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Bollettino Politiche strutturali per l'agricoltura. N. 9 (gen.-mar.1998)

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iamo ormai giunti al quarto anno di pubblicazione del Bollettino, con una diffusione che raggiunge circa cinquemila destinatari. Tra questi, soggetti istituzionali (Ministeri, Regioni, Province, Comunità Montane, Comuni, uffici della Commissione Europea, Università, Istituti di ricerca pubblica, ecc.), operatori locali e singoli studio-si e ricercatori. Si tratta, quindi, di un compito informativo nei confronti del quale avvertiamo una grande responsabilità. Stiamo attraversando una fase delicata, di transizione dalla fase di programmazione 1994-1999, che si sta per concludere, alla nuova programmazione 2000-2006. Ciò implica che uno strumento come il Bollettino sia in grado di dar conto di quanto si è fatto sinora, a livello nazionale come a livello regionale, e nel contempo di ciò che si sta programmando per il futuro.

La vecchia programmazione 1994-1999, pur tra molte difficoltà, si va chiu-dendo con un sostanziale recupero dei ritardi accumulati soprattutto nella fase iniziale. Tuttavia, tranne che per qualche sporadico tentativo, poco si può dire circa i risultati e gli effetti generati sul territorio. La nuova pro-grammazione 2000-2006, avviata nel dicembre 1998 con il Convegno di Catania su “Cento idee per lo sviluppo”, ha incontrato alcuni fattori di ral-lentamento nel corso dell’intenso negoziato sul Quadro Comunitario di Sostegno e sui Programmi Operativi regionali, nonché sulla selezione delle aree eleggibili al nuovo obiettivo 2. Anche per ciò che riguarderà i Piani di sviluppo rurale, al momento risultano aver passato l’esame della Commissione Europea 9 programmi su 21. Su tutti questi programmi e sulla loro attuazione operativa il Bollettino si soffermerà costante-mente nei prossimi numeri, non solo per fare il punto della situa-zione, ma anche per evidenziarne le potenzialità e gli aspetti trasferibili ad altri contesti.

La strategia di fondo con cui intendiamo procedere è quel-la di fornire una informazione, quel-la più completa possibile, sulle politiche strutturali, stimolando la riflessione sulle esperienze fatte nelle diverse regioni. Cercheremo, quindi, di far risaltare le buone prassi, da prendere come riferimento, chiamando in causa i diretti prota-gonisti sul territorio. Non ci limiteremo alle esperienze sul piano nazionale e regionale, ma cercheremo di rintracciare casi di eccellenza nel contesto europeo. La seconda sfida per il futuro del Bollettino è legata allo stesso concetto di sviluppo rurale che Agenda 2000 propone: una maggiore attenzione al territorio nel suo complesso e, quindi, alle politiche di sviluppo

n u m e r o

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gennaio/marzo 2000

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gennaio/marzo - 2000 numero 9

INEA

Istituto Nazionale di Economia Agraria

Direttore responsabile Francesco Mantino Responsabile di redazione Laura Viganò

Comitato di redazione Giuseppe Blasi, Carlo Caldarini, Gerardo Delfino, Emilio Gatto, Giovanni Lo Piparo,

Alessandro Monteleone, Alessandra Pesce, Andrea Povellato, Daniela Storti, Paolo Zaggia, Annalisa Zezza

Progetto grafico Benedetto Venuto Elaborazioni statistiche Stefano Tomassini Supporto informatico Massimo Perinotto Segreteria Laura Guidarelli

Registrazione Tribunale di Roma n.671/97 del 15/12/1997 Sped. abb. post. art.2 Comma 20/C Legge 662/96 filiale Roma

Stampa Litografia Principe, Via E. Scarfoglio, 28 - Roma Finito di stampare nel mese di settembre 2000

I compiti del Bollettino per

la nuova programmazione

2000-2006

Francesco Mantino

Dirigente di Ricerca INEA

s

in questo numero

• 1 Editoriale I compiti del Bollettino per la nuova pro-grammazione 2000-2006 • 2 Attualità Le zone italiane Obiettivo 2 per il periodo 2000-2006 • 9 Intervista a Michele Pasca Raymondo • 14 Dall’U-nione Europea Il Libro Bianco della Commissione sulla Sicurezza Alimentare • 17 Re-gioni Il Piano di Sviluppo Rurale della Regione Lazio, Il Piano di Sviluppo Rurale della Regione Umbria • 20 Miscel-lanea Siti Internet •

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che, nella nuova programmazione 2000-2006, si andranno a realizzare. Ciò significa anche una maggiore attenzio-ne alle complementarietà tra le politiche strutturali per il mondo rurale e le altre politiche sul territorio (patti territo-riali, piani per le aree protette, piani delle Comunità Montane, ecc.). Anche per questo motivo vogliamo dar conto, in futuro, di tutti quei programmi che rivestono un potenziale interesse per le aree rurali: le iniziative comunitarie EQUAL e INTERREG, i programmi operativi nazionali per la ricerca, il V programma quadro comunitario per la ricer-ca, il Quadro Comunitario di Sostegno per l’obiettivo 3, ecc.

Infine, ci appare importante aprire una finestra sui cambiamenti socio-economici delle aree rurali. Come stanno cambiando le zone interne e svantaggiate? Quali problemi stanno affrontando le zone più intensive in termini ambientali? A queste e ad altre domande cercheremo di dare una qualche risposta, anche con l’aiuto di studiosi che seguono questi temi. Ciò per capire se i programmi in atto hanno in qualche modo contribuito a dare alcune risposte ai bisogni emergenti.

E

ditoriale

Attualità

Le zone italiane Obiettivo 2 per il

periodo 2000-2006

di Giovanni Barbieri - ISTAT

Il 12 luglio 2000 la Commissione europea ha assunto la decisione di massima sull’elenco delle zone e delle regioni italiane che potranno benefi-ciare del co-finanziamento dei Fondi strutturali a titolo dell’obiettivo 2 (tabella 1). Si avvia così a conclusione una vicenda formalmente iniziata poco più d’un anno fa, ma in realtà all’attenzione della Commissione europea, del Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica e delle Regioni già dalla primavera del 1998.

L’obiettivo 2 è inteso a “favorire la riconversione economica e sociale delle zone con difficoltà strut-turali” 1e si applica ad aree “la cui popolazione o

superficie sono sufficientemente significative. Esse comprendono, in particolare, le zone in fase di mutazione socio-economica nei settori dell’indu-stria e dei servizi, le zone rurali in declino, le zone urbane in difficoltà e le zone dipendenti dalla pesca che si trovano in una situazione di crisi”2.

La metodologia di individuazione delle aree del-l’obiettivo 2 prevedeva due fasi: nella prima, di responsabilità della Commissione europea, è stato fissato un massimale di popolazione ammissibile per ciascuno Stato membro; nella seconda, si è pervenuti alla effettiva designazione della mappa delle aree ammissibili agli interventi, definita dalla Commissione su proposta di ciascuno Stato Tabella 1 - Popolazione residente nelle regioni interessate all’obiettivo 2 (nuovo ciclo) e agli

obiettivi 2 e 5b (vecchio ciclo)

REGIONE Nuovo ciclo Vecchio ciclo

.000 Variazione % Piemonte 1.343,4 2.301,5 -41,6 Valle d’Aosta 40,4 93,5 -56,8 Lombardia 640,3 1.026,2 -37,6 Trentino Alto-Adige 126,6 516,7 -75,5 Veneto 741,9 269,6 175,2 Friuli-Venezia Giulia 278,7 1.591,1 -82,5 Liguria 500,4 458,4 9,2 Emilia-Romagna 387,7 417,3 -7,1 Toscana 832,3 1.775,5 -53,1 Umbria 440,1 683,3 -35,6 Marche 351,1 615,3 -42,9 Lazio 1.103,0 1.398,3 -21,1 Abruzzo 616,1 - - TOTALE 7.401,8 11.146,9 -33,6

1) Regolamento (CE) 1260/1999 del Consiglio del 21 giugno 1999 recante disposizioni generali sui Fondi strutturali (GUCE L161/1 del 26 giugno 1999): articolo 1, punto 2).

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gennaio/marzo - 2000 membro.

Per quanto riguarda la prima fase, il Regolamento prevede3:

• che il massimale complessivo di popolazione ammissibile non superi il 18% della popolazione totale dell’Unione, pari all’incirca a 68,2 milioni di abitanti su un totale di 378,7;

• che per fissare il massimale di popolazione per ciascuno Stato membro, la Commissione si attenga ai seguenti tre criteri: (a) vengano indi-viduate le regioni Nuts3 (corrispondenti in Italia alle province) che soddisfano i parametri stabili-ti per le zone in fase di mutazione socio-econo-mica nei settori dell’industria e dei servizi indu-striali o per le zone rurali in declino e se ne cal-coli la popolazione residente; (b) si tenga conto della gravità dei problemi strutturali a livello nazionale in ciascuno Stato membro rispetto agli altri Stati membri interessati, valutata in base ai livelli della disoccupazione totale e della disoccupazione di lunga durata fuori dalle regioni cui si applica l’obiettivo 14; (c) la

popola-zione ammissibile all’obiettivo 2 non sia inferiore ai due terzi di quella interessata agli obiettivi 2 e 5b nel 1999, in modo che ciascuno Stato membro contribuisca all’obiettivo di concentra-zione del 18% di popolaconcentra-zione ammissibile in misura equa (safety net).

Queste norme erano note dal 18 marzo 1998, data in cui la Commissione europea ha trasmesso al Consiglio le proprie proposte dei nuovi regolamen-ti dei Fondi; questo ha consenregolamen-tito ai diversi sogget-ti interessasogget-ti di operare simulazioni sulla base dei dati ufficiali disponibili e di stime. In particolare, l’attenzione si concentrò sul meccanismo del safety net, perché la sua introduzione faceva sì che il massimale per Stato membro dovesse soddi-sfare simultaneamente un criterio operante “dal basso” – per aggregazione di regioni Nuts3 rispon-denti ai parametri per l’individuazione delle zone industriali e rurali – e uno operante “dall’alto”, quello del safety net. L’applicazione di questo cri-terio – con riferimento alla popolazione europea

ammissibile agli interventi a titolo degli obiettivi 2 e 5b nel 1999, pari a circa 93 milioni di abitanti – conduceva a una soglia minima di circa 62 milio-ni di abitanti. Una volta soddisfatto questo criterio, dunque, sarebbero rimasti a disposizione poco più di 6 milioni di abitanti per soddisfare i restanti due: in pratica, poiché il rispetto del safety net rappre-sentava una condizione necessaria, anche gli Stati membri in cui l’ammontare di popolazione determinato “dal basso” superava la soglia del safety net rischiavano una fissazione del massima-le al livello di sicurezza, per effetto del meccani-smo di iterazione reso necessario dall’esigenza di osservare il vincolo per tutti i Paesi.

Con specifico riferimento all’Italia, inoltre, l’eserci-zio condotto a livello di provincia restava netta-mente al di sotto del safety net, determinato in circa 7,4 milioni di abitanti. Infatti, risultano ammissibili, in quanto zone industriali o rurali, sol-tanto 16 province, con una popolazione al 1996 di meno di 6,5 milioni di abitanti5. Tra queste,

soltan-to tre (Torino, Massa Carrara e Frosinone) emergo-no come “zone in mutazione socio-ecoemergo-nomica”, mentre 13 risultano essere zone rurali. Questa caratterizzazione della geografia economica ita-liana è evidentemente distorta: l’Italia del Centro-Nord è un territorio a forte presenza industriale; inoltre, alcune province che presentano una con-sistente presenza industriale in riconversione (Verbano-Cusio-Ossola, Ferrara, Ravenna) risulta-no ammissibili in quanto zone rurali.

In parte, questi risultati dipendono dagli indicatori e dai meccanismi adottati: i criteri del Regolamento sono più restrittivi nell’individuazione delle zone in mutazione socio-economica che in quella delle zone rurali6. Nel primo caso, le regioni

Nuts3 devono soddisfare simultaneamente tre con-dizioni: aver avuto un tasso medio di disoccupazio-ne superiore alla media comunitaria registrata negli ultimi tre anni; aver avuto un’incidenza del-l’occupazione nel settore industriale rispetto all’oc-cupazione complessiva pari o superiore alla media comunitaria per qualsiasi anno di riferimento a

3) Ibidem: articolo 4, paragrafo 2.

4) In proposito, va segnalato che l’algoritmo di calcolo non è definito dal Regolamento, ma è stato reso noto ufficiosamente dalla Commissione europea. In questo si è fatto riferimento ai livelli assoluti della disoccupazione totale e della disoccupazio-ne di lunga durata (cui è stato assegnato eguale peso). In definitiva, la Commissiodisoccupazio-ne ha assegnato il 50% della popolaziodisoccupazio-ne ammissibile sulla base dei criteri di cui al punto (a) e il restante 50% sulla base della distribuzione dei disoccupati e dei disoc-cupati di lunga durata nelle regioni europee al di fuori dell’obiettivo 2.

5) Si fa qui riferimento ai dati utilizzati dalla Commissione europea per la recente decisione; inizialmente, le valutazioni della Commissione conducevano a individuare 17 province: tra queste, soltanto due (Massa Carrara e Livorno, con il 10,7% della popolazione) emergevano come “zone in mutazione socio-economica”, mentre 14 (con l’80% della popolazione) risultavano essere zone rurali; una provincia (Grosseto, con il 4,3% della popolazione) era ammissibile sulla base di entrambi i criteri. 6) Regolamento (CE) 1260/1999 cit.: articolo 2, paragrafi 5 e 6.

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decorrere dal 1985; aver sperimentato una flessio-ne dell’occupazioflessio-ne flessio-nel settore industriale rispetto all’anno di riferimento. Nel caso delle zone rurali, invece, è sufficiente soddisfare simultaneamente due condizioni, una per ciascuna delle due seguenti coppie di alternative: far registrare una densità di popolazione inferiore a 100 abitanti per kmq. oppure un’incidenza dell’occupazione in agricoltura rispetto all’occupazione complessiva pari o superiore al doppio della media comunitaria per qualsiasi anno di riferimento a decorrere dal 1985,insieme a un tasso medio di disoccupazione superiore alla media comunitaria registrata negli ultimi tre anni oppure a una diminuzione della popolazione rispetto al 1985.

Ad esempio, il criterio del calo demografico con-corre all’ammissibilità di undici delle province rurali ammissibili secondo l’esercizio della Commissione (Vercelli, Verbano-Cusio-Ossola, Asti, Imperia, Mantova, Belluno, Rovigo, Ferrara, Ravenna, Siena e Grosseto) e incide per il 43% della popolazione ammissibile totale. Il risultato appare ancora più paradossale, se si considera che il periodo in esame è stato caratterizzato, in Italia, dalla stasi demografica e che ben 32 pro-vince delle 71 al di fuori dell’obiettivo 1 hanno fatto registrare una diminuzione della popolazione nel periodo in esame. Inoltre, questo criterio – uni-tamente a quello basato sulla scarsa densità della popolazione – conduce a selezionare aree poco popolate, con una scarsa presenza di attività pro-duttive e, di conseguenza, con una valenza strate-gica bassa nell’ambito delle politiche di sviluppo regionale.

Al contrario, i criteri che presiedono all’ammissibi-lità delle “zone in mutazione socio-economica” sono particolarmente restrittivi, e conducono a giudicare non ammissibili province con problemi strutturali evidentemente gravi. Delle province al di fuori dell’obiettivo 1 che presentano un tasso di disoccupazione superiore alla media Eur15, soltan-to tre – come si è vissoltan-to – risultano ammissibili in quanto zone in mutazione socio-economica. Molte di quelle che risultano escluse – tra le quali Genova, La Spezia e Roma – presentano tuttavia tassi di disoccupazione ben superiori alla media europea. Alcune di queste province presentano anche un sensibile declino dell’occupazione indu-striale, anche se non superano il criterio della quota di occupazione industriale superiore alla

media comunitaria. La maggior parte delle esclu-se risponde ai criteri della quota di occupati nel-l’industria e al criterio del declino industriale, ma non supera quello del tasso di disoccupazione. Il risultato è ancora paradossale: tra le province caratterizzate come rurali ne risultano ammissibili alcune, meritevoli di assistenza in assoluto, ma con problemi strutturali di entità relativamente meno rilevante rispetto a quelli evidenziati da pro-vince a forte presenza demografica e produttiva, che sperimentano significative mutazioni socio-economiche e una forte incidenza della disoccu-pazione.

Questo è l’effetto non soltanto dei criteri adottati, ma anche della scala territoriale alla quale sono applicati. Infatti, la scala provinciale (cui corri-sponde il livello 3 della nomenclatura Nuts in Italia) è troppo vasta per consentire di cogliere le situazioni acute di disagio che motivano gli inter-venti a titolo dell’obiettivo 27. In territori così vasti,

che rispondono a zonizzazioni di carattere storico e amministrativo piuttosto che socio-economico, i problemi strutturali meritevoli di assistenza da parte delle politiche regionali stentano a emerge-re, proprio perché, a quella scala, le diverse situa-zioni vengono “nascoste” dal riferimento a situazio-ni medie. D’altro canto, a questi valori medi non corrisponde un effettivo “compensarsi” delle situa-zioni di disagio e di arretratezza con quelle più dinamiche, proprio perché la scala territoriale troppo vasta è di ostacolo alla mobilità dei fattori e soprattutto a quella del lavoro.

Per questi motivi e anche perché la fondata aspet-tativa che il massimale di popolazione per l’Italia sarebbe stato definito sulla base del safety net induceva a spostare l’attenzione sulla mappa nazionale delle aree ammissibili, il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Coesione del Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica ha preso in conside-razione una diversa griglia territoriale, quella dei sistemi locali del lavoro. I sistemi locali del lavoro8,

proprio perché rispecchiano l’esistenza di mercati del lavoro caratterizzati dalla possibilità e dall’esi-stenza di spostamenti quotidiani tra residenza e luogo di lavoro, forniscono la scala adeguata alla diagnosi di situazioni critiche che non trovano compensazione nell’ambito locale e per la pro-grammazione di interventi atti a favorire la ricon-versione socio-economica. Fin dal secondo

seme-2

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Attualità

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7) La dimensione demografica media delle province italiane è superiore a quella delle Nuts3 della maggioranza degli altri Stati membri: nelle province italiane al di fuori dell’obiettivo 1 essa è superiore ai 500.000 abitanti, con un campo di variazione che oscilla tra un minimo di 120.000 abitanti (Aosta) e un massimo di 3.800.000 (Roma).

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stre del 1998, è stato costituito un gruppo tecnico di lavoro – con rappresentanti del Dipartimento e dell’Istat, affiancati da esperti e, in un secondo tempo, da rappresentanti delle Regioni – allo scopo di stimare a livello di sistema locale del lavoro gli aggregati proposti dal Regolamento e, in particolare, la serie 1985-1996 degli occupati totali interni, disaggregati per agricoltura, indu-stria e servizi, e la serie 1993-1996 delle forze di lavoro e delle persone in cerca di lavoro. Infatti, con l’eccezione della popolazione e della superfi-cie, gli indicatori statistici necessari all’applicazio-ne dei criteri del Regolamento a livello di sistema locale del lavoro non erano disponibili a quella scala, ma soltanto a livello provinciale o regiona-le. Si è quindi reso necessario elaborare metodolo-gie di stima atte a ripartire il dato provinciale a livello di sistema locale del lavoro. Il percorso seguito, in effetti, è consistito nella costruzione di stime, mediante l’integrazione delle statistiche uffi-ciali disponibili a scala territoriale più aggregata, da una parte, e con processi di stima difendibili sotto il profilo metodologico e condivisibili dai sog-getti coinvolti (Istat, Amministrazioni centrali, Regioni e Province autonome), dall’altra.

Nelle tredici Regioni considerate9, risultavano

rispondenti ai criteri definiti dal Regolamento 189 sistemi locali del lavoro, per una popolazione complessiva di oltre 8,1 milioni di abitanti. Tra questi, 40 (con 4,1 milioni di abitanti) risultano ammissibili in quanto “regioni in fase di mutazione socio-economica nel settore dell’industria” e 172 (4,8 milioni di abitanti) in quanto zone rurali10

. L’applicazione alla scala dei sistemi locali del lavoro dei criteri per l’individuazione delle “zone in fase di mutazione socio-economica nel settore del-l’industria” e delle “zone rurali” consente di mettere in luce molto più efficacemente l’esistenza di aree “aventi problemi strutturali la cui riconversione economica e sociale deve essere favorita”. Queste zone, inoltre, hanno il vantaggio di essere signifi-cative non soltanto come aree d’analisi, ma anche come dimensione appropriata d’intervento della politica regionale.

Una prima significativa indicazione della capacità di diagnosi territoriale della griglia proposta è implicita nell’individuazione stessa delle aree emergenti come ammissibili, che fanno registrare un incremento della popolazione del 25% rispetto alla selezione effettuata con riferimento alle pro-vince.

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9) Sono escluse le sei Regioni dell’obiettivo 1 (Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna), nonché il Molise, in phasing out.

10) Nelle grandezze considerate sono compresi 23 sistemi locali, con oltre 750.000 abitanti, che si caratterizzano tanto come aree industriali, quanto come zone rurali.

Tabella 2 - Massimali di popolazione ammissibile all’obiettivo 2 (2000-2006). Decisione della Commissione europea del 1° luglio 1999

Stato-membro

Massimali di popolazione

Quota sulla Valori assoluti Incidenza

popolazione totale sul totale ob. 2

.000 % % Belgio 1.269 1,9 12 Danimarca538 0,8 10 Germania10.296 15,1 13 Grecia - - - Spagna 8.809 12,9 22 Francia18.768 27,5 31 Irlanda - - - Italia 7.402 10,9 13 Lussemburgo 118 0,2 28 Paesi Bassi 2.333 3,4 15 Austria 1.995 2,9 25 Portogallo1.582 2,3 31 Finlandia - - - Svezia 1.223 1,8 14 Regno Unito 13.836 20,3 24 EUR15 68.170 100,0 18

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Un secondo vantaggio dell’applicazione dei criteri del Regolamento ai sistemi locali del lavoro consi-ste nella capacità di discriminare – all’interno delle Nuts3 individuate come ammissibili dall’eser-cizio della Commissione europea – aree effettiva-mente connotate dalle mutazioni socio-economi-che nel settore industriale e dai caratteri rurali: sulla popolazione totale di quasi 6,5 milioni di abi-tanti residenti nelle province individuate dalla Commissione, 4,7 milioni (meno del 75%) risiedono in sistemi locali che presentano le caratteristiche richieste dal Regolamento. Per questa via, l’eserci-zio effettuato a livello di sistema locale offre un contributo importante all’attuazione del principio della concentrazione territoriale degli interventi. Un ultimo risultato importante dell’esercizio effet-tuato a livello di sistema locale consiste nell’indivi-duazione di aree caratterizzate da situazioni di dif-ficoltà specifiche e situate in province che non risulterebbero ammissibili qualora l’esercizio si fer-masse alla dimensione provinciale. Nel comples-so, risiedono in queste aree oltre 3,4 milioni di abi-tanti: si può dunque sostenere che, con riferimento alla popolazione, l’esercizio effettuato a livello di provincia manca di riconoscere il 42% delle aree meritevoli di assistenza.

I risultati delle stime e degli esercizi di simulazione

effettuati dal gruppo di lavoro congiunto sono stati trasmessi alle Regioni e Province autonome interes-sate il 1° febbraio 1999, come base comune per l’allocazione tra Regioni del plafond complessivo di popolazione e come punto di partenza per l’indi-viduazione delle aree d’intervento in ogni singola Regione. Dopo la conclusione del negoziato su Agenda 2000 (al vertice dei capi di Stato e di governo di Berlino alla fine di marzo del 1999) e l’approvazione dei Regolamenti sui Fondi strutturali il 21 giugno dello stesso anno, il 1° luglio la Commissione ha adottato una serie di decisioni, tra cui il massimale di popolazione ammissibile per le zone del nuovo obiettivo 2 di ogni paese membro (tabella 2). A livello finanziario, la Commissione ha ripartito i Fondi strutturali per Stato membro e per obiettivo prioritario (tabella 3). Come previsto, per quanto riguarda l’Italia, il massimale di popolazio-ne ha coinciso con il safety popolazio-net (7,4 milioni di abi-tanti, pari al 13% della popolazione residente11, con

un’assegnazione di risorse finanziarie per il co-finanziamento pari a 2.145 milioni di euro, cui si aggiungono 377 milioni di euro per il phasing out (cioè per le zone che potevano beneficiare degli obiettivi 2 e 5b nel periodo 1994-1999 e che non potranno più fruirne nel nuovo ciclo).

Le decisioni della Commissione hanno aperto

for-6

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Attualità

Tabella 3 - Fondi strutturali. Ripartizione per Stato-membro per il periodo 2000-2006. Decisione della Commissione europea del 1° luglio 1999

Stato membro Obiettivo 1 Phasing-out Obiettivo 2 Phasing-out Obiettivo 3 Pesca Totale

ob. 1 ob. 2-5b (extra ob. 1)

milioni di euro (prezzi 1999)

Belgio - 625 368 65 737 34 1.829 Danimarca - - 156 27 365 197 745 Germania 19.229 729 2.984 526 4.581 107 28.156 Grecia 20.961 - - - 20.961 Spagna 37.744 352 2.553 98 2.140 200 43.087 Francia 3.254 551 5.437 613 4.540 225 14.620 Irlanda(1) 1.315 1.773 - - - - 3.088 Italia 21.935 187 2.145 377 3.744 96 28.484 Lussemburgo - - 34 6 38 - 78 Paesi BassiI - 123 676 119 1.686 31 2.635 Austria 261 - 578 102 528 4 1.473 Portogallo 16.124 2.905 - - - - 19.029 Finlandia 913 - 459 30 403 31 1.836 Svezia(2) 722 - 354 52 720 60 1.908 Regno Unito(1) 5.085 1.166 3.989 706 4.568 121 15.635 EUR15 127.543 8.411 19.733 2.721 24.050 1.106 183.564

(1) Compresa l’iniziativa PEACE (2000-2004)

(2) Compreso il programma speciale per le zone costiere della Svezia

11) Nel periodo 1994-1999 avevano beneficiato degli interventi a titolo degli obiettivi 2 e 5b aree in cui risiedevano oltre 11 milio-ni di abitanti (il 19,3% della popolazione italiana).

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7

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gennaio/marzo - 2000 malmente il negoziato tra il governo e le Regioni e

province autonome, da una parte, e tra il governo e la Commissione europea, dall’altra. Una prima proposta italiana, trasmessa a Bruxelles entro il termine di tre mesi fissato dalla Commissione, è stata considerata “irricevibile”, sulla base di una interpretazione restrittiva della norma del Regolamento che prevede che “le zone conformi ai criteri di cui ai paragrafi 5 e 6 coprono almeno il 50% della popolazione delle zone cui si applica l’obiettivo 2 in ciascuno Stato membro, salvo ecce-zione debitamente giustificata da circostanze oggettive”12. La nuova proposta, presentata dal

governo italiano il 21 giugno 2000, che è stata oggetto di una decisione favorevole della Commissione il 12 luglio, considera i dati di riferi-mento aggiornati (con il consenso degli altri Stati membri), mentre il contributo globale, il numero degli abitanti beneficiari degli interventi e gli stes-si criteri di selezione sono rimasti invariati.

Dall’approvazione formale della decisione (che è sottoposta al parere dei Comitati consultivi per lo sviluppo e la riconversione delle regioni, per le strutture agrarie e lo sviluppo rurale e per le strutture del settore della pesca e dell’acquacoltura), il gover-no italiagover-no ha quattro mesi per presentare i documenti di programmazione e la Commissione altri cinque mesi per appro-varli. Tuttavia si conta di chiudere l’opera-zione entro l’anno in corso. La Commissione potrà modificare la lista delle aree ammis-sibili agli aiuti, su proposta di uno Stato membro e in caso di grave crisi in una regione, a partire dal 2003.

A conclusione di una vicenda che ha visto impegnati diversi attori istituzionali per oltre due anni, possono essere svolte alcu-ne considerazioni. Un primo risultato impor-tante è quello che – in modo sicuramente più efficace che nei precedenti cicli di pro-grammazione, anche se con qualche ine-vitabile compromesso – il processo di desi-gnazione delle aree ammissibili agli inter-venti dell’obiettivo 2 è avvenuto all’interno di un quadro di regole e sulla base di evi-denze quantitative sostanzialmente condi-vise. Ovviamente, i diversi soggetti erano

portatori di istanze e di interessi differenti, ma il negoziato è stato condotto prevalentemente sugli aspetti di merito, piuttosto che sul metodo da seguire. Lo stesso rifiuto della Commissione di ope-rare a livello di sistema locale e la conseguente “non ricevibilità” della prima proposta italiana sono stati più il risultato di una interpretazione for-malistica del dettato del Regolamento che una contestazione dell’esigenza di una fotografia del territorio più fine e più aderente alla realtà socio-economica e produttiva italiana. Anche il ruolo svolto dalle Regioni è apparso improntato – nono-stante qualche nervosismo – più al riconoscimento dell’autonomia e della competenza regionale in materia di programmazione che alla contestazio-ne della contestazio-necessità di avvalersi di informazioni sta-tistiche affidabili e condivise.

L’obiettivo della concentrazione territoriale può dirsi raggiunto soltanto con riferimento alla

popo-12) Regolamento (CE) 1260/1999 cit.: articolo 2, paragrafo 4. In pratica, la Direzione politiche regionali della Commissione ha rite-nuto che la soglia di popolazione di riferimento per il conseguimento del 50% dovesse essere quella della lista di regioni Nuts3 formulata dai propri servizi e non quella dei sistemi locali del lavoro elaborata dal Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Coesione, adducendo motivi di omogeneità di trattamento tra i diversi Stati membri. Tuttavia, va segnalato che la Direzione per la concorrenza, nello stesso periodo, ha accettato i sistemi locali del lavoro come base per la definizione delle aree in cui è concessa la deroga al divieto di concessione degli aiuti di Stati a finalità regionale di cui all’articolo 87, paragrafo 3, lettera c) del Trattato.

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lazione residente nelle aree d’intervento, che passa da 11,4 a 7,4 milioni di abitanti; la riduzione è ancora più consistente se si considera che nel periodo precedente l’Abruzzo era interessato dal-l’obiettivo 1. Sotto un diverso profilo, la concentra-zione non può dirsi soddisfacente: soltanto 6 pro-vince su 71 non hanno aree ammissibili agli inter-venti dell’obiettivo 2. Tuttavia, la copertura geo-grafica esprime una logica abbastanza chiara, in cui si distinguono le aree in riconversione monta-ne e pedemontamonta-ne del Nord-Ovest e del Nord-Est, la Liguria e la fascia tirrenica, il delta del Po, e, soprattutto, la scelta di spostare a Sud, verso il confine con le regioni interessate dall’obiettivo 1, il baricentro territoriale dell’intervento (Cartogramma 1). Infine, appare preoccupante il massiccio ricorso all’inserimento nelle aree ammis-sibili di “frammenti” di comuni singoli: benché in parte dovuta all’andamento del negoziato con la Commissione, questa scelta va ascritta anche alla tentazione di disperdere “a pioggia” gli interventi, privilegiando verosimilmente il “ritorno” elettorale sull’efficacia delle politiche di sviluppo. I comuni interessati all’obiettivo 2 soltanto in parte sono poco meno del 10% del totale, ma la popolazione corrispondente ammonta a 1,7 milioni di abitanti, ossia al 23% di quella complessiva. In definitiva, quasi la metà dei comuni delle tredici regioni inte-ressate è investita dall’obiettivo 2 per almeno una parte del proprio territorio.

Per quanto riguarda l’aderenza della mappa delle aree dell’obiettivo 2 alle differenti fattispecie previ-ste dal Regolamento, si può anzitutto osservare che il rispetto della norma che prevede che il 50% della popolazione delle aree d’intervento sia resi-dente nelle regioni Nuts3 conformi ai paragrafi 5 e 6 dell’articolo 4 (zone in fase di mutazione socio-economica nei settori dell’industria e dei servizi e zone rurali in declino) è stato conseguito, sia pure considerando anche la popolazione residente nelle quattro province abruzzesi oltre a quella resi-dente nelle sedici province individuate dalla Commissione13. In termini di popolazione

residen-te, il 19,5% delle aree d’intervento è rappresentato da zone in fase di mutazione socio-economica nei settori dell’industria e dei servizi, il 43,3% da zone rurali (per il 22,5% si tratta di zone rurali ricadenti in province conformi al paragrafo 6 dell’articolo 4, per il 6,8% di zone rurali contigue a queste e per il

13,9% di “zone rurali aventi problemi socio-econo-mici conseguenti all’invecchiamento o alla dimi-nuzione della popolazione attiva del settore agri-colo”14), il 4,1% da zone urbane e lo 0,1% da zone

dipendenti dalla pesca. Questa distribuzione della popolazione interessata dall’obiettivo 2 è piuttosto distante da quella suggerita dal Regolamento15: in

particolare, le zone industriali appaiono fortemen-te sotto-rappresentafortemen-te – insieme a quelle urbane e dipendenti dalla pesca – mentre quelle rurali, come si è già avuto modo di rilevare, fortemente sovra-rappresentate. Inoltre, il 33% della popola-zione risiede in aree ammesse agli interventi in quanto “zone che, a motivo di caratteristiche importanti e verificabili, hanno o corrono il rischio di avere gravi problemi strutturali oppure un ele-vato tasso di disoccupazione causato da una ristrutturazione in corso, o prevista, di una o più attività determinanti nei settori agricolo, industria-le o dei servizi”16: poiché questa fattispecie ha

carattere residuale e consente la possibilità di ricorrere a valutazioni soggettive o a previsioni, piuttosto che a informazioni o a stime statistiche, per definirne le caratteristiche, appare lecito affer-mare che la designazione di aree a questo titolo sfugge in parte alle esigenze di verificabilità delle scelte strategiche e dei fabbisogni d’intervento sot-tostanti.

Tuttavia, questo giudizio può essere corretto, verifi-cando se e in che misura la mappa proposta dalle autorità italiane e approvata dalla Commissione europea sia in linea o si discosti dalla lista dei sistemi locali meritevoli d’intervento secondo l’e-sercizio originariamente proposto dal gruppo di lavoro costituito presso il Dipartimento per le Politiche di Sviluppo e Coesione. Il risultato del confronto è confortante: in termini di popolazione, nel 63,5% dei casi le aree ammesse agli interventi a titolo dell’obiettivo 2 coincidono con i sistemi locali del lavoro selezionati come sistemi in muta-zione socio-economica o come sistemi rurali conformemente ai criteri del Regolamento. L’incidenza è particolarmente elevata per le aree ammesse agli interventi in quanto appartenenti a province in mutazione socio-economica (con il 99% della popolazione in sistemi locali conformi), rurali (con il 68%) o contigue a province rurali (98%), ma è prossima al 50% anche per le “zone rurali aventi problemi socio-economici

conseguen-8

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Attualità

13) Al netto della popolazione abruzzese, la quota scende dal 50,4% al 42,1%. 14) Regolamento (CE) 1260/1999 cit.: articolo 2, paragrafo 9, lettera b).

15) Cfr. il quindicesimo considerando: “occorre inoltre che la popolazione interessata da questo obiettivo prioritario rappresenti, globalmente a livello comunitario e a titolo indicativo, circa il 10% della popolazione comunitaria per le zone industriali, il 5% per le zone rurali, il 2% per le zone urbane e l’1% per le zone di pesca”.

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ti all’invecchiamento o alla diminuzione della popolazione attiva del settore agricolo” e per le “zone che, a motivo di caratteristiche importanti e verificabili, hanno o corrono il rischio di avere gravi problemi strutturali oppure un elevato tasso di disoccupazione causato da una ristrutturazione in corso, o prevista, di una o più attività determi-nanti nei settori agricolo, industriale o dei servizi”. Nella maggioranza dei casi, quindi, le lunghe vicende del negoziato non hanno intaccato la valutazione dei fabbisogni d’intervento formulata

sulla base delle informazioni statistiche disponibili. Inoltre, il livello di analisi incentrato sui sistemi locali del lavoro non ha dimostrato soltanto di essere più adatto a cogliere le effettive condizioni socio-economiche e produttive delle diverse realtà, ma anche di essere maggiormente aderen-te ai fabbisogni informativi espressi dalla pro-grammazione a scala nazionale, regionale e loca-le.

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Michele Pasca

Raymondo

Direttore della Direzione

Sviluppo Rurale I,

Commissione europea

-DG Agricoltura

Lei è stato da chiamato que-st’anno alla guida della Direzione Sviluppo Rurale. Durante la Commissione Santer, però, ha affiancato il Commis-sario Bonino e si occupava, in particolare, della politica dei consumatori. In che modo, secondo Lei, i consumatori influenzano – o subiscono - le scelte della politica agricola e rurale?

Le lobby dei consumatori sono ancora poco organizzate rispet-to, ad esempio, all’industria di trasformazione alimentare. Anche i produttori agricoli, tra tutti i soggetti economici, sono forse i meno organizzati. Assistiamo, insomma, a un con-fronto tra parti deboli, se così possiamo dire. Ma i consumatori stanno cominciando a prendere coscienza del loro reale potere. La realtà è che, aumentando il potere d’acquisto, sono cresciute le esigenze dei consumatori anche rispetto ai beni alimenta-ri, che rappresentano sì un

biso-gno primario, ma anche un modo per soddisfare un bisogno crescente di benessere, di salu-te, di qualità della vita.

Del resto, in seguito a una serie di episodi allarmanti, il consu-matore si è reso conto che il primo criterio di qualità dei pro-dotti alimentari è la sicurezza. Se si ha soltanto il sospetto che un prodotto non sia sano, la reazio-ne è radicale. Se c’è un rischio per la carne bovina inglese, ci si astiene del tutto dal consumare carne bovina, indipendente-mente dalle garanzie sulla sua provenienza. Lo stesso è avve-nuto con il caso della diossina: “C’è un rischio anche remoto? Non compro!”.

Quindi, secondo Lei, i rapporti tra produzione e consumo, in campo agroalimentare, sono oggi regolati soprattutto dal fat-tore sicurezza?

No, sarebbe troppo semplice. Potremmo dire, per schematiz-zare, che i comportamenti ali-mentari dei consumatori sono oggi influenzati da tre principali fattori.

Innanzi tutto, direi, occorre con-siderare l’origine e il luogo di residenza del consumatore: se una persona è inglese, italiana o francese… del Nord o del Sud… se vive in una grande

città o in una regione rurale… ha delle abitudini di consumo che possiamo considerare “immutabili” nel breve termine. Tutti noi siamo portati, anche cambiando città o nazione, a conservare nel tempo le abitudi-ni alimentari originarie.

Un altro fattore che influenza for-temente le scelte del consuma-tore è l’individuazione dei pro-dotti, capire che cosa si compra, in senso generale la “denomina-zione d’origine”. In alcuni casi è semplice: una zucchina è una zucchina… In molti altri casi, quando i prodotti sono trasfor-mati o anche semplicemente composti, oggetto di classifica-zioni talvolta non chiare, l’imme-diatezza della denominazione rassicura il consumatore. Quando ciò è possibile, ci si affi-da a denominazioni conosciute e rassicuranti, del tipo “Olio extravergine d’oliva”. Diversa-mente, in mancanza di una denominazione d’origine chiara relativa alla qualità intrinseca del prodotto, si sceglie la marca “di fiducia”. Il consumatore oggi è molto più sensibile ai fattori di qualità. Esiste, sì, una larga fascia di prodotti di base o di massa, ma al di sopra di questa il mercato si è segmentato e importanti percentuali di vendi-ta, non più di nicchia, sono rap-presentate da prodotti che si

Intervista a

Michele Pasca Raymondo

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Intervista a

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distinguono fortemente per qua-lità e prezzo. Ormai ci sono forti scarti di prezzo, legati a presunti fattori di qualità, non soltanto tra prodotti consolidati come il vino, ma anche – faccio un esempio – tra i pollami, dove il tempo di vita dell’animale e il sistema di alimentazione può portare a scarti di prezzo impor-tanti, o anche tra le paste, dove in fondo, i sistemi di trasforma-zione industriale sono pressoché standardizzati.

Un terzo fattore che diventa sempre più importante è l’aspet-to culturale del consumo. È un aspetto che non appartiene sol-tanto alle categorie più abbien-ti: per ragioni sempre più varie e sempre più importanti sul mer-cato, che possono essere anche completamente esterne ai pro-blemi dell’alimentazione, si comincia, a un certo punto, ad assumere una determinata tipo-logia di comportamento di con-sumo. Per esempio: “Voglio usare olio extravergine di oliva a bassissima acidità e con pochissimo gusto…”. Magari si è disposti a transigere sulla qua-lità del vino ma non su quella dell’olio o viceversa… Si tratta, insomma, di reazioni molto per-sonali. Ma ci sono anche degli argomenti più sensati, e quindi ecco la diffusione di tutti i pro-dotti biologici, oppure della bio-dinamica... C’è tutta una serie di prescrizioni medico-salutistiche, poi, talvolta opinabili dal punto di vista scientifico, ma abba-stanza seguite anche da perso-ne che non hanno una grande disponibilità economica. Ci sono comportamenti elitari, del tipo “voglio bere champagne e non spumante perché fa più chic…”, ma si possono comunque trova-re esempi più consoni alla trova-realtà italiana…

Ci sono poi dei fattori di richia-mo che agiscono sul

consuma-tore quasi come fattori di “qua-lità totale”, ad esempio lo yogurt magro, i biscotti ai cereali inte-grali, il limone biologico… Questi sono comportamenti a volte completamente ingiustifica-ti, ci sono dei fattori che sono veri e falsi allo stesso tempo. La diffe-renza per esempio tra uno yogurt magro e uno intero, ad esempio, è veramente minima. È raro il caso del “perfetto consumatore” che esce da casa sapendo esat-tamente cosa comprare per qua-lità, quantità, prezzo, marca… La maggior parte dei consuma-tori è influenzata dall’offerta e, anche se si parte da casa per comprare un tipo di pasta di una tale marca, poi, di fronte allo scaffale, si cambia facilmente scelta. L’offerta, la varietà dei prodotti, i prezzi agiscono in maniera combinata durante quel ridottissimo numero di secondi in cui con la mano si fa il gesto di prendere il prodotto dallo scaffale. Prodotti alla moda pochi anni fa si stanno quasi per-dendo in termini commerciali, come il caso abbastanza eviden-te delle paseviden-te fateviden-te con la crusca, che avevano avuto un grande successo e che ora si stenta a tro-vare negli assortimenti.

La Commissione Prodi assegna una grande importanza soprat-tutto al fattore della sicurezza alimentare…

Questo è frutto degli incidenti del passato, che vanno però considerati come casi isolati ed eccezionali. Il sistema d’informa-zione rapida della Commissione registra normalmente, ogni setti-mana, un piccolo numero di casi di contaminazioni acciden-tali, oppure di prodotti importati non in regola con le nostre norme d’igiene alimentare. Ma si tratta di casi che non arrivano all’attenzione del consumatore, poiché il sistema d’informazione rapida funziona molto bene.

S’interviene rapidamente, senza allarme e senza rischio per il consumatore. Casi come quello del mascarpone contaminato battericamente, verificatosi un paio d’anni fa in Italia, sono l’ec-cezione, dovuta a un ritardo nella manifestazione della con-taminazione o, forse, dell’inter-vento. La regola, invece, sono gli episodi che rientrano nella normalità o, meglio, nella casualità di prodotti che in fondo sono ancora “vivi” e che possono provocare fenomeni non desiderati. Insomma, il siste-ma è tale che, da questo punto di vista, la sicurezza alimentare è già sufficientemente garantita. Il problema sorge invece in caso di contaminazioni chimiche che non danno effetti immediata-mente visibili. In questi casi il prodotto è ampiamente consu-mato prima che si possano sco-prire gli effetti nocivi sulla salu-te. Ecco, per questi casi, i nostri sistemi di controllo sono ancora deboli. Con il Libro Bianco, quin-di, si è voluta richiamare l’atten-zione sulla necessità di adottare nuovi sistemi di produzione e controllo in grado di garantire la maggiore sicurezza possibile del prodotto alimentare. Ricordiamo che è già in vigore, a questo proposito, il sistema di autocerti-ficazione HACCP. Ma, al di là di questo, è anche importante un sistema di controllo capillare dei rischi, che non sia soltanto un “audit di secondo livello” rispetto ai sistemi di controllo nazionali. Il problema, qui, è come definire un sistema di controllo adegua-to a fronte delle diversità regio-nali dei quindici Stati membri. Dovunque il consumatore si trovi, all’interno dell’Unione europea, ha diritto a uno stan-dard di sicurezza di tutti i prodot-ti agroalimentari.

A tale proposito, è stata avviata qualche riflessione sull’impatto

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che questa politica di sicurezza alimentare avrà, o forse sta già avendo, sulle aziende agricole, in particolare nelle regioni e nelle aree culturalmente e strut-turalmente più deboli? In questi ultimi dieci o quindici anni abbiamo chiesto molto all’agri-coltura: diversificare le attività, diminuire le quantità, contribui-re allo sviluppo rurale integrato, occuparsi della tutela dell’am-biente, certificare la qualità…. Questi sono alcuni degli obiettivi più significativi che rientrano nella vecchia politica strutturale e che hanno già trovato un posto importante nelle varie azioni che abbiamo finanziato nel precedente periodo di pro-grammazione, in particolare attraverso il LEADER. Credo che, ormai, un obiettivo generalizza-to sia mettere il mondo rurale in grado di impiegare sistemi di produzione e commercializzazio-ne al passo con i tempi e in grado, da una parte, di mante-nere la qualità e la caratteristica tipica dei prodotti e, dall’altra, di fornire garanzie in materia d’i-giene, sicurezza e genuinità del prodotto. Tipicità del prodotto e qualità igienico-sanitaria non sono inconciliabili; se fossimo convinti del contrario, sarebbe la morte di quasi tutte le produ-zioni tipiche…

Ma sembra che un rischio per le produzioni tipiche mediterranee si profili già. I francesi, ad esem-pio, sono già preoccupati per il futuro dei loro formaggi crudi … Sicuramente è un rischio. È ovvio che, partendo da un latte sterilizzato, ci sono meno rischi, dal punto di vista del prodotto finito, rispetto a un formaggio fatto con il latte crudo. Ciò non toglie che, se si parte da un latte crudo, quali che siano le condi-zioni di trasformazione del pro-dotto, bisogna avere a valle un sistema di controllo che

garanti-sca l’assenza di una qualsiasi forma di contaminazione. In realtà, non c’è nessuna volontà di eliminare prodotti come, per esempio, la pizza cotta nel forno a legna o altre cose di questo tipo. Il problema è che, rispetto a un certo tipo di lavorazione più asettica, mantenere queste produzioni tipiche richiede un sistema in grado di effettuare controlli più accurati. Si tratta non di vietare un metodo di pre-parazione, ma di garantire la sicurezza del prodotto. È ovvio che, a fronte di una migliore qualità finale del prodotto, non debbano venire meno le indi-spensabili qualità igieniche. Tuttavia, è anche ovvio che, per una piccola azienda isolata, tale metodo non possa funzionare. Per questo è importante organiz-zare meglio le piccole produzio-ni, ad esempio attraverso dei consorzi, affinché qualcuno possa, in ogni caso, effettuare i dovuti controlli. Di fondo c’è un problema di organizzazione e noi, con questa nuova program-mazione, stiamo insistendo molto affinché i prodotti tipici, che hanno caratteristiche di genuinità e qualità organoletti-che superiori, siano garantiti per quanto riguarda la sicurezza. Secondo Lei, allo stato attuale della programmazione, possia-mo sperare che, per il periodo 2000-2006, il problema della sicurezza alimentare sia preso in carico anche dalle politiche d’intervento strutturale?

La maggior parte dei program-mi che stiamo analizzando pre-vedono un incremento delle azioni volte a migliorare la qua-lità e la sicurezza dei prodotti. Quasi tutti hanno linee di azione che vanno verso quest’obiettivo e una delle esperienze più importanti dei vecchi program-mi LEADER è stata quella di aver riunito, attraverso linee di

com-mercializzazione e valorizzazione uniche, diverse forme aziendali di produzione agricola.

Non le sembra che ci sia anche, in agricoltura, un problema di competenza professionale, un problema culturale? I cambia-menti che si chiedono alle strut-ture agricole e, non da ultimo, questo della sicurezza alimenta-re si rivolgono, spesso, a struttu-re produttive di piccole dimen-sioni, a imprenditori anziani, a lavoratori poco istruiti e poco qualificati... In Agenda 2000” c’è un grande capitolo sull’occupa-zione, sulle risorse umane, sulla società dell’informazione e della conoscenza e poi, a parte, si affronta la questione della rifor-ma della politica agricola e di sviluppo rurale. Sembra quasi che questi cambiamenti in ambito agricolo e rurale si pos-sano generare con regolamenti e strumenti finanziari, senza che ci sia, al tempo stesso, un inve-stimento reale nella cultura delle persone…

La realtà è che bisogna far usci-re l’agricoltura da questa specie di ghetto in cui si trova; oggi non esiste un industriale che produca fermagli da ufficio o bottoni senza porsi preliminar-mente queste domande: che cosa fabbrico, per quale utilizza-zione, per venderlo a chi, su quale mercato, a quale prezzo, in che quantità. Voglio dire che, dietro l’idea di fabbricare ferma-gli o bottoni, c’è, di norma, tutta una serie di inchieste prelimina-ri. L’unico settore dove questo tipo di inchiesta non si fa è l’a-gricoltura. Per l’85% o il 90% dei prodotti che produce, l’agricolto-re sa che ha una specie di mer-cato coperto, sicuro e, quindi, non fa neanche questo tipo di indagine banale; ma sa che questo è valido solo per un certo tipo di produzione di base, per-ché oggi, per la maggior parte

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dei prodotti, siamo in grado di dare delle garanzie minime su delle qualità minime. Chi vuole uscire dall’assistenza e mettersi sul mercato, per produrre un prodotto che si venda a un prez-zo superiore al minimo garantito e che abbia una clientela certa e costante nel tempo, deve rim-boccarsi le maniche e comincia-re a lavoracomincia-re come un qualun-que produttore industriale. Questo significa che si deve investire nella conoscenza e nel-l’innovazione, come in qualsiasi altro settore produttivo?

Questo significa che, partendo da una base molto ridotta di conoscenza, l’agricoltura ha bisogno di un’assistenza che deve essere molto capillare, ma non spinta così lontano fino alla piccola, piccolissima azienda. L’agricoltura ha necessità di un intervento sul territorio che non sia di mera assistenza tecnica, ma che, soprattutto, insegni gli approcci migliori per accedere a un mercato che sta divenen-do più libero, che non sia più il mercato degli assistiti, degli ammassi, degli interventi tradi-zionali. E’ chiaro che ciò richiede uno sforzo a tutto il sistema che ruota intorno al produttore. Soprattutto in ambito rurale abbiamo riscoperto il concetto di “territorio” e di “sviluppo inte-grato del territorio”. Si tratta, in altre parole, di realizzare in ogni zona rurale quelle condizioni minime di società civile e di svi-luppo, in modo tale che i servizi generali al produttore possano essere garantiti dalla collettività locale. Non ritengo che si possa e si debba arrivare a integrare nel mercato ogni piccola azien-da; il problema è di trovare quell’integrazione di filiera che permetta di arrivare a dei pro-dotti di qualità che abbiano un loro mercato e una propria attrattiva. D’altra parte,

abbia-mo appena visto che il consu-matore è sensibile a questo tipo di problematica e, quindi, si trat-ta di spiegare al produttore di base quali sono i vantaggi che egli stesso può ottenere e gli oneri che da questi derivano. Perché, secondo Lei, è così diffi-cile, per l’agricoltura, raggiun-gere questo livello d’integrazio-ne così come si è verificato d’integrazio-negli altri settori, ad esempio con l’e-sperienza dei distretti?

Quello che manca in alcune zone che non hanno questo tipo di tradizione è il “modello”; dove abbiamo un “prodotto faro”, un “prodotto traino” con una gran-de tradizione, come nella zona del parmigiano, tanto per dire, la cosa è molto più facile. Ed è anche relativamente facile, per dire, copiare o scimmiottare in maniera abbastanza naturale talune forme di associazionismo, commercializzazione, immagine ecc.. Laddove questa tradizione non esiste è più difficile, sebbe-ne abbiamo la più alta quantità e varietà di prodotti tipici e di qualità di tutti gli altri Paesi europei. Il fatto è che tale poten-zialità c’è. Il problema è far capire come questa possa espli-carsi attraverso una serie di cir-cuiti commerciali che devono non necessariamente portare l’azienda direttamente sul mer-cato, ma aiutarla a capire a quale tipo di mercato essa si può rivolgere e a scegliere – ad esempio – tra accesso diretto al mercato e intermediazione. L’importante è sapere che si pro-duce un certo tipo di grano duro, per venderlo a un pastifi-catore, per fare un certo prodot-to di qualità. Evidentemente, questo tipo di contrattualità è funzione di un prodotto che ha un prezzo e una sicurezza di mercato diversi da quelli relativi al prodotto base.

Da un lato, l’Unione europea, lo

Stato, le Regioni; dall’altro, gli agricoltori e le loro organizzazio-ni; consideriamo anche le uni-versità e il mondo della ricerca scientifica: a chi spetta il compi-to di fornire quest’assistenza e di colmare il vuoto di conoscenza? Diciamo che, nell’ambito della sussidiarietà, questo compito non spetta certo più a noi. Da quando abbiamo lasciato la responsabilità progettuale agli Stati membri e soprattutto alle Regioni, noi ci limitiamo a forni-re degli indirizzi e a controllaforni-re l’azione. Oggi gli organismi che più sono a contatto con il territo-rio, soprattutto tenendo conto dell’organizzazione del settore agricolo in Italia, sono le Regioni. Sono le Regioni che devono poter valorizzare e orga-nizzare lo sviluppo rurale, per-ché si tratta di un problema di territorio, di società civile e di tessuto imprenditoriale locale. La struttura più vicina alla situa-zione dell’azienda agricola è la struttura regionale. D’altra parte, secondo me, la diminuita cen-tralizzazione delle politiche strut-turali - l’abbiamo visto in Italia attraverso questi programmi -non può che essere salutata come un fattore di valorizzazio-ne delle specificità locali e regionali. Le nuove azioni strut-turali, che noi abbiamo voluto “libere”, tranne le misure agroambientali, hanno permes-so alle Regioni, in fase di pro-grammazione, di prevedere quegli interventi che loro riten-gono più adatti alla propria situazione di sviluppo.

Quindi voi, allo stato attuale della programmazione, esprime-te un giudizio positivo o comun-que migliorativo rispetto alla fase precedente?

Sì, noi esprimiamo senz’altro un giudizio favorevole, anche se alcuni hanno voluto fare troppo e previsto di potere applicare

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gennaio/marzo - 2000 tutte le misure. Noi sappiamo,

invece, che, viste le capacità amministrative medie di una regione italiana, concentrarsi su un numero ridotto di azioni, quelle più produttive per ciascu-na situazione locale, è più profi-cuo che disperdersi nel venta-glio di azioni possibili nell’ambi-to dello sviluppo rurale.

È possibile dare un giudizio com-plessivo sul ruolo che lo sviluppo rurale occupa, complessiva-mente, nelle politiche dell’Unio-ne europea? Possiamo dire che la politica per lo sviluppo rurale sia effettivamente un pilastro della costruzione dell’Unione? Diciamo che lo sviluppo dei terri-tori rurali è un obiettivo sempre più importante. Devo dire, anzi, che la politica comune, per tutta una serie di obblighi inter-nazionali e di buona gestione interna, sta necessariamente definendo sempre meglio tale questione. Il pubblico, la società civile, vuole capire perché noi spendiamo una somma così importante del bilancio comuni-tario per il sostegno spinto di taluni prodotti; richiede una migliore ripartizione degli aiuti, una spesa che vada in favore delle zone svantaggiate e non più, indiscriminatamente, a tutti i produttori di una certa catego-ria di prodotti. Ci sono diversi obblighi internazionali rispetto ai quali dobbiamo metterci in regola. Nei prossimi negoziati internazionali, ci chiederanno ancora di evitare di sostenere troppo talune produzioni. Per questo, noi stiamo cercando di mettere a punto - in partenariato con Stati membri e Regioni -forme d’intervento che aiutino innanzi tutto le zone che non possono avere, per vincoli strut-turali, condizioni di produzione concorrenziali con il mercato mondiale.

E in cosa consiste, in concreto, questa nuova strategia?

Piuttosto che fornire sussidi uguali per tutti, riteniamo che, di concerto con le autorità locali si possa vedere quali sono le zone capaci di raggiungere autonomamente il livello di con-correnza minima e individuare, invece, quelle più sfavorite, da aiutare con interventi strutturali, capendo quali sono i problemi, cercando di ridurli e di compen-sare le mancanze di reddito. Non si può pensare che in certe zone aride o semi aride si possa-no avere produzioni medie ragionevoli. Sempre meno, a medio e lungo termine, la politi-ca agricola comune comporterà sostegni indifferenziati a tutti i produttori di una certa categoria di prodotti agricoli. Al contrario, essa sarà sempre più caratteriz-zata da azioni di sostegno diffe-renziato, in funzione delle capa-cità e della competitività dei ter-ritori. L’avvenire è sicuramente in questa direzione. Abbiamo anticipato tutta una serie di misure. Abbiamo un finanzia-mento attraverso il FEAOG-Garanzia, diventato più cospi-cuo di misure strutturali. Abbiamo sganciato, per l’essen-ziale, le misure strutturali dalle zone in ritardo di sviluppo e, quindi, per quanto riguarda le nostre misure, gli interventi sono ora possibili su quasi tutto il terri-torio agricolo dell’Unione, indi-pendentemente dal livello di sviluppo globale di una zona. Abbiamo visto, infatti, che, seb-bene una zona possa essere svi-luppata, non è detto che il setto-re agricolo sia anch’esso svilup-pato. C’è tutta una serie di evo-luzioni che ci induce a pensare che, effettivamente, questo famoso secondo pilastro di politi-ca strutturale stia diventando un pilastro sempre più solido. In futuro, avremo sempre più politi-che di sostegno mirate a colma-re diffecolma-renziali di competitività. E qual è, dunque, la situazione

dei nuovi programmi?

Per adesso, quasi tutti gli Stati membri si sono comportati bene riguardo ai tempi, non direi altrettanto relativamente ai con-tenuti. Purtroppo, abbiamo l’im-pressione che non si siano colte pienamente le opportunità offer-te dalla nuova regolamentazio-ne…

Eppure, Lei prima dava un giu-dizio positivo complessivamen-te…

Si, io dico che le Regioni hanno pienamente preso coscienza dei loro poteri, però, per la prima volta, debbono confrontarsi con una programmazione di così lungo periodo. Hanno il peso degli impegni agroambientali del passato e di alcune azioni che vogliono mantenere e che non consentono di pensare alle possibili evoluzioni. Noi ci aspet-tiamo di avere diversi negoziati successivi che non punteranno solo sul programma attualmen-te in esame. Ci aspettiamo, inol-tre, una gran quantità di modifi-che nei prossimi anni, perché ci sono organizzazioni comuni di mercato che cambiano e che necessiteranno di interventi più mirati a livello delle politiche strutturali. Tutte le conseguenze di questo movimento continuo della politica agricola comune non possono essere pienamente integrate in una programmazio-ne settennale fatta oggi, quan-do sappiamo benissimo, per fare un esempio, che fra due o tre anni il settore delle carni bovine sarà organizzato in modo com-pletamente diverso da quello attuale. I bisogni del settore bovino potrebbero essere ben diversi fra tre anni…

Queste sue valutazioni sulla pro-grammazione si riferiscono all’Italia o sono complessiva-mente rivolte…

No, sono valutazioni complessi-ve. Devo dire, anzi, che l’Italia,

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gennaio/marzo - 2000 come tempi e come contenuti, si

trova al di sopra della media. Ma, i programmi italiani in via di approvazione sono 28 e, quin-di, c’è un po’ di tutto…

Ci può spiegare meglio, a tale proposito, come funzionerà que-sta riorganizzazione dei servizi della Commissione per unità ter-ritoriali?

Devo dire che si è sempre oscil-lati fra il tematico e il nazionale. Per qualunque tipo di organizza-zione, per qualsiasi politica di incentivazione e di sviluppo, in qualunque settore, che fossero i fondi regionali, l’assistenza alle piccole e medie imprese o la politica agricola, si è sempre oscillati nel tempo fra nizzazione territoriale e un’orga-nizzazione tematica. Questo anche in termini di politica

este-ra, per esempio. È soprattutto a livello delle reazioni che io vedo un cambiamento: i nostri interlo-cutori, Stati membri o Regioni, prediligono lo “sportello unico”, il fatto, cioè, di avere una sola persona o una sola unità com-petente, senza dover fare il pel-legrinaggio da una parte all’al-tra… E devo dire che questo, dal punto di vista dei rapporti istituzionali, consente maggiore efficacia. Dal punto di vista del-l’omogeneità di trattamento, invece, effettivamente ci posso-no essere dei problemi, o quan-tomeno delle difficoltà: eviden-temente l’omogeneità fra Stati membri può essere un po’ intac-cata. Per evitare comportamenti diversi in situazioni analoghe, sarà necessaria una coordina-zione interna che prenderà molto tempo. Da un certo punto

di vista, quindi, direi che la nuova organizzazione avvan-taggerà moltissimo l’interlocuto-re esterno alla Commissione, ma caricherà noi di compiti più importanti, la coordinazione che prima era necessaria all’interlo-cutore esterno, Stato o Regione, adesso ricadrà sulla Commissio-ne.

E in questa fase particolarmente delicata, non si stanno creando difficoltà?

No. Quello che ci crea grossi problemi è la decisione di fram-mentazione della programma-zione di alcuni Stati membri, per soddisfare sia un numero elevato di autonomie regionali, sia esigenze specifiche in taluni settori, che ci ha portato a una riduzione importante del nume-ro di pnume-rogrammi.

Intervista a

Michele Pasca Raymondo

Dall’Unione Europea

Il Libro bianco della Commissione

Europea sulla sicurezza alimentare

di Carlo Caldarini - INEA

Quanto costa la sicurezza alimentare ai produttori agricoli, alle industrie di trasformazione, alla sanità pubblica, ai consumatori finali? Molto, cer-tamente. Qualcuno ha provato a tirare giù delle somme, ma la risposta più appropriata sembra essere sempre la stessa: non ha prezzo. Il gruppo industriale Perrier, che non ha mai recuperato la propria quota di mercato negli Stati Uniti dopo che - dieci anni fa - le associazioni dei consumatori americani avevano denunciato la presenza di tracce di benzene in un lotto di bottiglie d’acqua minerale, non smentirebbe probabilmente questa affermazione.

Effettivamente, l’applicazione di tutte le norme di sicurezza alimentare costituisce un costo per le imprese, ma l’esperienza di questi ultimi anni ha dimostrato quanto possa essere superiore – in assenza di controlli e garanzie - il danno economi-co, sociale e ambientale delle crisi e anche dei falsi allarmi.

I consumatori, dal canto loro, si stanno rendendo

conto che il primo criterio di qualità dei prodotti ali-mentari è la loro sicurezza. Questa nuova consape-volezza produce, per semplificare, due tipi di rea-zioni congiunte. La prima è di tipo, per così dire, razionale. Una percentuale sempre maggiore di consumatori è ormai disponibile a pagare un prez-zo più elevato per acquistare prodotti che, almeno all’apparenza, si presentino come più sicuri. E non si tratta soltanto dei ceti sociali più istruiti e abbien-ti: è un comportamento d’acquisto certamente non generalizzato, ma che si va diffondendo anche in altre fasce di popolazione, tra le famiglie con figli piccoli ad esempio. E il previsto boom dei discount alimentari è stato fortemente ridimensionato dal diffondersi di questo fenomeno. Vi è poi un’altra reazione, più difficile da controllare, che potremmo definire emotiva. Se si ha anche soltanto il sospetto che un prodotto non sia sano, segue una reazione di “non consumo” radicale che si allarga a un’inte-ra fascia di prodotti: c’è un rischio per la carne bovina inglese? Ci si astiene del tutto dal consu-mare carne, indipendentemente dalle garanzie sulla sua provenienza.

Anche le imprese, dunque, hanno dovuto prende-re atto del fatto che, con l’amplificazione mediati-ca delle crisi, le preoccupazioni sanitarie possono avere un costo enorme per tutto il settore

Figura

Tabella 2 - Massimali di popolazione ammissibile all’obiettivo 2 (2000-2006). Decisione della Commissione europea del 1° luglio 1999
Tabella 3 - Fondi strutturali. Ripartizione per Stato-membro per il periodo 2000-2006

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