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Il rigore asciutto del documentarista. Recensione a A. Schiavone, Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria, Einaudi, 2016

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Aldo Schiavone

Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria pp.174

Euro 22,00 Einaudi Torino, 2016

Un libro a struttura circolare, quello di Schiavone. Bisogna giungere alle sedici parole finali per vedere svelato il significato profondo della scena iniziale, dove un prigioniero e un inquisitore, nel chiuso di una stanza, si fronteggiano nell’intermittenza di parole e silenzi. Le centoquarantadue pagine di mezzo ne costituiscono il presupposto. In esse s’indaga, si raccolgono indizi, si elaborano deduzioni, si producono ipotesi, al solo fine di comprendere il ‘segreto’ di quell’incontro che, a prescindere dalla fede di chi vi si accosta, rappresenta, difficile negarlo, un punto di non ritorno: nulla, infatti, è stato più come prima dopo di esso. Centoquarantadue pagine per cercare, dunque, di penetrare con rigore filologico e attenta esegesi delle fonti, nella “sterminata mole di riflessioni e di eventi che quella breve sequenza d’immagini e di pensieri non ha smesso per due millenni di generare” (p.91). A fondamento di tutto ciò due elementi fra loro strettamente connessi: la scelta dello stile narrativo da un lato, il tentativo di comprendere cosa sia effettivamente accaduto quel mattino di duemila anni fa nel Pretorion della città di Gerusalemme, dall’altra.

Lo sforzo di leggere fra le righe i Sinottici, ma ancor più il Vangelo di Giovanni, per provare a carpire il significato più intimo di quell’incontro, e di tutto ciò che ne è dipeso, non poteva essere raggiunto se non scegliendo il rigore asciutto del documentarista che senza enfasi si sforza di descrivere e fare rivivere la realtà attraverso una lettura scarna e essenziale, attenta soprattutto alla verità dei fatti. Le pagine di Aldo Schiavone sembrano richiamare lo stile rigoroso del Rossellini documentarista del Messia: niente situazioni aggrovigliate e melodrammatiche, per il solo gusto manierista dell’intreccio, niente dialoghi letterari, niente personaggi da presepio solo per accentuare i contrasti fra i protagonisti, ma solamente i fatti, così come si svolsero nella loro immediatezza e essenzialità attraverso un puntuale e costante richiamo filologico alla versione greca dei Vangeli Sinottici e, soprattutto, al Vangelo di Giovanni. Si tratta di una cifra stilistica e di metodo funzionale all’impianto ‘dialettico’ dell’intero libro, perché quell’incontro fra il giovane ebreo di Nazareth e il governatore della Giudea fa esplodere il dualismo antropologico e politico-teologico che da duemila anni accompagna il pensiero occidentale: la contrapposizione fra opposti modelli di teologia politica, quella ebraica d’ispirazione

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sadducea, e quella sconvolgente contenuta nelle parole di Gesú; la dialettica fra Nuovo Testamento e Bibbia ebraica; una nuova forma di comunicazione letteraria come i Vangeli a fronte delle tradizionali fonti storiche romane; il confronto fra Cesare e Dio; la dialettica fra potere e violenza; il dualismo fra il Dio degli eserciti e quello dell’Amore; ma prima e sopra ogni cosa, la lacerazione fra umano e divino, il lago di sofferenza dove “tutto, confondendosi, vacilla – e [sembra] non poter più coincidere”(p.19). Una categoria, quella duale, che spezzava inesorabilmente il monismo teologico-politico ebraico e la stessa concezione d’autorità sottesa al pensiero giuridico romano. In quella luce del primo mattino, al termine dell’incontro con quel singolare ‘ebreo’ dall’indecifrabile magnetismo e carisma, Pilato intuì che qualcosa di assolutamente nuovo stava prendendo forma, che l’insegnamento di quell’ebreo condannato dal Sinedrio stava scardinando la struttura teologica del monoteismo ebraico, introducendo, dal suo interno, la presenza rivoluzionaria del Figlio, e trasformando, così, l’Uno in Padre, e quest’ultimo in Due attraverso la presenza del Figlio. Due persone in Una “secondo un figura d’inclusione escludente destinata a segnare attraverso innumerevoli elaborazioni, da quelle cristiano-ellenistiche fino a Hegel, tutto il pensiero dell’Occidente” (p.86), e aprendo un varco attraverso il quale, non solo “sarebbe passato tutto il cammino d’Europa (e poi d’America), e l’impianto complessivo dello Stato moderno con il suo intero apparato ideologico” (p.88), ma avrebbe cambiato la stessa concezione antropologica di uomo, ponendolo di fronte al Mistero della trascendenza, alla forza coercitiva e lacerante della coscienza, nonché al problema della libertà e dell’autodeterminazione. Il Gesù di Pilato, infatti, nel definire la superiorità del Regno di Dio su quello di Cesare, non ne definì forme e ambiti, ma fece molto di più: introdusse un punto, nella storia, drammaticamente incerto “che lasciava un immenso territorio da esplorare: esattamente quello che la storia, nei due millenni successivi, si sarebbe incaricata di fare” (p.90).

Come e dove si colloca dunque Pilato rispetto a tutto ciò? Figura marginale e ancillare, inconsapevolmente coinvolto in un farsi della storia per lui incomprensibile, oppure coprotagonista consapevole di ciò che accadde in quelle ore? Aldo Schiavone riabilita Pilato nella sua giusta luce, non tanto per le sue doti di amministratore e di militare, riscattandolo, così, dalla cattiva fama che, da Tacito in poi, ha accompagnato la sua figura, quanto sotto il profilo di uomo che, forse prima e più di altri, in quell’incontro con il prigioniero, intuì che cosa di straordinariamente ‘indicibile’ stava accadendo, consentendo, consapevolmente, che ciò avvenisse. Ora è proprio qui che sta il passaggio chiave del libro. Perché Giovanni tace sul punto? Perché la letteratura cristiana delle origini, pur benevola verso Pilato, non s’interrogò mai su ciò che accadde realmente quel giorno? Perché, si chiede l’Autore, il Pilato

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dei Vangeli appare sempre velato da un’insuperabile ambiguità, da un’ombra di non detto, da un silenzio voluto che “intercetta ogni volta la luce o la deforma” (p.143), quasi che la più antica tradizione cristiana fosse custode di un segreto, a proposito di Pilato, che non poteva essere rivelato, ma nemmeno poteva essere completamente rimosso? La verità, secondo l’Autore, sta nel fatto che svelare quel segreto, ovvero la tacita intesa fra Pilato e Gesú favorita dalla stessa asimmetria fra i due interlocutori, avrebbe significato alterare irrimediabilmente il rapporto d’equilibrio fra libertà e predestinazione, avrebbe significato sminuire, scrive ancora Schiavone, “il valore di quel gesto letteralmente senza eguali: il martirio del Figlio di Dio per la salvezza dell’intera umanità” (p.144). Per salvare la pietra angolare del sistema teologico del cristianesimo, la vicenda doveva restare inspiegabile, su Pilato doveva essere gettata l’ombra dell’enigma e dell’incomprensibilità, altrimenti si sarebbe aperta “la strada a mille interpretazioni, tutte potenzialmente fuorvianti rispetto all’impianto teologico della nuova religione” (p.144).

Tuttavia, qualcuno continuò a conservare memoria di ciò che accadde realmente e quando, nel IV secolo d.c., a Nicea, si stabilì di aggiungere al ricordo della morte di Cristo il nome di Ponzio Pilato, senza indicarlo come responsabile della croce, questo non avvenne solo per esigenze cronologiche, “ma per qualcosa di più sostanziale. In quella scelta c’era l’eco, ormai lontana, di un ricordo, di un conto da chiudere, di una verità da non perdere del tutto: quei due nomi dovevano stare insieme, come in quella mattina in cui si consumò l’indicibile. Per sempre” (p.145).

Roberto Mazzola

roberto.mazzola@uniupo.it

Professore ordinario di Diritto canonico e ecclesiastico-Università del Piemonte Orientale

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