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Charles Townley: una vita dedicata al collezionismo.

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea magistrale (ordinamento ex D.M.

270/2004)

in Storia delle arti e conservazione dei beni

artistici

Tesi di Laurea

Charles Townley: Una vita dedicata

al collezionismo.

Relatore

Ch. Prof.ssa Martina Frank

Correlatore

Ch. Prof.ssa Chiara Piva

Laureando

Maria Caterina Visocchi

Matricola

986734

Anno Accademico

2011 / 2012

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Indice

Introduzione……… 1.1 Il Grand Tour. L’Italia amata dagli stranieri e l‘evoluzione del viaggio d’istruzione…..……… 1.2 Intorno ai collezionisti e ai viaggiatori: mercanti, agenti e antiquari a Roma nella seconda metà del Settecento……… 1.3. L’organizzazione legislativa degli scavi, licenze e responsabilità…………...……….. 1.4. Gli scavi archeologici a Roma nel XVIII secolo: siti vecchi e nuovi……….. 2.1. Il viaggio in Italia di Charles Townley………..……….. 2.2. Sir William Hamilton e la Società dei Dilettanti. Nuovi incontri e idee per Charles Townley………..…………. 2.3. Gli acquisti romani e il rapporto con Thomas Jenkins e Gavin Hamilton……..……….……….. 3.1. Charles Townley: ritratto di un collezionista settecentesco…………..………...………. 3.1. Charles Townley: ritratto di un collezionista settecentesco………..………..……….. 3.3. Gli ultimi acquisti e il passaggio delle opere al British Museum………..……… Bibliografia………..……….

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Introduzione

Al principio di questo lavoro mi domandai se non avessi fatto a male a scegliere un personaggio come Townley, un uomo sentito varie volte da chiunque abbia almeno un’infarinatura generale di storia del collezionismo, avevo paura che sarei andata a parlare di qualcosa di detto e ridetto e non volevo che il lavoro risultasse scontato o noioso.

In realtà più cercavo notizie su di lui più mi accorgevo che le informazioni in circolazione erano sempre le stesse, si sapeva della sua collezione, ma la sua personalità, i suoi viaggi e amicizie, quel mondo umano insomma all’interno del quale la raccolta d’antichità classiche crebbe, non veniva mai menzionato se non per i nomi più noti legati al commercio d’arte romano.

Il criterio che ho seguito nel corso della ricerca è stato di tipo associativo, ho cominciato da piccole cose appena accennate e da lì sono partita per seguire delle strade, degli indizi che sono diventati sempre più numerosi e consistenti. Nella fase di scrittura d’una tesi che non sia di tipo compilativo, ma che preveda una certa dose di applicazione e ricerca, accade talvolta di trovarsi con tanti dati cui dare un senso, cui trovare un collegamento valido e supportato da fonti

attendibili; nel caso di Charles Townley è accaduto che tutti i punti hanno cominciato a mano a mano a trovare naturale collocazione, una sequenzialità che si rafforzava e si costruiva quasi da sé mentre andavo avanti con il lavoro.

In occasione della prova finale del triennio scelsi un architetto del Settecento, Antonio Paolo Ameli e se all’epoca scoprii moltissimo della sua attività di progettista, e di altri lavori e commissioni, sentii di non essere comunque riuscita a tenere in pugno il personaggio, a conoscerlo talmente a fondo da comprenderne ogni scelta, della sua esistenza si sapeva pochissimo e questo a mio avviso incide in maniera rilevante sul risultato finale di uno studio. Dunque sapere che Townley non prese mai moglie, che aveva il vizio delle belle donne, che sapeva scegliere i propri collaboratori, non sono semplici informazioni di servizio, se non ci fossero state ci saremmo fermati alla superficiale descrizione del signorotto agiato che insegue un capriccio e non l’immagine di ciò che realmente fu: un uomo deciso, che pensava

autonomamente e che trovò la propria gioia e ragione di vita nella statuaria classica.

Le vie e le pubblicazioni che hanno contribuito alla stesura di questa tesi sono talvolta volumi che trattano apparentemente di tutt’altro, ma in una ricerca basta un filo sottile, una data, un appiglio anche minimo per scoprire collegamenti impensabili e progredire con il lavoro di analisi su strade che mai si sarebbe immaginato di percorrere.

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Per fare un esempio concreto, il viaggio in Italia di Charles Townley mi è stato possibile seguirlo tramite la corrispondenza con Vincenzo Brenna a cui sono arrivata partendo dai lavori del

Brenna in Russia. D’altronde è questo il lato affascinante del comporsi di una ricerca, partire da porti lontani per poi scoprire che il mare in cui la storia dell’arte naviga è sempre lo stesso e che di fronte alla difficoltà di ricostruire gli eventi non bisogna mai fermarsi, ma andare avanti fiduciosi perché si arriverà sempre a scoprire una piccola cosa capace di dare il via a un fiume di notizie. Ecco perché il lavoro su Charles Townley collezionista è stato un percorso stimolante che non si è mai arenato anche nei momenti di difficoltà, ma che è sempre riuscito a guadagnare una spinta in avanti, giustificata dalla forte personalità del protagonista, dai suoi numerosi e movimentati viaggi, un personaggio che di carne al fuoco sulla sua esistenza ne ha messa abbastanza ed io mi sono ripromessa di raccontarlo con obiettività e passione, spero di aver raggiunto questo scopo e di aver messo insieme una piccola linea guida per narrare di Townley e della sua splendida collezione.

La scelta di dedicare in chiusura una trattazione piuttosto nutrita sell’esposizione al British Museum della sua raccolta d’arte ha lo scopo preciso di congedarci dal personaggio in maniera graduale e allo stesso tempo di focalizzarci maggiormente sulla sola storia delle opere, senza parlare del loro possessore e costatare come invece siano esse a raccontarci di Charles Townley. Il fatto che fu talvolta imbrogliato, che gli siano state vendute opere non propriamente originali, non ne restituisce comunque un ingenuo, l’immagine del collezionista rimane quella di un Nobile sicuro non solo delle proprie possibilità economiche, ma soprattutto di quelle intellettive, l’unica imputazione a suo carico in questa storia è quella di essersi fatto accecare dall’amore per l’arte. Quando Thomas Jenkins gli spediva dei manufatti antichi che risultavano davvero diversi dalla presentazione grafica che l’antiquario scozzese, naturalizzato romano, era solito inviargli per lettera era raro che Townley si lamentasse in maniera significativa, di certo la gioia che doveva provare nel vedere esposti a Park Street pezzi dell’importanza dell’Endemione dormiente o del Discobolo doveva mandarlo in estasi, ma in fin dei conti se si fosse circondato solo di opere conservate in maniera eccellente e di ottima esecuzione non sarebbe stato l’antiquario competente e produttivo che di fatto fu, ma sarebbe rimasto al pari di tanti aristocratici che fecero dell’arte classica un mezzo per intavolare discussioni nei migliori salotti della società inglese. Charles si approcciava all’arte con democrazia poiché qualsiasi oggetto antico rappresentava il passato e pertanto era degno di nota.

Ciò di cui invece mi rammarico è di non aver trovato altri canali d’indagine, scoperto che tipo di rapporto ci fosse tra Townley e Winckelmann, sapere se lo studioso tedesco avesse avuto modo

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di indottrinarlo sulle sue teorie del restauro, sappiamo che per conto della Contessa Cheroffini alcuni pezzi della collezione Albani finirono a Park Street, ma eccetto la mediazione di Vincenzo Brenna, sulla faccenda non si è individuato se il Winckelmann ne venne a conoscenza se scrisse mai a Townley, se magari, ipotizzo, fu proprio lui ad indirizzarlo all’acquisto.

Costruire un lavoro del tutto esauriente è cosa complessa, giocano diverse componenti tra cui la dedizione alla ricerca, l’amore per il soggetto ed anche una certa dose di fortuna, a mia discolpa dico che ho investito tutte le mie energie in questo lavoro ed ho amato Charles Townley proprio per la sua personalità sfuggente ed anticonvenzionale e mi consolo dicendo che la storia dell’arte è materia in continua evoluzione e che è difficile abbandonare completamente un personaggio, quindi in un prossimo futuro non escludo che ricapiterà l’occasione di tornare sull’argomento e di riempire quei pezzetti di vuoto che mancano per completare il puzzle.

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1.1 Il Grand Tour.

L’Italia amata dagli stranieri e l’evoluzione del viaggio d’istruzione.

Il cosiddetto viaggio di piacere non faceva parte della moda del periodo classico e medievale, bensì divenne caratterizzante dei secoli Sedicesimo, Diciassettesimo e Diciottesimo,

trasformandosi in un momento di fondamentale importanza per l’educazione delle alte sfere sociali. Il termine Grand Tour suggerisce la speciale fusione dell’epoca tra turismo e stato sociale quasi si volesse distinguere un turismo ragionato, organizzato e di una certa durata, dalla gita fuoriporta mordi e fuggi, tornata tanto popolare ai nostri giorni a causa di recessione e budget limitato da investire nel settore turistico.

Il Grand Tour è comunemente associato ai viaggiatori aristocratici inglesi; simbolo di una particolare caratteristica della società nobiliare anglosassone che non trova riscontro in

nessun’altra aristocrazia europea, di contro il Bel Paese investì le proprie energie per potenziare il crescente culto dell’antico, che insisteva fortemente sul concetto di appartenenza al Mondo Classico, e non lasciò molto terreno agli altri paesi, gli italiani seppero giocare bene le proprie carte spingendo il viaggiatore a sentirsi discendente in carne ed ossa, retaggio degli antichi tesori della Roma Imperiale1.

I turisti si muovevano il più rapidamente possibile attraverso le città maggiori, che offrivano un pacchetto di attività piuttosto ricco e variegato: si spaziava dalle visite dei monumenti classici a quelli rinascimentali, dallo splendore della Roma Barocca fino a passatempi puramente ludici come l’ascolto dell’opera a Milano e le piacevoli passeggiate allietate dal sole e dalla brezza del golfo di Napoli2.

C’era però un’altra ragione che spingeva gli avventori a evitare di trattenersi in campagna oltre il tempo necessario alla logistica del viaggio, l’assoluta insufficienza di strutture adatte

all’accoglienza turistica era infatti un deterrente di un certo peso: le locande3 organizzate per ricevere ospiti erano presenti solo in alcune zone , ed a giudicare dai commenti dei visitatori le carenze non mancavano, sono giunte a noi testimonianze negative e di disappunto che puntano il dito contro la fatiscenza delle stanze da letto e soprattutto il cibo che veniva servito ai pasti4.

In più nelle zone rurali la scelta dei cibi e il loro quantitativo era spesso piuttosto ristretta, in città non si presentavano problemi in questo senso, bastava pagare, ed i turisti raramente avevano                                                                                                                

1C. Hibbert, Rome and the biography of a city, London 1986, pp. 61-62. 2 D. Carrington, The Traveller’s eye, London 1947, pp. 40-73.

3 E. S. Bates, Touring in 1600: a study in the Development of Travel as a Means of Education, New York 1911. Pp. 240-285.

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problemi di budget5. La cucina del Bel Paese era in fin dei conti una novità per gli Inglesi, in generale facevano una certa fatica ad apprezzare l’olio d’oliva, così come la maniera in cui erano cotte le carni, ma esisteva anche una fetta d’intenditori che ricercava poi alcune specialità anche in patria, così a Londra iniziarono a moltiplicarsi i negozi specializzati nella vendita di

parmigiano, pasta e vino italiani. L’impatto con un’altra cultura si sa, non passa solo attraverso la tavola, buona o meno che sia, il turista d’oltremanica rischiava altri tipi d’inganno ben più gravi di un roastbeef mal fatto.

Roma pullulava di uomini che si autodefinivano antiquari, pronti a guidare i turisti alla scoperta delle bellezze locali, millantando competenza e grande preparazione in materia, erano in molti a cadere nella rete e ad assoldare questi personaggi, vittime del loro fascino e prepotenza.

Tuttavia, guide oneste e realmente preparate se ne trovavano eccome; organizzate a tal punto che dal primo sguardo avremmo potuto indovinarne il mestiere: mappe, occhiali, compasso e tutto ciò che potesse essere utile a supportare la storia delle opere che mostrava al cliente.

Non era certo obbligatorio riempire il proprio tempo a Roma in tour guidati attraverso la città, per molte persone il culmine della loro visita era la presentazione al cospetto del Papa o la partecipazione alla “lavanda dei piedi degli Apostoli ad opera di Cristo”; la parte degli Apostoli veniva interpretata da dodici pellegrini, mentre il volto di Cristo era quello del Papa,

dopo la cerimonia, il Papa portava i figuranti a cena e, ancora a piedi scalzi, tagliava per loro la carne, offriva il vino e sparecchiava, recitando in fin dei conti la parte di un servitore

particolarmente sollecito.

Di maggior richiamo popolare era l’evento religioso del Giubileo, grazie al quale i romani si erano nei secoli abituati alla presenza ciclica di stranieri in città. La Roma antica diventava un modello di perfezione culturale da perpetuare anche nella Roma Cattolica6 e la chiesa investiva su se stessa il ruolo di garante per la continuità del patrimonio d’arte antica con la civiltà e l’arte dell’Italia moderna. Il Giubileo di Benedetto XVI, il bolognese Prospero Lambertini, insistette nel voler migliorare ad ogni costo l’immagine della città, la Roma dei Papi doveva sorprendere, sbalordire e intimorire il visitatore con la sua dirompente magniloquenza.

Le Vedute di Roma (fig. 1) eseguite da Giovan Battista Piranesi dal 1740-41 fino alla sua morte, si fecero promotrici del gusto romantico delle rovine e sponsorizzarono quel modello urbanistico monumentale che influì sull’assetto di alcune capitali europee.

La Città Eterna offriva una serie di vantaggi insiti nella cultura italiana, divenuti col tempo coscienza comune nel viaggiatore europeo: la vivacità dei mercati, l’affabilità della gente e le                                                                                                                

5 J. Black, France and The Grand Tour, New York 2003, pp. 62-73.

6 A. Monferini, Le antichità di Giovan Batista Piranesi, in M. Calvesi (a cura di), Arte a Roma. Pittura, scultura,

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temperature miti del clima, rappresentavano un valore aggiunto che non può passare sotto silenzio.

I nobili inglesi, come quasi tutti i nobili europei, (compresi quelli di fede protestante) erano ben accolti nei palazzi della nobiltà romana così come in quelli dei cardinali. Anno dopo anno l’offerta per il turista inglese si estese notevolmente; la legge di mercato non è certo cosa recente e dunque vista la notevole affluenza di visitatori anglosassoni, nacque nella città eterna una vera e propria rete che sembrava pensata per far sentire un inglese a casa. Caffè inglesi con annessi giornali in lingua, locande e cibo tipico, taverne in cui gli studenti inglesi s’incontravano, divennero comuni nella Roma del Diciottesimo secolo e ci danno la misura del fenomeno straordinario di cui stiamo parlando.

Alla luce di questa breve introduzione iniziale sembra abbastanza chiaro che gli Inglesi furono i più affezionati viaggiatori, diedero un volto e un codice all’esperienza del Grand Tour,

elevandolo a tappa fondamentale nella vita di un gentiluomo, delineandone gli itinerari e le destinazioni chiave. Leggendo le guide dell’epoca è facile farsi un’idea del giro che solitamente compivano: da Roma discendevano verso Napoli visitando Pompei e altre zone amene del circondario, mentre per chi attraversava gli Appennini era d’obbligo allungarsi a Venezia7 prima di entrare in Svizzera e raggiungere Calais attraverso la Germania8.

Il turismo inglese aveva caratteristiche proprie, interessi e passioni che lo indirizzavano verso l’amore per i paesaggi e la ritrattistica, differenziandoli dall’avventore francese che invece ricercava la storia etnografica dei popoli, le loro abitudini e costumi.

Al di là di questa banale classificazione, quasi al limite dello stereotipo, non è utile incasellare i viaggiatori per nazionalità, Il Grand Tour era sempre ed essenzialmente cosmopolita e

Charles de Brosses, arrivato a Roma nel Novembre del 1739, ci fa intendere che tipo di rapporti intercorressero tra i viaggiatori di differente nazionalità, nel suo giornale di viaggio scrisse: “L’Argent que les Anglois dépensent à Rome et l’usage d’y venir faire/un voyage, qui fait partie de leur éducation, ne profite guères à la pluspart d’entre eux… J’en vois tells qui partiront de Rome sans avoir vue que des Anglais et sans sçavoir où est le Colisée9.”

Questo passaggio dimostra quanto attentamente i viaggiatori si osservassero l’un l’altro e quanto cercassero di frequentare i propri connazionali fuori casa.

È naturale che il de Brosses, viaggiatore francese, volesse denigrare gli Inglesi, ma soprattutto il passaggio riportato mostra quanto differente fosse il Grand Tour inglese da altre esperienze di viaggio. Dalla fine degli anni Trenta del Settecento, i viaggiatori britannici erano già molto più                                                                                                                

7 B. Redford, Venice and the Grand Tour, Yale 1996, pp. 104-106. 8 J. Skene, Italian journey, London 1937, pp. 28-30.

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numerosi di qualsiasi altro visitatore, il viaggio in Italia era parte integrante della loro educazione e spendevano più di chiunque altro nell’acquisto di opere d’arte.

Questo percorso d’iniziazione alla fonte di conoscenza e bellezza faceva si che il grand turista ricreasse su di sé il mito di Ulisse, componendo la propria Odissea sotto forma di diario di viaggio.

Dal momento che il Grand Tour veniva intrapreso come viaggio di apprendimento, i viaggiatori avevano l’abitudine di completare le maneggevoli guide contenenti gli itinerari istruttivi, con commenti personali e dati di tipo pratico: opinioni sulle locande in cui pernottare o indirizzi di laboratori che vendevano riproduzioni di antichità di alta manifattura. Si tratta di spiegazioni intelligenti e ben eseguite della zona centrale e dei territori limitrofi, che beneficiarono delle linee guida tracciate dai manuali di viaggio dei Gesuiti del secolo precedente e delle più recenti notizie dei ritrovamenti archeologici contemporanei.10

Diari di viaggi e guide ragionate non erano però l’unica forma di testimonianza di queste

escursioni, se il gran turista era anche artista allora le forme d’espressione più dirette, immediate e in contatto con le proprie emozioni erano solitamente schizzi, quadri e incisioni.

Il viaggio per la riscoperta dei maestri del passato e lo studio delle loro opere sono da sempre i momenti cruciali nella formazione stilistica di un artista, nei secoli medievali giovinezza e formazione si svolgevano al chiuso della bottega diretta dal capomastro, non si aveva la

possibilità di decidere dove andare e quali maestri approfondire, al massimo si seguiva il proprio superiore per essere d’aiuto nei luoghi delle nuove committenze.11

Era un’epoca in cui solo i progettisti d’architettura e lapicidi si spostavano per imparare nuove tecniche e tipologie costruttive, sono viaggi con finalità di arricchimento a livello pratico e solo dal Rinascimento in poi l’artista comincerà a spostarsi per creare una propria maturità e

indipendenza stilistica cercando di ripercorrere i luoghi d’eccellenza delle arti figurative. Tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento ad opera di artisti nordici prese piede a Roma una vera e propria pittura di paesaggio, il cui precursore fu Paul Brill, giunto in città circa nel 1575 , si specializzò nella raffigurazione idealizzata del territorio laziale,12 autore di splendidi affreschi in ville e palazzi, influenzato dall’Elsheimer eseguì su rame una serie di piccoli scorci di Roma e dintorni.

                                                                                                               

10 E.C. Ramirez, I gesuiti e lo studio del Lazio antico nelle guide del Grand Tour, in (a cura di) I. Salvagni, M. Frateangeli, Oltre Roma. Nei Colli Albani e Prenestini al tempo del Grand Tour, (Roma 21 gennaio-25 marzo 2012), Roma 2012 pp. 146-151.

11 M. Migliorini, Il viaggio dei pittori nel Sei e Settecento e lo studio dei Grandi Maestri, (a cura di) M.Migliorini, G. Savio, Souvenir d’Italie. Il viaggio in Italia nelle memorie scritte e figurative tra il XVI secolo e l’età

contemporanea, Atti del convegno Genova, 6-8 novembre 2007, Genova 2008, pp. 69-70.

12 F. Petrucci, La “scuola dei Castelli Romani”. Un’accademia di pittura “en plein air” tra i colli Albani e

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La campagna romana, quell’ampia porzione di territorio limitata da Tivoli sui colli Sabini a est e dalle colline di Albano a sud, continuò ad essere di particolare richiamo anche per i visitatori del Settecento. Nel momento in cui il Grand Tour divenne una tappa obbligatoria nell’educazione delle classi agiate, il Bel Paese cessò di essere un insieme di bellezze concepite in maniera superficiale e generica e assunse una propria forma identificativa che accrebbe l’impulso a varcare i confini della grande città e dei percorsi turistici prestabiliti, per inabissarsi nei suoni e richiami delle campagne. Non che in Inghilterra mancassero paesaggi naturali e mozzafiato, ma l’Italia offriva un tipo di ritiro infarcito ancora una volta di cultura e che emanava i profumi del passato come vedremo di seguito nel dettaglio.

Era il paesaggio associato alla storia e civilizzazione di Roma, dove avevano avuto luogo le battaglie tra le antiche tribù di Latini e Sabini, Volsci ed Etruschi.

I resti di templi, tombe e ville, monumenti dell’Età Imperiale, interrompono la distesa di verde e riportano i viaggiatori a un’epoca passata, dove essi, memori degli studi effettuati in patria s’immergevano con grande godimento. Horace Walpole nel 1740 a tal proposito disse: “Our memory sees more than our eyes in this country”, un’espressione che serve a enfatizzare la potente influenza del passato sulla sensibilità dei visitatori.

Nel periodo Imperiale Tivoli fu uno dei luoghi maggiormente amati per allontanarsi dal caos della città e per i gran turisti quell’ideale di vita bucolica allietata dai suoni della natura prendeva forma in Villa Adriana13, il Tempio della Sibilla e la Villa Mecenate.

La zona attorno ad Albano e Frascati offriva la magia dei colori dei laghi in cui si rifletteva, come in uno specchio, la vegetazione delle loro sponde e il volume delle colline tutt’intorno. Richard Wilson nel 1752 ci offre una bella descrizione pittorica del Tempio della Sibilla e di ciò che lo circondava14. (fig. 2)

Il punto di vista è quello dei contadini intenti al lavoro; inconsapevoli in quanta bellezza e importanza spendessero le giornate di fatica nei campi Interessante la resa luministica del cielo, sereno per lo più, con un banco di nubi che si sta assemblando proprio sopra il tempio.

Wilson volendo avrebbe potuto posizionarsi di fronte al monumento e ritrarlo, così da coglierne ogni aspetto, ogni segno del tempo, ma fa la scelta differente di collocarlo nel suo ambiente naturale. Questo ci fa capire quanto il paesaggio della campagna romana apportasse valore aggiunto alle già famosissime bellezze archeologiche. Lo stesso tempio strappato dalla sua collina fitta di vegetazione, senza i contadini alla base dell’altura, non sarebbe stato così                                                                                                                

13 P. Gusman, La villa imperiale de Tibur, Paris 1904, pp. 61-62

14 L. Stainton, Tivoli and the Campagna, in A. Wilton, E. Bignamini (a cura di), Grand Tour: The Lure of Italy in

the Eighteenth Century, (catalogo della mostra London Tate Gallery 10 October 1996- 5 January 1997, Rome

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eloquente, questo è Grand Tour, questo è ciò che cerca il visitatore inglese. Cerca di rivivere le sensazioni dei grandi del passato senza tralasciare i luoghi di ritiro e riflessione nel suburbio laziale.

A Roma Wilson risiede nel 1752 e 1753, in Piazza di Spagna assieme a Thomas Jenkins. S’inserì bene nel circolo del Cardinale Albani che gli diede l’opportunità di entrare in contatto con Anton Raphael Mengs, il quale realizzò un ritratto del pittore inglese in cambio di un suo paesaggio. Lord Dartmouth e Stephen Beckingham divennero suoi affezionati clienti e infatti per il primo eseguì una serie di vedute di Roma e dintorni e due vedute in pendant che rappresentano Roma

da Villa Madama e San Pietro e il Vaticano dal Gianicolo, oltre a questi lavori Wilson ci lascia

una cospicua eredità di disegni e schizzi che coprono una vasta gamma di soggetti: dallo studio ravvicinato del dettaglio vegetale sino alla veduta classica, reale o idealizzata. Il pittore inglese doveva subire il fascino del mondo naturale e di conseguenza della ripresa dal vero in maniera particolare, nei suoi lavori notiamo uno studio maniacale della resa naturalistica, completata dall’analisi delle diverse specie botaniche presenti i natura. Sintomatico di quanto appena detto è il fatto che fosse solito inserire all’interno del paesaggio dipinto la propria immagine con accanto tela e cavalletto.

Tra gli schizzi giunti fino a noi ben quattro fogli riproducono il Vesuvio, testimoniando almeno un viaggio di Wilson a Napoli, la città affacciata sul mare riempiva l’animo dei viaggiatori e fu oggetto di attenta riproduzione ad opera di artisti e visitatori.

Carlo III di Borbone nel 1734 conquistò i regni di Napoli e Sicilia sottraendoli al dominio austriaco e dando vita ad un regno indipendente che univa l’Italia Meridionale ed investiva Napoli del ruolo di capitale.

Proprio sull’onda di questa grande svolta politica William Hamilton ricoprì il ruolo di

Ambasciatore Britannico presso la corte Borbonica dal 1764 al 1799. La sua residenza a palazzo Sessa era divenuta il centro culturale della città, luogo d’incontro di artisti e letterati

principalmente inglesi ma non solo, punto di riferimento per vendita e, o acquisti di materiale antico.

D’altronde la città ha sempre goduto d’un fascino particolare, dal gusto quasi esotico che ne fanno un ambiente caotico e inafferrabile.

Come se quei palazzi nobiliari e quelle piazze mille volte ripresi dai pittori dell’epoca si fondessero con i vicoli del cuore verace della città creando un corpo unico di leggende e storie

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popolari in parte romanzate, per non parlare dell’affascinante presenza del Vesuvio15che all’epoca deliziava ancora il pubblico con scenografiche eruzioni16.

Solitamente il letterato, l’uomo di cultura che affrontava il Grand Tour partiva con le migliori intenzioni di toccare con mano e dare una certa concretezza a ciò che per anni aveva solo visto riprodotto sui testi, ma si sa, il fascino per l’occulto e per l’indefinito fanno parte della struttura umana e Napoli come sopra accennato è teatro perfetto per le storie al limite del mondo reale. Goehte, in occasione del soggiorno del 1787 racconta con entusiasmo le escursioni nei dintorni della città ed è percepibile il fascino che questi luoghi esercitarono sul letterato tedesco: “una gita in mare fino a Pozzuoli, brevi e felici passeggiate in carrozza o a piedi attraverso il più prodigioso paese del mondo. Sotto il cielo più limpido il suolo più infido; macerie

d’inconcepibile opulenza, smozzicate, sinistre; acque ribollenti, crepacci esalanti zolfo, montagne di scorie ribelli a ogni vegetazione, spazi brulli e desolati, e poi, d’improvviso, una verzura eternamente rigogliosa, che alligna dovunque può e s’innalza su tutta questa morte, cingendo stagni e rivi, affermandosi con superbi gruppi di querce perfino sui fianchi d’un antico cratere. Ed eccoci così rimbalzati di continuo tra le manifestazioni della natura e quelle dei popoli”.

L’intensa attività vulcanica visibile tutt’oggi sul territorio dell’allora capitale borbonica così come il Tempio di Serapide a Pozzuoli, il Lago Averno e tutti i Campi Phlegraei,17 ne fanno un territorio dal potere suggestivo ineguagliabile.

Tra il 1777 e il 1778 Dominique Vivant Denon in occasione della stesura dell’opera Voyage

pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et de Sicilie, scritto dall’Abate di Saint-Non ededito a Parigi tra il 1781 e il 1786, effettua una campagna di rilevamento nel regno Borbonico

in compagnia di Claude Louis Chatelet18 e Louis-Jean Desprez.19

Il lavoro effettuato dai due artisti durante il viaggio costituisce il corpo grafico principale del

Voyage, spicca su tutti la Grotta di Posillipo ritratta dal Desprez.Coglie il luogo in una

condizione di luce particolare che conferisce uno strano fascino al varco d’accesso dei Campi Flegrei scavato in età Augustea,la grotta buia è chiaramente presa a tarda sera, carri trainati da

                                                                                                               

15 A. J. Morrison, C. Nisbet, Goethe’s travels in Italy, London 1885 pp. 178-179

16 G. Ajello, Napoli e I luoghi celebri delle sue vicinanze, Vol. II. Napoli 1845, pp.377-405.

17 Si tratta di una vasta area situata a nord ovest della città di Napoli. La parola deriva dal greco, “flègo”, “brucio”. Nella zona sono tutt’ora visibili almeno ventiquattro tra crateri ed edifici vulcanici.

18 Pittore e incisore di paesaggi, Chatelet viaggiò con Vivant-Denon e con Desprez nel sud dell’Italia fermandosi a

Roma e a Firenze, e collaborò ampiamente alla realizzazione del Voyage pittoresque del Saint-Non. Repubblicano ardente, fece parte del tribunale rivoluzionario. Arrestato qualche mese dopo la giornata di Termidoro (27 luglio 1794) che abbatté la dittatura terroristica di Robespierre e fu ghigliottinato il 7 maggio 1795.

19 Allievo di François Blondel e di Desmaisons, nel 1771 divenne professore alla Scuola Militare di Parigi e nel

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buoi e pastori che conducono le pecore fanno luce con le loro lanterne, mentre i pipistrelli probabilmente disturbati dal vociare ed abbagliati dalle luci, svolazzano sulla volta dell’antro. Goethe non manca di dare la propria versione del luogo e le sue parole si avvicinano moltissimo al disegno del Desprez: “Al tramonto andammo a visitare la Grotta di Posillipo, nel momento in cui dall’altro lato entravano i raggi del sole declinante. Siano perdonati tutti coloro che a Napoli escono di senno!”20

Il contrasto scenografico tra luce e ombra veniva ampiamente utilizzato anche nei numerosissimi dipinti che fissano l’immagine del Vesuvio in eruzione alla fine del secolo.

Sir William Hamilton nell’opera Campi Phlegraei: osservazioni sui vulcani delle due Sicilie, fornisce uno studio attento dell’attività eruttiva del Vesuvio e documenta gli eventi con

interessanti disegni a matita da inviare alla Royal Society, Il lavoro fu pubblicato nel 1776, ma a esso seguì un Supplemento edito in occasione della grande eruzione del Vesuvio del 1779. La pubblicazione divenne parte della formazione culturale del gran turista sia per il suo

interessante taglio scientifico, che per i disegni del vulcano che raggiunsero un successo tale da essere riprodotti in maniera seriale al pari del Colosseo o dei Fori romani.

Come già rilevato, l’impostazione del giro turistico del Grand Tour è rimasta una grande eredità per l’Italia e dunque viene spontaneo includere tra le mete italiane la città di Venezia, famosa in particolare per le grandi manifestazioni folkloristiche o il modo maestoso in cui erano accolti e allietati i sovrani in visita. Francesco Guardi ci regala una suggestiva immagine del Ponte di Rialto21 (fig. 3) giunta fino a noi in un disegno a penna ed inchiostro marrone;

l’artista con la sua abituale maestria è capace di catapultare lo spettatore in quell’affollata mattinata di lavoro, tra voci, gondole e folla che s’incrociano sotto l’imponente arcata.

Dietro ogni manifestazione era in movimento frenetico il mercato del souvenir, piccoli quadretti, oggetti pseudo –artistici di ogni tipo che testimoniassero la presenza del turista all’evento, da portare a casa e mostrare alla propria cerchia con pari orgoglio quanto la conchiglia di Santiago per il pellegrino.

La storia del Grand Tour, per quanto sia alla base di questa tesi, andrà specializzandosi in maniera sempre più sottile, occupandosi dei protagonisti per lo più e meno del fenomeno in sé, dunque è bene chiarire qualsiasi punto traballante in questa sede. Ci si è spesso domandati quale sia l’effettiva differenza tra le orde di pellegrini che fin da Medioevo attraversavano la penisola diretti ai luoghi di culto ed il grand turista, la differenza è fondamentale: i pellegrini sono concentrati nel raggiungere la salvezza eterna e dunque il paesaggio che li circonda non solo gli                                                                                                                

20 J. W. Goethe, Viaggio in Italia, Milano 2000, p. 27.

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scivola addosso, ma addirittura viene trasformato dal loro sentire religioso, che crea una mappa propria dove Roma è il luogo massimo fino al quale essi si spingeranno.22

“Grand Tour” è un’espressione usata per la prima volta per il viaggio di Lord Granborne in Francia, le tappe erano state preventivamente concordate da guide esperte e ogni cosa

organizzata con precisione, questo è Grand Tour, un mondo vasto e variegato su cui si continua a produrre tanta letteratura.

                                                                                                               

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1.2. Intorno ai collezionisti e ai viaggiatori: mercanti, agenti e antiquari a Roma nella seconda metà del Settecento

Durante la seconda metà del Diciottesimo secolo le relazioni tra Roma e Londra si svilupparono a tal punto che la domanda di antichità in Inghilterra divenne talmente forte da creare le

condizioni consone alla crescita esponenziale dell’attività mercantile.

Il mito del Grand Tour spinse verso l’Italia il collezionismo privato inglese in maniera talmente cospicua che questo creò una piccola rivoluzione nel tessuto sociale romano.

Non vogliamo certo dire che Roma fosse una città nuova alle bellezze artistiche che ne custodivano l’anima, ma di certo l’interesse dilagante per il gusto dell’antico determinò un incremento del numero di personaggi che si occupavano di vendite, perizie e intermediazioni per tutto ciò che appartenesse ai tempi passati o quanto meno avesse la pretesa di sembrarlo.

C'era già una lunga tradizione di collezionismo che si era stabilita a partire dal periodo

Rinascimentale, ma all'epoca la maggior parte delle collezioni inglesi consistevano in antichità piccole e facilmente trasportabili; monete, sigilli e bronzi, solo pochi ricchi e potenti uomini potevano permettersi di acquistare sculture in pietra.

Un collezionista d’oltremanica che si rispetti doveva circondarsi di statue, colonne, rilievi, e per far ciò aveva bisogno di un professionista che seguisse i lavori di scavo facendo l’interesse del proprio cliente e scegliendo per lui i pezzi migliori emersi dalle campagne archeologiche. Nei traffici d’arte la pratica della mediazione in affari veniva esercitata da una nutrita classe di individui. Che tuttavia si possono racchiudere in due categorie principali: i sensali e gli agenti.23 I sensali avevano il mero compito di accaparrare clienti per le opere poste in vendita da privati o mercanti, la loro era una funzione di puro mediatore delle parti a cui, in caso di esito positivo della contrattazione, spettava una percentuale in denaro stabilita a priori.

Rispetto ai comuni sensali, gli agenti avevano un profilo culturale del tutto diverso, essi erano in definitiva dei procuratori artistici, dovendo molto spesso acquistare opere per conto di terzi è naturale che questi individui garantissero sia una buona conoscenza delle regole di mercato sia specifiche competenze in ambito artistico, così da poter stabilire il valore dell’oggetto in questione, l’autenticità e gli eventuali restauri da compiere.

Ma vediamo dunque di fare qualche nome in modo da dare un volto al discorso intrapreso, capire attraverso quale apprendistato si arrivava a svolgere la professione, i motivi che spingevano a farlo e soprattutto quanto le capacità diplomatiche, la propensione alle pubbliche relazioni fosse                                                                                                                

23 P. Coen, Il mercato dei quadri a Roma nel Diciottesimo secolo. La domanda l’offerta e la circolazione delle

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un’arma vincente in un mondo fatto di uomini scaltri, di spedizioni effettuate di notte per rubare reperti e di rapporti a fatica distesi con i legati papali che di base facevano il bello ed il cattivo tempo riguardo alla destinazione dei pezzi estratti dal sottosuolo romano.

Thomas Jenkins (1722-1798), Gavin Hamilton (1723-1798), Colin Morison (1732-1810) e Robert Fagan24(1761-1816) sono quattro nomi chiave del mondo che stiamo per descrivere. Si

trasferirono inizialmente a Roma per studiare arte italiana e fare pratica artistica, ma subito compresero che il commercio dell’Antico era un business molto più remunerativo dell’arte contemporanea e così fecero del proprio meglio per ritagliarsi una posizione privilegiata all’interno di questo mercato le cui regole di compravendita si andavano definendo ancora in quegli anni.

Per quattro decenni furono responsabili di circa ottanta scavi e della vendita ed esportazione di frammenti antichi e pitture, disegni, sculture e incisioni dei cosiddetti Old Masters.

Robert Fagan (fig. 4) iniziò la propria carriera professionale come pittore prima, come

diplomatico poi. Dall’anno del suo arrivo a Roma nel 1781 fino al suicidio trentacinque anni più tardi, Fagan rimase un famoso e insolito operatore del settore dell’antiquariato che seppe

costruirsi una solida rete clientelare. Ciò che però gli impedì di eguagliare i successi economici di Jenkins o il rispetto di cui godeva Hamilton, fu il suo carattere: instabile e senza scrupoli. Colin Morison fu uno stimato cicerone, commerciante e scavatore che lavorò a Roma per più di cinquant’anni. Collaborò spesso con Mengs che lo introdusse in un circolo di mecenati ed intellettuali, tra cui Winkelmann che rimase impressionato dal suo buon cuore, coraggio e dalla sua abilità nel leggere Omero. La preparazione culturale di Morison era dunque suoperiore alla sua abilità artistica, tanto che nel giro di poco divenne uno dei più importanti antiquari a Roma. Il termine di ‘conoscitore’ se analizzato fuori contesto potrebbe sembrare una parola generica che identifica di volta in volta commercianti d’arte, guide, scrittori, scavatori, archeologi, artisti, restauratori e collezionisti, ma se è pur vero che essa racchiudeva al suo interno una vasta gamma d’umanità -chierici, nobili, strati sociali più semplici e coloro che lavoravano per guadagnarsi da vivere- è giusto anche precisare che il significato espresso è estremamente preciso e Thomas Jenkins25 fu certamente un esponente di coloro che misero al servizio dei

clienti le proprie attitudini di conoscitori praticando un vero e proprio mestiere. Di famiglia

                                                                                                               

24 Su Fagan vedi: R. Trevelyan, Robert Fagan, an Irish bohemian in Italy, “Apollo”, XCVII, set.-dic. 1972, pp. 298-311.

I. Bignamini, I marmi Fagan in Vaticano: la vendita del 1804 e altre acquisizioni, “Bollettino. Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie”, XVI, 1996, PP.331-394.

25 AA VV, T. Jenkins, Catalogue of A Loan Exhibition of Eighteenth Century Italy and The Grand Tour at Norwich Castle Museum, May 23-July 20 1958, Norwich 1958, p.21

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britannica, era nato a Roma nel 1722, nella parrocchia di Piazza del Popolo, proprio nel cuore della zona di Roma che diverrà dimora di molti artisti della colonia inglese.

L’apprendistato da pittore in Inghilterra precedette un breve periodo di pratica a Roma dal 1753 in avanti, i primi contatti con i mecenati inglesi devono aver illuminato il suo senso degli affari e dato il via alla consapevolezza che la professione di commerciante gli avrebbe portato maggior prestigio e migliore qualità di vita di quanto avrebbe mai potuto sognare continuando a seguire la carriera artistica.

Fu dunque la carriera di antiquario e commerciante che costruì la sua positiva reputazione a Roma, l’idea di abbandonare tela e pennelli fu probabilmente la scelta più saggia che avesse mai fatto!26 La sua strada era stata quella degli affari, i suoi beni erano oggetti d’arte ed il suo

mercato era creato dal gusto; nessun’altro uomo seppe mescolare queste due sfere in maniera migliore. Jenkins possedeva una mente curiosa e la storia precedente dei beni che commerciava non lo interessava unicamente per accattivarsi l’attenzione della clientela ma fu proprio un impulso, quasi fosse suo dovere nei confronti dell’arte stessa che gli aveva donato fama e ricchezza.

La missione di promozione del buongusto fu alimentata dai prolungati scavi e nella

corrispondenza con Charles Townley dimostrava un profondo rispetto per l’arte, le virtù del passato antico, e il desiderio di vederle prosperare nell’Europa Moderna.

L’interesse di Jenkins nel formare il gusto artistico dei propri clienti era notevole, spingeva Townley e altri a visitare le collezioni di altri gentiluomini per fare un paragone con le proprie, compiacersi della superiorità dei propri oggetti, ma anche studiare la disposizione della

collezione, che doveva essere creativa, funzionale e originale.

Si esprimeva con parole piuttosto dure e aggettivi di disprezzo nei confronti del gusto della massa, ad eccezione di certo dei suoi clienti, usava metafore interessanti ed inusuali per descrivere la diffusione del buon gusto, richiamando in suo aiuto l’immagine del colore che si diffonde nell’acqua; nonostante ciò è giunto sino a noi l'aspetto d’un uomo subdolo,

approfittatore, con il fiuto degli affari, al limite della moralità.

                                                                                                               

26 Su T. Jenkins vedi: T. Ashby, Thomas Jenkins in Rome in “the Antiquaries Journal”, 45, 1965, pp.225-229; B. Ford, Thomas Jenkins. Banker, dealer and unofficial English agent, “Apollo”, XCIX, 1974 pp.416-425; A. Busiri Vici, Thomas Jenkins fra l’arte e l’antiquariato, “L’Urbe”, XLVIII, 1985, PP.157-165.

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Probabilmente una cosa non esclude l’altra e per risolvere l’enigma della vera natura di Jenkins solo la scoperta dei suoi diari privati potrebbe fornirci la misura del suo impegno personale al ruolo di conoscitore e promotore del gusto.

Gavin Hamilton (fig. 5) morì di malaria a Roma nel 1798 all’età di settantacinque anni alla fine del periodo d’oro del Grand Tour, al quale egli aveva dato un significativo contributo in

numerosi campi artistici. È comunemente descritto tramite l’uso combinato dei termini di pittore, archeologo e commerciante, ma ciò che interessa alla nostra ricerca al momento è principalmente il secondo vocabolo.

Di origine scozzese era nato a Lanark nel 1723 e aveva effettuato l’apprendistato di pittore a Glasgow. Il suo primo incontro con l’Italia risale al 1748, quando intraprese un viaggio a Napoli e dintorni entrando così in confidenza con l’arte Romana antica che divenne l’inquietudine della sua vita. I tre anni trascorsi successivamente a Roma furono investiti alla formazione di un‘idea del mondo classico. Dopo un periodo a Londra tornò a Roma nel 1756 e non lasciò mai più la città.

Divenne un Romano sotto ogni aspetto, visse con una donna italiana, Margherita Giulj, con cui formò una famiglia senza unirvisi in matrimonio27.

La malaria non l’abbandonò mai del tutto e periodicamente soffriva il riacutizzarsi del male, in quei momenti solitamente si riavvicinava alla passione della pittura che di certo lo stressava meno rispetto all’attività di scavo, ma il richiamo dei proventi dati dagli scavi sommato al piacere dell’investigazione dell’antichità Romana, fecero si che continuasse l’impresa archeologica fino alla fine dei suoi giorni.

Il carattere di Hamilton è noto attraverso le numerose lettere a Charles Townley, già pubblicate nel 1901 da Smith Arthur Hamilton,28 gran lavoratore e uomo impulsivo, privo di quella conoscenza del mondo che fu invece caratterizzante di Jenkins, ma del tutto consapevole che il suo lavoro segnasse un punto a favore della materia archeologica e che diventasse oggetto di interesse e conoscenza presso il maggior numero possibile di pubblico.

Hamilton era solito esternare i propri sentimenti e punti di vista ai clienti e non era solito mentire per amore del commercio.

In una lettera a Shelburne che voleva vendere la sua collezione di statue al tempo della guerra con l’America in modo da recuperare parte delle perdite finanziare, il suggerimento di Hamilton appare di una modernità impressionante: “I must now beg leave to advert one thing in regard to                                                                                                                

27 I. Bignamini, C. Hornsby (a cura di), Digging and dealing in eighteenth-century Rome, New Haven 2010, vol I, p. 195.

28 S. A. Hamilton, Gavin Hamilton’s Letters to Charles Townley, in «Journal of Hellenic Studies», XXI, 1901, pp.306-321.

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your Lordship’s collection of ancient statues and that is that they have no intrinsic value but rise and fall like the stocks. When I sent these statues to England all Europe were fond of collecting and the price of consequence ran high.

At present there is not one purchaser in England and money is scarce. It therefore doesn’t surprise me that at this time your Lordship cannot immediately find a purchaser at the price they cost. There is another thing against you my Lord which is that whatever you offer for sale is looked on as your refusal and at once condemns it”29.

L’affermazione di Hamilton sulla mancanza di valore intrinseco delle statue deve essere letta nel contesto del suo ruolo di commerciante. È fuor di dubbio che Hamilton al momento della

scoperta di un nuovo pezzo fosse interessato tanto al nuovo tassello che ricomponeva l’arte del passato quanto a vendere lo stesso al miglior prezzo possibile.

Ricorreva spesso ai vocaboli di categorizzazione del Winckelmann allo scopo di mescolare sapientemente erudizione e tecniche di vendita.

In un appunto indirizzato a Lord Shelburne, datato 1 maggio 1774 Hamilton speculò chiaramente sulla probabile datazione con termini davvero vaghi ma ben organizzati in modo da far sentire il cliente soddisfatto nonostante l’inconsistenza effettiva delle informazioni fornite.30

Solitamente sceglieva dove scavare in base alla presenza di rovine ed altri indizi che fossero intatti.

In un’epistola a Townley del 1775 scrisse che a scavi già cominciati ad Anagni si era accorto con suo grande disappunto che qualcuno aveva battuto la zona prima di lui. Jenkins al contrario sembrava essere nettamente più organizzato quando in una lettera dice di portare avanti il suo lavoro a Villa Adriana. Il sito presentava tre antichi alberi e la presenza di questi testimoniava l’assenza di usurpatori del terreno per anni, forse centinaia di anni e ciò alle orecchie

dell’archeologo veniva tradotto come ‘fertilità in potenza’31.

Hamilton si servì di frasi riprese dagli antichi scrittori per identificare probabili siti archeologici. Non organizzava il materiale raccolto con ordine, ma di certo lo studio e l’impegno che metteva nella preparazione agli scavi lo differenziavano di gran lunga da quanti si gettavano in scavi random senza alcun criterio.

Solitamente i ritrovamenti di antichi tesori avvenivano ad opera di operai o agricoltori che abitavano nei pressi delle zone archeologiche e basavano le loro campagne di scavo su ritrovamenti casuali o dicerie del popolo.

                                                                                                               

29 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit.; vol. II, p. 126. 30 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit; vol II, p.38. 31 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit.; vol. II, p. 57.

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Il metodo di Hamilton invece coinvolgeva squadre di scavatori, conosciuti come Aquilani, poiché provenienti dall’Aquila32, che lavoravano sotto la direzione di un caposquadra.

La pianura costiera era sicura solo nei mesi invernali, quando il rischio della malaria era minore. Questi ex-pittori, appassionati e dal temperamento non certo votato al paradiso, avevano deposto colori e pennelli per investire in altro ma per quanto tale scelta fosse abbastanza comune, non si trattava certamente di un obbligo, associare la professione artistica a quella del mercante era altrettanto usuale e fu ciò che fece Giovan Battista Piranesi33, architetto ed incisore, avveduto

mediatore di vendite e paradigma dell’artista e antiquario settecentesco. Ma cosa

commerciavano? Come vi entrano in possesso e soprattutto erano davvero pezzi autentici nel caso in cui si trattasse di scultura antica?

Parte dei loro affari verteva su quadri e disegni degli antichi maestri, poi antichità etrusche, egizie, romane, una buona fetta è rappresentata dall’oggettistica di uso quotidiano, crateri, vasi, candelabri, lucerne funerarie.

Quadri, disegni e parte delle antichità provenivano dal mercato romano o dalle collezioni di famiglie aristocratiche che nel Settecento cercavano liquidità. Talora ci si spingeva oltre il lecito stringendo accordi con ladri, ma talvolta un buon affare poteva essere mettere le mani sulle vendite pubbliche o gli stock dei colleghi.

Essere un buon professionista significava esserlo a tutto tondo, preparati in campo artistico e meglio ancora se versati nell’arte del restauro. In questo caso il commerciante aveva il doppio delle possibilità di arricchirsi e trovare mercato per le opere giunte nel suo studio. Molto spesso infatti tutto si riduceva ad incontrare il gusto del compratore: c’è chi ama l’aspetto vissuto e malconcio delle opere, segno dei secoli passati e dell’effetto del tempo e chi invece preferisce esporre nei propri salotti opere ben restaurate e sistemate.

In entrambi i casi, l’abile mano del mercante se restauratore poteva compiere il miracolo e trasformare a suo piacimento il reperto in oggetto.

La pratica del Grand Tour fornì un valido impulso a incrementare la riproduzione in metallo così come in biscuit delle più pregevoli sculture antiche,34 si desiderava portare in patria il ricordo di ciò che si era visto o di quanto di essa già si conosceva attraverso le pubblicazioni presenti sugli scaffali delle biblioteche europee, prosperò così l’industria artistica del “ricordo di viaggio” e si

                                                                                                               

32 I. Bignamini, C. Hornsby, op. cit.; vol. I, p. 10.

33 P. Coen Giovanni Battista Piranesi mercante d’arte e di antichità, “connessione tra lavoro antico e lavoro

moderno”, in C. Brook, V. Curzi (a cura di), Roma e l’antico, realtà e visione nel ‘700 (catalogo della mostra Roma, Palazzo Sciarra 30 novembre 2010-6 marzo 2011), Milano 2010, pp. 65-70.

34 C. Teolato, Artisti imprenditori: Zoffoli, Righrtti, Volpato e la riproduzione dell’antico, in C. Brook, V. Curzi (a cura di) Roma e l’antico, realtà e visione nel ‘700, Milano 2010, pp. 233-238.

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rese disponibile un gran numero di manufatti che potessero soddisfare le richieste di estimatori o visitatori.

Siamo ben lontani dalla catena di montaggio di Henry Ford e dall’amaro sarcasmo del povero Charlie Chaplin alle prese con l’abbrutimento del lavoro seriale ma queste copie settecentesche di oggetti famosi facevano della serialità un punto di forza, il proprio valore veniva dall’essere rievocazioni di opere famose.

Per ciò che riguarda la produzione di bronzetti si distinse nel panorama romano degli anni sessanta del Settecento la produzione di Giacomo e Giovanni Zoffoli e quella di Francesco e Luigi Righetti che occupano invece gli ultimi venti anni del secolo.

Pietro Pacilli ad esempio operò come scultore e restauratore di antichità nel suo studio nei pressi di Trinità dei Monti. Diede inizio alla propria attività lavorando accanto al padre Carlo

intagliatore di legno, fu in costante contatto con Jenkins e Hamilton per i quali accomodava una serie di statue antiche così da permettere ai due commercianti di piazzare l’oggetto a prezzi maggiormente vantaggiosi.

Lo stesso Pietro tra l’altro creò la propria cerchia di clientela straniera e fornì numerosi pezzi a molti collezionisti stranieri tra cui una statuetta di Ecate venduta a Charles Townley e

proveniente da Palazzo Giustiniani.

Pacilli non compare tuttavia nella corrispondenza con questo suo acquirente, dunque sembra possibile formulare l’ipotesi che in caso di grandi collezionisti egli si rivolgesse

all’intermediazione di Jenkins o Hamilton, che dal canto loro quando avevano in pugno qualche signorotto ben disposto a investire la propria fortuna in opere antiche di certo non si facevano scavalcare da nessuno.

Chi appare in queste lettere è Carlo Albacini35 formatosi nello studio di Bartolomeo Cavaceppi e stretto collaboratore di Thomas Jenkins per ciò che concerneva il restauro di marmi destinati a Townley, Il suo studio al numero 67 di Vicolo degli Incurabili divenne un punto d’appoggio per le antichità a lui destinate.

Trentaquattro marmi, incluse la Venere di Townley e la statua di Thalia sono registrate qui nel 1777, in attesa di essere distribuite.

                                                                                                               

35 Su Carlo Albacini vedi: DE FRANCISCIS ALBERTO, Restauri di Carlo Albacini a statue del Museo Nazionale di

Napoli, in «Samnium», XIX, 1-2, 1946, pp.96-100DAVIES GLENYS, The Albacini cast collection, in «Journal of the History of Collections», III, 2, 1991, pp.145-165; HOWARD SEYMOUR, Ancient Busts and the Cavaceppi and

Albacini Casts, in «Journal of the History of Collections», III, 2, 1991, p.199-217; PEPE MARIO, Carlo, Filippo e

Achille Albacini, in «Capitolium», XXXV, 12, 1960, pp.28-29; PRISCO GABRIELLA, La collezione farnesiana di

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Nel 1778 Townley si lamentò del restauro del rilievo raffigurante il Banchetto di Trimalchione ma Jenkins difese il suo lavoro dicendo che solo alcune parti davvero rovinate erano state sostituite ma la cosa non convinse il vecchio inglese del tutto.

Con l’arrivo di Napoleone l’organizzata rete di mercanti, antiquari e acquirenti d’arte antica vacillò, ci fu un rimescolarsi di posizioni e abitudini, ma i più avveduti seppero ugualmente trovare la propria strada per un commercio parimenti fruttuoso se non addirittura migliore rispetto agli anni precedenti; Carlo Albacini fu uno di questi e con l’invasione francese continuò a lavorare come restauratore occupandosi della collezione Farnese e creandosi un discreto business nel napoletano.36 Altro esempio di antiquario scozzese di gusto ed esperienza era James Byres37, professionista nell’arte del commerciante, antiquario e soprattutto nel condurre gruppi di gran turisti tra i monumenti della città facendo da cicerone.

In Strada Paolina aveva una raffinata agenzia che offriva ai clienti non solo visite guidate ma addirittura totale accesso alle acquisizioni antiquarie del Grand Tour. Si trattava di un vero e proprio business di successo e intelligentemente organizzato.

Dalle esistenti licenze d’esportazione risulta che Byres forniva ai collezionisti britannici opere antiche e moderne, organizzando anche commissioni con artisti contemporanei e attingendo ai suoi iniziali studi di architettura, schizzava un progetto volto a studiare i modi migliori per esporre le opere acquistate. Aveva di sicuro un debole per l’arte contemporanea giacché agì spesso in via ufficiosa come ‘protettore’ di artisti contemporanei.

Nel 1762 vinse il terzo premio della prima classe del concorso Clementino bandito da San Luca, nel novembre 1768 entrò nel novero dei Professori nel 1773.

A differenza degli antiquari fin qui nominati Byres non fu attivo come mercante di marmi bensì risultano registrate vendite di piccole figure ed oggettistica decorativa. D’altronde egli non si specializzò nel restauro né tantomeno finanziò mai alcuna campagna di scavo intessendo così rapporti con la Reverenda Camera Apostolica.

In un secolo in cui l’archeologia divenne la gallina dalle uova d’oro, James Byres fu di sicuro uno di quei personaggi che seppe adattarsi a questo nuovo “mood” romano e che sembrava attingere a mille risorse pur di adattarsi alle esigenze di ogni cliente, procurava dai denti d’elefante, ai cammei, e ogni tipo d’ornamento antico.

                                                                                                               

36 R.Ridley, Theveagle and the spade:arachaeology in Rome during the Napoleonic era, Cambridge 1992, pp. 112-117.

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La Roma del Grand Tour appare dunque uno dei luoghi su cui si è potuto maggiormente calcare la mano indagando l’immagine di una città dominata dalla presenza di artisti e viaggiatori e sui rapporti che tra essi si vennero a creare.

In questa sede abbiamo introdotto spunti di riflessione sui processi messi in atto dal consumo di cultura, categoria che ben si adatta all’immagine della Roma settecentesca “emporio del bello” e “tempio del vero gusto”.

I tradizionali meccanismi della committenza artistica mutarono e ce ne hanno fornito

testimonianza chi tutto ciò lo visse: viaggiatori e artisti sono elementi attivi in questo processo di nascita di rapporti non codificati che si fece strada nella vita quotidiana e nella tessitura urbana di Roma, abbandonando così i percorsi ufficiali assai battuti un tempo.

Alla fine di questo discorso è doveroso fare una precisazione e sottolineare che attorno alle molteplici figure di intermediari professionalmente sempre più competitivi e preparati, vero protagonista e ragion d’essere della folla di professionisti sovra menzionata è il pubblico38. L’artista stesso ne capisce il potenziale e apre le porte del proprio atelier cominciando ad autopromuoversi mostrando e anzi incoraggiando la frequentazione del proprio posto di lavoro, trasformandolo in un luogo deputato non solo alla produzione di nuove forme d’arte, ma alla socialità e dialogo con il pubblico39.

Utile a questo discorso è la voce Peintre dell’Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des

sciences, des art set des métiers di Diderot e D’Alembert, redatta da Louis de Jaucourt ove si

spiegano i fattori che portano alla nascita di un grande pittore.

Il dono del genio, la formazione della mano e dell’occhio deve necessariamente essere supportata dall’incoraggiamento da parte dello Stato e la presentazione delle opere in luogo pubblico: “Quoique la réputation du peintre soit plus dépendante du suffrage des experts que celle des poètes, néanmoins ils ne sont pas les juges uniques de leur mérite. »40

Secondo Jancourt dipende dal luogo, dal tempo e dal paese se la fama pittorica viene riconosciuta diversamente: «Par exemple, les tableaux exposés dans Rome seront plutôt appréciés à leur juste valeur, que s’ils étaient exposés dans Londres et dans Paris41 » Egli attribuisce questo fenomeno a un gusto “naturalmente” istruito dei romani per la pittura, sviluppato grazie alle occasioni che essi avevano di vedere in chiese e palazzi dei capolavori di pittura.

                                                                                                               

38 S. A. Meyer, La Pierre de touché. Riflessioni sul pubblico romano tra Sette e Ottocento, in “Ricerche di storia dell’Arte” 2006, 90, pp. 15-21.

39 S. Rolfi, Recensire, scrivere di storia, esportare. Roma emporio del gusto fra critica e mercato nel secondo

Settecento, in “Ricerche di storia dell’Arte”, 2006, 90, pp. 5-14.

40 L. de Jaucourt, voce Peintre in Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers”, t. XII, Struttgart-Bad Connstatt 1967, vol. 12, pp. 252-253.

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Si tratta altresì di un’immediata verifica attraverso il successo di un mercato cosmopolita a conferire autorevolezza al giudizio del pubblico romano.

È vero però che non parliamo di un ambiente artistico totalmente libero da vincoli, il mercato romano fin dal Seicento era caratterizzato oltre che dalla committenza delle grandi famiglie aristocratiche, di Stato e della Chiesa, dalla presenza di alcuni strumenti e prassi di mediazione tra artisti e pubblico, che diverranno un tratto caratterizzante della realtà romana.

I ciceroni ad esempio avevano tra i loro compiti non solo quello di mostrare, musei e bellezze della città bensì anche di convogliare i propri clienti negli studi degli artisti e allo stesso modo i giornali avevano il compito di far filtrare “l’oro de ricchi” negli studi degli artisti.

Per avere un’idea di quanto il mondo del collezionismo a Roma sia mutato nel passaggio dal Seicento al Settecento basti dare uno sguardo alla documentazione contabile di casa Colonna, interessante testimonianza della modalità di acquisizione delle opere d’arte in una delle principali collezioni di pittura del Seicento.

L’organizzazione economica e pratica della casa di un principe era affidata al Maestro di Casa, gli acquisti fatti sul mercato artistico più che sulla committenza; al contempo, si delinea la complessità della linea messa in atto per la gestione del patrimonio artistico42.

I pagamenti ai pittori sono generalmente registrati nel libro Mastro della Casa sotto le voci “spese per mobili” e, in misura minore “spese particolari” di S.(ua) E.(eccellenza).

Sempre sotto la prima modalità di dicitura ritroviamo registrati i pagamenti che i Colonna fanno per le opere acquistate dai mercanti.

È ancora dai libri dei Maestri che veniamo a conoscenza di un ulteriore tipo di acquisizione di opere d’arte: il noleggio di dipinti.

I modi di collezionare delle nobili famiglie della Roma seicentesca sono dunque vari e proprio tale varietà indica e chiarisce l’ottica in cui tale attività prendeva corpo. Tuttavia nonostante mediatori, intenditori d’arte e antiquari siano personaggi da sempre inscindibili dal tessuto sociale di una città come Roma che si nutre del proprio passato, nel passaggio da un secolo all’altro e con il diffondersi della pratica del Grand Tour in Italia il collezionista tratta

direttamente di persona o per via epistolare con i propri agenti, lo scambio di lettere tra Cherles Townley ed i suoi collaboratori fu serrato e dettagliato, il fatto che essi si mobilitassero sempre più di persona per acquisire opere interessanti non ne fa necessariamente degli intenditori ma di certo molti di essi furono davvero preparati in campo artistico e nonostante cercassero di evitare il più possibile frodi ed imbrogli come vedremo nell’andare avanti con lo svolgimento degli argomenti, antiquari e mercanti romani seppero il fatto loro riguardo al mercato del falso.                                                                                                                

42 F. Cappelletti, Decorazione e collezionismo a Roma nel Seicento. Vicende di artisti, committenti e mercanti, Roma 2003, pp. 175-185.

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In una città come Roma dunquerisultano ben calzanti gli ordinamenti contenuti nell’undicesimo articolo dell’editto-chirografo43 del cardinale Doria pubblicato il 2 ottobre 1802. Si tratta d’una tassa imposta ai collezionisti espletata in modo preciso e che di certo non cade nella vaghezza della disposizione.

Tutti i privati in possesso di gallerie di statue, di dipinti, Musei d’antichità sacre o profane o semplici raccolte di qualsiasi genere ed anche coloro che pur non essendo dei veri collezionisti possedevano uno o più oggetti antichi o comunque di un qualche valore artistico, entro un mese dovevano versare un’assegna a seguito della denuncia di ogni singolo pezzo; l’editto continuava aggiungendo che la visita a Roma dell’Ispettore delle Belle Arti, così come del Commissario delle Antichità, sarebbe divenuta un appuntamento più che annuale.

Le assegne44 pervenute risultano essere 149, non abbastanza considerando che grandi assenti della lista sono le grandi famiglie romane notoriamente amanti del collezionismo.

Per quanto l’editto Doria fu accusato di ledere il principio di proprietà privata , finché rimase in vigore salvaguardò il mercato artistico dell’Urbe dalla situazione di anarchia totale che

caratterizzò il periodo successivo.

                                                                                                               

43 Dal gr. Cheirò-grafon e dal lat. Chirographum, lett. Scritto a mano. Il Chirografo papale è un documento manoscritto di mano pontificia.

44 D. Borghese, L’editto del cardinale Doria e le assegne dei collezionisti romani, in R.Vodret (a cura di),

Caravaggio e la collezione Mattei, (Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini Salone Pietro da

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1.3. L’organizzazione legislativa degli scavi, licenze e responsabilità.

Il profilo delle “cose” dell’arte, il cammino del patrimonio verso una sua definizione culturale, trova come culla del proprio divenire il corpus legislativo che lo riguarda. Studiare la

maturazione legislativa dei fatti serve a tracciare una mappa dettagliata di quelle urgenze culturali e conservative che giustificarono l’intervento della disciplina giuridica45.

Per quanto questo sia un discorso applicabile a ogni regione italiana, il primato di emanazione delle antiche leggi di tutela spetta a quel governo Pontificio che in Roma riconosce per tempo il valore spirituale di una tradizione che volge in impero dei cristiani l’antico impero dei gentili. Del resto a Roma già prima del XVII secolo, frequentissime sono le dichiarazioni pubbliche e i provvedimenti di governo tesi a regolamentare la fruizione e proprietà del patrimonio

archeologico di una città che cresce eternamente su se stessa e sulle proprie pietre.

L’osservatorio propostoci dalle leggi romane consente una lettura di notevole continuità. Partito da un nucleo iniziale un po’ confusionale e in difficoltà legislativa causa la mancanza di

precedenti giuridici, la finalità delle leggi si complicò nel Seicento, in un affollarsi di oggetti e materiali.

Nel XVIII secolo le disposizioni accompagnarono l’emergere dell’archeologia scientifica, dell’archivistica, della bibliologia, divennero più complesse e articolate per far fronte all’invasione straniera del Grand Tour e proteggere i beni da appropriazioni indebite.

Punto fondamentale da non sottovalutare è la nascita del Museo Pio-Clementino, basta dare uno sguardo al sistema legislativo volto a tutelare il Papa per capire quanto peso avesse il legato del Papa nella scelta degli oggetti dagli scavi effettuati all’epoca.

La crescita del mercato dell’antico su scala internazionale creò le condizioni per la nascita della figura dello scavatore quasi professionale.

In tempi iniziali essi erano dipendenti del proprietario terriero e in quel caso spettava a

quest’ultimo ottenere le licenze per intraprendere lo scavo. La situazione mutò drammaticamente intorno al 1764, complice l’espansione del Grand Tour, la conclusione della Guerra dei Sette Anni e la contemporanea crescita di domanda di beni archeologici.

Le licenze erano richieste per qualsiasi tipo di scavo, non solo di natura archeologica, anche per salvare materiale di palazzi antichi, erigere nuovi palazzi, installare tubature idriche, studiare monumenti antichi, rimuovere o dissotterrare antichità.

                                                                                                               

45 A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei Beni Artistici e Culturali negli antichi Stati Italiani

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