• Non ci sono risultati.

Un altro passo sulla strada dell’avvicinamento asintotico all’uccisione di Lombroso: la chiusura degli OPG e l’istituzione delle REMS

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Un altro passo sulla strada dell’avvicinamento asintotico all’uccisione di Lombroso: la chiusura degli OPG e l’istituzione delle REMS"

Copied!
18
0
0

Testo completo

(1)

Emilio Santoro

Un altro passo sulla strada dell’avvicinamento asintotico all’uccisione di Lombroso: la chiusura degli OPG e l’istituzione delle REMS

La discussione relativa alla chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) e la loro sostituzione con le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (d’ora innanzi REMS) è una discussione che riguarda, per usare la terminologia foucaultiana, che speso caratterizza la tematizzazione di queste problematiche, la trasformazione di un intero “dispositivo di esercizio del potere psichiatrico”. Questa discussione si inerisce in una più ampia, che prosegue da decenni e ha portato alla legge 180, relativa al trattamento della sofferenza psichica, l’uso dell’internamento per chi è affetto da disturbi psichiatrici e, più in particolare, il regime previsto dal nostro codice penale per chi viene prosciolto per vizio di mente. Entrambe queste discussione hanno prodotto un loro precipitato giuridico, fatto di testi legislativi e di sentenze. Quello che mi propongo di fare nelle pagine seguenti è analizzare come questi testi normativi abbiano articolato nel corso degli anni il “dispositivo di esercizio del potere” che si prende in carico gli autori materiali di reato affetti, al momento del compimento del reato stesso, da infermità psichica. Cercherò di ricostruire La coerenza, dal punto di vista giuridico, del discorso che hanno articolato e vedere se le antinomie di questo discorso forniscono a chi, come me, è contrario al doppio binario, a qualsiasi connessione a priori tra pericolosità e malattia psichica e all’internamento coattivo dei sofferenti psichici, argomenti validi per superare definitivamente il sistema creato dal codice Rocco.

Partendo dall’inoppugnabile dato che il legislatore non ha toccato le norme del codice penale relative alla misura di sicurezza per i non imputabili, molti commentatori hanno sostenuto che il processo che ha portato alla soppressione degli OPG e alla loro sostituzione con le REMS non ha inciso sul sistema delle misure di sicurezza per i prosciolti per vizio di mente. Anche Daniele Piccione (2014, 3), che, tra i sostenitori della necessità di abbandonare il sistema del doppio binario, è forse l’autore che più si sforza di vedere il bicchiere della processo che ha portato alla chiusura degli OPG come mezzo pieno1, ha lamentato che “paradossalmente, a cedere non è l’impianto teorico della misura di sicurezza, che, in qualche modo, si ostina a resistere nella teoria e nella pratica, nel giudizio e nell’esecuzione; a declinare è soltanto l’istituzione che ospita i pericolosi socialmente”.

La dottrina penalistica e le voci critiche della psichiatria (cfr. Rotelli 2012) lamentano, in primo luogo, la “natura formalmente extracodicistica” dell’intervento e, quindi, che ancora una volta si è persa l’occasione di mettere mano alla riforma della disciplina codicistica del “doppio binario”. Questa, formalmente inappuntabile, considerazione non fa però i conti con la circostanza che sono stati di natura extracodicistica tutti gli interventi che hanno profondamente modificato negli ultimi quattro decenni il sistema del doppio binario, disegnandone, come ha sancito anche la Corte Costituzionale2 già oltre trent’anni fa, uno sostanzialmente diverso da quello che esisteva all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso. Il processo, che ho definito nel titolo di questo intervento, di avvicinamento asintotico all’uccisione di Lombroso, è stato scandito da sentenze della Corte Costituzionale e, dal loro recepimento normativo, avvenuto attraverso l’Ordinamento Penitenziario e la “Legge Gozzini” (legge n. 663 del 10 Ottobre 1986). Questa all’art. 31 abroga l’art. 204 del Codice Penale e fissa un principio del tutto nuovo, quello della necessità dell’accertamento della pericolosità del soggetto al momento dell’esecuzione della misura di sicurezza, senza inserirlo né nel Codice Penale né nell’Ordinamento Penitenziario (alla cui riforma la “Gozzini” era intitolata). Forse quella       

1 Piccione vede infatti il processo che si è innescato con il rapporto della Commissione Marino come un tentativo di

ricomporre almeno alcune delle antinomie che non solo gran parte della dottrina giuridica, ma anche della teorizzazione psichiatrica, ha sostenuto porre in contrasto il sistema costruito dal Capo I del Titolo VIII del Libro I, del Codice penale e i principi sanciti dagli artt. 13, 25, 27 e 32, della Costituzione.

2 Nella sentenza 139 del 1982 la Corte afferma che, con la sua sentenza 110 del 1974 e la successiva abrogazione

dell’ultimo comma dell’art. 207 c.p. l’anno dopo ad opera dell'art. 89 della legge 26 luglio 1975 n. 354 (Ordinamento penitenziario), “la disciplina complessiva della misura di sicurezza detentiva del ricovero in manicomio (ora ospedale psichiatrico) giudiziario, […] si è sostanzialmente modificata rispetto all'impianto originario”.

(2)

della riforma del sistema del doppio binario è una delle tante vicende che deve farci riflettere sull’adeguatezza della forma “Codice” per le nostre società complesse dell’era della globalizzazione.

Rimanendo al caso specifico, non c’è dubbio che il primo provvedimento del legislatore, la legge n. 9 del 2012 per il superamento dell’istituzione manicomiale, nacque dallo scandalo suscitato, nei componenti della “Commissione Parlamentare d'inchiesta sull'efficacia e l'efficienza del servizio sanitario nazionale” della XVI Legislatura (nota ai più come “Commissione Marino”, dal nome del Senatore Ignazio Marino presidente della Commissione), dalle condizioni dei luoghi di esecuzione della misura di sicurezza detentiva, gli ospedali psichiatrici giudiziari e le case di cura e custodia, e abbia il proprio fulcro nella loro sostituzione con le REMS. Insomma tutto pareva risolversi in una nuova truffa delle etichette /anche Margara/: per l’ennesima volta si cambiava il nome dei luoghi dove scontare la misura di sicurezza detentiva. Nella migliore delle ipotesi, per parafrasare il Nerone di Petrolini, si trattava di costruire strutture di internamento “più belle e più superbe che pria”.

Qualcosa cambia con l’intervento governativo del 2014: il decreto legge n. 52. Le novità diventano ancora più sensibili con gli emendamenti parlamentari che il decreto suscita e la legge di conversione ingloba. Anche la legge che ne risulta, non si può però certo dire il frutto di una riflessione organica, in qualche modo paragonabile a quella che ha preceduto la legge 180, sul trattamento dei soggetti afflitti da disturbi psichiatrici autori materiali di reati, ma piuttosto di una serie circostanze anche abbastanza casuali e di necessità pratiche.

Il risultato forse più significativo dal punto di vista della riforma del sistema della misura di sicurezza per i non-imputabili, cioè la chiara statuizione del principio dell’extrema ratio nell’irrogazione della misura di sicurezza detentiva (tanto in fase cautelare che definitiva), nasce in primo luogo dal contesto caratterizzato dall’emergenza umanitaria che gravava (e grava) sui nostri istituti di pena a causa del sovraffollamento e dalla necessità di dare implementazione alle indicazioni contenute nella “sentenza Torreggiani”3, in cui la vicenda della chiusura degli OPG si è, casualmente, inserita. Se ha inciso qualche altro fattore, è stata la speranza, molto pragmatica, di limitare il numero delle REMS da istituire in modo da ridurre i costi e velocizzare la chiusura degli OPG.

Anche l’altro importante risultato strutturale, la fissazione di un termine massimo per la misura di sicurezza detentiva, trova la propria origine non tanto nell’evidente fallimento dell’ospedale psichiatrico giudiziario, inteso come istituzione totale, quanto nella necessità di svuotare gli OPG per procedere alla loro chiusura dopo due rinvii della data stabilita. Quello che, come sosterrò, mi sembra il passo culturalmente più importante, la rottura del collegamento tra constatazione della permanenza delle pericolosità e necessità di protrarre la misura di sicurezza detentiva, nasce non tanto dalle critiche che da anni hanno mostrato l’assurdità della misura di sicurezza detentiva, ma dall’ostinata immobilità delle Regioni, dei Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) e della magistratura di sorveglianza, di fronte alle scadenze fissate dal Parlamento per la soppressione degli OPG e alle loro ripetute proroghe. Si è, in altre parole, arrivati al passo di fissare un termine di durata massima della misura di sicurezza detentiva, il massimo editale della pena prevista per il reato materialmente imputabile al prosciolto, non tanto perché si è constata l’inutilità, l’assurdità culturale e l’inumanità di una istituzionalizzazione che poteva diventare perpetua, il famoso ergastolo bianco, ma perché questo è apparso l’unico modo per forzare il processo di dimissione degli internati dagli OPG.

A dispetto della sua origine contingente questa previsione, come cercherò di argomentare, rappresenta, a mio modo di vedere, una profonda crepa nel sistema del doppio binario e, probabilmente, un passo strutturale ed irreversibile sulla strada dell’avvicinamento asintotico all’uccisione di Lombroso. L’essenza della misura di sicurezza stava, infatti, nella previsione del primo comma dell’art. 207 c.p. secondo cui «le misure di sicurezza non possono essere revocate se le persone ad esse sottoposte non hanno cessato di essere socialmente pericolose». La natura della misura di sicurezza era, ed è, fortemente connotata dal suo essere consustanziale alla pericolosità, dal suo non poter venir meno fino a quando il soggetto a cui è stata comminata continua ad essere ritenuto pericoloso.

      

3 Corte EDU, Sez. II, sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e a. c. Italia, ric. n. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10.

(3)

Nell’impianto del codice le misure di sicurezza sono misure amministrative miranti ad evitare, come recita l’art. 203, che una soggetto, che si è già reso autore, almeno materialmente, di un crimine, “commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”. La probabilità che questo accada costituisce la pericolosità sociale del soggetto: le misure di sicurezza devono eliminare questa pericolosità. Coerentemente con questa funzione difensiva le misure di sicurezza hanno una durata potenzialmente indeterminata, perdurano fintanto che non sia cessata la pericolosità sociale, sia cessato il rischio che chi vi è sottoposto commetta un nuovo reato. Essendo la loro funzione precipua quella di proteggere la società dai soggetti pericolosi, la loro durata non può che essere vincolata alla permanenza o alla cessazione della pericolosità.

Per applicare una misura di sicurezza devono ricorrere due presupposti: uno oggettivo, l’aver commesso un reato, e uno soggettivo, l’essere considerato socialmente pericoloso (art. 202 c.p.). Ma come chiarisce l'art. 200 c.p. che sancisce il principio della retroattività della legge in materia di misure di sicurezza, è il presupposto soggettivo che costituisce il fondamento della misura. Le misure di sicurezza sono misura amministrative con funzione difensiva collegata all'esistenza e persistenza della pericolosità sociale e non alla commissione di un fatto dalla legge previsto come reato. Infatti la misura di sicurezza si può applicare anche quando il reato che ne costituisce il presupposto oggettivo è stato commesso prima dell'entrata in vigore del codice (art. 55 delle disposizioni transitorie del c.p.) o comunque prima della legge che l’ha prevista4. Espressione di questo principio è anche la statuizione che alla misura di sicurezza si applica la legge in vigore al tempo della sua esecuzione e non quella in vigore al tempo della commissione del reato che ne costituisce il presupposto oggettivo. Data la finalità di prevenzione della pericolosità, appare infatti normale, che si adotti la misura che all’epoca il legislatore ritiene più adatta.

Come la misura di sicurezza deve prevenire la pericolosità sociale lo chiarisce Alfredo Rocco5 che

nella Relazione a S.M. il Re al Progetto del Codice penale sostiene che la misura di sicurezza ha «fini socialmente eliminativi, o curativi e terapeutici, o educativi e correttivi e talora [...] semplicemente cautelari». E’ dunque evidente che l’elemento fondante e caratterizzate la misura di sicurezza è la sua capacità di “eliminare” la pericolosità sociale, la possibilità che l’autore materiale di un reato ne commetta un altro, non importa come consegue questo obbiettivo: lo può fare attraverso interventi terapeutici o anche meramente “cautelari” cioè segregativi, escludenti.

Se questi sono la natura della misura di sicurezza e il suo scopo, è ontologicamente necessario che essa duri tutto il tempo in cui il soggetto, che ha già commesso, almeno materialmente, un reato, è ritenuto socialmente pericoloso. Se non fosse possibile sottoporre a misura di sicurezza l’autore, anche solo materiale, di un reato ritenuto socialmente pericoloso, il sistema sarebbe incoerente.

In effetti il codice cercava di evitare questa eventualità non solo chiedendo al giudice di valutare la pericolosità degli autori dei reati (anche di quelli prosciolti), ma stabiliva, all’oggi abrogato art. 204, che ci potessero essere casi, specificamente determinati dalla legge, in cui la pericolosità dell’autore, anche solo materiale del reato, doveva essere presunta. In questi casi, a dire il vero, il reato, o meglio la data della sua commissione e del suo accertamento tornavano ad essere rilevanti. L’articolo stabiliva infatti che la presunzione cessava trascorsi dieci anni dalla commissione del fatto, se si trattava di infermi da internare in casa di cura e custodia o in OPG, e cinque anni negli altri casi o quando erano trascorsi, senza che la misura fosse iniziata, dieci anni dalla previsione dell’internamento in OPG e cinque anni dalla decisione di sottoporre il soggetto ad un’altra misura di sicurezza. Le presunzioni di pericolosità erano previste per a) minori condannati per un delitto commesso durante l'esecuzione di una misura di sicurezza disposta in precedenza (art. 225 co. 2), b) per i minori che avessero commesso delitti non colposi per cui la legge stabiliva la pena di morte, l'ergastolo o la reclusione non inferiore nel minimo a 3 anni (art. 224 co. 2); c) per i condannati a pena       

4 In effetti alcuni autori (si veda per tutti G. Fiandaca e E. Musco, Diritto penale, p. 810) sostengono che la retroattività

debba interpretarsi come relativa alle sole norme che concernono le modalità di esecuzione. Infatti, l'intera materia della successione delle leggi penali nel tempo sarebbe regolata dall'art. 2 del c.p., ove si fa riferimento non solo alle pene ma più in generale alle sanzioni, potendovi ricomprendere anche le misure di sicurezza.

(4)

diminuita per semi-infermità, cronica intossicazione da alcool o sostanze stupefacenti o sordomutismo che avessero commesso un delitto punito con pena edittale non inferiore nel minimo a cinque anni (art. 219 co. 1) e, infine, d) per gli imputati prosciolti per vizio di mente o cronica intossicazione da alcool o sostanze stupefacenti o sordomutismo salvo fossero imputati di aver commesso delitti colposi, contravvenzioni, o altri delitti puniti con pena edittale inferiore nel massimo a due anni (art. 222 co. 1). Per tre della quattro presunzione il codice stabiliva anche il tipo di misura di sicurezza a cui sottoporre il soggetto socialmente pericoloso: il riformatorio per i minori nel caso dell’art. 224 co. 2, la casa di cura e custodia per i seminfermi e l’OPG per gli infermi di mente.

Per infermi e seminfermi di mente il fatto di essere un soggetto affetto da patologie psichiatriche e l'aver commesso un reato erano ritenuti condizioni sufficienti per far operare una presunzione di pericolosità sociale, iuris et de iure, non suscettibile di prova contraria. Queste presunzioni appaiono perfettamente in linea con l’impostazione dei criminologi positivisti che consideravano il reato un sintomo di anormalità. Se il reato è sintomo di una qualche forma di anormalità è chiaro che chi lo ha commesso rimane socialmente pericoloso fino a quando l’anormalità non viene eliminata. Una tale concezione deterministica del reato rende una pura perdita di tempo ogni accertamento in concreto della pericolosità in questi casi. Sulla scia dell’insegnamento della scuola positiva e della sua concezione deterministica dell’origine del reato per cui questo è sintomo di un’anomalia, la misura di sicurezza si configura come la conseguenza necessaria di o, forse meglio, come la risposta necessaria a due fattori implicantisi a vicenda: malattia mentale, che conduce ad un reato, e pericolosità. Se esiste una malattia mentale che affligge l’autore di un reato, questo è necessariamente pericoloso e, finché resta tale, cioè finché resta mentalmente malato e quindi pericoloso, deve essere sottoposto a misura di sicurezza (che, fino alla sentenza 253/2003 della Corte Costituzionale, doveva essere detentiva). Chi ha commesso un reato in stato di malattia mentale è necessariamente pericoloso, presunzione basata su giudizio considerato scientificamente fondato, e deve, finché resta in questo stato, necessariamente essere sottoposto a misura di sicurezza (detentiva), giudizio deontico.

A partire dagli anni '50 e '60 la criminologia iniziò ad abbandonare l’idea della Scuola positiva per cui la malattia mentale implichi necessariamente la forte probabilità di una commissione di reati, e quindi la pericolosità di chi è afflitto da essa, in favore di un approccio multifattoriale all’origine del crimine. Sebbene l'atavismo lombrosiano stesse perdendo inesorabilmente credibilità a favore di approccio multifattoriale e i criminologi cominciassero a pensare che la condizione patologica non era di per sé sufficiente a fondare un giudizio sulla possibilità di futura commissione di reati6, questo nesso è sopravvissuto nella legislazione italiana segna anche la discussione che ha portato al superamento degli OPG.

1. Un passo-dispositivo (ambiguo) più lungo della gamba-motivazione: la sentenza 139 del 1982

Con la sentenza 139 del 1982 la Corte Costituzionale da origine ad un mito ripetuto da allora come una litania, secondo il quale essa in quella occasione compì un passo fondamentale lungo la strada dell’avvicinamento asintotico all’uccisione di Lombroso: riuscì, come è stato recentemente scritto, “ad espungere dall’ordinamento […] la farisaica figura della pericolosità sociale presunta” (Piccione 2014: 4)7. Questo mito nasce dal dispositivo di questa sentenza che in effetti, al punto 1, dichiara

l'illegittimità costituzionale degli artt. 222, primo comma, 204, cpv. e 205, cpv. n. 2, del codice penale, nella parte in cui non subordinano il provvedimento di ricovero in ospedale       

6 Come mostrano alcune delle ordinanze di remissione che portano prima alla declaratoria di incostituzionalità della

irrevocabilità della misura di sicurezza prima del trascorrere della sua durata minima e poi alla sentenza 139 del 1982, frutto di 22 ordinanze di remissione, a partire dagli anni '60 alcuni giudici si fanno carico di questa nuova tendenza del pensiero criminologico ponendo questioni di legittimità costituzionale delle fattispecie presuntive disciplinate dagli artt. 204, 222 e 219.

7. Cito Daniele non solo perché questa citazione rappresenta la ripetizione di questo mito che ho letto più di recente, e

perché è un contributore di questo volume, ma soprattutto perché è un amico con il quale ho condiviso nel Tavolo XI degli Stati generali sull’esecuzione penale sulle misure di sicurezza la battaglia contro ogni residuo di lombrosismo e di connotazione stigmatizzante della malattia mentale e del quale ho grande stima. Così Daniele potrà invocare il proverbio “dagli amici mi guardi Dio che dai nemici mi guardo io”.

(5)

psichiatrico giudiziario dell'imputato prosciolto per infermità psichica al previo accertamento da parte del giudice della cognizione o della esecuzione della persistente pericolosità sociale derivante dalla infermità medesima al tempo dell'applicazione della misura.

Il dispositivo della sentenza, nella sua ambiguità, giustifica ampiamente il mito che la Corte abbia dichiarato l’illegittimità costituzionale della presunzione di pericolosità dei soggetti prosciolti perché mentalmente infermi prosciolti al momento della commissione del reato8. Questa interpretazione, ripeto diventata standard, rappresenta un passo più lungo della gamba e, come cercherò di mostrare questa ambiguità ha contribuito non poco a creare una grande confusione relativa alla categoria dei “dimissibili”, inducendo l’estensore del “decreto Balduzzi” e della legge di conversione a redigere un testo apparentemente paradossale.

In effetti la Corte non tentò neppure l’operazione di disconnettere infermità psichica e pericolosità ma, rimanendo fedele al precedente indirizzo che l’aveva portata a difendere la presunzione di pericolosità9, ribadì che la commissione di un reato in presenza di una patologia psichiatrica è legittimamente considerata dal legislatore sufficiente per far operare una presunzione iuris et de iure, non suscettibile di prova contraria, della pericolosità dell’autore materiale del reato. In sostanza la Corte rimase ferma nel difendere l’impostazione del codice secondo cui la commissione di un fatto reato e l'infermità dovuta a patologia psichiatrica sono sufficienti secondo dati di comune esperienza, l’epistemologicamente fantomatico10 id quod plerumque accidit, per fondare la presunzione della futura commissione di un reato11.

      

8 La sopravalutazione della portata della sentenza per quanto riguarda il superamento della presunzione del nesso tra

malattia mentale e pericolosità trova il proprio fondamento nella portata in qualche modo rivoluzionaria di questa sentenza che capovolgeva la giurisprudenza precedente della Corte costituzionale (cfr. sent. 3-10 marzo, 1966, n. 19) che salvava la legittimità dei meccanismi di presunzione della pericolosità sociale, contenuti nell'art. 204 c.p.

9 La Corte nella sentenza tiene a sottolineare che su questo punto non ha cambiato giurisprudenza: «Sinteticamente e per

quanto può rilevare ai fini del presente giudizio che concerne unicamente soggetti prosciolti perché non imputabili per infermità mentale ai quali va applicata, obbligatoriamente ed automaticamente, la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per il periodo minimo legislativamente fissato basterà ricordare che la Corte ha giudicato indenni da censure di costituzionalità (mosse con riferimento agli artt. 3, 13, primo e secondo comma, 24, secondo comma, 27, secondo comma in realtà terzo e 32 Cost.) le disposizioni del codice penale (artt. 204,secondo comma, 222, primo e secondo comma, 224, ultimo comma) che stabiliscono una presunzione assoluta di pericolosità sociale a carico, appunto, degli imputati prosciolti per infermità psichica da un reato di una certa gravità. Ciò perché "la presunzione stessa deve ritenersi giustificata allorché si sia in presenza di condizioni le quali consentano di far ritenere, sulla base di valutazioni obiettive ed uniformi desunte dalla comune esperienza, la probabilità di un futuro comportamento criminoso da parte di chi abbia commesso un reato in circostanze che ne precludevano l'imputabilità" (sent. 106/1972). La presunzione di pericolosità presuppone, dunque, la riferibilità di un fatto di reato (non colposo, punito con la pena della reclusione superiore nel massimo a due anni) ad un soggetto che, nel momento in cui lo ha commesso, era incapace di intendere o di volere per infermità psichica. E, poiché la pericolosità sociale consiste in una probabilità di recidiva (art. 203, primo comma, del codice penale) e dà quindi luogo ad un giudizio prognostico, la ragionevolezza del criterio presuntivo adottato dal legislatore poggia sull'accertamento di una infermità psichica che, come si è manifestata nella commissione di un reato, così, secondo dati di comune esperienza, può dar luogo alla reiterazione di condotte criminose» (Considerato in

diritto Punto 2).

Nella richiamata sentenza n. 106 del 1972, a fronte dell’ordinanza di remissione che contestava l’irragionevolezza della durata minima della misura di sicurezza tanto per coloro la cui pericolosità era accertata quanto per coloro per i quali era presunta, aveva ribadito la legittimità della presunzione di pericolosità.

10 Una discussione epistemologicamente attenta di questo criterio coinvolgerebbe il complesso problema e discusso

problema dei limiti dell’induzione, la dibattutissima questione del rapporto tra essere e dover essere e la cosiddetta “legge di Hume”.

11 Questa decisione è in linea con la vecchia giurisprudenza della Corte (sent. 3-10 marzo, 1966, n. 19) che salvava le

presunzioni di pericolosità dell’art. 204 c.p. sostenendo che esse si risolvevano "nell'utilizzazione di comuni

esperienze...alle quali il codice dà il significato di far ritenere probabile o temibile un futuro comportamento criminale". Per una nota critica, v., già allora, A. PACE, Misure di sicurezza e pericolosità sociale presunta, in Giur. Cost. 1966, 193 con ampi riferimenti allo stato della dottrina del tempo.

(6)

La Corte è cristallina nel sostenere la legittimità della presunzione di pericolosità per chi commette un reato (grave) in condizioni di infermità psichica12. Anzi si premura di fondare, sulla sua legittimità la risposta ad alcune ordinanze di remissione che lamentavano «una violazione del principio di uguaglianza, stante il trattamento gravemente deteriore riservato agli infermi di mente ai quali viene applicata la misura di sicurezza in esame rispetto ai comuni malati di mente, cui si applica la nuova legislazione in materia, ai sensi della quale il ricovero obbligatorio è eccezionale, di durata limitata e fondato soltanto sulla necessità di urgenti interventi terapeutici, senza che venga più in considerazione la pericolosità dell'infermo (legge 13 maggio 1978, n. 180 e legge 23 dicembre 1978, n. 833)». Secondo la Corte il fatto che la “legge Basaglia” non abbia toccato gli OPG non rappresenta una incoerenza del sistema della presa in carico della sofferenza psichica. Pur venuta meno la presunzione di pericolosità relativa a tutti i sofferenti psichici, è legittimo continuare a presumere pericolosi quei soggetti che al momento in cui hanno commesso un reato erano sofferenti psichici:

è evidente la non omogeneità delle situazioni messe a confronto, posto che la misura di sicurezza in questione torna applicabile soltanto a quegli infermi di mente che, essendo stati prosciolti dall'imputazione di un reato di una certa gravità perché commesso in stato di totale incapacità di intendere o di volere, vengono dalla legge considerati socialmente pericolosi. Al comune malato di mente non è riferibile invece la commissione di alcun reato, o almeno di un reato di uguale gravità, e tanto basta a legittimare il differente trattamento normativo (Considerato in diritto Punto 7).

Chiarita la tesi della Corte bisogna tornare all’ambiguità del dispositivo. La Corte dichiara che l’applicazione della misura di sicurezza non è subordinata “al previo accertamento da parte del giudice della cognizione o della esecuzione della persistente pericolosità sociale derivante dalla infermità medesima”. Avendo analizzato il ragionamento della Corte è chiaro che essa chiede al giudice (della cognizione e dell’esecuzione) non di esaminare se l’infermo che ha commesso il reato è ancora pericoloso, ma se è ancora infermo e quindi, necessariamente; pericoloso. La presunzione che la Corte giudica illegittima non è quella che connette sofferenza psichica dell’autore materiale del reato e sua pericolosità, ma quella che sancisce che “la situazione di infermità psichica accertata rispetto al momento del fatto risulti immutata nel momento del giudizio ovvero in quello successivo in cui la misura in questione debba essere ordinata, ove a ciò si sia omesso di provvedere con la sentenza di proscioglimento (art. 205 cpv. n. 2 c.p.)”13. Merita di essere sottolineato che, mentre       

12 «La logica della disposizione denunciata sta nell'assumere l'infermità psichica dell'autore del reato quale elemento che

caratterizza e collega i due termini della disciplina: il delitto in cui l'infermità ha manifestato una sua specifica pericolosità ed il tipo di risposta legale. La misura "di sicurezza" del ricovero obbligatorio in ospedale psichiatrico giudiziario costituisce la risposta alla pericolosità del soggetto; risposta modellata sulla specifica ragione (causa) di questa sua ritenuta pericolosità, vale a dire l'infermità psichica quale si è estrinsecata nel delitto commesso. Presupposti e definizione dell'istituto pongono così in risalto e inscindibilmente collegano dimensioni di "sicurezza" e dimensione terapeutica; il che è necessario a legittimare la misura, sia di fronte alla finalità di prevenzione speciale, "riabilitativa", propria in genere delle misure di sicurezza (sentenza n. 68 del 1967)12 sia di fronte al principio, anche esso costituzionale, di tutela della

salute (art. 32 Cost.). Come misura "finalizzata" orientata a risultati, ad un tempo di sicurezza e di terapia il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario appare pertanto ragionevolmente connesso al duplice presupposto tipico della commissione di un delitto non lieve e dell'infermità psichica quale condizione del delitto» (Considerato in diritto Punto 6). Nella richiamata sentenza 68/1967 la Corte aveva affermato (considerato 2 in diritto): «Non può formare materia del giudizio di legittimità costituzionale il controllo della discrezionalità usata dal Codice nel dare regolamento preventivo e generale alle situazioni di cui si discute: tale regolamento attua un sistema di difesa sociale correlativa al fatto che ha dato luogo al procedimento penale e alle condizioni sanitarie dell'imputato riscontrate in quella sede, e deve necessariamente presupporre mere probabilità».

13 «La disposizione dell'art. 222 cod. pen., […], prescinde dalla "attualizzazione" del giudizio di infermità mentale,

guardando esclusivamente al momento del fatto. La struttura "presuntiva" della fattispecie si rivela contenere, come bene hanno osservato alcune ordinanze di rimessione, una presunzione duplice: innanzitutto quella che ricollega infermità e pericolosità, e che é quella che la Corte, in precedenti pronunce, ha già ritenuto non in contrasto con i criteri di comune esperienza. Ma la applicazione della misura a distanza di tempo dal fatto (obbligatoria ed automatica fino a che non siano trascorsi cinque o dieci anni) poggia su una presunzione ulteriore, concernente il perdurare (non della sola pericolosità, ma) della stessa infermità psichica, senza mutamenti significativi dal momento del delitto al momento del giudizio.

(7)

sancisce l’illegittimità di questa presunzione di continuità dello stato di infermità psichica, la Corte torna a ribadire la legittimità di quella relativa alla connessione tra malattia psichica e pericolosità: “le disposizioni di legge denunziate in tanto sono indenni da vizi di costituzionalità in quanto una tale infermità sia inalterata nel tempo in cui la misura di sicurezza è applicata ed eseguita” (Considerato

in diritto Punto 8). Sostiene la Corte che con l’abrogazione dell’ultimo comma dell’art. 207 c.p. è

nato un nuovo regime, sempre basato sulla presunzione che chi ha commesso un reato in stato di infermità psichica è legittimamente presunto colpevole, in cui la presunzione di permanenza della malattia mentale è illegittima. In questo modo ricostruisce un filo di continuità tra la sua pronuncia e quella del 197414, e delinea il primo tratto del percorso di asintotico avvicinamento all’uccisione di Lombroso. Si abbandona il sistema tracciato dal codice in cui l’autore materiale di un reato, afflitto da infermità psichica al momento della sua commissione, è presunto malato per un periodo minimo connesso alla gravità del reato e dipendente dai tempi processuali, in virtù di questa malattia è presunto pericoloso e in virtù di questa pericolosità è presunto necessitare di una misura detentiva. Si approda ad un sistema in cui vengono meno le due presunzioni relative al perdurare della malattia: non è detto che essa abbia una durata minima (correlate al tipo di reato materialmente commesso) e che perduri per tutto l’iter processuale. Mentre rimangono vive le altre due presunzioni: l’aver commesso un reato (di una certa gravità) in stato di infermità psichica rende necessariamente pericolosi e questa pericolosità deve essere contenuta necessariamente attraverso una misura detentiva.

2. La vera rottura: la prevalenza del bene salute sulla sicurezza pubblica.

Al legislatore del 1930 sembrava del tutto normale affidare ai manicomi giudiziari il doppio compito di cura e custodia e la presunzione di pericolosità degli affetti da insanità mentale poteva apparirgli addirittura come il modo naturale di assicurare loro il diritto alla cura.

Da un lato, i criminologi positivisti fautori del manicomio criminale consideravano naturale che le finalità terapeutiche si accompagnassero a quelle custodiali: le istituzioni che essi immaginavano dovevano avere, infatti, principalmente una funzione generale di difesa sociale. Dall’altro, all’inizio del secolo, l'assistenza psichiatrica venne regolata dalla legge n. 36 del 1904, intitolata "Legge sui manicomi e gli alienati" che conferiva una precipua funzione custodiale ai manicomi civili. Basta ricordare che la prima parte dell’articolo 1 di questa legge prescriveva che fossero

custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo en on siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi.

      

Una simile presunzione assoluta di durata dell'infermità psichica, lungi dall'esprimere esigenze di tutela discrezionalmente apprezzate dal legislatore, finisce per allontanare la disciplina normativa dalle sue basi razionali. Dietro la presunzione non vi sono né dati d'esperienza suscettibili di generalizzazione, né esigenze di semplificazione probatoria. Indurre, a distanza di tempo imprecisata, lo stato di salute mentale attuale da quello del tempo del commesso delitto, é questione di fatto che può e deve essere verificata caso per caso; totalmente privo di base scientifica sarebbe comunque ipotizzare uno stato di salute (anzi di malattia) che si mantenga costante, come regola generale valida per qualsiasi caso d'infermità totale di mente» (Considerato in diritto Punto 8). Queste affermazioni rappresentano una chiave di lettura anche di quanto la Corte aveva sostenuto nella Sentenza 68/1967. Qui si legge “è sufficiente mettere in rilievo che le conseguenze tratte dalla legge non hanno i caratteri dell'assolutezza, perché la misura può essere revocata ove la pericolosità abbia a

ravvisarsi cessata. La possibilità di tale revoca è però presa in considerazione dalla legge con l'opportuna cautela di un

tempo minimo di osservazione medica del prosciolto; che è la sola idonea a permettere un giudizio sperimentale circa la effettività e la stabilità del mutamento prospettato a giustificazione dell'istanza di revoca della misura” (corsivo mio). Per dare coerenza al ragionamento della Corte, “ove la pericolosità abbia a ravvisarsi cessata” deve essere considerato espressione sinonimica “ove l‘infermità psichica abbia a ravvisarsi cessata”.

14 Questa sentenza aveva portato alla declaratoria di illegittimità costituzionale anche del secondo comma dell’art. 207

c.p. "in quanto non consente (al giudice) la revoca delle misure di sicurezza prima che sia decorso il tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge". L’incostituzionalità di questo comma era stata anzi l’effettivo problema rimesso alla Corte.

(8)

Quindi l’istituzione manicomiale, come era reso evidente dal fatto che il ricovero volontario non era previsto15, non era pensata come una struttura di cura per malati. Essa era configurata come una struttura contenitiva per un tipo particolare di malati: quelli che fossero risultati pericolosi o di pubblico scandalo. Era quindi ovvio pensarla come un luogo in cui le persone “affette da alienazione mentale” dovessero essere “essere custodite e curate”16. Anzi, paradossalmente, secondo la legge del 1904, i manicomi non erano il luogo in cui si dovevano curare i soggetti affetti da gravi disturbi psichici ma non considerati come pericolosi. Questi soggetti rischiavano di rimanere senza assistenza medica (cfr. Pilo, Del Vecchio 1998, p. 28). Il paradosso svaniva perché, la lettera della legge, si innestava su una conoscenza e una sensibilità di fondo che consideravano malattia mentale e pericolosità sociale indissolubilmente connesse, tanto indissolubilmente da non fare nemmeno apparire immaginabile che si potesse accertare che un soggetto infermo di mente non fosse pericoloso.

L’impostazione del codice del 1930 non faceva che estendere questa impostazione ad un caso particolare di sofferenti psichici, i folli rei, che si erano dimostrati, per l’aver commesso un reato, particolarmente pericolosi. La presunzione legale di pericolosità di questi soggetti non era altro che il corollario, persino necessario dal punto di vista della tutela della salute, del fatto che il presupposto per procedere al ricovero coattivo era costituito dalla pericolosità del folle per sé o per gli altri: la società curava i folli perché doveva difendersi e difendere il malato da sé stesso. I manicomi (comuni e giudiziari), come scrive Canosa, nella sua Storia del manicomio, (p. 43), erano luoghi al contempo di trattamento per i soggetti curabili e di «immagazzinamento degli alienati reputati incurabili» L’unico carattere che contraddistingueva i manicomi criminali rispetto a quelli comuni era la pericolosità dei soggetti reclusi in queste strutture.

Questo “stile di pensiero” smise di informare la normativa a partire dalla legge Mariotti (n. 431, 1968) e fu radicalmente soppiantato da un nuovo “stile di pensiero” con la legge Basaglia (n. 180 del 1978) che all'art. 6 stabilisce che gli interventi di cura, prevenzione e trattamento delle infermità psichiche sono, di norma, effettuati dai servizi territoriali extra-ospedalieri, configurando così il ricovero ospedaliero per curare patologie psichiatriche come una soluzione residuale, da praticare, coattivamente, nelle sole situazioni di emergenza.

Come abbiamo visto, però, la Corte costituzionale non ha ritenuto che questo cambio di paradigma giustificasse l’abbandono della presunzione di pericolosità della persona mentalmente inferma. Solo venticinque anni dopo, nel 200317, non a caso, quando la chiusura dei manicomi civili, aveva cessato d’essere law in book per diventare finalmente law in action, la Corte, con la sentenza 253, abbandona il vecchio stile di pensiero lombrosiano e riclassifica il problema dei mentalmente insani autori di reato, come un problema precipuamente di ordine sanitario. Con questa sentenza la Corte fa saltare la previsione che l’unica misura di sicurezza applicabile al prosciolto per vizio di mente sia l’internamento in OPG.

Il giudice remittente aveva sollevato il problema di legittimità sotto due profili. Da una parte rilevava una disparità di trattamento rispetto al minorenne e al semi-infermo, fondata su una presunzione di maggiore pericolosità del totalmente infermo adulto, priva di riscontro in osservazioni scientifiche. Dall’altra sosteneva che l’obbligo di adottare l’internamento in OPG era in contrasto con       

15Il ricovero volontario fu previsto in forma residuale dal regolamento attuativo del 1909.

16 Per l’esposizione delle violenze perpetrate in queste istituzioni si rimanda al famoso saggio di Franco Basaglia (1998)

"Le istituzioni della violenza" in cui è descritta, tra le altre, la pratica della “strozzina”, una procedura violenta con la quale gli infermieri erano soliti tranquillizzare un paziente agitato apponendo un asciugamano bagnato sul collo fintanto che questo gesto non provocava lo svenimento del soggetto (in particolare pp. 4-5).

17 Ad onor del vero la Corte dà segno di essersi accorta che il cambio di paradigma, assunto come punto di riferimento

dal legislatore non può non influire sulla disciplina codicistica, già con la sentenza n. 324 del 1998 con cui dichiara illegittima l’applicabilità ai minori della misura di sicurezza del ricovero in OPG. In questa sentenza infatti si legge: “Una misura detentiva e segregante come il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, prevista e disciplinata in modo uniforme per adulti e minori, non può certo ritenersi conforme a tali principi e criteri: tanto più dopo che il legislatore, recependo le acquisizioni più recenti della scienza e della coscienza sociale, ha riconosciuto come la cura della malattia mentale non debba attuarsi se non eccezionalmente in condizioni di degenza ospedaliera, bensì di norma attraverso servizi e presidi psichiatrici extra-ospedalieri, e comunque non attraverso la segregazione dei malati in strutture chiuse come le preesistenti istituzioni manicomiali (artt. 2, 6 e 8 della legge 13 maggio 1978, n. 180)”.

(9)

l’art. 32 (che garantisce il diritto alla salute) in quanto impedisce “l’adozione di soluzioni idonee a difendere la collettività e insieme a curare adeguatamente un soggetto pericoloso ma penalmente irresponsabile”. Il cambio di paradigma operato dalla Corte rispetto alla sua giurisprudenza precedente è reso evidente dal fatto che nella motivazione della sentenza non si trova traccia del problema della disparità di trattamento.

La Corte imposta tutta la sua argomentazione sul diritto ad essere curato degli infermi psichici autori materiali di un reato e lo fa prendendo esplicitamente, ma non dichiaratamente le distanze dalla sua precedente posizione ed eleggendo i principi sanciti dalla legge 180 a canone di trattamento sanitario. Riconosce, infatti, che le sono spesso state poste “questioni tendenti a mettere in dubbio la legittimità sul piano costituzionale della previsione della misura "obbligatoria" del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, spesso facendo leva anche sulla legislazione che, a partire dalla legge 13 maggio 1978, n.180 (Accertamenti e trattamenti sanitari volontari ed obbligatori), ha cercato di far fronte al problema dell’assistenza ai malati di mente superando l’antica prassi del ricovero in strutture segreganti come erano i manicomi”18. Senza dire che fino ad allora non si era fatta carico, se non marginalmente di queste istanze, la Corte sottolinea, incidentalmente, che “infatti gli ospedali psichiatrici giudiziari (nuovo nome dei manicomi giudiziari) sono rimaste le ultime strutture ‘chiuse’ per la cura di infermi psichiatrici” (corsivo naturalmente mio). Prosegue il suo ragionamento costatando che la “qualità di infermi” dei soggetti prosciolti “richiede misure a contenuto terapeutico, non diverse da quelle che in generale si ritengono adeguate alla cura degli infermi psichici”. Allo stesso tempo la Corte riconosce che la pericolosità sociale, “manifestatasi nel compimento di fatti costituenti oggettivamente reato […] richiede ragionevolmente misure atte a contenere tale pericolosità e a tutelare la collettività dalle sue ulteriori possibili manifestazioni pregiudizievoli” 19. Però, capovolgendo una impostazione ormai secolare, esclude in modo perentorio che l’esigenza di prevenire un nuovo manifestarsi delle pericolosità sociale possa prevalere sul diritto ad essere curato dell’infermo di mente:

Le esigenze di tutela della collettività non potrebbero mai giustificare misure tali da recare danno, anziché vantaggio, alla salute del paziente (cfr. sentenze n. 307 del 1990, n. 258 del 1994, n. 118 del 1996, sulle misure sanitarie obbligatorie a tutela della salute pubblica): e pertanto, ove in concreto la misura coercitiva del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario si rivelasse tale da arrecare presumibilmente un danno alla salute psichica dell'infermo, non la si potrebbe considerare giustificata nemmeno in nome di tali esigenze.

A pro-memoria di chi (con Vinci Grossi e Franco Corleone20) pensasse che il modo per chiudere

l’ultimo internamento psichiatrico coattivo, sia quello di abolire la categoria della non-imputabilità, la Corte ribadisce il valore di prevenzione speciale della misura di sicurezza per gli infermi di mente       

18 La Corte introduce questo discorso con la frase “Una volta risolto il problema, inizialmente assai dibattuto, della

necessaria "attualizzazione" della valutazione di pericolosità sociale (sentenza n. 139 del 1982)”. Ancora una volta, prendendo sul serio la sua impostazione, si deve tradurre questa frase nell’enunciato “una volta risolto il problema […] della necessaria attualizzazione della malattia mentale”.

19 Ho eliso dalla citazione un inciso che ho eliso dalla citazione da un lato rende di non facile interpretazione quello che

la Corte intende dall’altro potrebbe aprire finalmente la strada che porta allo scioglimento della presunzione che connette la malattia mentale alla pericolosità. L’inciso, che si riferisce alla pericolosità, recita infatti “valutata prognosticamente in occasione e in vista delle decisioni giudiziarie conseguenti”. Il riferimento alla valutazione prognostica può far pensare che la Corte escluda che l’aver costato che il soggetto era affetto da infermità mentale al momento del compimento del reato e che il suo stato di infermità prosegue al momento dell’applicazione della misura di sicurezza, deve portare a ritenerlo pericoloso. Ma un inciso non è probabilmente sufficiente per attribuire alla sentenza questa portata, e tra l’altro altri passi sembrano confermare che la Corte continui a ritenere in qualche modo pericolosi anche senza accertamento i malati di mente autori di reato.

20II senatore Grossi presentò un DDL (S.177/1983) che eliminava l'infermità mentale come causa di esclusione o di

diminuzione dell'imputabilità. Nel 1996 questo disegno di legge fu ripreso dal deputato Corleone che presentò un nuovo disegno di legge intitolato "Norme in materia di imputabilità e di trattamento penitenziario del malato di mente" che pure proponeva di abrogare le disposizioni del codice penale che sancivano una disciplina speciale per l'infermo di mente autore di reato (gli artt. 88, 89 e 222).

(10)

e sostiene che l’obbligo di sottoporli ad una misura di carattere detentivo contiene in effetti una finalità retributiva inconciliabile con, appunto, il loro stato di non-imputabili inconciliabile con una misura dal «contenuto anche solo parzialmente punitivo». E’ quindi la non-imputabilità il perno attorno a cui ruota il cambiamento dal paradigma lombrosiano interdittivo a quello che fa perno sul diritto ad essere curati, nel miglior modo possibile e quindi, presumibilmente, senza essere reclusi.

Questa sentenza cambia nuovamente il sistema delle misure di sicurezza. La Corte, infatti, ribadisce la doppia finalità della misura di sicurezza, da un lato la prevenzione rispetto ad una futura condotta criminosa, dall'altro la cura, la tutela dell'infermo di mente: queste due finalità sono considerate necessarie ed inscindibili. Detto questo rileva che il codice “esclude ogni apprezzamento della situazione da parte del giudice, per imporgli un’unica scelta, che può rivelarsi, in concreto, lesiva del necessario equilibrio fra le diverse esigenze che deve invece necessariamente caratterizzare, questo tipo di fattispecie, e persino tale da pregiudicare la salute dell’infermo: ciò che, come si è

detto, non è in alcun caso ammissibile” (corsivo mio). Quindi ne esce ridisegnato un sistema che, pur

ribadendo la natura e la finalità della misura di sicurezza per gli autori materiali di un reato prosciolti per vizio di mente, capovolge il rapporto tra le due finalità della misura di sicurezza da adottare. Mentre il sistema del codice privilegiava, in linea con l’impostazione criminologica positivista, la difesa sociale, la Corte, direi in linea con la Costituzione che all’art. 32 definisce “fondamentale” il diritto alla salute, statuisce che, se le due finalità entrano in contrasto, debba essere quella alla sicurezza collettiva a cedere.

Attenendosi alla linea tracciata con varie pronunce, e ribadita due anni dopo con la sentenza 254 del 2005, la Corte non si sostituisce al legislatore per creare una nuova misura di sicurezza, ma avvisa i giudici di aver, con questa sentenza, messo nelle loro mani uno strumento altamente flessibile che possono adattare all’effettive esigenze di cura e all’effettiva pericolosità di ogni singola persona che si trovano a giudicare. La misura che infatti, il sistema, consente ai giudici di utilizzare quando non pensano che l’internamento in OPG sia necessario, o quando pensano, in linea con lo spirito della legge 180, che sia lesivo della salute, è “una misura più elastica e non segregante come la libertà vigilata, che è accompagnata da prescrizioni imposte dal giudice, di contenuto non tipizzato (e quindi anche con valenza terapeutica), "idonee ad evitare le occasioni di nuovi reati" (art. 228, secondo comma, cod. pen.), appaia capace, in concreto, di soddisfare contemporaneamente le esigenze di cura e tutela della persona interessata e di controllo della sua pericolosità sociale”.

Il sistema tratteggiato dalla Corte assomiglia all’interpretazione del sistema codicistico che Padovani aveva proposto, nel 1978, partendo non tanto dalla legge 180 che stava vendendo la luce, ma quanto dall’Ordinamento Penitenziario, per ricondurre a costituzionalità il sistema del doppio binario. Questo, secondo Padovani, è legittimo solo alla condizione che la misura di sicurezza abbia una funzione ben distinta da quella della pena. Per coloro che sono stati riconosciuti affetti da una infermità mentale la misura non può avere che una funzione terapeutica. Partendo da questo assunto e dalla non imputabilità di coloro che sono affetti da infermità mentale, si ricava un sistema in cui la commissione del fatto-reato è mera occasione per constatare la pericolosità sociale del loro stato e sottoporli ad una misura dal prevalente contenuto curativo. Dunque la misura di sicurezza si configura come una specie di trattamento sanitario obbligatorio, rivolto ad un soggetto che, in quanto ha commesso un reato, è ritenuto socialmente pericoloso, ma prima di tutto bisognoso di cure specializzate.

3. I nodi vengono al pettine e fanno fare un altro passo: i “dimissibili” e la pericolosità dei prosciolti per vizio di mente.

La Corte non tocca direttamente e, probabilmente nemmeno incidentalmente, la presunzione di correlazione tra il perdurante stato di infermità mentale, che aveva caratterizzato il momento del reato, e la pericolosità. La presunzione di pericolosità del mentalmente infermo autore del reato continua a far parte del sistema delle misura di sicurezza per i prosciolti anche se questo ora si incentra sul diritto alla cura degli stessi autori materiali del reato. Ma la sua sentenza, proprio perché segna un cambio radicale di paradigma, non può non ripercuotersi sugli altri aspetti del sistema codicistico.

(11)

L’indicatore più eclatante del fatto che la sentenza 253 del 2003 ha scosso le fondamenta del sistema della misura di sicurezza dell’internamento in OPG è il progressivo emergere della categoria dei “dimissibili”21. Questa categoria viene ufficializzata per la prima volta nel giugno del 2009 dal

DAP che rende noto il risultato di una ricognizione da cui risultano internati in OPG 399 uomini e 14 “dimissibili”. E’ evidente che in paradigma fondato sulla concezione patologico deterministica della malattia mentale, che si trasforma, ope legis, in una concezione patologico deterministica della pericolosità che, a sua volta, sempre per presunzione di legge, può essere contrastata solo attraverso l’internamento, non ammette questa categoria di soggetti. In questo quadro concettuale non possono esistere “dimissibili”: ci sono i malati che, sono pericolosi e quindi devono essere internati, e i guariti, che quindi non sono più pericolosi e devono essere liberi. La dicotomia è netta, non lascia spazio a figure ambigue.

La categoria dei “dimissibili” trova la propria origine, in via generale nel fatto che il sistema del doppio binario di matrice lombrosiana disegnato dal nostro codice tende ad apparire, sempre di più, un residuato giurassico rispetto al dibattito psichiatrico, ma in via particolare nelle antinomie create dalla giurisprudenza della Corte costituzionale. Essa emerge soprattutto per la difficoltà di combinare il ragionamento che ha portato alla dichiarazione del mantenimento della presunzione assoluta della pericolosità di chi ha commesso un reato in stato di infermità mentale con il ragionamento che ha portato la Corte a dichiarare illegittima la previsione che vincolava il giudice ad applicare la misura di sicurezza detentiva ai prosciolti per infermità psichica che risultano ancora malati al momento di doverla eseguire. Il “dimissibile” è in prima battuta un soggetto che è ancora segnato dall’infermità mentale, che lo ha portato ad essere autore materiale di un reato, ma che non è più tanto pericoloso da dover essere internato in OPG oppure, ma questa, purtroppo, è stata finora un ipotesi di scuola più che una realtà giurisprudenziale, che pur essendo giudicato ancora pericoloso si ritiene o constata che l’internamento nuoce invece che giovare alla sua salute. Il problema dei “dimissibili” è materialmente sollevato dai soggetti a cui viene prorogata la misura di sicurezza per la mancanza di una struttura capace di accoglierli, casomai in libertà vigilata. Da un punto di vista concettuale però, una volta stabilita la revocabilità della misura di sicurezza, anche senza che decorra il periodo minimo previsto dal codice, il problema riguarda in astratto tutti gli internati. Chiunque sia in OPG è “dimissibile”, può cioè essere sottoposto a libertà vigilata con un appropriato programma terapeutico.

La categoria dei “dimissibili”, come accennato, non ha lo spazio teorico per essere concettualizzata in un sistema in cui la misura prevista dall’art. 222 c.p. del codice penale, cioè, in origine, l’internamento in “manicomio giudiziario”22, come da rubrica dell’articolo, poi in OPG e ora in REMS, trova il proprio presupposto in uno stato interno al soggetto (il suo stato di infermità psichica) che ha commesso il reato che automaticamente, per presunzione iuris et de iure, comporta, come ha ribadito la Corte Costituzionale con la sentenza 139/1982, la pericolosità del soggetto stesso e questa a sua volta deve essere contrastata esclusivamente attraverso una qualche forma di internamento. Questa costruzione comporta che la regola generale stabilita dall’art. 207 c.p. per le misure di sicurezza, secondo cui queste “non possono essere revocate se le persone ad esse sottoposte non hanno cessato di essere socialmente pericolose”, per gli internati in ospedale psichiatrico giudiziario (e per quelli in casa di cura e custodia) si traduce in un dispositivo normativo che, una volta data per accertata la commissione materiale del reato, suona “il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario (o in una casa di cura e custodia) non può essere revocato se la persona ad essa sottoposto non è       

21 Per una tesi opposta a quella qui sostenuta si veda F. Dito, Le insidie degli OPG. Brevi pensieri sulla sintassi dell'esclusione, in Forum salute mentale che critica l'insistenza con cui i media focalizzano la loro attenzione sulla

questione dei dimissibili. A suo parere in questo modo si distrae l’attenzione dai nodi essenziali della politica criminale e dai presupposti della misura di sicurezza, avvallando la loro legittimazione.

22I criminologi positivisti di fine del XIX secolo definivano “Manicomio criminale” l'istituzione da loro ideata per

l’istituzionalizzazione dei soggetti pericolosi a causa di disturbi psichici. “Manicomio giudiziario” era invece il nome dell'istituzione diffusasi inizialmente per prassi dopo l'apertura della prima Sezione per maniaci ad Aversa nel 1876. “Ospedale psichiatrico giudiziario” è la denominazione conferita agli stessi istituti nel 1975, dall'Ordinamento penitenziario.

(12)

guarita dall’infermità psichica”. Perché quest’ultima è la caratteristica dell’autore materiale del reato che, ripeto, iuris et de iure, provoca la sua pericolosità e quindi l’internamento.

La categoria dei “dimissibili” e il problema che essi da qualche decennio rappresentano nasce dal diffondersi della convinzione che l’infermità psichica non sia un entità che può essere trattata con un codice binario, non siamo di fronte a due polarità, psichicamente sano e infermo, ma di fronte ad un

continuum in cui tutti noi ci collochiamo. Questa nuova impostazione della psichiatria stava

paradossalmente al fondamento dell’ultimo grande tentativo culturale di sostituire la pena con una misura curativa: quello fatto da Barbara Wootton tra la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni 60 del secolo scorso in Inghilterra. Era questo continuum a giustificare la tesi che tutti siamo almeno parzialmente incapaci di autocontrollo e quindi da “curare”23. E’ chiaro che se l’infermità psichica cessa di essere un’entità discreta per diventare qualcosa che è non chiaramente distinto da quello, che sulle orme di Lombroso, consideravamo il suo opposto, la presunzione di pericolosità diventa difficile da fare e le condizioni di revoca della misura di sicurezza labili.

Una volta che si è dato per assunto che vanno riconosciute, in soggetti diversi, quote diverse di responsabilità e che l’infermità psichica non è qualcosa di nettamente distinto dalla e contrapposta allo stato di sanità mentale non sorprende che si sia sviluppato un filone di psichiatria anti-istituzionale che ha rifiutato la malattia mentale come etichetta totalizzante e ha cercato di restituire piena dignità al malato di mente. A bandiera di questo movimento assurge l’idea che vada riconosciuta piena dignità di persona anche al malato di mente, attraverso l'attribuzione ad esso della responsabilità dei propri atti: il riconoscimento della responsabilità delle proprie azioni eliminerebbe una delle stigmatizzazioni che, come ci ha insegnato Foucault, da sempre operano nei confronti del folle. Molti psichiatri hanno poi riconosciuto a questo approccio anche una valenza terapeutica. A loro parere, infatti, la responsabilizzazione rappresenta un importante strumento di cura. Si è sviluppata quindi una corrente di pensiero contrapposta alle tesi della Wootton che propugnava il ritorno ad un sistema monistico partendo però non dal presupposto che tutti siamo in parte carenti di controllo e quindi non pienamente responsabili, ma da quello che siamo tutti capaci di autocontrollo per cui tutti in qualche misura responsabili (cfr. Pellisero 2008, 140-3).

Con la sentenza 253 del 2003 alla labilità del confine che delimita la categoria degli infermi psichici si aggiunge quello della labilità dei criteri che definisco se il soggetto è talmente pericoloso da dover essere internato (e, in teoria, se il suo internamento giova effettivamente alla sua salute) oppure ha un grado di pericolosità che consente di mandarlo in libertà vigilata. In altre parole, i “dimissibili” rappresentano, dopo la sentenza 253 del 2003, il nuovo indicatore del persistere del paradosso e dello scandalo, dal punto di vista del diritto penale di matrice illuminista, della “scuola classica”, direbbero gli storici del diritto, degli ergastoli bianchi che finiscono per sanzionare anche reati bagatellari. Il suo emergere dimostra, in primo luogo, l’inaccettabilità dell’ottica lombrosiana per la quale l’ergastolo bianco non è né un paradosso né uno scandalo ma un’ovvietà: anzi, a rigore, esso non richiederebbe neppure la commissione materiale di un reato, bastando i caratteri fisici dell’atavismo per fondare la pericolosità del soggetto e quindi il suo internamento.

La nuova percezione degli insani di mente e il diventare plurale la possibile risposta alla loro pericolosità (che continua ad essere presunta) apre la strada alla considerazione che una persona possa essere non più tanto pericolosa da essere internata, anche se non si può dire che è propriamente sana, anche se si continua a sostenere che ha bisogno di cure. La coerenza del nuovo quadro che emerge dalle sentenze della Corte costituzionale viene messo a dura prova da quello che decenni di esperienza e di dibattito psichiatrico hanno mostrato. Ci sono soggetti ritenuti dalla comunità medico-psichiatrica meritevoli di cure, e quindi non sani, perciò, per il codice e la presunzione su cui l’internamento       

23 Cfr. B. Wootton, Social Science and Social Pathology, The Macmillan Company, New York 1959 e Crime and the Criminal Law, Stevens & Sons, London 1963. Si vedano anche le discussione delle tesi di Wootton fatte da Herbert L.

A. Hart, (Punishment and Responsibility. Essays in the philosophy of law, Oxford University Press, Oxford 1968; tr. it.

Responsabilità e pena. Saggi di filosofia del diritto, Edizioni di comunità, Milano 1981), e Alf Ross (On Guilt, Responsibility and Punishment, Steven & Sons Limited, London 1975; tr. it. Colpa, responsabilità e pena, Giuffrè,

(13)

coattivo è costruito, pericolosi, che però, casomai proprio perché curati, pericolosi (o almeno così tanto pericolosi da essere internati) non sono: la malattia psichica dell’autore materiale del reato non è più presunta in modo ferreo e assoluto comportare una sua pericolosità tale da comportare l’internamento. Si può essere malati, ma non poi tanto pericolosi e quindi “dimissibili”.

Si apre così la strada ad una serie di problemi del tutto nuovi, a dire il vero vecchi di decenni, ma mai tematizzati in modo esplicito, per cui la pericolosità non dipende più dalla malattia, dallo stato psico-fisico dell’autore del reato, ma dalle cure che gli vengono prestate e da mille altre fattori. Come chiunque guardi alla realtà del trattamento dei folli rei vede, la loro permanenza nei luoghi di esecuzione della misure di sicurezza viene a dipendere da una seria amplia e complessa di fattori: incidono sul ricovero il contesto sociale dell’autore del reato, il suo network e le risorse che può mobilitare, la capacità riabilitativa dimostrata dalle strutture in cui è posto, la capacità terapeutica delle cure a cui è sottoposto24. Tutti elementi esterni non solo alla sua volontà, ma per dirla in modo lombrosiano, anche alla sua costituzione e che quindi, in quanto tali, non solo non giustificano la limitazione della sua libertà dal punto di vista di un diritto penale della responsabilità, ma neppure dal punto di vista della criminologia positivista. Situazione paradossale.

A dispetto di questa situazione paradossale i “dimissibili” sono apparsi la chiave per svuotare gli OPG e chiudi mettere fine alle proroghe del loro superamento e chiuderli. Se ripercorriamo tutta la vicenda della loro chiusura i provvedimenti che l’hanno segnata, si vede che all’inizio della vicenda, per la “Commissione Marino”, nel 2011, i “dimissibili” sono, come per il DAP nel 2009, sostanzialmente gli internati in proroga della misura di sicurezza. Alla fine della vicenda, con la legge n. 81 del 30 maggio 2014 che converte con modifiche il decreto-legge 31 Marzo 2014, n. 52, tutti i soggetti internati sono “dimissibili”. Questo testo normativo, da un lato, fissa infatti l’obbligo di elaborare progetti terapeutici che stabiliscano il percorso di “dimissione” di ogni iternato. Dall’altro stabilendo un limite massimo di durata della misura di sicurezza, a prescindere da perdurare di pericolosità e infermità mentale, rende automaticamente ogni internato un soggetto destinato a dimissione: cosa che rappresenta un’assoluta novità per il sistema.

Che l’emergere della categoria dei “dimissibili” finisse per minare le fondamenta della presunzione di pericolosità del malato di mente autore del reato, e quindi del sistema delineato dal codice, era prevedibile. Una volta che la malattia viene disconnessa da una pericolosità così alta da dover sempre essere affrontata con l’internamento e si comincia a legare il livello di pericolosità del soggetto malato ad una serie di fattori molto variabili, inclusi i servizi di presa in carico della sua sofferenza, era inevitabile che diventasse difficile continuare a sostenere che la malattia psichica, che ha portato al reato, rende necessariamente pericolosi. Era plausibile che a poco a poco prendesse piede l’idea che gli stessi fattori che influiscono sul grado di pericolosità, influiscono sulla sua esistenza, possono abbassare l’indice di pericolosità al punto da tale da azzerarlo. Questo comporta non solo la diffusione dell’idea che la pericolosità va accertata caso per caso e non presunta, ma anche la diffusione della percezione dell’ingiustizia di ricorrere ad una misura limitativa della libertà per far fronte non a qualcosa di riconducibile (anche se non imputabile) al soggetto autore materiale del reato (com’era concepita la sua costituzione mentale) ma a qualcosa di imputabile (qui si la parola è corretta) al mancato funzionamento di servizi di cura e presa in carico dei sofferenti psichici.

Che quello dei “dimissibili” sia un problema centrale nel nuovo assetto della misura di sicurezza per i non-imputabili per vizio di mente è reso manifesto sia dalle posizioni di chi all’interno del movimento per l’abolizione dell’“ultima forma di internamento psichiatrico”, per usare le parole della Corte, ha sostenuto che concentrare la discussione su di loro rischia di sviare l’attenzione dai problemi fondamentali, sia l’uso che ha fatto il legislatore di questa categoria. Quest’ultimo in particolare       

24 Padovani (T. PADOVANI, Introduzione, in A. GABOARDI – A. GRAGANI . G. MORGANTE – A. PRESOTTO -

M. SERRAINO, (Cur.) , Libertà dal carcere, libertà nel carcere, Torino, 2013, XXVI), richiamato da Piccione (p. 4 n. 3) scrive che è la stessa offerta di contenimento e internamento che concorre a determinare la politica criminale e le forme del contrasto alla pericolosità sociale. Franco Bricola (F. BRICOLA, Crisi del Welfare State e sistema punitivo, in Politica

criminale e scienza del diritto penale, Bologna, 1997, in specie 185 ss..) anticipando lo slogan dallo Stato sociale allo

(14)

dimostra come il legislatore che ha condotto il processo di chiusura degli OPG non avesse un quadro chiaro della situazione.

La categoria dei “dimissibili” è definita per la priva volta in un testo normativo in sede di conversione del cosiddetto “decreto Balduzzi” (Dlg. 24 del 25/3/2013). Il testo della modifica apportata in fase di conversione (legge n. 57 del 2013) suona così:

All'articolo 1: al comma 1, lettera c), le parole da: «e comunque» fino alla fine della lettera sono sostituite dalle seguenti: «, definendo prioritariamente tempi certi e impegni precisi per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, prevedendo la dimissione di tutte le persone

internate per le quali l'autorità giudiziaria abbia già escluso o escluda la sussistenza della pericolosità sociale, con l'obbligo per le aziende sanitarie locali di presa in carico all'interno di

progetti terapeutico-riabilitativi individuali che assicurino il diritto alle cure e al reinserimento sociale, nonché a favorire l'esecuzione di misure di sicurezza alternative al ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o all'assegnazione a casa di cura e custodia» (corsivo mio)

Come è stato osservato25 se i “dimissibili” fossero questi vorrebbe dire che ci troveremmo di fronte ad una situazione di illegalità diffusa, che gli OPG italiani erano pieni di persone illegalmente detenute. Se una persona, per la quale l’autorità giudiziaria avesse escluso la sussistenza della pericolosità sociale, fosse posta o trattenuta in ospedale psichiatrico giudiziario saremmo di fronte ad una violazione dell’habeas corpus, dell’art. 13 della Costituzione, forse ad un sequestro di persona. I “dimissibili”, anche una volta dilatata la loro categoria, non presuppongono tali eclatanti violazione della civiltà giuridica occidentale. Il “dimissibile” è una persona non mentalmente non sana, che ha compiuto un reato, e quindi, come ha ribadito la Corte con la sentenza 139, legittimamente presunta per legge pericolosa, senza che alcun magistrato possa escludere questa pericolosità con un accertamento. E’ un malato, però un malato la cui malattia, se adeguatamente curata, si riconosce non comporta pericolosità.

L’assurdità che scrive il legislatore trova spiegazione con la genealogia di questa categoria che, come detto, in origine si riferiva ai soggetti in proroga di misura di sicurezza. Dopo la sentenza 139 della Corte costituzionale, la proroga della misura di sicurezza è ammissibile solo ove sia positiva la valutazione circa la sussistenza della pericolosità sociale, attuale e concreta. Se il magistrato di sorveglianza non riscontra questa sussistenza, l'internato deve essere dimesso, al pari di un detenuto che abbia finito di scontare la propria pena. Però si diffuso, nel corso degli anni, un provvedimento di proroga dell’internamento che accerta che a fronte di un’adeguata presa in carico dei servizi territoriali per la salute mentale il soggetto non sarebbe pericoloso, ma sancisce anche che, al momento del giudizio, questa “adeguata” presa in carico non è avvenuta e non sembra disponibile, per cui il soggetto è in effetti, di fatto, pericoloso. Quando il legislatore parla di “persone internate

per le quali l'autorità giudiziaria abbia già escluso o escluda la sussistenza della pericolosità sociale”, non intende denunciare una illegalità diffusa. Evidentemente si riferisce a quei soggetti

ritenuti in fase di proroga “non più pericolosi a condizione che…”. Un anno dopo, con la legge 81 del 2014, il legislatore prova a riformulare questo concetto in modo più opportuno stabilendo che l’accertamento della pericolosità sociale deve essere “effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza tenere conto delle condizioni di cui all'articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale”, vale a dire senza tener conto “delle condizioni di vita familiare e sociale”

Proprio questa formulazione e la sua vicenda dimostrano che non abbiamo fatto ancora i conti con la concezione positivista della pericolosità sociale dei soggetti infermi di mente autori del reato. L’intento garantista del legislatore nell’approvare questo testo, come quello paradossale sui “dimissibili” della legge 53/2013, è evidente. Non so quanto per convinzione e quanto per risolvere il problema di dover procedere alla orami decisa chiusura degli OPG, il legislatore vuole evitare che un colpevole disservizio sanitario, la mancanza di programmi terapeutici individuali e di strutture in grado di supportarli, possa sfociare in un internamento giustificato dalla supportare pericolosità       

25F. Schiaffo, "La riforma continua del «definitivo superamento degli OPG»: la tormentata vicenda dell'art. 3 ter

Riferimenti

Documenti correlati

81/2014 e quindi con la dimissione dall’OPG e la collocazione negli ordinari contesti di cura dei Dipartimenti di salute mentale dei pazienti con misura di sicurezza non detentiva

«d) nella prospettiva dell'effettivo e definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudizi ari, introduzione di disposizioni volte a destinare alle residenze

Dal resoconto dei lavori emerge infatti che il senatore Cucca ha chiesto alla senatrice Mussini di riformulare, ricevendone un rifiuto, il suo emendamento 13.28 nel senso

ma a questo punto anche per la persona “dimessa”. Dove andrà, cosa farà, dove dormirà, come mangerà, chi più la curerà? Perché non basta dover predisporre percorsi

Infatti, la norma criticata dai giudici siciliani riassegna alla magistratura l'onere della decisione sul destino delle persone, quando non avvenga (come la legge peraltro impone

È evidente che se la misura di sicurezza in regime di libertà vigilata viene disposta presso strutture chiuse (case di cura convenzionate con la ASL, comunità

In quella relazione è scritto che oggi ciascun internato, grazie alla nuova legge, ha un piano di cura e trattamento personalizzato, e che al 30 settembre 2014 circa 425..

In Italia, tuttavia, il monitoraggio appare essere stato concepito in funzione della valutazione degli operatori e non sull’andamento del trattamento dei pazienti, dal momento che,