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SANI E MALATI DA SEPOLTURE RINASCIMENTALI IN UNA CHIESA (SAN GRATO) DI SIZZANO (NOVARA): EPIDEMIE SCONOSCIUTE O PESTE?

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YERSINIA PESTIS

L’agente patogeno responsabile della peste è rimasto ignoto fino alla fine del XIX sec. Soltanto nel 1894 infatti, in occasione di un’epidemia scoppiata ad Hong Kong e nelle aree limitrofe, il dottor Alexandre John-Émile Yersin isola e descrive il bacillo, per cui sceglie il nome di Pasteurella, ma che gli studi epidemiologici ricorderanno invece, in suo onore, come Yersinia pestis. Sembra che proprio nello stesso anno anche Shibasaburo Kitasato fosse autonomamente pervenuto alle stesse conclusioni, sebbene nel 1925, al Congresso di medicina dell’Estremo Oriente da lui stesso presieduto, respinse i risultati della propria ricerca, lasciando Yersin l’unico autore della scoperta del germe della peste.

Y. pestis si presenta come un bacillo di forma ovoide, lungo da 1 a 1,5μ, con colorazione bipolare, all’uso di coloranti basici si rivela Gram-negativo, le sue pareti complesse lo rendono dunque più resistente ad antibiotici e disinfettanti rispetto ai microrganismi Gram-positivi; inoltre manifesta capacità di sviluppo in ambiente sia aerobico che anaerobico ed, in laboratorio, ad una temperatura ideale compresa tra 20° e 28° ed è immobile, la sua diffusione può quindi aver luogo solo attraverso la mediazione di vettori (che sono più oltre descritti).

Questo microrganismo è l’agente patogeno di una zoonosi specifica (la peste stessa che può contagiare anche ospiti umani), responsabile di sepsi emorragiche e in grado di produrre una elevatissima mortalità tra le specie animali, soprattutto roditori non domestici (Ortner, Putschar, 1985). Alcuni autori (J.-N. Biraben, 1976) ne distinguono tre varianti, che hanno una differente costituzione enzimatica ma, per l’uomo così come per gli animali, lo stesso potere patogeno: La forma nota col nome di Orientalis è diffusa prevalentemente in America e nell’Estremo Oriente e preferibilmente in prossimità di aree portuali. La sua ultima occasione di contagio dell’uomo è l’epidemia esplosa nella Cina Meridionale alla fine del secolo XIX e studiata da A. Yersin.

Una seconda forma, Medioevalis, localizzata in passato in prossimità del Mar Caspio e della fascia Siberiana, deve il suo nome ad alcune ipotesi che identificano in essa l’agente responsabile della celebre pandemia del 1348 e di molte altre dei secoli successivi.

L’ultima forma, infine, è quella diffusa nel continente africano, lungo la fascia pre-equatoriale, e denominata Antiqua, perché alla sua diffusione epidemica si attribuiscono gli episodi di peste ricordati dagli autori antichi ed alto-medioevali.

E’ stata dimostrata la capacità, in vitro, da parte di alcuni germi (pneumococchi e streptococchi) di svolgere un’azione antagonistica nei confronti di Y. Pestis. In vivo, tuttavia, la sovrinfezione di altri microrganismi sembra solo un’epifenomeno della regressione di Y. pestis.

Le scoperte più interessanti riguardano invece il genere Yersinia, che si è arricchito recentemente di due altre varietà: Yersinia pseudotubercolosis e Yersinia enterocolitica.

Di quest’ultima, nota solo dal primo quarto del XX secolo, si conosce assai poco e le si associa un quadro clinico non troppo diverso da quello della prima (anche se caratterizzata da maggiore potere patogeno e maggiore instabilità), in altri casi invece Y. enterocolitica rivela caratteristiche, sotto il profilo clinico, più vicine a quelle dei batteri responsabili di patologie intestinali (come

Salmonella).

Y. pseudotubercolosis è stata riconosciuta in laboratorio da Malassez e Vignal (è infatti nota anche come “bacillo di Malassez e Vignal”) e presenta un legame molto stretto con il germe della peste: secondo un meccanismo oggi ancora sconosciuto, sembra, infatti, che queste due forme possano convertirsi l’una nell’altra. Le caratteristiche specifiche di Yersinia Pseudotubercolosis sono emerse nel dettaglio solo nella seconda metà del XX sec: questo batterio possiede un ridotto potere

patogeno sia nei confronti dell’uomo che di molti animali, fatta eccezione solo per alcune specie, come la lepre ed i tacchini, presso le quali è in grado di sviluppare forme setticemiche con una mortalità del 100%. Tra gli uomini, ne sono più spesso contagiati i bambini e le donne ed il quadro clinico non è particolarmente preoccupante (adenite, dolori addominali, eritema nodoso o

sintomatologia affine a quella della più comune appendicite), le segnalazioni di complicazioni setticemiche letali sono assai rare ed al momento della guarigione, che può avvenire

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spontaneamente entro pochi giorni, i germi sono evacuati con le feci. Si suppone che proprio l’utilizzo di queste ultime come fertilizzanti (Y. pseudotubercolosis si conserva molto bene nel suolo) sia alla base della diffusione a livello mondiale, attraverso vegetali ed animali infetti, di cui il batterio è stato protagonista tra il 1930 ed il 1960. Per quest’ultimo, come soprattutto per la peste, anche la pulce può fungere da vettore di contagio.

Quanto al luogo ed all’epoca della comparsa di Y. Pseudotubercolosis, restano ancora molte zone d’ombra anche se, pur senza giudicare definitive queste conoscenze, molta letteratura

epidemiologica (vedi J.-N. Biraben, 1976) ritiene che la sua origine sia molto recente (nell’area tedesca non anteriore al XIX secolo), mentre, per alcune regioni, è stato possibile seguirne

direttamente le prime manifestazioni: è questo il caso della Tunisia, 1927, poi attraverso l’Algeria, per giungere a ovest nell’area marocchina non prima del 1943.

Nel 1922 (Schultz, 1992 in J.-N. Biraben, 1976) il bacillo di Malassez e Vignal rivela, inoltre, una proprietà assai interessante: gli esseri umani e i ratti che ne siano stati contagiati ricevono una immunità completa nei confronti di Y. pestis. Questo dato di fondamentale importanza, considerato congiuntamente alla scomparsa delle più vaste pandemie di peste dopo il XIX secolo ed alla

comparsa e diffusione altrettanto recente di Y. pseudotubercolosis ha aperto importanti possibilità di riflessioni: “l’hypotèse peut donc être émise que cette nouvelle maladie serait à l’origine de la disparition des grandes épidémies de peste” (J.-N. Biraben, 1976). Rimane ancora da definire con certezza l’origine e, qualora questa si debba retrodatare, il ruolo che la pseudotubercolosi avrebbe potuto giocare negli equilibri epidemiologici del passato, tuttavia si può oggi osservare come la peste permanga isolata presso quelle specie ed in quelle aree geografiche che non possono essere raggiunte dalla disseminazione passiva, attraverso il trasporto di animali , del bacillo di Malassez e Vignal.

LA PULCE, IL RATTO, L’UOMO

La non-mobilità, che, come si è detto, è una delle caratteristiche di Y. pestis, rende necessario che il contagio si verifichi per intermediazione di vettori. Il virus è inizialmente presente in alcune

comunità di roditori non-domestici in forma enzootica e ne colonizza abitualmente anche i parassiti, soprattutto le pulci. Quando tuttavia queste hanno occasione di abbandonare il loro precedente ospite selvatico per colonizzare un ratto domestico, il virus viene trasmesso allo stesso animale che (con elevatissima probabilità) ne muore, ma allo stesso tempo lo introduce in ambienti abitualmente frequentati dall’uomo. Fino alla fine dell’ottocento non c’era modo di evitare che anche gli esseri umani ne fossero contagiati. Alla morte degli ospiti (che per i ratti è assai celere) la pulce ne invade e ne infetta altri accelerando la diffusione del morbo, che entra quindi in una fase epizootica ed epidemica, tanto perché questo nuovo territorio di coltura vergine rende Yersinia assai più letale, quanto perché l’identità degli “untori” (vittime essi stessi) è stata chiarita solo due secoli fa. E’ necessario precisare, inoltre, che questa linea di trasmissione della peste dai roditori selvatici al ratto e, quindi, all’uomo non è unidirezionale, le pulci possono invece portare il virus anche

dall’uomo al ratto oppure dall’uomo ad un altro uomo, amplificando quindi notevolmente la portata del contagio.

Ci sono dunque condizioni macro- e microclimatiche, contesti ambientali e trends ecologici che in passato hanno favorito la diffusione della peste? Quale influenza esercitano le attitudini etologiche dei vettori animali? E quale ruolo hanno giocato invece le abitudini culturali? Le frequentissime epidemie di peste hanno senza dubbio contribuito a delineare il profilo delle socioeconomie del passato e allora, quali erano le cause, i modi, i tempi e gli effetti del ciclico ma costante

ripresentarsi di Yersinia pestis? Un approccio globale a questo problema non può non partire, seguendo il percorso del virus stesso, proprio da una conoscenza di base dei vettori: la pulce ed il ratto.

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Moltissime sono le specie di pulci esistenti, ma solo poche sono in grado di veicolare i

microrganismi responsabili della peste: questa loro capacità dipende sia da specifiche caratteristiche fisiologiche e strutturali, che dalle specie animali di cui esse sono parassiti abituali; ciascuna specie di pulci, infatti, intrattiene col proprio ospite un legame pressoché esclusivo e lo abbandona solo raramente.

Ceratophylus fasciatus, parassita abituale dei roditori selvatici, può tuttavia, quando se ne presenti l’occasione, passare anche ai ratti domestici. Questa pulce non si nutre di sangue umano, tuttavia, se proveniente da un animale infetto, è il vettore attraverso cui Y. pestis accede alle aree antropizzate. Una specie di pulce che vive invece indifferentemente sui ratti domestici così come sull’uomo è la Xenopsylla cheopis, che è dunque il ponte di passaggio decisivo dai ratti all’uomo e che è il

principale veicolo di contagio umano della peste. Mentre nel meccanismo di contagio altre specie di pulci del topo non hanno, per le loro caratteristiche specifiche, alcun ruolo, come ad esempio la comunissima Leptosylla muscoli, l’importanza di X. Cheopis diviene imprescindibile alla luce delle sue peculiarità microanatomiche: solo quest’ultima è infatti dotata di una piccola sacca al di sopra dell’esofago, il proventricolo, dove, ingerendo sangue infetto, i virus di Y. pestis vanno a

raccogliersi, moltiplicandosi fino ad ostruirlo. X. Cheopis, a questo punto, pur non essendo essa stessa contagiata, non riesce più a nutrirsi e, sempre più affamata, passa velocemente da un ospite all’altro e di volta in volta rigurgita il tappo che ostruisce il proventricolo, inoculando negli ospiti un grande numero di agenti patogeni. La capacità di contagio di C. fasciatus e P. irritans, parassita esclusivamente dell’uomo, non è però trascurabile: sebbene queste specie siano prive di

proventricolo, infatti, la trasmissione del morbo può avvenire anche attraverso gli escrementi che la pulce deposita in prossimità della ferita al momento del morso.

Le capacità di sopravvivenza e l’attività metabolica delle pulci sono strettamente legate a fattori climatici, in particolare esse manifestano una elevatissima sensibilità igrometrica. Il caldo ne azzera le capacità riproduttive, mentre il freddo ne limita l’attività (...), ma con una umidità

inferiore/uguale a 80% la pulce può sopravvivere non più di 6-8 giorni e le uova (si preservano anch’esse per non più di 6 giorni circa, mentre in condizioni ottimali si spingono fino al tempo limite di un anno) non si schiudono. Ma appena si raggiunge (p. es. in caso di piogge prolungate) un valore igrometrico del 90%, ad una temperatura di 20°-28°, le uova si schiudono all’improvviso e le pulci sopravvivono fino a 20 giorni. Se a queste considerazioni si aggiunge che esse depongono le proprie uova nella polvere, nel terriccio e nelle fessure del legno e che gli habitat ideali sono rappresentati da stoffe, pagliericci, pelli e pellami e soprattutto con precarie condizioni d’igiene, si può facilmente comprendere in quali spazi di vita dell’uomo del passato cercare i nuclei delle epidemie pestilenziali.

Le pulci proliferano dunque, anche alla luce del loro ectoparassitismo, dove si utilizzano abiti pesanti e molto coprenti (che non disperdono l’umidità del corpo), dove ci si lava molto poco e di rado e dove, infine, le occasioni di aggregazione sociale (quindi di contagio) sono frequenti e molto affollate. Un habitat ideale è rappresentato dalle stive delle navi fino all’ottocento, realizzate in legno, molto umide e frequentate da equipaggi con poca disponibilità di acqua da destinare alle pratiche igieniche, ma soprattutto abitate da intere colonie di ratti. Anche gli edifici medioevali e moderni, secondo le fonti archeologiche, sono ambienti ideali per le pulci: abbondanti strutture lignee, letti in paglia, ambienti umidi e poco areati, molto frequentati da specie commensali dell’uomo (ratti e topi), con strutture sanitarie ridotte o assenti e con pavimenti in terra battuta (in simili abitazioni, ancora oggi utilizzate in Madagascar, pulci infette mantengono in vita focolai di peste).

Alcuni autori (J.-N. Biraben, 1976) segnalano che dal basso medioevo e soprattutto dal

rinascimento si era empiricamente compresa la capacità del bianco, ed in particolare dei tessuti di questo colore, di attrarre le pulci, e, di converso, come queste fossero respinte dall’odore di alcuni animali (bue e cavallo p.es.) e degli olii alimentari. La ricostruzione globale del contesto epidemico del passato richiede anche la conoscenza del vettore che ospita e diffonde le pulci infette: il ratto.

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Sono in particolare due specie, tra le 56 del genere Rattus diffuse in tutto il mondo, a veicolare il virus della peste: R. rattus e R. norvegicus. Pur simili nelle loro caratteristiche di genere, queste due specie sono caratterizzate da differenze etologiche e costituzionali, che conferiscono loro un ruolo epidemiologico diverso. Entrambe hanno dunque dimensioni maggiori del più piccolo topo, genere Mus (la cui pulce, Leptosylla muscoli, non è in grado di trasmettere la peste, come si è detto), il loro peso è compreso tra i 300 gr ed i 500 gr e sono commensali abituali dell’uomo: infatti, assai poco esigenti sia dal punto di vista climatico-ambientale, che dal punto di vista nutrizionale, sono onnivori e sensibilmente opportunisti nelle strategie di ricerca del cibo. Inoltre la loro indole socievole e curiosa, insieme alla spiccata agilità dei movimenti (attitudine alla corsa ed al salto) hanno spinto l’uomo in epoche diverse a farne animali da compagnia; nella cultura orientale, per esempio, il ratto è ospite ricercato degli ambienti domestici per motivi di ordine religioso: secondo diversi testi sacri estremo-orientali, infatti, esso partecipa a numerose saghe mitiche in qualità di compagno o cavalcatura delle principali divinità ed è anche tramite delle loro epifanie terrestri. Al di là di specifiche valenze cultuali, la presenza del ratto in ambienti abitati dall’uomo può essere stata foriera di danni non trascurabili, tanto nelle società agricole quanto in quelle urbane del passato: oltre infatti alla possibilità di veicolare diverse patologie gravi (dalla peste al tifo), tutte le specie di ratto sono estremamente voraci ed hanno comportamenti simili a quelli dei roditori, che le rendendono estremamente pericolose per le coltivazioni e le derrate alimentari, anche perché la loro prolificità le spinge spesso sul limite della sovrappopolazione. Secondo un censimento effettuato in condizioni il più possibile simili a quelle antiche, si è stimato che in ogni insediamento medio-piccolo del passato dovesse esserci più di un ratto per ogni abitante ed almeno un nido ogni 20 abitanti situato in prossimità delle principali riserve di cibo; a fronte di un numero di 6 ratti per ogni gatto domestico (S. A. Barnett, 1967).

Come si è detto, dunque, sono in particolare due le specie di ratto che hanno un ruolo nel meccanismo di contagio della peste, ma tra queste il R. rattus deve aver svolto, rispetto al R. norvegicus, un ruolo più importante. Il primo infatti, noto anche come ratto nero, ha iniziato a diffondersi in Europa tra il XIII ed il XIV secolo (la sua area d’origine era infatti quella asiatica), mentre R. norvegicus, noto anche col nome di ratto marrone, giunge sul suolo europeo, proveniente anch’esso dall’area asiatica, solo dopo il XVII sec. Oltre che maggiormente sensibile alla peste, inoltre, R. rattus lega assai più direttamente la propria sopravvivenza all’uomo: nidifica infatti sempre in prossimità di grandi riserve di cibo e mantiene un raggio d’azione non superiore ai 200 m. di distanza dalla propria tana (R. norvegicus si spinge fino a 600 m di distanza e colonizza anche cantine e fogne), viaggia solo se trasportato passivamente ed era, in passato, ospite frequente nelle stive delle navi, che sono i principali vettori epidemiologici attraverso cui Yersinia ha attraversato, pur immobile, almeno due continenti per più di un millennio. Sottocoperta, infatti, proliferavano le pulci, che per R. rattus sono più frequentemente della specie Xenopsilla cheopis, che è, a sua volta, la più pericolosa nella diffusione della peste: una combinazione letale, dunque, in quel microclima caldo e umido, come si è già detto, a tal punto che la già citata Morte Nera del 1348 arrivò in

Europa solo dopo aver viaggiato per diversi mesi a bordo di una nave genovese proveniente dal Mar Nero.

I legami biocenotici che definiscono dunque la catena di trasmissione pulce-ratto-uomo (pur

restando la possibilità di contagio diretto o inverso) fanno emergere un dato importante: la letalità di Yersinia pestis non risiede solo nel suo elevato potere patogeno, sicuramente troppo superiore rispetto alle tecniche terapeutiche pre-antibiotiche, ma è dipesa in passato, in modo significativo, anche dalla sussistenza di circostanze che favorivano la prolungata contiguità tra l’uomo ed i vettori di contagio del morbo.

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A seguito del morso della pulce, Yersinia viene trasportata attraverso i vasi linfatici all’interno dei linfonodi e da questi, annullati o aggirati i sistemi di difesa immunitaria, può avere libera

circolazione nell’organismo. Quindi, veicolata dal torrente ematico si moltiplica e ostruisce i capillari dilatati (della generale vasodilatazione è essa stessa responsabile), causando così le caratteristiche suffusioni emorragiche dal colore viola-blu, che le hanno guadagnato il nome di “morte nera”.

Il passaggio di fondamentale importanza, attraverso cui il virus riesce a vanificare l’opposizione dei macrofagi e dei linfociti, è noto oggi nelle sue linee principali, ma è, nei dettagli, ancora oggetto di studio (R. Losick, D. Kaiser, 1997): quanto ai macrofagi, in particolare, Yersinia produce proteine in grado di disattivarli, non solo danneggiando direttamente la cellula, ma anche annullandone la rete di comunicazioni interne.

Quando l’agente patogeno prende possesso dei linfonodi, questi si ingrossano considerevolmente a seguito di un edema sanguinolento, che può infiltrare la rete nervosa e causare così forti dolori localizzati. Questa manifestazione clinica, caratteristica della peste, è nota, fin dal medioevo, col nome di bubbone: il contagiato manifesta una tumefazione in corrispondenza delle ghiandole principali, nell’area pubica, ascellare o cervicale, voluminosa, dura, molto dolorosa e spesso tendente alla suppurazione. Durante la peste che esplose a Porto nel 1889, le fonti governative registrarono la seguente incidenza di bubboni in rapporto al distretto corporeo: per un totale di 103 casi, 25 individui recavano lesioni bubboniche nell’area inguinale e 23 in quella crurale, il numero si riduce a 14 per l’area ascellare e 12 per quella cervicale, mentre per i bubboni con altra

localizzazione mai più di 3 casi (vedi L. Del Panta, 1986).

Dunque il morbo si manifesta clinicamente attraverso le ecchimosi diffuse e la comparsa di bubboni in corrispondenza dei linfonodi principali, poi, trascorso un periodo di incubazione che oscilla tra le 24 h ed i 5 giorni, esso esplode in forma acuta con febbre elevata (39,5°- 41°), tachicardia e forti emicranie. Può inoltre manifestarsi, subito dopo il morso, una lesione localizzata nel punto dell’inoculo sotto forma di una pustola o di una flittena che, a seguito di una necrosi repentina, si muta in una piaga cancrenosa nota col nome di charbon pesteux.

Al di là di questi sintomi costanti, si individuano dal punto di vista sia clinico che epidemiologico tre (secondo altri autori quattro, vedi Ortner, Putschar, 1985) diverse forme di peste: la più nota peste bubbonica, la polmonare primaria, la setticemica e, la non sempre ben distinguibile, forma cutanea; se ognuna di esse è contraddistinta da sintomatologia e modalità di trasmissione

caratteristiche, durante il decorso clinico esiste la possibilità per una forma di mutarsi nell’altra e, soprattutto, di tutte le altre di mutarsi in una forma polmonare secondaria. Nelle grandi fasi epidemiche, inoltre, più forme possono essere contemporaneamente attive, pur rimanendo prevalente quella favorita da fattori di ordine climatico e stagionale.

La forma bubbonica è caratterizzata dalla diffusa presenza dei bubboni e, quindi dalla necrosi dei linfonodi. Dopo l’incubazione, l’infezione si manifesta con febbre elevata, vomito e diarrea frequenti, quindi epato- e splenomegalia, talvolta anche scarsa capacità di coordinazione dei movimenti, confusione mentale e delirio. Le fasi successive dipendono dalla localizzazione

dell’agente patogeno. Se questo si insedia a livello dei polmoni, la peste evolve verso un’infezione polmonare secondaria, con febbre ancora molto alta, dispnea, cianosi e sempre più frequente tosse con sputo di sangue; in questi casi il contagio può avvenire direttamente person-to-person

attraverso la respirazione di particelle aerosolizzate. La morte sopraggiunge tra due e cinque giorni. Ma se invece che generare complicazioni pneumoniche, il morbo si evolve in un’infezione

generalizzata del sangue, l’individuo è affetto emorragie diffuse, cianosi marcata, atassia, adinamia fino a morire non più di 48 ore dopo. Questa complicazione conduce infatti alla forma di peste più celere e più letale, la setticemica secondaria, con una mortalità prossima al 100% (Ortner, Putschar, 1985). La forma bubbonica può, tuttavia, non generare nessuna delle due complicazioni appena illustrate e seguire, invece, un decorso più lento e doloroso, ma anche meno letale. Dopo i sintomi iniziali si possono verificare lesioni emboliche sottocutanee, ecchimosi, emorragie spontanee diffuse e la comparsa di numerose pustole che divengono presto necrotiche. La febbre permane

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molto alta e le turbe nervose si aggravano, con vertigini, torpore, allucinazioni, delirio, fino al sopraggiungere di uno stato comatoso che dura fino alla morte, tra il quinto giorno e la quarta settimana. Da una analisi statistica condotta sulle epidemie di peste bubbonica manifestatesi in Francia tra l’età basso-medioevale e moderna, sembra di poter desumere che “la première et la troisième semaine sont donc les plus meurtières” (J.-N. Biraben, 1976). Nel suo regolare decorso clinico, quindi senza complicazioni pneumoniche né setticemiche, la peste bubbonica uccide il 60-70% circa dei contagiati, la restante parte si avvia alla guarigione già tra il sesto e l’ottavo giorno (nel 50% dei casi e prevalentemente in corrispondenza del declino della fase epidemica), trascorsi i quali le possibilità di sopravvivere al morbo si riducono drasticamente.

Quanto alle altre due forme di peste, la setticemica e la polmonare primaria, sintomatologia e letalità specifica rimangono le stesse delle corrispondenti forme secondarie, già prima descritte, che insorgono come complicazioni della tipologia bubbonica.

Quest’ultima ha, in linea generale, un’incidenza maggiore; a titolo di esempio, nella notissima pandemia di peste che colpì l’Italia (e non solo) nel XIV secolo e che rapì Laura al poeta Petrarca e fu il casus scribendi per Boccaccio, più di tre quarti dei contagiati manifestava i sintomi della forma bubbonica, meno di un quinto moriva entro 24 ore per aver contratto la setticemica, e non più del 5% circa soffriva della forma pneumonica (vedi L. Del Panta, 1986).

La maggiore o minore incidenza dei diversi tipi di peste sembra soprattutto legata a fattori climatici e stagionali: la principale modalità di trasmissione della bubbonica è, infatti, per intermediazione di pulci infette, che, come si è già detto, sono poco attive nei mesi freddi ed incapaci di riprodursi nei mesi caldi e secchi, mentre le condizioni termiche ed igrometriche ideali sono quelle proprie dei mesi caratterizzati da temperature medie e medio-alte e da soglie pluviometriche piuttosto elevate: dalla primavera all’autunno, nelle regioni temperate europee. La modalità di contagio prevalente per la pneumonica è soprattutto quella aerea e diretta da persona a persona, quindi questa affezione dei polmoni può essere la prevalente durante i mesi più freddi. Durante la dura stagione invernale, infatti, si trascorre molto più tempo in casa: quindi, fino ad età moderna, in ambienti chiusi, male areati e dove gli abitanti sono a stretto contatto tra loro, così risultava agevolato il contagio attraverso tosse e starnuti (droplets) e un certo numero di pulci rimaneva in attività grazie al microclima umido e riscaldato, sia all’interno delle abitazioni, che sotto i pesanti abiti invernali; proprio nei mesi freddi i lavaggi erano infatti assai meno frequenti. Queste considerazioni aiutano a comprendere perché la celebre Peste Nera avesse colpito prevalentemente nella forma bubbonica: l’epidemia esplose infatti all’arrivo della primavera e toccò l’apice in autunno, per poi attenuarsi fino quasi a sparire nei mesi invernali e ricomparire, quindi, nella primavera dell’anno successivo. E riguardo ai guariti? Quali erano i postumi dello scampato pericolo?

L’impatto psicologico di simili pandemie doveva sicuramente essere devastante in tutte le aree ed in tutte le epoche, sia dal punto di vista comunitario che da quello individuale, ma per chiarire i

termini della decostruzione dei sistemi socio-economici, cognitivi e di autorappresentazione spazio-temporale che la peste è in grado di realizzare sarà necessaria una trattazione specifica che tenga conto della caratteristiche peculiari della comunità oggetto di studio.

Per un altro verso, da un punto di vista strettamente medico e fisiologico, i postumi della malattia non sono trascurabili. Da cronache post-rinascimentali (J.-N. Biraben, 1976) e da referti medici delle ultime epidemie otto-novecentesche (L. Del Panta, 1986), si può desumere che i postumi senza terapia fossero di natura prevalentemente nervosa, tic, contrazioni spasmodiche, ecc., e che i guariti restassero “marchiati” da cheloidi retrattili, cicatrici conseguenti all’apertura dei bubboni mediante l’uso di un ferro rovente per drenarne la tumefazione (una pratica attestata soprattutto dopo il sedicesimo secolo). L’ipotesi, invece, che l’eredita della peste consistesse anche

nell’acquisizione di un immunità permanente, è assai dibattuta (J.-N. Biraben, 1976): è verosimile che sopravvivendo al morbo se ne acquisisse una certa immunità, ma rimane difficile dimostrare che essa fosse permanente, oppure stimarne la durata; è più plausibile pensare che essa variasse da individuo ad individuo, influenzata da fattori particolari che è difficile ricostruire a posteriori. La pratica vaccinatoria è stata introdotta solo in epoca molto recente e la tipologia che fa uso di germi

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morti conferisce comunque un’immunità relativamente breve (qualche mese), mentre quella realizzata con germi vivi ha un’efficacia che copre diversi anni.

STORIA DELLA MALATTIA E STORIA DELLA TERAPIA

Nel linguaggio quotidiano ciò che è dannoso e difficile da eliminare è metaforicamente definito “come la peste”, nonostante che oggi non ci sia motivo di temerne una pandemia. Così è

consuetudine diffusa che un uomo regali alla propria amata un solitario, come pegno d’amore, e che la donna terrà all’anulare della mano sinistra, sicuramente senza sapere che, fino a qualche secolo fa, attraverso questo gesto si proteggeva l’amata dalla morte nera. Queste sopravvivenze indicano, dunque, come Yersinia abbia profondamente segnato la nostra memoria storica ed il nostro

immaginario collettivo, non solo per la sua grande forza epidemica, ma anche perché le sue radici storiche entrano molto a fondo nelle patocenosi di molti diversi gruppi umani.

Le fonti scritte che vengono dalla terra dei faraoni, poi anche i testi ittiti e accadici e, dall’altra parte del mondo, i trattati medici e sapienziali cinesi parlano di improvvise ed inarrestabili epidemie di peste, ne descrivono i sintomi, invocano la divinità che ha il potere di scatenarle, Sekhmet per gli Egiziani, o Namtar, il genio della peste secondo il panteon accadico, e cercano di placarne l’ira con suppliche e preghiere, come quella, che ci è pervenuta, composta dal re ittita Mursil, nel XIV sec. Sono ancora le frecce del dio Apollo a diffondere l’epidemia nel campo acheo, secondo Omero nel VIII sec. a.c., e attraverso la peste di Atene, descritta da Tucidide e poi da Lucrezio, le

testimonianze di grandi pandemie di peste attraversano tutto il mondo greco e romano, per arrivare fino all’età tardo-antica con la celebre “peste giustinianea”, che Procopio descrive nel VI sec. d.c. Cosa si intende tuttavia per “peste”? Con quale certezza traduciamo con “peste” i grafemi presenti nei testi antichi? Attraverso quale associazione documentabile possiamo affermare che essi

designassero proprio quello stato patologico di cui è responsabile Y. pestis? Questa traduzione, dalle categorie di rappresentazione del mondo e dal linguaggio utilizzato in passato per comunicarle alle categorie ed al linguaggio moderni, presenta una ineliminabile componente di arbitrarietà, ancora maggiore quando si affronti il concetto di malattia: “la storia della medicina occidentale e lo studio comparato delle medicine proprie delle diverse civiltà dimostrano che la concettualizzazione delle diverse malattie non si effettua necessariamente secondo il modo che è attualmente il nostro” (M. Grmek, 1985). In altre parole: il termine λοιμòς è utilizzato dai testi greci tanto col significato di “peste” quanto con quello di “carestia”, presumibilmente per esprimere come spesso i due flagelli si presentassero insieme e fossero uniti da un nesso causale, empiricamente verificabile. Ma allora perché non pensare che il λοιμòς tucidideo, con la sua localizzazione addominale ed il legame con le acque contaminate, potesse essere piuttosto febbre tifoidea o tifo esantematico, che tuttavia per l’autore rispondeva al nome di “peste” perché uccise molti e ridusse alla fame i più? Lo stesso dubbio si può avanzare per la madre etimologica del termine moderno, pestis latino, che è legata alla stessa radice di peius ed indica più plausibilmente la peggiore delle malattie: pestis è utilizzato allora, nei testi d’età classica, non per uno stato patologico causato da uno specifico agente

eziologico, ma per tutte le epidemie ed i flagelli ad elevata letalità.

Ritornando ai testi: la Bibbia (Samuele I, 5,6) usa il termine “peste” per una terribile pandemia che dio, adirato, inviò contro i filistei della città di Ashdod, rei di aver sottratto l’arca dell’alleanza al popolo ebreo. Una certa cautela filologica, come si è detto, è necessaria, ma, tenendo alla mente le caratteristiche specifiche di Y. pestis, così come oggi la conosciamo, alcuni dettagli assumono importanza: la pandemia si protrasse per tutti i mesi più caldi dell’anno ed al suo termine (cioè, secondo il testo, quando i filistei restituirono il maltolto) i superstiti offrirono a dio un congruo numero di ex-voto d’oro, che furono realizzati in forma di bubboni e di topi. Per quanto rimanga difficile sapere se gli ebrei conoscessero tutte le modalità del contagio (comunque ignote ancora fino al XVII sec.), molti sono in questo caso gli indizi che portano alla morte nera.

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Da Procopio e poi soprattutto dall’alto medioevo, è il caso ad esempio di Gregorio di Tours, le descrizioni si fanno tuttavia più dettagliate e sempre con crescente chiarezza si delinea, attraverso le fonti scritte, il profilo di Yersinia pestis; fino all’età contemporanea la mère voyageuse (come alcune popolazioni chiamarono ed immaginarono la peste) rimase temuta ed esorcizzata piuttosto che conosciuta e curata, ma i testi successivi all’epoca tardo-antica lasciano comunque pochi dubbi di identificazione (vedi J.-N. Biraben, 1976). Rimane in ogni caso difficile comprendere se il motivo di questo passaggio sia dovuto all’affermarsi di una più dettagliata concettualizzazione nosologica del morbo, oppure anche ad una reale evoluzione nel tempo dell’agente patogeno. “I do not seek to understand so that I may believe, but I believe so that I may understand”, scriveva Anselmo di Canterbury nel cuore del medioevo e così fu fino alla seconda metà del XVII secolo (vedi “abelardian stage”, in C. M. Cipolla, 1976): le conoscenze mediche si identificavano in dogmi e proposizioni logiche che risalivano da Aristotele fino a Galeno ed ai suoi commentarii arabi, esse venivano sottoposte al metodo dialettico non per metterle in discussione, ma per limarne le incompatibilità e costruire un sistema di pensiero organico. Tutto rimase nel campo della

speculazione, nel mondo della filosofia naturale, d’altronde scientia is unum et ars is aliud. Queste domande guideranno allora le pagine seguenti e sostituiranno una dettagliata cronistoria delle epidemie: questo paradigma conoscitivo, che si è appena descritto, come riuscì a reggere per più di mezzo millennio all’impatto traumatico delle epidemie di peste? Come riuscì, se vi riuscì, a

razionalizzare il caos delle grandi pandemie, senza che l’organon nosologico si frantumasse? Infine, la medicina mise in atto misure terapeutiche in grado di incidere realmente sulle pestilenze, o furono piuttosto le pestilenze ad incidere sulle conoscenze mediche e sulla stessa figura professionale del medico?

“Istituire il legame, in un caso concreto, fra la realtà osservata e la dottrina nosologica, è ciò che si chiama la diagnosi medica. Un tempo la cosa era relativamente semplice, in sostanza cioè non presentava difficoltà superiori a quelle inerenti ad ogni operazione di classificazione. [...] Ora, fra Ippocrate e noi sono i sistemi nosologici di riferimento che sono mutati e non solo i nomi delle malattie” (M. Grmek, 1985). Non si può comprendere una storia della terapia, né una storia della malattia, quindi, senza conoscere i sistemi nosologici di riferimento, che sebbene siano cambiati nel tempo, tra l’alto medioevo e la metà del XVIII sec. hanno tuttavia mantenuto dei tratti fortemente conservativi, come dire: di fronte alla pandemia che sconvolge tutti gli ordini sociali e civili la forza della dottrina medica è nella sua stabilità, nella capacità di mantenere un ordine logicamente

spiegabile delle conoscenze.

Tra il basso medioevo e l’avvento della medicina contemporanea (quando, come si è già detto, le descrizioni di epidemie di peste si fanno più attendibili) il sistema delle conoscenze mediche seguiva un ordine logico gerarchico, secondo uno schema classificatorio che la filosofia naturale (una parte d’altronde fondamentale nella preparazione di ogni buon medico dell’epoca) applicava a molti altri campi del mondo vivente. Le pestilenze sono effetti visibili di due grandi classi di cause, che possono o non interagire: le cause prime, trascendenti, e le cause seconde, immanenti. Le cause prime sono, in breve, la collera divina e la volontà di dio di punire i misfatti e le trasgressioni degli uomini. Le attestazioni di questo primo ordine di cause precedono di molto tempo l’orizzonte cristiano, per esse si può piuttosto parlare di un atteggiamento culturale: l’improvviso, caotico (cioè inspiegabile), sovvertimento dei rapporti tra il mondo della vita ed il mondo della morte, che si realizza durante le grandi pandemie, giustifica la categoria del divino ed i modelli comportamentali si ritualizzano nella ricerca di comunicazione con la divinità, per ripristinare l’ordine del κòσμος alterato dal morbo. Quando dunque si evoca questo primo ordine di cause, medicina, mantica e sciamanesimo si sovrappongono ed in parte si confondono; nel 1638 gli abitanti di Quimper sono convinti che la peste flagelli il villaggio per volere di san Coretin, gravemente adirato per le mutilazioni subite dal proprio simulacro ad opera di un pazzo ubriacone. Quando però le autorità religiose ultimarono i restauri della statua accompagnandoli con processioni e messe solenni, l’ira del santo si placò e con essa anche la peste. Che questo atteggiamento fosse incoraggiato (o almeno profondamente condiviso) da dottori e cerusici non è in dubbio; infatti così scrive David Jouysse,

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celebre medico di Rouen, nel 1668: “C’est un signe de l’ire de Dieu provoquée par nos prevarrications” (in J.-N. Biraben, 1976).

Una seconda classe di cause, quelle immanenti, è a sua volta divisa in due sottoclassi: la dottrina medica, tra il medioevo e l’età moderna, distingueva le “radici superiori”, o cause universali, e le “radici inferiori”, o cause particolari. Le radici superiori sono tutte da spiegarsi come alterazioni del mondo celeste in grado di esercitare sul mondo terrestre influssi negativi, sotto forma di influenze magico-fascinatorie, oppure di miasmi e mefitiche esalazioni, che corrompono i corpi, generando la peste. Così tra le cause universali responsabili delle grandi pandemie i testi insistono soprattutto su: le congiunzioni astrali sfavorevoli, “ce qui dispose à la putridité de l’air” (come si esprimono i doctores della Sorbonne appositamente convocati per trovare una spiegazione alla Morte Nera che non cessava di imperversare nel 1348); le variazioni nelle fasi lunari; la presenza di comete o di altri “astri erranti” ed esiste a tal proposito un numero considerevole di testimonianze (vedi J.-N.

Biraben, 1976): in molti testi medici si legge come nel comprensorio colpito dalla peste, qualche tempo prima che questa si manifestasse, fosse stata avvistata una cometa, e come questa

concomitanza di eventi sia stata registrata più volte in tempi e luoghi diversi e mai smentita, creando così un legame empiricamente verificabile tra la peste ed il moto dei corpi celesti. Ma dal XIV al XVIII sec. eclissi, comete, o altri astri erranti vengono avvistati anche più di una volta ogni cinque anni, sono quindi frequenti almeno quanto le epidemie di peste. Soprattutto dal XVII sec., inoltre, si diffonde la credenza che gli anni preferiti dalla morte nera siano quelli bisestili, perché, ancora una volta, questi sono “irregolari” rispetto alla normale scansione del tempo e sono associati ad una alterazione dei ritmi astrali. Anche in questo caso, come per le comete, una beffarda

sottigliezza combinatoria nasconde la natura puramente convenzionale degli anni bisestili: questi ricorrono ogni quattro anni ed il mese incriminato è quello di febbraio, così in tutta l’Europa occidentale la peste per cinque secoli continuò a presentarsi ciclicamente più o meno con lo stesso ritmo e, nella sua forma più letale, quella pneumonica, soprattutto nei mesi invernali, come

febbraio.

“Radici prime” e “radici seconde”, si è detto, ovvero cause universali e cause particolari. Mentre le prime sono legate, dunque, al mondo celeste, per le seconde si guarda invece a quello terrestre. Il campionario messo a disposizione dalla letteratura per le cause particolari è molto variabile e difficilmente riconducibile ad un numero finito di categorie classificatorie, infatti esso comprende un’ampia serie di qualità individuali, comportamenti e stili di vita che cambiano col cambiare dei contesti socio-religiosi, politico-economici, ambientali e, più generalmente, culturali. Tuttavia mentre le “radici superiori” risiedono nella sfera celeste, le “radici inferiori” dipendono dalla vita quotidiana degli uomini e su di esse era dunque lecito e fattibile che i medici, i cerusici e gli speziali intervenissero attivamente. Quindi partendo da quest’ordine di cause si possono definire con

maggiore completezza l’identità ed il ruolo della medicina negli anni della peste.

Le più frequenti nei testi antichi sono la costituzione individuale e la predisposizione naturale: queste tipologie causali sono evocate così frequentemente da essere dei tòpoi della letteratura medica medievale e dei secoli successivi e molti medici affermavano concordemente l’esistenza di una sorta di ricettività preferenziale di alcuni individui nei confronti del morbo, sia per ragioni personali che famigliari. Scrive Ibn Hatimah, e le stesse parole ritornano anche nel Compendium breve e nei Consigli contro la peste: “gli uomini dal temperamento sanguigno sono più in pericolo, i collerici un po’ meno, ancor meno i flemmatici ed i melanconici, poiché il loro umore freddo e secco mai s’infiamma e mai si putrefà e soprattutto poiché i loro vasi, attraverso cui deve passare il veleno, sono assai stretti. I vecchi sono, in tal senso, più al sicuro di tutti gli altri” (in J.-N. Biraben, 1976). Così, ancor più concordi, i medici cattolici tanto quanto quelli islamici affermavano che le donne di fisico procace hanno, per loro natura, un temperamento che più di altri le espone al rischio e sono quindi bersaglio e veicolo fondamentale del contagio. Sembra evidente come,

nell’impotenza delle istituzioni sociali e del pensiero razionale di fronte ad un nemico invisibile, urgesse una definizione tanto fisiologica quanto etica della malattia. Che poi insieme a questi fattori agisse una predisposizione anche famigliare, trasmessa geneticamente, diremmo oggi, sembrava

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fuor di dubbio: la peste cancellava intere famiglie ed intere casate e, già dal VI secolo, con l’opera di Procopio, è attestata l’idea di una predisposizione ereditaria al morbo generata da “una certa concordanza e simpatia dei corpi” tra consanguinei.

Oltre a quelli qui elencati molti altri fattori furono nel tempo individuati, più o meno sempre

conformi alle caratteristiche qui descritte, e tra questi va ricordata un’intera sottoclasse di cause che oggi chiameremmo ambientali, ma che le fonti documentarie definiscono più spesso come

“esterne”, per distinguerle dalle precedenti, definite invece “interne”, all’uomo, s’intende. Tra le “radici particolari esterne” i medici hanno spesso riflettuto sul ruolo giocato dal clima (con alcune intuizioni sul ruolo dei fattori termici ed igrometrici, già dal XVI sec.), dalla classe sociale e dalla professione. Infatti si passerà dall’idea della peste che, correndo veloce in groppa ad uno

scheletrificato destriero ed armata di falce, miete indistintamente le sue vittime, all’idea che potesse invece esistere una mortalità preferenziale in rapporto al ceto, e così dalla metà del cinquecento compariranno alcuni censimenti dei defunti con l’indicazione della classe sociale di appartenenza. Grande importanza veniva riconosciuta poi al regime alimentare: i cibi di bassa qualità si riteneva che ostruissero i vasi ed infettassero il corpo ed infatti la peste si sarebbe sviluppata soprattutto negli insediamenti posti sotto assedio, per via del cibo che gli assediati sarebbero costretti a

consumare; altra causa erano i frutti dei raccolti “maledetti”(così in molte fonti) da grandine, insetti ed altre condizioni sfavorevoli; Nicolas Goddin, poi, nel suo “Traité de chirurgie militare”, del 1558, scrive: “Et suis certain que l’usance d’eauë de vië en esté est fort suspecte et qu’elle brusle le sang d’une chaleur estrange au foie laquelle peut tellement corrompre les humeurs qu’elle sera cause de la génération de la peste, de dysenterie, de lepre et de plusieurs autres espècies de maladie” (in J.-N. Biraben, 1976). Ancora una volta sembra difficile escludere considerazioni di carattere etico e superstizioso (come nel caso dei cattivi raccolti) che concorrono alla definizione delle cause del morbo. Inoltre una certa confusione tra povertà e peste incoraggerà un atteggiamento assai diffuso fino al XVIII sec.: la peste miete vittime quanto la povertà e forse le due cose non sono poi così diverse, o forse la peste è un male dei poveri, oppure non esiste; d’altronde, affermano molti homines doctissimi, il credere che la peste esista può essere l’unica vera causa della peste, compatibilmente con quanto affermano Aristotele -l’immaginazione può influenzare la realtà- ed Avicenna -credere ad una malattia equivale ad attirarla su se stessi-. “Ne peut avoir grande importance car cette maladie n’attaque que la canaille” (in J.-N. Biraben, 1976), così scriveva il procuratore fiscale di Dieppe nel 1584, prima di cadere egli stesso tra le prime vittime della peste di quell’anno.

Un’ultima causa non era mai tralasciata da tutti i manuali contro la peste ed il già citato consiglio della Sorbonne del 1348 volle rimarcarlo citando la bibbia e Plutarco insieme: la fornicazione, una dannosa perdita di energie vitali che debilita il corpo e conduce verso l’inferno passando attraverso le sofferenze della peste. Gli apprendisti medici, nella Polonia del XV-XVI sec. recitavano, infatti, le cinque effe per ricordare le principali cause della peste: “Fatigua, Fames, Fructus, Femina, Flatus”.

In sintesi, utilizzando una riflessione di Cipolla, potremmo dire che, tra il medioevo e l’avvento della medicina contemporanea, trovandosi di fronte alla morte nera, tanto invisibile quanto inarrestabile, questo fu la dottrina medica: “una strana mistura di brillanti intuizioni, di sano buon senso e di assurdi pregiudizi” (C. M. Cipolla, 1977).

Qualunque potesse esserne la causa, il più saldo pilastro di ogni riflessione, cura o misura

preventiva contro la peste restava il legame (o la “triade”, per far caso ad una valenza numerologica forse non casuale) PESTE – FAME –GUERRA . Il nesso, tutt’altro che scientificamente corretto, sembra a noi ancora oggi intuitivo: la fame debilita l’uomo e dove ci sono conflitti bellici le risorse scarseggiano e le carestie si spandono a macchia d’olio. Non ci sono dubbi. Ma la guerra e la peste? Dove si combatte, che si attacchi o si difenda, che si assedi o, soprattutto, si sia assediati, ci sono morti, i cui cadaveri restano insepolti, insieme alle carcasse dei cavalli e di altri animali, che si decompongono e corrompono il suolo e l’aria circostanti, generando la peste. Questa poi si diffonde rapidamente al seguito delle truppe, che razziano i campi e seminano la distruzione (le carestie,

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ovvero, ancora, la fame) e che, naturalmente, disorganizzano qualsiasi misura preventiva, di disinfestazione o di isolamento, presa per difendere gli insediamenti dal contagio. Così, anche in tempo di pace, non è un caso che la prima funzione di ogni buon bureau de santé fosse quella di stilare degli ordinamenti di salute ed igiene pubblica, perché la sporcizia, dilagando nelle case private e nelle pubbliche vie, non producesse la pestilenza. Dunque il mondo della peste, fatto di scheletri viventi e minacciosamente armati, secondo uno schema iconografico che dura anch’esso mezzo millennio, è il mondo della decomposizione, della putrescenza e della corruzione (lato sensu, anche), rebus et corporibus putridis et corruptis (sic); forse per analogia col quadro

sintomatologico, ovvero l’effetto come la causa. Le pulci insieme ai pidocchi e ad altri parassiti, restavano per tutti, medici inclusi, solo scomodi ma abituali commensali.

Rimaneva da capire, allora, come la peste si diffondesse, ovvero come passasse da individuo ad individuo. Ma proprio l’assenza di un vettore di contagio visibile ed identificabile ha spinto ogni physicians, clergyman o illiterate quacks ad elaborare teorie epidemiologiche, nelle quali si

mescolano conoscenze fisiologiche e mitologico-religiose. Sembra tuttavia che, durante tutto l’arco di cinque secoli, un campionario ristretto di dogmi della filosofia naturale e di schematizzati

modelli culturali si ripetano costantemente, cosicché, nella “piazza vniversale” (sic) della medicina fossero in tanti a gridare, ma i nomi degli untori più urlati restavano due: l’aria ed il contatto diretto; e, con essi, due le correnti del pensiero epidemiologico: la dottrina aerista e quella contagionista. Di volta in volta la preferenza accordata all’una o all’altra ha spinto i medici e le istituzioni a prendere provvedimenti diversi.

Il pensiero aerista ha senza dubbio una storia più lunga e lo si può riassumere citando Nicolas Goddin, un medico di Lille, in Francia, che nella sua opera della metà del XVI secolo scriveva così: “Est cette maladie contagieuse à raison qu’humeur putride estant au corps éjecte ses vapeurs

infectes en l’air circumvoisin et le gaste et l’infecte et lorsque l’air infecté est attiré par quelqu’un, il corrompt et infecte les esprits et les humeurs, lesquels il trouve prompt a recevoir putréfaction”. I medici che aderivano a questa linea di pensiero sapevano bene che, secondo Ippocrate e secondo Galeno, l’aria quando é calda ed umida imputridisce facilmente e produce grandi pandemie, non è infatti un caso, si legge ancora in ambedue quelle auctoritates, che queste esplodano tra l’estate e l’autunno. Ebbene non è difficile identificare quell’aria putrida e marcescente nei miasmi e nelle esalazioni rilasciate dalle piaghe in suppurazione degli appestati, che, una volta respirati

raggiungono il sangue e lo fanno marcire, come già osservava Gentile da Foligno. Partendo da questi presupposti le vie di contagio sembravano essere più di quante si possa pensare: l’aria corrupta et infecta, portatrice della peste non si trovava solo vicino ai lazzaretti (da quando furono istituiti) o alle fosse comune, ma poteva viaggiare attraverso i venti, soprattutto quelli provenienti dai paesi caldi e umidi o che avevano soffiato anche attraverso regioni in guerra, dove i cadaveri giacevano insepolti, e poteva ancora viaggiare nelle maglie dei tessuti e nelle pieghe dei pellami, con una certa predilezione per quelli commerciati dagli ebrei.

Le radici della corrente contagionista sono ritenute più recenti: sebbene già Fracastoro parli alla metà del XVI secolo della possibilità che il contagio avvenisse per mezzo di particulae che non cadono sotto i nostri occhi (G. Fracastoro, 1546), Athanasius Kircher, per primo, un secolo dopo, usa la definizione di contagium vivum (A. Kircher, 1658): il contagio è definito “vivo” perché a trasmettere la peste sarebbero degli animali minuscoli, invisibili. Inoltre, proprio nel secolo che corre tra l’opera di Fracastoro e quella Kircher, un professore di medicina e filosofia a Padova, Bassiano Landi, conduceva diversi esperimenti sulla salubrità dell’aria: nella sua città era esplosa una delle tante epidemie che riportano i registri di quegli anni, e Landi si recò intenzionalmente nei luoghi colpiti; qui osservò come l’aria non risultasse affatto più insalubre, poiché frutti e fiori che si trovavano in prossimità degli appestati marcivano ed appassivano non più rapidamente di quanto avrebbero fatto in contesti normali. Viste poi le misure di sicurezza prese in città, ne dedusse che il morbo doveva essere stato condotto dai pellegrini e trasmesso forse anche attraverso le loro vesti, ma, assolutamente, solo per contatto diretto. “On a découvert que la contagion ne vient que de la fréquentation des gens pestiférés avec les autres habitants et non de la corruption de l’air”, così

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Joubert, medico anch’egli, nel 1626 (in J.-N. Biraben, 1976). Si fa dunque avanti l’idea che il contagio possa avvenire per contatto diretto con vesti ed oggetti ed anche attraverso lo sterco o le carcasse di animali infetti, soprattutto si ritengono pericolosi i cani ed i maiali. Ma si fa sempre più forte e diffusa anche l’idea che, attraverso i diversi liquidi organici secreti dagli appestati, sia possibile preparare degli unguenti letali con cui ungere le porte, i cibi e persino le panche delle chiese per propagare l’epidemia. Naturalmente i sospettati erano individui in grado di trarne

qualche vantaggio: i monatti in primis, ma anche nemici politici (i tartari, secondo i russi, gli ebrei o gli arabi, in Europa occidentale), ereditieri in attesa dell’eredità, ladri, assassini e spiriti maligni, mentre a Milano nel 1630 fu visto perfino “il diavolo in persona che, vestito di nero e con gli occhi lucenti, ungeva nella notte gli stipiti delle porte con un pestilenziale unguento” (in J.-N. Biraben, 1976). La superstizione, ma anche l’esigenza di non attirare il sospetto delle masse, coinvolse i medici (spesso anche però col ruolo di imputati) nella caccia all’untore. La documentazione degli atti dei processi è, a questo proposito, sterminata.

Un’ultima osservazione: nel 1720, a Marsiglia, il dottor Bertrand scrisse di un possibile legame diretto tra la puntura delle pulci e la comparsa dei sintomi della peste. La comunità scientifica lo ignorò o lo derise ed egli presto ritrattò. D’altronde “siccome pulci e topi abbondavano anche quando di peste non c’era neanche l’ombra, non era illogico che li si esonerasse da ogni

responsabilità quando all’improvviso compariva inopinatamente la peste” (C. M. Cipolla, 1978). Tenendo presenti queste premesse teoriche, resta ora da capire come i medici del medioevo e del rinascimento le traducessero in pratica, cioè come diagnosticassero la peste e quindi come

intervenissero. Le fonti sono a questo proposito assai ricche di informazioni, perché molti medici, e non solo, si preoccuparono in passato di descrivere con cura le manifestazioni cliniche

caratteristiche della peste ed i suoi segni precursori, senza che però, dal basso medioevo al tardo illuminismo, si debba segnalare l’apporto di alcun elemento nuovo al bagaglio delle conoscenze mediche. Nonostante che, infatti, si avvertisse forte l’esigenza di limitarne i danni, se non curandola, almeno contenendone il contagio, si può dire tuttavia che in questi cinque secoli di convivenza assidua con la peste, essa continuò ad essere studiata ed osservata a distanza e con approccio più terrorizzato, religioso-superstizioso diremmo, che sperimentale e scientifico.

Sappiamo oggi che nel periodo di incubazione, del resto assai breve, Yersinia prolifera rimanendo latente, ma, fin dalla peste giustinianea nel VI secolo a.c., era opinione da tutti accettata che la terribile morte nera dovesse essere preceduta da segni precursori degni della sua fama, così le fonti riportano eclissi, comete, terremoti e nei Consigli contro la peste, quindi nel XVI secolo, si legge: “Quando si vedon gli uccelli volar bassi, di notte così come di giorno, è perché la pestilenza è nell’aria; se essi volano invece alti, la peste allora arriva dalla terra: vedrete allora serpenti e lombrichi uscire dalla terra”. L’ornitomanzia è una delle tecniche ritenute più attendibili, secondo molti testi di epoche diverse, e richiama l’attenzione sulla mantica connessa alla pratica medica come retaggio culturale importante ancora nell’Europa occidentale moderna. Dal cielo o dal suolo la peste entrava così nei corpi e numerosi sono i sintomi premonitori che, secondo molti testi, avrebbero afflitto allora i contagiati: “dicono che quando uno orini troppo,o soffra di profluvie del ventre, o di emorragie nasali o anche di altre numerose affezioni, son proprio questi i più funesti e sicuri segni della peste.” Sebbene il campionario dei sintomi sia ampio e variabile, si può tuttavia osservare come tutti sembrino uniformarsi ad un linguaggio comune: lo stato patologico (qui la peste) si identifica con una grave alterazione degli equilibri tra i fluidi corporei, o tra gli “umori”, come sono definiti da molte fonti del XVI-XVII secolo, si tratta cioè di “una dottrina che attribuiva un ruolo preponderante alle parti fluide dell’organismo” (M. Grmek, 1985). In sintesi, il modello della sintomatologia clinica, in qui tumultuosi secoli, restava ancora Ippocrate.

Divenuta quindi patente, la peste era identificata, oltre che dai segni riconosciuti già dal XIV secolo come non patognomonici (febbre, cefalea, debilitazione), soprattutto dalla presenza dei bubboni, la forma pneumonica restava invece un assurdo tranello della morte nera. Infatti, già poco tempo dopo le grandi pandemie del XIV secolo, non c’è trattato o manuale sulla peste che non dedichi

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presto il nome di “male de i tumori”, come leggiamo già nella Cronica fiorentina del 1362, ed in Francia ancora nel XVII secolo è definita, per antonomasia, “la bosse”, “parce que ce signe en semble au peuple le plus spécifique.” (J.-N. Biraben, 1976); mentre, già un secolo prima, medici francesi, inglesi, spagnoli ed italiani descrivevano le differenze tra gli apostemata della peste e quelli di una nuova epidemia, la sifilide. Sebbene dunque i bubboni rimangano i segni più studiati e noti da più tempo (vi è fatto cenno già da Procopio e da Gregorio di Tours), da subito tuttavia si comprese che la diagnosi doveva tenere conto anche di altri elementi: così non sfuggirono ai medici le diverse forme di emorragie sottocutanee e già lo stesso Fracastoro differenzia gli esantemi della peste da quelli di cui era responsabile invece il tifo petecchiale. In molti testi del XVI secolo le epistassi sono indicate come effetto della peste e si ritiene che possano alleviare gli altri dolori e soprattutto le emicranie. Anche la tosse con sputo di sangue è frequentemente descritta e la maggior parte degli autori, pur ignorandone la corrispondente lesione specifica, intuisce come ad essa si associ un decorso più rapido ed una maggiore letalità. Nella Petite chronique de Saint-Aubin si può leggere: “Et il y avait trois genres de cette épidémie, car quelques-uns crachaient le sang, d’autres avaient sur le corps des taches rouges et brunâtre […], et de ces deux genres aucun n’échappait”. Quando si disponga di questo genere di testimonianze è anche possibile ipotizzare ricostruzioni più dettagliate del quadro epidemiologico (vedi L. Del Panta, 1986): si distinguono così, tenendo presente anche i dati di stagionalità ricavabili dalle fonti censitarie, le epidemie del tipo bubbonico da quelle del tipo pneumonico ed anche le evoluzioni del tipo bubbonico nel tipo pneumonico secondario, se ne può poi cronologizzare il decorso clinico e definire dei tassi differenziali di letalità. Naturalmente l’attendibilità dei risultati è direttamente proporzionale alla quantità ed alla accuratezza delle fonti di cui si dispone (e le fonti documentarie sono per loro natura selettive) ed è un dato di fatto che all’aumentare della violenza epidemica diminuisca la cura con cui censimenti e altri documenti ufficiali erano realizzati, mentre aumenta l’impatto emotivo e, con esso, la

distorsione del reale. Si consideri a riprova di quanto si è detto un ultimo ordine di manifestazioni cliniche a cui nei testi medici è dedicato largo spazio: le turbe nervose di cui la peste è responsabile. Si troveranno elencati stordimento, letargia, allucinazioni, agitazione, ma soprattutto si leggeranno molte pagine come quella qui riportata, scritta da Gassendi nella sua relazione del 1629: “Uno scappa dal letto, scavalca il muro della propria casa e si precipita dal tetto giù per strada, [...], un altro, credendo di essere su di una nave battuta dalla tempesta, prende a gettare per strada tutti i propri averi, come se dovesse sgravare il vascello dei carichi superflui, [...], un’altra, pur gravida, corre sulle mura urlando e vi si precipita, uccidendo sé ed il frutto che aveva in grembo, [...], ancora un’altro scappa dall’ospedale, si dirige a casa dalla sua donna, che cede al desiderio, ed i due

muoiono insieme abbracciati l’uno all’altra”. Queste descrizioni di stati di delirio allucinatorio con tendenza al suicidio sono presenti nella quasi totalità delle cronache degli anni di peste dal XV al XVII secolo. Evidentemente tutti gli autori ne sono molto impressionati. Ma non è semplice chiarire perché questi, insieme ad altri sintomi, siano invece assenti dalle cronache di peste degli ultimi due secoli. Una possibile spiegazione potrebbe risiedere nella modificazione a scopo adattativo da parte di Yersinia pestis: inizialmente l’agente patogeno possiede una elevatissima virulenza, che col tempo, tuttavia, si riduce significativamente, parallelamente al prevalere delle dinamiche di equilibrio patocenotico. Ovvero, dopo un’assenza di poco più di mezzo millennio (l’ultima grande peste, infatti, stando alle fonti scritte, resta quella giustinianea), Yersinia pestis ricomparendo nell’Europa occidentale della metà del XIV secolo, trova una popolazione vergine e genera violentissime esplosione pandemiche che decimano gli individui più deboli insieme agli agenti dotati di maggior potere patogeno. Questo trend, pur plausibile, resta tuttavia troppo schematico e diversi fattori di ordine non solo climatico, ma più in generale ecologico e socio-economico dovrebbero essere valutati, coniugando quindi lo studio di fonti con differenti peculiarità

informative, dall’archeologia ambientale a quella dei manufatti e dei resti umani, ad esempio. Ma anche i fattori di ordine culturale potrebbero non giocare un ruolo secondario in questo

cambiamento. Recentemente l’antropologia culturale (R. M. Hayden, 1996) ha infatti dimostrato come esistano forme di elaborazione del lutto, soprattutto a seguito di un trauma violento ed

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improvviso, consistenti nella rielaborazione di mitologie collettive che fanno uso di forme narrative conformi a stereotipi culturali ricorrenti. In altre parole, nel caso qui in studio, si potrebbe ipotizzare quanto segue: la malattia è vista da molti popoli del passato (vedi anche studi etnografici e del folklore) come possessione da parte di un’entità altra in grado di controllare la volontà del malato; durante la possessione il malato si dimena, è affetto da sudorazione eccessiva e vomita

frequentemente, quasi a voler cacciare il maligno possessore attraverso l’espulsione di liquidi infetti e ristabilendo quindi l’equilibrio tra le già citate parti fluide dell’organismo. Spesso tuttavia la tensione tra possessore e posseduto raggiunge il punto di rottura nel suicidio di quest’ultimo, che pone fine anche alla capacità di nuocere dello spirito possessore, spesso ma non sempre. Pur

volendo tralasciare il motivo iconografico della danza macabra, gesti inconsueti ed incomprensibili, vomito frequente e prolungato ed infine il suicidio sono gli elementi narrativi topici delle cronache fino al XVII sec., poi, gradualmente si attenuano fino a sparire negli ultimi due secoli. Forse anche a causa di un cambiamento nel comportamento di Yersinia?

Infine quanto alle misure terapeutiche, “i medici del periodo tardo-medievale e moderno [...] non avevano in pratica alcuna possibilità di influenzare positivamente il decorso della malattia [...], ma le terapie adottate erano in realtà quasi sempre poco efficaci, spesso inutili e talvolta dannose” (L. Del Panta, 1986). In realtà, oltre ai salassi ed all’incisione dei bubboni, non si trovano altre prescrizioni mediche che non fossero generiche norme d’igiene quotidiana e consigli su come liberarsi dei cadaveri e dei loro effetti personali (col fuoco, soprattutto) senza favorire il contagio. Era anche frequentemente consigliato l’uso di unguenti e profumi, che, oltre che rendere l’aria più respirabile, erano ritenuti in grado di eliminarne insieme agli odori anche le particelle d’aria portatrici del contagio. A questo proposito un forte potere disinfettante era soprattutto riconosciuto al tabacco, così in molte raffigurazioni i monatti sono ritratti con una sorta di pipa, e per le strade si vedono bruciare grandi bracieri da cui fuoriescono nuvole di fumo scuro, mentre “des médicins, en Dauphiné, ne palpent les bubons que le doigt enturé d’une feuille de tabac” (J.-N. Biraben, 1976), le stesse foglie, essiccate, si sarebbero potute vedere perfino tra gli scaffali delle farmacie, sotto la voce “rimedi contro la peste”.

Concludendo, l’ultima delle domande programmatiche qui formulate riguardava il rapporto tra la peste e la professione del medico, cioè, considerando che i medici non furono in grado di cambiare il corso delle epidemie di peste, come la peste riuscì a cambiare i medici? E’ necessario precisare che, se si può parlare di una esposizione differenziale al contagio per diverse classi professionali, quella dei medici rimaneva senza dubbio l’attività più rischiosa. Alcuni dati: nel 1348 a Venezia dei 24 medici operanti in città 20 muoiono entro il primo mese dell’epidemia, 6 su 8 a Perpignan, mentre a Montpellier dopo qualche mese di epidemia non si riesce più a trovare alcun medico, cerusico o speziale ancora vivo. Quando si elencano queste cifre bisogna specificare che molti di essi erano già fuggiti prima di soccombere al morbo e non pochi di essi ricordando come lo stesso Galeno definisse il “principio dell’allontanamento dal luogo del contagio”. Guy de Chauliac, medico del papa Clemente VI ad Avignone, nel XIV secolo, scriveva: “La peste fut inutile et honteuse pour le médicins d’autant qu’ils n’osaient visiter les malades de peur d’être infects et ne gagnaient rien car tous les malades mouraient [...] et moi, pour éviter l’infamie, n’osai point

m’absenter [...] et vers la fin de la mortalité je tombai en fievre continue avec un apostème a l’aine” (in J.-N. Biraben, 1976).

Quello dei medici divenne un problema gravissimo per le istituzioni pubbliche: non solo il nemico era invisibile, veloce, letale ed inarrestabile, ma gli unici in grado, si riteneva, di affrontarlo presto vi soccombevano, oppure fuggivano, nonostante che si offrissero loro onorari levitati di dieci o anche venti volte rispetto alla norma, e questa era di per sé una misura estrema in quegli anni difficili. Le città abbandonate dai medici, strette d’assedio dalla peste, emisero già nel XIV secolo i primi richiami, che presto divennero ordini di rientro e le misure coercitive furono rinforzate prima da pene pecuniarie e poi anche dal divieto, per i fuggiaschi, di esercitare la professione.

Gradualmente si comprese che la peste, pur apparentemente assente, rimaneva sempre in agguato e che bisognava, quindi, prendere delle misure cautelative: così, ad esempio, i consoli di Lione, nel

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1572, un anno in cui Yersinia sembrava offrire alla città francese una tregua, decisero di assumere alcuni medici e speziali, previo obbligo, tuttavia, di esercitare anche in caso di peste. E’ necessario sottolineare che, proprio dal XVI secolo, i richiami ed i provvedimenti sembrano ridursi, le misure coercitive eccezionali, a meno di un secolo dalla loro comparsa, erano state sostituite da

provvedimenti ordinari: i contratti di assunzione per i medici erano redatti tutti, come per il caso di Lione, in anni non epidemici ed alcuni di essi erano indirizzati a nuove figure professionali

specializzate nella cura della peste e permanenti. Il vantaggio per le istituzioni comunitarie era duplice: avere già a disposizione il personale medico necessario (altrimenti irreperibile) al momento dell’esplosione pandemica ed evitare che questo entrasse in contatto anche con individui sani, divenendo così esso stesso vettore di contagio. Si provvide poi anche ad accostarvi figure di supporto, soprattutto nei centri più grandi (e più ricchi), che si occupassero di salassi e medicamenti, gli speziali, insieme ad altre, le ostetriche, che sgravassero le donne incinte.

La peste, in verità, finì col ridefinire tutte le strutture sociali, economiche e politico-amministrative: l’Europa occidentale uscì da quei cinque secoli con un profilo istituzionale ed organizzativo

profondamente diverso e sulle ceneri delle grandi pandemie sorsero i primi istituti di sanità, i bureau de santé. La sanità pubblica era ormai divenuta, infatti, un problema ineludibile per tutti i moderni stati-nazione che avessero conosciuto la peste. La nascita e la trasformazione dei bureau de santé rimane comunque un problema complesso e che meriterebbe una trattazione autonoma e ben più estesa; qui si osserverà solo che quando questi uffici, da magistrature plenipotenziarie e

temporanee (la prima a Venezia nel 1348), divennero istituti permanenti e con compiti ben definiti (la sanità pubblica italiana continuò a detenere un primato non solo cronologico sul resto d’Europa per ben tre secoli), con essi maturava l’inquadramento istituzionale delle professioni medico-sanitarie, così come oggi le conosciamo.

Negli anni in cui la peste seminava il caos, tuttavia, il ruolo giocato dai medici in questo processo formativo si realizzò attraverso posizioni spesso contrastanti ed incongruenti. Mentre i bureau de santé, pur cercando di non seminare il panico con un atteggiamento allarmistico, dovevano spesso adottare misure impopolari, come a Reims, quando per il 1635 fu decretato che fossero bruciati beni mobili ed immobili di proprietà degli infetti e che fossero sospese tutte le occasioni di raduno comunitario e vietati gli assembramenti di persone, ci è giunta documentazione di molti casi,

invece, in cui gli stessi medici furono denunciati dai bureau de santé per aver pubblicamente negato la possibilità del contagio e l’esistenza della peste, rendendo così ancor più difficili da accettare per il popolo le misure di sicurezza decretate. Alla base di questa scelta comportamentale non ci fu solo la fiducia in alcune teorie nosologiche di cui si è già detto, ma anche, forse, un “ipocrita o

ingiustificato ottimismo” (C. M. Cipolla, 1976), una scelta opportunistica, dunque. Il quadro si completa richiamando alla memoria come i bureau de santé emettessero e rendessero esecutivi i decreti, che erano stati però preventivamente delineati da consulti richiesti ai medici stessi. L’esercizio della professione medica negli della peste prevede, dunque, una duplice funzione: operativa, diagnosi e cura del morbo, e consultiva, nella forma di consigli che i singoli governi potevano richiedere a concilii di medici appositamente riuniti (si è più volte citato quello che il governo parigino riunì presso la facoltà di medicina, in occasione della peste del 1348) ed il cui esito era l’indicazione dei rimedi e degli atteggiamenti da tenere per limitare la propagazione del morbo. Talvolta invece, un singolo dottore, spesso di chiara fama, pubblicava un opuscolo, nel quale associava i risultati dei propri studi sull’oscuro male della peste, a generici consigli di igiene personale; e talvolta anche ad opere come queste le istituzioni facevano riferimento per regolare l’atteggiamento da tenere di fronte all’epidemia. Questo spiega il proliferare di simili scritti soprattutto dal XVI secolo.

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