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Il processo sulla trattativa: analisi e critica di una sentenza "storica"

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(1)

Cassazione

penale

D o m e n i c o C a r c a n o

M a r i o D ’ A n d r i a

d i r e t t o r e s c i e n t i f i c o

c o n d i r e t t o r e

LIX - Aprile 20 19 , n 04

04

20

19

|

estratto

IL PROCESSO SULLA TRATTATIVA: ANALISI E

CRITICA DI UNA SENTENZA “STORICA”

con nota di

Giuseppe Amarelli

ISSN 1

(2)

151.3

IL DELITTO DI VIOLENZA O MINACCIA AD UN

CORPO POLITICO DELLO STATO E LA C.D. TRATTATIVA

STATO-MAFIA

Ass. Palermo - Sez. II - Sent. 20 aprile 2018 (dep. 19 luglio 2018) - Pres. Montalto

VIOLENZA O MINACCIA AD UN CORPO POLITICO, AMMINISTRATIVO O GIUDIZIARIO

-

Nozione di corpo politico Inclusione del Governo Minaccia nei confronti di un singolo componente

-Sussistenza - Concorso di persone nel reato - Dolo di partecipazione - -Sussistenza - Aggravante delle più

di dieci persone - Sussistenza - Violazione ne bis in idem - Esclusione.

(C.P.

ARTT. 110, 289, 338, 339)

I fatti alla base della c.d. trattativa Stato-mafia non integrano il delitto di cui all’art. 289 c.p., ma

quello di violenza o minaccia ad un corpo politico dello Stato di cui all’art. 338 c.p., dal momento che

la nozione di corpo politico in esso contenuta è talmente ampia da ricomprendere anche gli organi

costituzionali e, dunque, il Governo. La fattispecie, peraltro, a seguito della modifica apportata dalla

l. n. 105/2017, si configura anche nell’ipotesi in cui la minaccia, pur indirizzata nei confronti di un

singolo componente dell’organo collegiale, miri non già alla persona fisica del solo componente

minacciato, ma all’Esecutivo nel suo complesso, al fine di impedirne o turbarne le attività. La

responsabilità degli esponenti istituzionali a titolo concorsuale è desunta dal contributo agevolativo da

essi fornito alla veicolazione della minaccia proveniente dagli esponenti mafiosi e dal connesso dolo di

partecipazione alle medesime richieste estorsive, ricavabile dal presupposto che i funzionari non

abbiano agito allo scopo dichiarato di impedire la commissione di reati e di assicurare i latitanti alla

giustizia, circostanza che può inferirsi dal mancato compimento di qualsiasi ordinaria attività

investigativa, quali pedinamenti, servizi di osservazione, intercettazioni telefoniche ed ambientali.

Sussiste anche per tutti i concorrenti l’aggravante di cui all’art. 339, comma 2 c.p., provenendo la

minaccia dall’intero vertice associativo mafioso, certamente composto da più di dieci persone. Non ci

sono violazioni del principio del ne bis idem per gli imputati, riguardando le sentenze definitive già

pronunciate fatti storici diversi.

(Massima redazionale).

S V O L G I M E N T O D E L P R O C E S S O - Con decreto del 7 marzo 2013 il Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Palermo rinviava a giudizio dinanzi la Corte di assise di Palermo gli imputati Riina Salvatore, Brusca Giovanni, Bagarella Leoluca Biagio, Cinà Antonino, Subranni Antonio, Mori Mario, De Donno Giuseppe e Dell’Utri Marcello per rispondere del reato di minaccia aggravata a Corpo dello Stato commesso in Palermo, Roma e altrove a partire dal 1992 (capo A), Mancino Nicola per rispondere del reato di falsa testimonianza commesso in Palermo il 24 febbraio 2012 (capo C) e Ciancimino Massimo per rispondere dei reati di concorso nell’associazione mafiosa “cosa nostra” commesso in Paler-mo, Roma e altrove fino al novembre 2002 (capo D) e di calunnia aggravata commesso in Palermo il 15 giugno 2010. (Omissis).

All’udienza del 27 maggio 2013, cui si procedeva nella contumacia degli imputati De Donno, Dell’Utri e Mori ed alla presenza delle parti civili già ammesse in sede di udienza preliminare (De Gennaro Giovanni, Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore, Centro Studi e iniziative culturali Pio La Torre, Partito della Rifondazione Comunista, Associazione Le Agende Rosse, Sindacato Coordinamento per l’Indipen-denza Sindacale delle Forze di Polizia, Comune di Palermo, Presil’Indipen-denza della Regione Siciliana, Associa-zione Nazionale Familiari Vittime di Mafia, e AssociaAssocia-zione Cittadinanza per la Magistratura) chiedevano,

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altresì, di costituirsi parte civile l’Associazione Antiracket Libere Terre, l’Associazione nazionale Testimo-ni di Giustizia, il Comune di Firenze, la Provincia di Firenze, la Regione Toscana, l’Associazione Vigile del Fuoco Carlo La Cateno, l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, il Comune di Campofelice di Roccella, l’Associazione Nazionale Giuristi Democratici, l’Associazione di Vo-lontariato “Comitato Addiopizzo”, l’Associazione Riferimenti - Coordinamento Nazionale Antimafia, Libe-ra Associazioni Nomi e Numeri contro le mafie, Salvatore.

PARTE PRIMA - GENERALITÀ Capitolo 1

Premessa

Senza alcuna enfasi, può con assoluta serenità affermarsi che l’istruttoria dibattimentale svolta nel processo di cui la presente sentenza costituisce epilogo ha ricostruito la storia recente dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” e, più specificamente, quella che ha visto via via crescere l’influenza dei c.d. “corle-onesi”, i quali, muovendo già da un nucleo importante e significativo formatosi sin dagli anni 40-50 (con Michele Navarra e successivamente con Luciano Leggio), hanno infine conquistato l’egemonia, prima nella provincia di Palermo ivi compreso il suo capoluogo (sino ad allora regno incontrastato di Michele Greco e Stefano Bontate) e poi nell’intera Sicilia, con la definitiva consacrazione, come suo capo assoluto, di Salvatore Riina.

L’istruttoria ha, però, “fotografato” anche il declino e la sostanziale chiusura di quell’esperienza crimi-nale, a decorrere proprio dal suo apice raggiunto nella stagione delle stragi e conclusosi, di fatto, con l’arresto di Bernardo Provenzano. Oggi, si può dire che, come previsto da Giovanni Falcone con riferimento alla naturale conclusione di tutti i fenomeni umani ivi compreso, quindi, quello della mafia, quell’organiz-zazione criminale plasmata dai “corleonesi” e caratterizzata da precise regole e, soprattutto, gerarchie, non esiste più.

Il che non significa che non esista più la “mafia” inteso come modello di comportamento non solo criminale, purtroppo profondamente compenetrato in alcune fasce della popolazione siciliana non solo di basso livello sociale (anzi, non infrequentemente, la “spinta” all’espansione del fenomeno proviene da esponenti di ceti sociali più elevati, quelli della borghesia e dei professionisti, che più hanno interesse ad un controllo territoriale, che lo Stato non sempre riesce ad assicurare, e che, comunque, garantisce loro di lucrare rendite di posizione), né che non esistano già e che non possano ancora nascere strutture criminali che in qualche modo tentino di imitare la “cosa nostra”, ma si tratta, in ogni caso, appunto, di fenomeni diversi e non più sovrapponibili all’esperienza storica prima ricordata.

La “mafia storica” è stata sconfitta dallo Stato, nonostante, verrebbe da dire, i comportamenti di molti esponenti istituzionali, i quali, non rendendosi conto – o, in alcuni casi, pur essendo ben consapevoli – degli effetti dirompenti per la stessa tenuta delle istituzioni democratiche, hanno intrattenuto rapporti con esponenti mafiosi, ora per interessi elettorali, ora per agevolare carriere, ora per meri interessi economici personali o di gruppi ristretti.

Il punto di svolta del declino mafioso, secondo quanto può ricavarsi dall’istruttoria dibattimentale come meglio si vedrà più avanti, si è verificato, a parere della Corte, nel gennaio 1994 col fallimento del progettato attentato allo Stadio Olimpico di Roma e con l’arresto di Giuseppe Graviano (insieme a quello del fratello Filippo), che più si era impegnato per tale ulteriore strage, avendo la capacità economica e, soprattutto, l’intelligenza (criminale) organizzativa e direttiva, che, invece, per fortuna di questo Paese, sarebbe, poi, mancata ai residui propugnatori della strategia stragista Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca (stante il ruolo più defilato volontariamente assunto da Bernardo Provenzano, il quale, per portare avanti i suoi affari aveva necessità di una sorta di patto di non belligeranza con lo Stato): la storia non si fa con i se, ma le risultanze di questo processo – e della ricostruzione storica sottesa – inducono fondatamente a ritenere, tuttavia, che quella ulteriore strage, con la possibile uccisione di oltre cento carabinieri, se fosse riuscita, avrebbe messo definitivamente in ginocchio lo Stato, costringendolo a capitolare a fronte delle sempre più pressanti minacce provenienti dall’organizzazione mafiosa siciliana che avevano, ormai, trasceso gli stretti confini regionali, coinvolgendo altre realtà criminali (camorra, ‘ndrangheta e mafia pugliese) e altri terri-tori di particolare importanza anche per la rilevanza internazionale (come nel caso delle città di Roma, Firenze e Milano).

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Il cedimento dello Stato, già, di fatto, come si vedrà, iniziato dopo le stragi del 1992 per iniziativa di alcuni suoi esponenti ed ancor più evidenziatosi dopo le stragi del 1993, sarebbe divenuto inarrestabile per l’impossibilità di fronteggiare quell’escalation criminale, senza pari nella storia del Paese, in un momento di forte fragilità delle Istituzioni, già travolte dal fenomeno di “mani pulite”, e di conseguente instabilità per l’affacciarsi anche di nuove forze politiche che soltanto col successivo declino mafioso sarebbero riuscite ad acquisire la necessaria autonomia di azione, inizialmente compromessa da risalenti rapporti di tipo eco-nomico/elettorale tra taluni suoi esponenti di primo piano e soggetti più o meno direttamente legati a “cosa nostra”.

Il processo ha assegnato a questa Corte un incarico arduo e pressoché titanico, perché i fatti sottesi alla principale fattispecie criminosa specificamente contestata, l’art. 338 c.p., hanno spesso reso necessaria la ricostruzione di vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni sessanta e i giorni nostri (basti ricordare, a titolo di mero esempio senza alcuna pretesa di esaustività, ai tentativi di golpe ed alle stragi dei primi anni settanta, al sequestro ed uccisione di Aldo Moro e, più in generale, alla stagione del terrorismo di natura brigatista, alla Loggia massonica deviata della P2 ed al ruolo di Licio Gelli, al sequestro Cirillo, alle stragi di mafia sin dalla c.d. “strage di viale Lazio” e, più in generale, alla interminabile sequela – senza pari nel mondo – di uomini delle Istituzioni uccisi in Sicilia, ai rapporti tra la “cosa nostra” siciliana e quella americana) e che, peraltro, hanno visto materializzarsi, quasi quale filo conduttore, alcuni interventi di strutture occulte di natura massonica o paramassonica e di esponenti infedeli dei c.d. servizi segreti.

Il compito non è, dunque, agevole, ma si tenterà di dare conto, comunque, di tutte le acquisizioni probatorie e dei ragionamenti che hanno condotto la Corte alle conclusioni infine raggiunte all’esito di una istruttoria dibattimentale di eccezionale complessità (ben 228 udienze, oltre 1.250 ore di dibattimento, oltre 190 soggetti esaminati, tra i quali alcuni rappresentanti dei massimi vertici dello Stato, innumerevoli documenti in formato cartaceo e soprattutto informatico). (Omissis).

PARTE TERZA - LA C.D. “TRATTATIVA STATO-MAFIA” ED IL REATO DI MINACCIA A CORPO POLITICO NEL BIENNIO 1992-1993

Capitolo 1

Premessa storico-giuridica

1.1. La trattativa Stato-mafia - Tema ricorrente del presente processo, al di là della formale imputazione racchiusa nel capo A) della rubrica, è stato quello della cosiddetta “trattativa Stato-mafia” cui si sono riferiti molti testimoni escussi e le stesse parti (pubblico ministero e difensori sia delle parti civili che degli imputati) di questo processo. Col termine “trattativa” si è inteso fare riferimento a quei contatti che, secondo l’accusa, già a decorrere dall’omicidio dell’on. Lima, si sono avuti tra esponenti delle Istituzioni ed esponenti della associazione maliosa denominata “cosa nostra”.

In termini di fatto, sugli incontri ed i contatti tra esponenti delle Istituzioni ed esponenti della associa-zione mafiosa denominata “cosa nostra”, fatta salva l’esatta collocaassocia-zione temporale del loro inizio di cui si dirà più avanti, non v’è sostanziale contestazione.

V’è, invece, contrasto sulle ragioni di tali contatti ed anche di ciò si dirà meglio più avanti esaminando le risultanze probatorie del dibattimento.

Poiché, però, nell’affrontare tale tema si sono spesso sovrapposti giudizi e valutazioni di tipo etico-politico rispetto a giudizi e valutazioni di tipo strettamente giuridico che sono i soli che possono trovare ingresso in questa sede, è opportuno formulare alcune considerazioni anche in questo caso in termini di generalità prima di affrontare ed esaminare tutte le risultanze probatorie acquisite.

Si è sostenuto, invero, soprattutto da parte delle difese degli appartenenti alle Istituzioni qui imputati, che la “trattativa”, se finalizzata a far cessare le stragi che in quel periodo si succedevano, giammai può essere ritenuta illecita né sotto il profilo politico né sotto quello giuridico, competendo al potere esecutivo ed alle forze dell’ordine promuovere tutte le iniziative ritenute necessarie per prevenire l’ulteriore com-missione di così gravi crimini.

Rientrerebbe, quindi, nella discrezionalità politica del potere esecutivo la valutazione (appunto discre-zionale) riguardo alle eventuali concessioni da fare in favore dei poteri mafiosi contrapposti al fine di ottenere da questi la cessazione delle attività criminali.

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Tale affermazione è certamente vera, ma copre soltanto una parte della problematica giuridica sottesa. Non sembra, innanzitutto, che possa ritenersi lecita, in via generale, una “trattativa” da parte di rappresentanti delle Istituzioni statuali, non, eventualmente, con singoli compartecipi di una associazione mafiosa e nei limiti delle “concessioni” che lo Stato può riconoscere in forza di disposizioni di legge dettate con finalità premiali della collaborazione con la giustizia, bensì con soggetti che si pongano in rappresen-tanza dell’intera associazione mafiosa e richiedano, nell’interesse di questa, benefici che esulino dai perimetri normativi ovvero anche soltanto interventi che alterino il libero formarsi della discrezionalità politico-amministrativa e che, quindi, in definitiva comportino un riconoscimento della stessa organizza-zione criminale ed il suo conseguente inevitabile rafforzamento.

Il tema, come è noto, era già venuto all’attenzione del dibattito pubblico alla fine degli anni settanta, soprattutto dopo il sequestro dell’on. Aldo Moro da parte dell’organizzazione terroristica denominata “Brigate Rosse”, allorché si pose il dilemma tra la linea della c.d. “fermezza” e quella propugnata da coloro che ritenevano possibile “trattare” con i terroristi ed eventualmente far loro qualche concessione (si ipotizzò anche la liberazione di qualche detenuto) pur di salvare una vita umana (quella dell’ostaggio).

Lo Stato scelse la via dell’assoluta “fermezza”, sintetizzata, come meglio non si potrebbe, nelle parole pronunziate da uno dei più importanti leader politici dell’epoca, la cui elevatissima statura morale è ancor oggi unanimemente riconosciuta: «Io ritengo che la fermezza dello Stato, la sua ripulsa netta ad ogni ricatto e ad ogni cedimento sia anche la via che può consentire di salvare la vita di uno qualunque dei suoi cittadini».

Tale linea (seppure con talune, per lo più celate, oscillazioni: v., ad esempio, vicenda che riguardò l’assessore ai lavori pubblici della Regione Campania, Ciro Cirillo, sequestrato dalle Brigate Rosse il 27 aprile 1981 e rilasciato il successivo 24 luglio 1981) venne poi sostenuta, fino alla sua consacrazione legislativa, quando si sviluppò il fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione nonostante in tali casi non si ponesse un problema di cedimento dello Stato o di riconoscimento di organizzazioni a questo dichiaratamente contrapposte.

Ma, ritornando all’ambito del fenomeno mafioso che riguarda questo processo, va ricordato che il legislatore, dopo ampio dibattito del controverso tema che implica inevitabilmente profili di eticità e di bilanciamento tra deroghe del trattamento sanzionatorio e benefici che lo Stato può trarre in termini di prevenzione di reati e di scompaginamento delle organizzazioni criminali, ha dettato nel 1991 una disci-plina che riconosce a singoli appartenenti alle associazioni mafiose, che, dissociandosi da queste, inizino un percorso di collaborazione con la giustizia, ben determinati e specifici benefici sia in tema di trattamento sanzionatorio sia in tema di protezione.

Tra le finalità dichiarate di tale normativa, oltre a quella di assicurare alla giustizia i colpevoli di gravi delitti già commessi, v’è certamente anche quella di prevenire l’ulteriore commissione di altrettanto gravi delitti, ma tale specifica finalità non è disgiunta – ma si pone anzi in rapporto di stretta strumentalità – con quella di disarticolare le organizzazioni mafiose che da sempre condizionano la vita democratica del nostro Paese, controllandone capillarmente ampie aree del territorio nazionale ed una non irrilevante parte dell’economia nazionale, il cui ordinato ed ordinario sviluppo è alterato dall’afflusso di ingentissimi capitali di provenienza illecita.

Al di fuori di tale perimetro normativo – o peggio, in assenza di copertura legislativa – in uno Stato democratico non vi possono essere “lecite” concessioni o riconoscimenti di sorta che proprio perché diretti, non a favore di singoli soggetti che si dissociano dall’organizzazione mafiosa, ma, in sostanza, a favorire l’associazione mafiosa stessa nel suo complesso, sia pure con finalità di prevenzione, inevitabilmente e oggettivamente la rafforzano come potere alternativo e contrapposto a quello dello Stato, talmente potente e forte, che quest’ultimo, appunto, deve “trattare” con essa e concedere benefici utilizzando la propria discrezionalità amministrativa in modo distorto ed al di fuori dei parametri che dovrebbero governarla, tanto che ciò avviene, non già in modo trasparente e palese, ma, al contrario, occulto e non dichiarato.

È, dunque, certamente riduttivo – e sicuramente giuridicamente errato – guardare ad una “trattativa” con una organizzazione criminale come se fosse il normale esplicarsi di una qualsiasi attività di governo rimessa al potere esecutivo e, quindi, sempre lecita anche in presenza di ipotesi di abuso di poteri o di funzioni se queste non si concretizzino anche nella formale violazione di norme legislative o regolamentari o del dovere di astensione, non potendo, comunque, il giudice penale invadere l’ambito della

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discreziona-lità amministrativa che il legislatore, riformando, ad esempio, l’art. 323 c.p., ha ritenuto, anche per esigenze di certezza del precetto penale, di sottrarre a tale sindacato.

Si vuole dire, in altre parole, che una “trattativa” di singoli esponenti delle Istituzioni, quand’anche avallata dal potere esecutivo, non può giammai essere ritenuta “lecita” nell’ordinamento se, come detto, priva di copertura legislativa e tale è certamente una “trattativa” che conduca, secondo l’ipotesi accusatoria da verificarsi, ad esempio, ad omettere atti dovuti quali la ricerca e l’arresto di latitanti ovvero anche a concedere benefici, quali l’esclusione del trattamento penitenziario previsto dall’art. 41-bis ord. penit., non sulla base delle valutazioni che la legge impone (in primis, l’assenza di collegamenti con le organizzazioni mafiose), ma piuttosto in forza di valutazioni del tutto estranee e non consentite dalla legge medesima, tanto da non potere essere in alcun modo esplicitate nei presupposti motivazionali dei relativi provvedi-menti, con ciò realizzandosi, in fatto, una situazione giuridica non dissimile da quella estrema della liberazione di detenuti in cambio del rilascio dell’ostaggio che taluni ipotizzarono – senza seguito proprio per l’impercorribilità di tale soluzione senza violare le regole dell’ordinamento democratico – in occasione del sequestro dell’on. Aldo Moro. L’uso così distorto della discrezionalità del potere esecutivo, infatti, in tal caso, proprio perché dimostra e manifesta l’alterazione dell’ordinario evolversi dell’iter deliberativo do-vuto all’intervento o alla richiesta dell’associazione mafiosa o anche soltanto la necessità dello Stato di addivenire unilateralmente alla concessione di benefici al di fuori delle regole normative, esalta, nei fatti, la forza stessa dell’organizzazione mafiosa, che può permettersi, infatti, di piegare lo Stato sino a far sì che siano violate le leggi che il medesimo Stato si è dato, e, dunque, in conclusione rafforza l’associazione mafiosa nel suo complesso contribuendo al perpetuarsi del suo potere.

Nessuna attività che produca un simile effetto, diretto o indiretto, può ritenersi “lecita”, laddove costituisce dovere imprescindibile ed inderogabile dello Stato quello di contrastare e debellare definitiva-mente il contrapposto potere che le organizzazioni criminali esercitano sul suo territorio.

E, peraltro, è bene precisare anche che giammai possono ricondursi all’esercizio dei poteri discrezio-nali provvedimenti comunque viziati nella causa che li originano e che, conseguentemente, già, di per sé e per definizione, trascendono l’ambito della discrezionalità riconosciuta all’organo politico/amministrativo. Già le Sezioni unite della Corte di cassazione, con la nota sentenza del 29 settembre 2011 n. 155, Rossi, si sono premurate di avvertire che «per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità» e che, pertanto, si ha violazione di legge «non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito», realizzandosi, in questa ipotesi, «un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione».

In altre parole, pur se emanati nell’ambito di una attribuzione caratterizzata da discrezionalità, violano la legge i provvedimenti viziati sotto il profilo dell’eccesso di potere, ravvisabile laddove vi sia stata oggettiva distorsione dell’atto dal fine di interesse pubblico che avrebbe dovuto soddisfare, ovvero dello sviamento di potere, ravvisabile allorché il potere pubblico sia stato esercitato al di fuori dello schema che ne legittima l’attribuzione.

A ciò si aggiunga che, secondo l’orientamento assolutamente maggioritario della suprema Corte di cassazione (cfr., per tutte, Cass. Sez. VI, 26 giugno 2013, n. 34086 e, più recentemente, Cass. Sez. II, 27 ottobre 2015, n. 46096) il requisito della violazione di norme di legge ben può essere integrato anche solo dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della pubblica amministrazione, per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi ed impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione.

Infatti, anche nell’art. 97 Cost., che pur detta principi di natura programmatica, secondo la citata giurisprudenza della Suprema Corte, è individuabile un residuale significato precettivo relativo all’impar-zialità dell’azione amministrativa e, quindi, un parametro di riferimento per l’accertamento della violazio-ne di legge, dal momento che l’imparzialità a cui fa riferimento la detta norma costituzionale si risolve

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anche nel divieto di favoritismi, nell’obbligo cioè per la pubblica amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi tutelati alla stessa maniera, conformando logicamente i criteri oggettivi di valutazione alle differenziate posizioni soggettive, ma astenendosi dal privilegiare situazioni personali che confliggano con l’interesse generale della collettività sotteso all’attribuzione del relativo potere discrezionale.

Se così è, non si vede, allora, come possa sostenersi, ad esempio, per restare nel concreto del presente processo, che un provvedimento di mancata proroga del regime penitenziario del c.d. 41-bis adottato soltanto per taluni soggetti e fondato, non già sulle ragioni che secondo la legge debbono essere considerate ovvero anche su semplici ragioni umanitarie connesse ad una non condivisione dell’istituto, bensì esclu-sivamente su sollecitazioni criminose promananti da un’organizzazione mafiosa (quand’anche veicolate attraverso una “trattativa”), rientri, comunque, nella discrezionalità politica/amministrativa e non integri, piuttosto, una evidente violazione di legge, sia per eccesso e sviamento di potere, sia per contrasto con il generale principio di cui al citato art. 97 Cost.

E, d’altra parte, laddove, da parte di coloro che sostengono la legittimità della “trattativa”, si è, però, nel contempo, fatto riferimento ad uno “stato di necessità” che potrebbe giustificare interventi o decisioni extra

legemdel potere esecutivo, si è già, in modo contraddittorio, dunque, ammesso, implicitamente, la ricon-ducibilità della condotta all’area della sanzionabilità penale, seppure in ipotesi scriminata in presenza dell’esimente prevista dall’art. 54 c.p. (con l’evidente conseguenza che, in ordine logico, prima dovrebbe accertarsi l’esistenza della condotta sussumibile nella fattispecie penale e, poi, semmai l’esistenza del-l’eventuale scriminante).

Ma, in realtà, le considerazioni suddette, qui necessariamente introdotte perché il tema della “tratta-tiva” ha attraversato tutto il processo ed è stato ripetutamente richiamato, sotto vari profili, da tutte le parti sino alla fase conclusiva della discussione, hanno una limitata rilevanza, poiché la questione della “tratta-tiva”, a dispetto dell’attenzione anche mediatica che si è concentrata su di essa, non costituisce, di certo, in realtà, l’aspetto centrale del presente processo.

Non è oggetto di contestazione, infatti, in questa sede, la condotta in sé, pur se illecita, degli esponenti delle istituzioni che ebbero, appunto, a “trattare” con alcuni esponenti dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, né la legittimità di eventuali provvedimenti conseguentemente adottati dal potere esecutivo, quanto, piuttosto, la condotta che costituisce l’antecedente fattuale di tale “trattativa” (che, dunque, non necessariamente deve fungere, essa, da presupposto fattuale e logico della formulazione accusatoria di minaccia, potendo porsi, con quest’ultima, invece, anche in rapporto di mera occasionalità) o che, even-tualmente, ha trovato, comunque, origine in quell’approccio da parte di esponenti delle Istituzioni che potevano far ritenere che vi potesse essere una “apertura” dello Stato verso talune richieste provenienti dalla organizzazione criminale che aveva scatenato la guerra contro lo Stato medesimo.

Ci si intende riferire, in particolare, alla condotta di minaccia che taluni esponenti dell’associazione mafiosa avrebbero rivolto nei confronti del Governo della Repubblica con la finalità di ottenere benefici nei confronti di un numero indeterminato di appartenenti a quella organizzazione criminale e, quindi, in sostanza, di quest’ultima nel suo complesso, ed alla condotta di taluni esponenti delle Istituzioni, i quali, prima di fatto istigandola e, poi, nel farsi tramite di tale minaccia (dunque, quale che sia la modalità attraverso la quale essi l’abbiano recepita e cioè nell’ambito di una “trattativa” ovvero per altra via) verso il potere esecutivo e, dunque, agevolandola, avrebbero, secondo l’accusa, concorso nella commissione del medesimo reato.

Ma prima di esaminare le risultanze probatorie in ordine a tali condotte e, quindi, anche la riconduci-bilità delle stesse a fattispecie di reato, è necessario affrontare alcune questioni di carattere generale che attengono al reato in concreto in questa sede contestato.

1.2 Il reato di minaccia ad un corpo politico (capo A)- Agli imputati Riina, Brusca, Bagarella, Cinà, Subranni, Mori, De Donno e Dell’Utri, unitamente ad altri soggetti nei cui confronti si è proceduto separatamente (Provenzano Bernardo e Mannino Calogero) ovvero deceduti (Parisi Vincenzo e Di Maggio Francesco), il p.m. contesta il reato di minaccia ad un corpo politico previsto dall’art. 338 c.p., per avere, in particolare, usato minaccia a rappresentanti del Governo della Repubblica al fine di turbare la regolare attività di quest’ultimo (v. imputazione di cui al capo A).

Tale contestazione, per le problematicità dell’ipotizzata figura di reato evidenziate anche dai difensori degli imputati sin dalle battute iniziali del processo (v. richiesta di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. già

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avanzata in sede di questioni preliminari dagli imputati Mori e Subranni e, sotto altro profilo, dagli imputati Riina e Bagarella) rende necessarie alcune considerazioni di carattere generale.

La prima, certamente principale e fondamentale, questione riguarda la configurabilità di tale reato rispetto ad un organo costituzionale qual è il Governo della Repubblica.

Si sostiene, infatti, in particolare da parte della difesa dell’imputato Dell’Utri (v. trascrizione udienza del 16 febbraio 2018 e memoria successivamente depositata il 23 marzo 2018), con l’avallo anche di autorevole dottrina, che la nozione di “corpo politico” di cui all’art. 338 c.p. non può ricomprendere gli organi costituzionali (come, appunto, il Governo o le Assemblee legislative o la Corte costituzionale) per i quali, infatti, il codice penale appresta una specifica tutela con la previsione di cui all’art. 289 c.p. (attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali).

Tale argomentazione è stata, poi, ripresa, nel prosieguo della discussione, anche dalle difese di tutti gli altri imputati del medesimo reato.

Ed in effetti, la nozione di “corpo politico” è stata sempre alquanto controversa nella dottrina penali-stica più tradizionalista, che spesso ha stentato ad individuare gli organi riconducibili a tale previsione a differenza di quanto, invece, è più semplice fare per le concorrenti nozioni di “corpo amministrativo” e “corpo giudiziario” pure richiamate nel medesimo art. 338 c.p. (della modifica di tale norma penale inter-venuta nel corso di questo processo con la l. 3 luglio 2017, n. 105 si dirà più avanti).

In realtà, però, la difficoltà principale non va individuata nella nozione di “corpo politico”, bensì in quella più ristretta di “corpo” laddove non v’è diretta corrispondenza con l’esplicitazione normativa termi-nologica degli organi dello Stato.

Tuttavia, col termine “corpo” può ritenersi, in sostanza, che il legislatore abbia inteso riferirsi generi-camente ad ogni autorità o organo costituiti in collegio, come si ricava dal successivo riferimento contenuto nello stesso art. 338 c.p. alla «rappresentanza di esso» e, comunque, a «qualsiasi pubblica Autorità costituita in collegio».

In altre parole, deve ritenersi che il legislatore abbia voluto prevedere una specifica e più grave fattispecie di reato allorché il soggetto passivo non sia un singolo pubblico ufficiale (o più pubblici ufficiali), bensì un organo pubblico costituito in collegio e ciò, evidentemente, per la maggiore offensività di una condotta delittuosa diretta verso una autorità che, per essere cosi costituita, si identifica maggiormente, quanto meno nell’immaginario e secondo la comune accezione, con lo Stato.

Se così è, allora l’attenzione deve spostarsi sull’aggettivazione del “corpo” come “politico”.

Orbene, per quanto possa apparire tautologico, è “politico” un organo che svolge una funzione politica, così dovendosi fare riferimento a quell’insieme di determinazioni per mezzo delle quali si amministra lo Stato nei suoi vari settori di intervento in vista del raggiungimento delle finalità pubbliche.

Già tale definizione impone, dunque, con tutta evidenza, di includere tra i “corpi politici”, innanzitutto, proprio il Governo della Repubblica, che costituisce, anzi, il principale organo che, in forma collegiale, svolge una attività indubitabilmente “politica”.

Ed in tal senso, infatti, si è espressamente pronunziata la suprema Corte con una sentenza (v. Cass. Sez. VI, 18 maggio 2005, n. 32869) volutamente pressoché trascurata dalle difese che tentano di sminuirne la portata di precedente, asserendo che si sarebbe trattato soltanto di un obiter dictum e che l’inclusione del Governo nella nozione di Corpo politico è contenuta in una parentesi (v. ancora difesa dell’imputato Dell’Utri).

In realtà, l’affermazione della suprema Corte è assolutamente chiara ed inequivocabile, laddove fa seguire l’indicazione del Governo della Repubblica (così come quelle analoghe dei Parlamento e delle Assemblee Regionali) alla definizione di “Corpo politico” che nella stessa sentenza viene offerta: «Per corpi politici vengono intesi quegli organismi che svolgono una funzione politica»; e la citata sentenza fa ciò con espresso riferimento all’art. 338 c.p. e con un altrettanto espresso raffronto con l’art. 289 c.p. («purché il fatto – se configurabile – non realizzi l’ipotesi di reato prevista dall’art. 289 c.p.») nel testo allora vigente che delineava una più grave fattispecie di reato.

In ogni caso, non può di certo, piuttosto, trascurarsi che, ad oggi, non risulta alcuna pronunzia giuri-sprudenziale di segno contrario a quella appena ricordata. Non si vede, d’altra parte, sulla base di quali considerazioni o definizioni possa escludersi che il Governo della Repubblica sia un “corpo politico”, cioè un organo che esercita collegialmente una funzione politica.

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Ed infatti, la dottrina richiamata dalle difese che tende ad escludere il Governo (e gli altri organi costituzionali) dalla previsione dell’art. 338 c.p. non riesce ad individuare univocamente quali possano essere i “corpi politici”, tanto che, esclusi i consigli comunali che anche secondo l’unanime giurisprudenza della Corte di cassazione costituiscono “corpi amministrativi”, taluni autori hanno ritenuto di indicare le Commissioni Parlamentari, altri non meglio precisati uffici elettorali (peraltro, come nel caso più citato dalle difese, con una formula del tutto ipotetica – «sembra si vogliano indicare...» – non certo utile in un manuale di diritto penale che dovrebbe consentire a suoi fruitori di raggiungere una sicura conclusione e che, però, non si cura neppure di indicare quali organi possano altrimenti o alternativamente individuarsi), mentre non è in alcun modo di aiuto alla tesi in questione l’esclusione, nella Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, del Gran Consiglio del Fascismo, che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dell’imputato Dell’Utri, costituiva organo distinto dal Governo, tanto che la legge istitutiva definiva il predetto organo consulente ordinario del Governo in materia politica.

Ed allora la dottrina richiamata trascura e supera sostanzialmente del tutto l’ineludibile definizione ed il significato letterale di “corpo politico” e fa leva, piuttosto, sul fatto che per la tutela degli organi costitu-zionali il legislatore ha dettato una specifica norma, l’art. 289 c.p. che, appunto, punisce l’«attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali» e, in particolare, gli atti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente, al Governo l’esercizio delle attribuzioni o delle prerogative conferite dalla legge. Sennonché tale argomentazione non appare in concreto dirimente perché la condotta punita dall’art. 338 c.p. è del tutto diversa da quella punita dall’art. 289 c.p. e ciò sia se si consideri (come prospettato dalla difesa dell’imputato Dell’Utri e successivamente anche dalla difesa dell’imputato Cinà all’udienza del 22 marzo 2018) il testo di quest’ultima norma vigente all’epoca dei fatti per i quali si procede in questo processo, sia se si consideri il testo della stessa norma successivamente modificato, dal momento che il nuovo testo non ha fatto altro che rendere più esplicito il perimetro del delitto, non a caso intitolato «Attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali» ed inserito nel Capo dei delitti contro la personalità interna dello Stato a differenza dell’art. 338 c.p. inserito nel Capo relativo ai delitti contro la pubblica amministrazione. D’altra parte è assolutamente dirimente riguardo alla formulazione dell’art. 289 c.p. previgente richiamata dalle difese per supportare ulteriormente (ed a loro parere defini-tivamente) l’interpretazione diretta ad escludere dalla definizione di “Corpo politico” il Governo, il fatto che la sentenza della Corte di cassazione sopra richiamata (Cass. Sez. VI, 18 maggio 2005, n. 32869) è

interve-nuta primadella novella del 2006 di cui si dirà (art. 4 della l. 24 febbraio 2006, n. 85) e, dunque, nella vigenza proprio del testo dell’art. 289 c.p., che, secondo la difesa dell’imputato Dell’Utri, ancor più che l’attuale testo, escluderebbe l’inclusione anche del Governo nella nozione di Corpo politico di cui all’art. 338 c.p.

In altre parole, è la stessa epoca (2005) della pronunzia della Corte di cassazione più volte citata che sconfessa la tesi della difesa di Dell’Utri secondo cui sino al 2006, quando è intervenuta la novella legislativa di cui si dirà meglio più avanti, non avrebbe potuto trovare applicazione, per il fatto per il quale si procede in questa sede, l’art. 338 c.p.p., che riguarderebbe organi diversi, ma semmai l’art. 289 c.p.p., il quale solo, invece, ancora a dire della difesa dell’imputato Dell’Utri (poi ripresa sul punto anche dalla difesa dell’im-putato Cinà), avrebbe punito i fatti commessi in pregiudizio del Governo (v. trascrizione dell’udienza del 16 febbraio 2018 e memoria successivamente depositata il 23 marzo 2018, nonché, quanto alla difesa del Cinà, trascrizione dell’udienza del 22 marzo 2018).

Ciò senza considerare che, a seguire il ragionamento della difesa dell’imputato Dell’Utri, dopo la novella del 2006, in conseguenza della sostenuta abrogazione dell’art. 289 c.p. nella parte relativa alla minaccia, non sarebbe più punibile la minaccia in danno del Governo, mentre sarebbe paradossalmente ancora punibile, ai sensi dell’art. 338 c.p., la minaccia in danno di un consiglio comunale e persino, ai sensi dell’art. 612 c.p., quella in danno di qualsiasi individuo (sul punto, sotto altro profilo, si tornerà anche più avanti).

Se è così e se, pertanto, nella vigenza del precedente testo normativo la Corte di cassazione non aveva manifestato dubbi rispetto, appunto, all’inclusione anche del Governo nella nozione di Corpo politico di cui all’art. 338 c.p., deve, semmai, verificarsi se la sopravvenuta formulazione dell’art. 289 c.p., nel conseguente raffronto con la previsione dell’art. 338 c.p. (non mutata se non recentemente nei termini di cui si dirà), possa ora far riconsiderare la conclusione cui era già prima giunta la Corte suprema.

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La risposta non può che essere negativa, dal momento che l’attuale formulazione dell’art. 289 c.p. non prevede né punisce la minaccia e la violenza (nel senso che si preciserà) nei confronti dell’organo costitu-zionale ed il conseguente turbamento dell’attività di questi.

Sulla minaccia, invero, non v’è nulla da aggiungere essendo chiaramente esclusa dalla previsione dell’art. 289 c.p., così come anche il turbamento dell’attività dopo la modifica apportata dall’art. 4 della l. 24 febbraio 2006, n. 85.

V’è, invece, da precisare che gli «atti violenti diretti a impedire» cui si riferisce l’art. 289 c.p. sono cosa ben diversa – ed in astratto anche meno grave – dell’«usare violenza» al Corpo politico punita dall’art. 338 c.p.

Usare violenza al Corpo politico richiede, invero, che questo (o una sua rappresentanza) sia diretto destinatario della violenza medesima, subendone, quindi, le conseguenze nelle persone fisiche che lo costituiscono.

Gli «atti violenti» cui si riferisce l’art. 289 c.p., invece, sono diversi da quelli che attingono direttamente l’organo costituzionale nelle persone che lo costituiscono, ricomprendendo, piuttosto, tutti quegli atti oggettivamente violenti che, comunque, pur senza colpire direttamente l’organo costituzionale, hanno l’effetto di impedirne l’esercizio delle attribuzioni.

Si pensi, ad esempio, alla manifestazione di piazza che, a mezzo di atti violenti quali la predisposizione di barricate o l’attizzamento di incendi, impedisca al Governo di riunirsi e, quindi, di esercitare le proprie attribuzioni.

Tale condotta esulerebbe dalla previsione dell’art. 338 c.p. in assenza di violenza usata nei confronti del Governo, ma integrerebbe, appunto, la previsione dell’art. 289 c.p. per l’effetto impeditivo dell’esercizio delle attribuzioni governative.

Ed appare del tutto coerente e razionale che il legislatore abbia attribuito maggiore gravità alla violenza che colpisce direttamente l’organo costituzionale rispetto all’atto violento che soltanto indirettamente ha l’effetto di impedire l’esercizio delle attribuzioni dell’organo costituzionale.

Se così è, allora appare del tutto evidente che l’ambito di operatività dell’art. 289 c.p. è diverso da quello dell’art. 338 c.p. con la conseguenza che non può in alcun modo utilizzarsi la previsione specifica dell’art. 289 c.p. per dedurre da questa che gli organi costituzionali (tra cui, per quel che qui interessa, il Governo) non possano ricomprendersi nella nozione di “corpo politico” richiamata dall’art. 338 c.p.

D’altra parte, ove si volesse seguire la tesi contraria, si dovrebbe concludere, poi, come già prima evidenziato, che alcune gravi condotte, punite persino se commesse nei confronti di qualsiasi semplice cittadino, quale ad esempio, quelle di minaccia, sarebbero, invece, prive di rilevanza penale se commesse in danno di un organo costituzionale (politico) riunito in collegio, ovvero, al più, dovrebbero parificarsi ad una somma di singole condotte criminose come commesse nei confronti di singoli individui privi di quella autorità che promana dall’agire in rappresentanza dello Stato per di più nell’esercizio di funzioni costitu-zionali.

Si tratta, con tutta evidenza, di una conclusione illogica ed irrazionale e che, dunque, anche sotto tale profilo, non può che condurre alla diversa conclusione della distinta operatività delle fattispecie criminose di cui agli artt. 289 e 338 c.p. sia pure nella parziale coincidenza dei soggetti passivi in alcuni organi collegiali (tra i quali il Governo) che svolgono funzioni sia costituzionali che politiche. Conclusivamente, pertanto, deve ritenersi che sia configurabile la fattispecie criminosa di cui all’art. 338 c.p. nel caso sia usata violenza o minaccia al Governo della Repubblica per impedirne, in tutto o in parte, anche temporaneamente, o per turbarne comunque l’attività.

La seconda questione da affrontare ancora in termini di generalità è quella della configurabilità della fattispecie criminosa dell’art. 338 c.p. nel caso in cui la violenza o minaccia sia perpetrata nei confronti, non dell’intero Governo riunito, ma nei confronti di uno o più Ministri che del Governo fanno parte.

Si è visto, invero, che soggetto passivo del reato è l’organo pubblico dello Stato nell’integrità della sua composizione collegiale mediante la quale esercita le sue funzioni.

Tuttavia, deve ritenersi configurabile il reato in esame anche quando la minaccia, seppure indirizzata nei confronti di un solo componente dell’organo collegiale non in presenza dello stesso organo collegiale riunito, sia, però, diretta a minacciare l’intero organo collegiale allo scopo di impedirne o turbarne l’attività (interpretazione ora, come si vedrà, rafforzata, per quanto si dirà più avanti, dalla modifica apportata dalla

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l. 3 luglio 2017, n. 105 che ha inserito le parole «ai singoli componenti» dopo le parole «Corpo politico, amministrativo, giudiziario»).

In sostanza, si configura, comunque, il reato previsto dall’art. 338 c.p. quando l’agente, pur rivolgendo la minaccia ad un componente eventualmente non in presenza dell’organo collegiale riunito, mira non già alla persona fisica del componente medesimo, ma al corpo politico al fine di impedirne o turbarne l’attività. La più risalente giurisprudenza di legittimità già pronunziatasi in tal senso (cfr. Cass. 30 aprile 1954, Cadelo) è stata, infatti, ancora di recente ribadita dalla suprema Corte (v. Cass. Sez. II, 17 gennaio 2012, n. 5611) ed è condivisa anche da questa Corte di assise.

Come già anticipato, tale conclusione, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dell’imputato Cinà (v. trascrizione udienza del 22 marzo 2018), non è in alcun modo inficiata dalla modifica apportata dalla l. 3 luglio 2017, n. 105 che ha inserito le parole «ai singoli componenti» dopo le parole «Corpo politico, amministrativo, giudiziario» e nella rubrica le parole «o ai suoi singoli componenti».

Ed invero, come si ricava dai lavori preparatori, si tratta di una modifica diretta a rafforzare gli strumenti penali per fronteggiare il fenomeno delle intimidazioni ai danni degli amministratori locali, fenomeno che negli ultimi anni ha assunto dimensioni preoccupanti e destato grave allarme sociale, tanto che è stata istituita, al Senato della Repubblica, in data 3 ottobre 2013 un’apposita Commissione parlamen-tare di inchiesta, che, al termine dei suoi lavori in data 26 febbraio 2015, ha licenziato, tra l’altro, la proposta di legge che ha dato luogo all’intervento legislativo qui in esame.

La finalità, dunque, di tale intervento normativo è quella di rafforzare la tutela penale anche a fronte di atti che, volti a intimidire per lo più gli amministratori locali prevalentemente in relazione all’integrità delle loro persone e dei loro beni, minacciano, nel contempo, il buon andamento della pubblica amministrazione. A tale scopo, infatti, anche il ricorso all’art. 338 c.p. era ritenuto inadeguato quando il soggetto leso non è il corpo nella sua interezza o qualora il singolo destinatario non ha poteri di rappresentanza (come avviene, ad esempio, nel caso del sindaco).

Ed allora, appare del tutto chiaro perché la modifica legislativa in esame, di fatto e sostanzialmente, non è qui rilevante: tale modifica, infatti, non ha inciso in alcun modo sulla pregressa conclusione inter-pretativa sopra ricordata per la quale anche la minaccia rivolta ad un componente «eventualmente non in presenza dell’organo collegiale riunito» è punibile (già in forza della originaria formulazione dell’art. 338 c.p.) se diretta, comunque, non già alla persona fisica del componente, ma al corpo politico al fine di impedirne o turbarne l’attività, e ciò perché tale modifica ha ora soltanto «aggiunto» la punibilità della minaccia (o della violenza) rivolta al singolo componente dell’organo collegiale quand’anche non diretta a impedire o turbare l’attività del “corpo politico, amministrativo o giudiziario”, ma diretta a impedire o turbare l’attività di quel singolo componente nel suo operare individuale.

Nella fattispecie qui in esame, come si è visto sopra, la pubblica accusa, però, ha contestato la minaccia diretta a turbare la regolare attività del Governo della Repubblica, ancorché veicolata attraverso singoli rappresentanti di detto corpo politico, del cui complesso, comunque, si intendeva impedire o turbare l’attività, fatto, dunque, già punito dalla originaria formulazione dell’art. 338 c.p.

Per completezza, poi, va detto che, in relazione alla contestazione di reato qui in esame, è, altresì, irrilevante l’introduzione, dopo il primo comma dell’art. 338 c.p., di un comma in forza del quale «alla stessa pena soggiace chi commette il fatto per ottenere, ostacolare o impedire il rilascio o l’adozione di un qualsiasi provvedimento, anche legislativo, ovvero a causa dell’avvenuto rilascio o adozione dello stesso», trattan-dosi, anche in questo caso, di un ampliamento dell’area della punibilità penale già coperta dalla previsione del primo comma qui contestata e che deve trovare applicazione, in questa sede, nei suoi limiti originari più ristretti in forza dei principi che regolano la successione di leggi penali.

Semmai, va osservato che, oggi, il riferimento esplicito anche all’atto «legislativo» conferma ulterior-mente e definitivaulterior-mente che nell’area dell’art. 338 c.p. sono ricompresi anche “corpi politici” dotati del corrispondente potere senza alcuna incompatibilità con la concorrente previsione dell’art. 289 c.p.

Le questioni sin qui esaminate non esauriscono le problematiche poste dalla contestazione formulata dal p.m. con riferimento all’art. 338 c.p., ma costituiscono la necessaria indefettibile premessa di carattere generale al fine, poi, di affrontare tutte le altre questioni sollevate dalle difese nell’ambito delle singole posizioni degli imputati che più avanti saranno pure esaminate. (Omissis).

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L’imputato Mori, al più, almeno all’inizio, ovviamente, poteva dubitare che il proprio intendimento di giungere sino ai vertici mafiosi attraverso Vito Ciancimino potesse avere esito positivo, perché non poteva di certo ritenersi improbabile né che Vito Ciancimino si rifiutasse di collaborare con i Carabinieri e di fare da intermediario con i vertici mafiosi, né che, per qualsiasi causa, il medesimo Ciancimino non riuscisse a instaurare il contatto con i detti vertici mafiosi, né, infine, che questi rifiutassero qualsiasi interlocuzione. Ma, non può di certo dubitarsi che l’imputato Mori (se si vuole dare un senso alla sua azione che altrimenti non avrebbe avuto motivo di realizzare) si sia quanto meno rappresentato l’esito positivo pure possibile della sua stessa esortazione ai vertici mafiosi e cioè che Vito Ciancimino, come richiestogli, potesse fare effettivamente da intermediario con i vertici mafiosi medesimi e che questi, ove avessero accolto tale esortazione, avrebbero potuto avanzare alcune richieste quale contropartita per porre termine al “muro contro muro” con lo Stato.

Si vuole dire, in altre parole, che poiché è stato lo stesso Mori, per sua stessa ammissione, a sollecitare a «quella gente» (cioè, come detto, i “corleonesi” che capeggiavano “cosa nostra” ed ai quali Vito Ciancimino era vicino) il dialogo per superare il “muro contro muro” è evidente che il detto imputato fosse consapevole tanto di ciò che sollecitava, si ripete, non a Vito Ciancimino (come sostenuto dalla difesa in sede di discussione: v. trascrizione udienza dell’1 marzo 2018), ma ai vertici mafiosi (l’apertura del dialogo e, quindi, le reciproche richieste), quanto, nel caso in cui tale sollecitazione fosse stata accolta, di ciò che a questa sarebbe potuto conseguire ad opera dei mafiosi, e cioè l’indicazione della contropartita e, quindi, delle proprie condizioni per cessare la contrapposizione e le stragi.

Se così è, già emerge con chiarezza l’oggettiva convergenza ed integrazione, sia sotto il profilo psico-logico che materiale, delle condotte dei singoli concorrenti nel reato: da un lato gli autori in senso stretto della minaccia (i mafiosi) e dall’altro i compartecipi (i Carabinieri) consapevoli che la propria azione, in caso di esito positivo, avrebbe inevitabilmente fatto sorgere o, quanto meno consolidato il proposito criminoso risoltosi nella minaccia formulata nei confronti del Governo della Repubblica sotto forma di richieste di benefici, al cui ottenimento i mafiosi condizionavano la cessazione delle stragi.

In concreto, poi, si è già visto sopra nella parte terza della sentenza, come sia stata proprio l’iniziativa dei Carabinieri a far sorgere o, comunque, a rafforzare o, quanto meno, a rendere in quella fase attuale e, quindi, concreto, il proposito criminoso del Riina di ricattare lo Stato con la minaccia di cui si è detto. Rimandando, anche sul punto, alla richiamata più ampia e dettagliata esposizione contenuta nella Parte Terza della sentenza, ci si può limitare qui a ricordare come l’iniziale intento di Salvatore Riina e, quindi, di “cosa nostra” maturato e comunicato ai sodali già in vista della ormai prevista conferma in Cassazione della sentenza del “maxi processo”, fu quello di vendicarsi sia di coloro che non avevano mantenuto gli impegni assunti negli anni per “aggiustare” l’esito del detto processo fondamentale per la stessa sopravvivenza dell’associazione mafiosa, sia di coloro che, sul fronte opposto, erano stati individuati quali artefici di quello che si era rivelato come il più grave smacco subito da “cosa nostra” e che, per tale ragione, erano stati “condannati a morte”. Certo, Riina, sin dall’inizio, si era già ben prefigurato lo sbocco finale della sua azione («fare la guerra per fare la pace») e, dunque, si attendeva che lo Stato, messo in ginocchio per la gravità e la ferocia mai viste delle uccisioni e delle stragi che la mafia si accingeva a compiere, avrebbe dato segni di cedimento e avrebbe, conseguentemente, ripreso il dialogo con i mafiosi (la “coabitazione” di cui ha parlato il Presidente Violante), concedendo benefici di vario tipo e, quindi, consentendo allo stesso Riina di riacquistare integro il prestigio interno all’organizzazione mafiosa, in qualche modo intaccato per le assi-curazioni che egli aveva dato negli anni ai suoi sodali confidando in quelle che egli a sua volta aveva ricevuto dai suoi referenti politici.

Sennonché, quel generico ed ancora inattuale proposito di richiedere benefìci quale condizione per riprendere la “coabitazione” imbelle tra Stato e mafia (e, quindi, la “pace” alle condizioni imposte da “cosa nostra”, cui mirava, come si è visto, l’azione di “guerra” scatenata da quest’ultima) non avrebbe mai potuto attuarsi – e non sarebbe mai stato in concreto attuato con la formulazione esplicita della minaccia e del ricatto – se lo Stato non avesse abbandonato la linea della fermezza e non avesse sollecitato quel dialogo, il cui ontologico presupposto è l’ascolto delle reciproche richieste e che, dunque, conteneva già in sé l’aper-tura di una “trattativa”, così come, d’altra parte, ben compreso (tanto da non avere esitato a definirla tale sino ad un certo momento) da tutti i suoi protagonisti.

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In (da loro dichiarata) rappresentanza dello Stato nel caso in esame si sono fatti avanti (o “sotto” nel linguaggio gergale e dialettale di Riina) Subranni, Mori e De Dormo, i quali, qualunque fossero le ragioni che li animarono (verosimilmente la sollecitazione dell’on. Marmino, ma, in ogni caso, ed è ciò che qui rileva, non certamente – o almeno certamente non principalmente -– quelle di scoprire gli autori della strage di Capaci e di individuare ed arrestare i latitanti che guidavano “cosa nostra”, come si è già visto nella Parte Terza, Capitoli 6, 7 e 8), hanno, di fatto ma consapevolmente, reso attuale il proposito criminoso generico del Riina, da un lato aprendo il canale di comunicazione tramite Vito Ciancimino e, dall’altro, esortando i vertici mafiosi a formulare le condizioni per la cessazione delle uccisioni e delle stragi e, dunque, in concreto, a formulare la minaccia ed il ricatto mafiosi, che, senza la decisiva sollecitazione dei predetti Carabinieri e senza quel canale di comunicazione, non sarebbero stati rivolti (o, quanto meno, ma ciò è sufficiente per la configurazione del concorso nel reato sotto il profilo dell’istigazione, non sarebbero stati in quel momento rivolti) al Governo della Repubblica quale soggetto che avrebbe potuto soddisfare le richieste dei mafiosi.

Si vuole dire in altre parole che l’iniziativa dei Carabinieri è stata determinante per l’attuazione del proposito criminoso minaccioso e ricattatorio dei mafiosi, perché questi, in quel momento, avevano deciso di non servirsi più degli interlocutori politici che fino ad allora avevano fatto da intermediari per giungere sino al Governo (Salvo Lima era stato già ucciso e per altri era già in preparazione o era stata programmata l’uccisione) e attendevano, per porre le condizioni della cessazione della “guerra” ed ottenere così i voluti benefìci, l’apertura di un nuovo canale con le Istituzioni.

Riina, che già aveva “snobbato” tanto i contatti con alcuni politici della Lega (che in quel momento, d’altra parte, era ancora ben lontana dal Governo), quanto i contatti con Dell’Utri (non potendosi preve-dere, in quel momento, la travolgente ascesa politica dell’imprenditore Berlusconi per il quale Dell’Utri fino ad allora aveva fatto da intermediario per il versamento ai mafiosi di ingenti somme di denaro: v. sentenza di condanna di Marcello Dell’Utri in atti), aveva necessità di un canale istituzionale che gli consentisse di dare sbocco all’azione stragista intrapresa, chiedendo ed ottenendo essenziali benefìci soprattutto per i tanti detenuti condannati all’esito del “maxi processo” di modo da riacquistare il prestigio da questo compromesso.

L’improvvida azione, ideata da Subranni e Mori e poi materialmente attuata anche con l’ausilio consapevole di De Donno, ha, da un lato, istigato e determinato nei mafiosi l’azione delittuosa oggetto della contestazione di reato in esame, e, dall’altro, nel contempo, ha facilitato la sua attuazione, perché i mafiosi hanno potuto servirsi, a ritroso, del medesimo canale attraverso il quale era loro giunta la sollecitazione dei Carabinieri medesimi (il canale costituito da Vito Ciancimino), e, nel contempo, hanno potuto fare affida-mento sull’inoltro ulteriore delle loro richieste e, quindi, della loro minaccia, sino al Governo, da parte di quei Carabinieri che li avevano indotti a ritenere di essersi fatti avanti per conto di questo.

La condotta di Mori (così come di Subranni e di De Donno), dunque, ha, innanzitutto ed indubitabil-mente, fatto sorgere in quel momento o, comunque, consolidato e rafforzato nei mafiosi la determinazione a commettere il reato di minaccia.

Già tale condotta, accompagnata dalla consapevolezza nei termini in cui prima è stata precisata, è di per sé idonea ad integrare il concorso nel reato di minaccia al Governo della Repubblica.

Ai fini dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato Mori (così come di Subranni e De Donno), dunque, a questo punto, sarebbe sufficiente accertare soltanto che, infine, la minaccia dei mafiosi sia stata percepita dal suo destinatario e che, quindi, il reato si sia consumato.

Tale prova è stata ampiamente raggiunta (v. Parte Terza, Capitolo 28, paragrafo 28.4), poiché è certo, per sostanziale ammissione dello stesso Ministro Conso, che proprio la minaccia mafiosa sia stata alla base della mancata proroga dei provvedimenti applicativi del regime del 41-bis nel mese di novembre 1993.

Ciò a prescindere dalla chiara lettura degli accadimenti verificatisi nel corso del 1993 che fu fatta dagli organi investigativi a ciò deputati (v. Parte Terza, Capitolo 23) e che fu da questi riportata al Governo e certamente percepita da tutte le Istituzioni del Paese (v. annotazioni nell’agenda del Presidente del Con-siglio Ciampi con riferimento anche alle pregresse iniziative del Presidente della Repubblica Scalfaro nell’ambito della sostituzione dei vertici del D.A.P.; testimonianza del Presidente della Camera Napolitano; “riflessioni” del Presidente del Senato Spadolini rinvenute presso la Fondazione a lui intitolata).

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2.2. Antonio Subranni

Anche all’imputato Antonio Subranni il p.m. contesta di avere concorso nel reato di minaccia finaliz-zato a turbare l’attività del Governo della Repubblica, commesso dai vertici dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, mediante la medesima triplice condotta addebitata all’imputato Mori la cui posizione è stata prima esaminata:

1) «inizialmente contattando, su incarico di esponenti politici e di governo, uomini collegati a “cosa nostra” (fra gli altri, in particolare, Ciancimino Vito Calogero, nella sua veste di tramite con uomini di vertice della predetta organizzazione mafiosa ed “ambasciatore” delle loro richieste), e così agevolando l’instaurazione di un canale di comunicazione con i capi del predetto sodalizio criminale, finalizzato a sollecitare eventuali richieste di “Cosa Nostra” per far cessare la strategia omicidiaria e stragista»;

2) «in seguito favorendo lo sviluppo di una “trattativa” fra lo Stato e la mafia, attraverso reciproche parziali rinunce in relazione, da una parte, alla prosecuzione della strategia stragista e, dall’altra, all’eser-cizio dei poteri repressivi dello Stato»;

3) «successivamente assicurando altresì il protrarsi dello stato di latitanza di Provenzano Bernardo, principale referente mafioso di tale “trattativa”».

Tutte queste condotte, ancora secondo la contestazione del p.m., «per un verso, agevolavano la rice-zione presso i destinatari ultimi della minaccia di prosecurice-zione della strategia stragista e, per altro verso, rafforzavano i responsabili mafiosi nel loro proposito criminoso di rinnovare la predetta minaccia».

Anche ad Antonio Subranni, dunque, la pubblica accusa attribuisce (così come a Mario Mori, la cui posizione, come detto, è stata esaminata nei paragrafi precedenti, ed a Giuseppe De Donno, di cui si dirà nei paragrafi successivi) una condotta concorsuale consistente nell’avere sollecitato, agevolato sotto diversi profili e rafforzato il proposito criminoso della minaccia al Governo della Repubblica attribuito, invece, ovviamente ai vertici di “cosa nostra”.

In altre parole, di essere stato (insieme a Mori e De Donno) “istigatore”, “determinatore” e “facilatore” del ricatto di “cosa nostra” secondo le definizioni utilizzate dal P.M. nella sua requisitoria all’udienza del 19 gennaio 2018.

Ed, allora, valgono, innanzitutto, anche per Antonio Subranni gran parte delle preliminari considera-zioni già svolte nel precedente paragrafo 2.1 per il coimputato Mario Mori, cui, dunque, si può rinviare al fine di evitare una superflua ripetizione.

Ci si intende riferire, in particolare, alla già ricordata suggestione riproposta dalla comune difesa con l’imputato Mori durante tutto il corso dell’istruttoria dibattimentale con la domanda diretta implicitamente a far risaltare, per evidenziarne strumentalmente la paradossalità, un ruolo del Subranni di autore in senso stretto della minaccia al Governo che è ben diverso da quello prima indicato di istigatore o determinatore o ancora di agevolatore della minaccia posta in essere dai vertici mafiosi, e, quindi, in concreto, come si ricava dal capo di imputazione sopra ricordato, da quello di avere, semmai, sollecitato, agevolato sotto vari profili o, più in generale, rafforzato il proposito criminoso della minaccia appunto fatta e indirizzata dai vertici dell’associazione mafiosa al Governo della Repubblica per le finalità ampiamente esposte nella Parte Terza della sentenza.

È necessario, quindi, ribadire ancora in premessa, prima di affrontare e delineare con maggiore precisione la condotta ritenuta penalmente rilevante addebitata al Subranni, che tale condotta non è quella di colui che, compiendo l’azione tipica del reato di cui all’art. 338 c.p., formula la minaccia e ne è, quindi, autore in senso stretto (poiché, si ripete, la minaccia, secondo la stessa contestazione di reato del p.m., è stata formulata dagli esponenti mafiosi pure imputati, unitamente ad altri, sempre appartenenti all’orga-nizzazione mafiosa, nei confronti dei quali si procede separatamente, tra i quali, come è emerso nel corso del processo, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano), ma di colui che in qualche modo, anche per proprie finalità ma nella consapevolezza del contributo e del suo esito e, quindi, dell’evento, l’istiga, la sollecita, la determina, la agevola con varie e diverse condotte e, infine, se ne fa tramite nel suo percorso diretto a raggiungere il destinatario individuato nel Governo della Repubblica.

La medesima condotta del Subranni, in particolare, attiene soprattutto, come si vedrà meglio più avanti, alla fase iniziale ideativa e poi attuativa della sollecitazione e, successivamente, alla copertura, che denota la consapevole condivisione, dell’azione materiale, ancora sempre istigatrice ed agevolatrice, posta in essere dai suoi sottoposti Mori e De Donno e non, dunque, l’intera condotta tipica del reato di minaccia

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corrispondente al modello astratto delineato nell’art. 338 c.p. invece posta in essere dagli autori in senso stretto del reato (i mafiosi).

Ai fini della compartecipazione nel reato, infatti, rileva, come si è già pure detto, anche la sola azione compartecipativa, che, pur non realizzando di per sé l’intera condotta criminosa penalmente punibile e, pertanto, essendo da sola insufficiente per integrare la figura del reato contestato, comunque, in qualche modo, rende possibile la sua realizzazione.

Secondo la disciplina della responsabilità penale a titolo concorsuale stabilita con la regola generale dell’art. 110 c.p., invero, sono punibili, quali compartecipi del reato, tra gli altri, anche coloro che si limitino a suscitare e a fare sorgere in altri un proposito criminoso che precedentemente essi non avevano o anche soltanto coloro che si limitino a rafforzare tale proposito eventualmente in altri già esistente, oltre che coloro che pongano in essere una compartecipazione materiale, che può assumere le più diverse forme, tale da consentire consapevolmente il verificarsi dell’evento punito dalla norma penale. (Omissis).

Capitolo 3

L’intermediario di “cosa nostra” Marcello Dell’Utri

All’imputato Marcello Dell’Utri il p.m. contesta di avere concorso nel reato di minaccia, finalizzato a turbare l’attività del Governo della Repubblica, commesso dai vertici dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, e, in particolare, di avere posto in essere in relazione alle richieste di questi ultimi «finalizzate ad ottenere benefici di varia natura (tra l’altro concernenti la legislazione penale e processuale in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l’esito di importanti vicende processuali ed il trattamento peniten-ziario degli associati in stato di detenzione) per gli aderenti all’associazione mafioso denominata “Cosa Nostra”. Ponendo l’ottenimento di detti benefìci come condizione ineludibile per porre fine alla strategia di violento attacco frontale alle Istituzioni la cui esecuzione aveva avuto inizio con l’omicidio dell’on. Salvo LIMA ed era proseguita con le stragi palermitane del ’92 e le stragi di Roma, Firenze e Milano del ’93», le seguenti specifiche condotte:

«inizialmente proponendosi ed attivandosi, in epoca immediatamente successiva all’omicidio Lima ed in luogo di quest’ultimo, come interlocutore degli esponenti di vertice di “Cosa Nostra” per le questioni connesse all’ottenimento dei benefici sopra indicati»;

«successivamente rinnovando tale interlocuzione con i vertici di Cosa Nostra, in esito alle avvenute carcerazioni di Ciancimino Vito Calogero e di Riina Salvatore, così agevolando il progredire della “tratta-tiva” Stato-mafia sopra menzionata, e quindi rafforzando i responsabili mafiosi della trattativa nel loro proposito criminoso di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista»;

«agevolando materialmente la ricezione di tale minaccia presso alcuni destinatari della stessa ed in particolare, da ultimo, favorendone la ricezione da Berlusconi Silvio dopo il suo insediamento come Capo del Governo».

Nella Parte Quarta della sentenza sono state già esposte tutte le risultanze probatorie acquisite al fine di verificare, muovendo dalla figura di Marcello Dell’Utri quale emerge, innanzitutto, dalle sentenze irrevocabili acquisite agli atti, in particolare, se nel 1992 il predetto imputato abbia in qualche modo istigato, sollecitato, stimolato o assecondato le minacce che il vertice di “cosa nostra” ebbe già allora a rivolgere al Governo sotto forma di condizioni per la cessazione della strategia stragista, se, successivamente, il me-desimo imputato abbia posto in essere condotte idonee a provocare o rafforzare nei responsabili mafiosi l’intento di rinnovare ancora la minaccia, se, poi, tale minaccia sia stata effettivamente formulata dai vertici mafiosi questa volta nei confronti del Governo Berlusconi e, infine, se Dell’Utri abbia fatto da tramite per far giungere la rinnovata minaccia mafiosa sino al Presidente del Consiglio Berlusconi.

La prima parte della verifica ha avuto esito negativo, poiché l’esame delle risultanze probatorie ha condotto alla sicura esclusione di un ruolo di Dell’Utri nelle vicende che, ad iniziare dal 1992, diedero luogo alla minaccia mafiosa in danno dei Governi in carica precedentemente a quello poi presieduto da Silvio Berlusconi dal maggio 1994 (v. Parte Quarta della sentenza, Capitolo 3).

Soltanto nella seconda metà del 1993, invero, prima parallelamente al tentativo di dare luogo ad una propria formazione politica nella quale collocare direttamente soggetti che potessero rappresentare gli interessi di “cosa nostra”, e, poi, invece in modo sempre più concentrato verso la sopravvenuta diversa finalità di sfruttare la nuova forza che si accingeva a debuttare nel panorama politico nazionale per

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iniziativa di Silvio Berlusconi, esponenti dell’organizzazione mafiosa siciliana, di diversa appartenenza e provenienza, ritennero utile servirsi anche di Marcello Dell’Utri per ottenere i benefìci per gli associati che erano stati già oggetto dell’azione ricattatoria stimolata dalla sciagurata iniziativa dei Carabinieri del R.O.S. nel giugno del 1992 letta dai mafiosi come primo segnale di cedimento dello Stato dopo la strage di Capaci, poi, ulteriormente confermato, nel successivo anno 1993, da altri segnali promananti dal settore carcerario in relazione all’applicazione del regime del 41-bis (dall’avvicendamento dei vertici del D.A.P. alla mancata proroga di molti provvedimenti di 41-bis).

In questa fase, con l’apertura alle esigenze dell’associazione mafiosa “cosa nostra” manifestata da Dell’Utri ancora nella sua funzione di intermediario con l’imprenditore Silvio Berlusconi nel frattempo “sceso in campo” in vista delle elezioni politiche che poi vi sarebbero state nel marzo 1994, si rafforza il proposito criminoso dei vertici mafiosi di proseguire con la strategia ricattatoria iniziata da Riina nel 1992 e si pongono le premesse della rinnovazione della minaccia in danno del Governo, quando, dopo il maggio del 1994, questo sarebbe stato, appunto, presieduto dallo stesso Berlusconi (v. per la ricostruzione di tale premessa la Parte Quarta, Capitolo 4, paragrafi da 4.1 a 4.3.2). Contrariamente a quanto fatto dalla difesa di Dell’Utri con la sua minuziosa ricostruzione delle dichiarazioni di tutti i collaboranti in relazione, da un lato, all’iniziativa di Giuseppe Graviano e, dall’altro, all’iniziativa di Bagarella e Brusca, non è questa, dunque, la fase in cui va ricercata la minaccia che può integrare la fattispecie criminosa oggetto della contestazione formulata in questo processo a carico del medesimo Dell’Utri.

Ai fini della prova di tale minaccia più strettamente riconducibile al reato contestato a Dell’Utri rilevano, invece, gli incontri che con quest’ultimo, dopo l’insediamento del nuovo Governo presieduto da Berlusconi, Mangano ebbe ancora ad avere in almeno due occasioni (la prima tra giugno e luglio 1994 e la seconda nel dicembre 1994) per sollecitare l’adempimento degli impegni presi durante la campagna elettorale, ricevendo, in entrambe le occasioni, ampie e concrete rassicurazioni.

Ora, già nella parte Quarta, Capitolo 4, paragrafo 4.5, si è già ricordato, quale necessaria premessa alla chiesta valutazione delle condotte dei vari protagonisti delle vicende in esame, che la minaccia è un reato formale di pericolo che si consuma già allorché il mezzo usato per attuarla abbia in sé l’attitudine a intimorire il soggetto passivo e cioè a produrre l’effetto di diminuirne la libertà psichica e morale di autodeterminazione.

Si è ricordato, quindi, che per la consumazione del reato non occorre affatto che il predetto effetto si verifichi in concreto, ma è sufficiente che la minaccia sia stata percepita dal soggetto passivo, essendo il bene tutelato dalla norma penale quello della integrità psichica e della libertà di autodeterminazione del soggetto passivo e ciò per sgomberare il campo dall’inutile ricerca, nella quale molto si è dilungata la difesa del Dell’Utri, finalizzata a verificare se gli interventi legislativi tentati o attuati dal Governo o in sede parlamentare su iniziativa della forza politica facente capo al Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, siano stati concretamente determinati dalla coartazione della libertà psichica e morale di autodetermina-zione dei proponenti per effetto della minaccia mafiosa.

Anzi, in proposito si è sostanzialmente concordato con la tesi difensiva dell’imputato Dell’Utri (v. trascrizione udienza del 16 febbraio 2018 e memoria successivamente depositata il 23 marzo 2018) secondo la quale non v’è ragione di ritenere che le dette iniziative siano state effetto diretto di una minaccia, piuttosto che di libere scelte di quella consistente componente di soggetti facenti parte di Forza Italia, che, per risalente asserita vocazione “garantista”, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi.

Ciò, però, non toglie che ugualmente gli interventi di Vittorio Mangano nei confronti di Marcello Dell’Utri possano avere avuto una obiettiva attitudine ad intimorire il destinatario finale, individuato dai mafiosi in Berlusconi, indipendentemente dal fatto che l’effetto intimidatorio, purché comunque percepi-bile e percepito, possa avere inciso concretamente sulla sua libertà psichica e morale di autodetermina-zione.

Sotto tale profilo, non sembra che possa residuare alcun dubbio, dal momento che il messaggio recapitato o la sollecitazione o anche soltanto la richiesta di notizie da parte di Vittorio Mangano, per la loro provenienza, sicuramente ed indiscutibilmente, erano idonei a provocare obiettivamente nell’uomo medio un timore di conseguenze nefaste e, dunque, ad integrare la fattispecie penale della minaccia, quand’an-che, nei fatti, il timore non dovesse essere neppure insorto, perché, ad esempio, indipendentemente da

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