nostro mestiere. Oltre ad applicare metodologie, noi usiamo la nostra competenza che non è solo in matematica, ma è anche una competenza matematica, ben diversa da quella di un matematico professionista o di un ingegnere.

(In generale su questo paragrafo si veda: Fandiño Pinilla, 2002, 2003; D’Amore, Godino, Arrigo, Fandiño Pinilla, 2003).

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