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I processi di formazione degli Stati normanni di Inghilterra e Sud Italia: analogie e differenze

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DIPARTIMENTOnDInCIVILTABnEnFORMEnDELnSAPERE

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STORIAnEnCIVILTAB

Inprocessindinformazionendeglin

StatinNormannindinInghilterranenSicilia:

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Tesinpernilnconseguimentondellanlaureanmagistrale

IlnCandidato

LuiginBriganti

IlnRelatore

MauronRonzani

AnnonAccademicon201342014

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Il fatto che gli uomini non imparino molto dalla Storia, è la lezione più importante che la Storia ci insegna

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Indice

Introduzione

Capitolo1I1-1Feudalesimo1Normanno

Capitolo1II1-1Rapporti1con1il1Papato1e1organizzazione

della1chiesa:1la1concezione1del1potere

Capitolo1III1-1Assimilazione1delle1etnie1nei1due1regni

Conclusioni

Bibliografia

Pag.11

Pag.118

Pag.131

Pag.148

Pag.160

Pag.163

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INTRODUZIONE

Il Regno di Sicilia e il Regno d’Inghilterra sono i due Stati Normanni più importanti del medioevo. Separati geograficamente da migliaia di chilometri e destinatari di fortune del tutto diverse, essi condividono tuttavia alcune analogie, nel processo di formazione, che possono essere ricondotte a un principale elemento comune, che molti studiosi nel corso del tempo hanno definito come Normanitas. Una definizione di questo concetto, sarà data più avanti nel corso di questa introduzione. Nel frattempo è opportuno illustrare gli scopi di questo lavoro.

Partendo dalla considerazione che i due Stati in oggetto hanno rappresentato due entità fondamentali nello sviluppo delle vicende storiche del medioevo centrale, è mio interesse analizzare in questa sede le vicissitudini che hanno portato alla formazione di entrambi e quali sono le analogie, ma anche e soprattutto le differenze, che possono riscontrarsi tanto nel processo di creazione quanto nella gestione dei soggetti politici che dalle rispettive imprese di conquista hanno avuto vita.

Vi sono alcuni elementi che saltano subito all’occhio e che possono essere definiti “estetici”, nel senso che definiscono

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caratteristiche oggettive che non si possono negare, che sono giocano senza dubbio un ruolo di peso nella riuscita dei processi di conquista prima e di consolidamento poi. Il primo di questi elementi è senza dubbio l’appartenenza dei conquistatori ad un gruppo etnico ben definito: i Normanni. Come accennato in precedenza, gli studiosi hanno dibattuto a lungo sull’esistenza o meno di una Normanitas1,

ovvero di caratteristiche che inquadrassero i soggetti promotori delle rispettive conquiste come appartenenti ad un’etnia unitaria, dotata di una propria cultura, una propria esperienza e un certo grado di alterità rispetto ai soggetti conquistati.

Senza dubbio è possibile stabilire alcune di queste caratteristiche come peculiari dei Normanni, come ad esempio l’attitudine alla battaglia e l’esperienza bellica, messa alla prova in più di un’occasione durante la permanenza nella natia Normandia e appannaggio di una classe di cavalieri che spesso si coincideva con l’aristocrazia.

Di certo si può riconoscergli lo sviluppo di una fitta rete di relazioni vassallatiche, che resero il feudalesimo una questione peculiarmente normanna, e non più specialità francese (v. infra). Sviluppo feudale rafforzato dall’accelerazione dei processi di incastellamento, che già in Normandia avevano iniziato a comparire con una certa frequenza fin dall’XI secolo.

Un’altra caratteristica peculiarmente normanna è quella commistione tra Stato e Chiesa, tra potere regale e potere temporale, che vedeva il duca capo dell’amministrazione religiosa: c’erano gli

1 Si confrontino a tal proposito R. Allen Brown, I Normanni – PIEMME, 1998, p. 47 e segg. e H.

Thomas, The English and the Normans. Ethnic hostility, assimilation and identity 1066-c.1220 – Oxford University Press, 2003.

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arcivescovi, ma erano nominati dal duca, ed entrambi «sedevano fianco a fianco, per così dire, a Rouen»2.

Normanitas è l’insieme di tutti questi fattori, ma è anche un

costrutto, per usare le parole di Hugh Thomas3, qualcosa di cui i

contemporanei non avevano coscienza a tal punto da poter asserire che nell’espandersi promuovevano e imponevano attivamente il loro essere Normanni. Per dirla ancora con Allen Brown: «considerare e “fondere” assieme tali elementi al fine di ottenere la Normanitas è forse un’altra questione; certamente tutti contribuirono però a quel senso di sicurezza supremo e sovrano di stampo normanno, reperibile ovunque oltre Manica […]. Certamente nella seconda metà dell’XI secolo la Chiesa normanna aveva molto di cui vantarsi – ecco ancora emergere quell’entusiastica sicurezza di sé che è alla base della Normanitas»4.

Da qui scaturiscono altri due elementi in comune: il primo è l’importazione del sistema feudale, che – come vedremo nel corso della trattazione – ha trovato applicazione in modi diversi e altrettante diverse fortune ha avuto nei due Stati. In Normandia, il sistema feudale era alla base del governo da generazioni, al momento della diaspora normanna, tanto che si ritiene che in questo i Normanni fossero più francesi del Re di Francia5, essendo l’istituto

feudale una caratteristica propria della Francia carolingia. E tuttavia riuscirono a metterci del loro e a renderlo ancora più complesso ed efficiente, rendendo stabile il sistema di gestione statale e solidi i legami di fedeltà che legavano i vassalli al proprio signore.

2 R. Allen Brown, op. cit. p. 59.

3H. Thomas, The English and the Normans, p. 9 e segg.

4 R. Allen Brown, op. cit. pp. 65-68

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La seconda caratteristica è l’assimilazione. Entrambi i gruppi conquistatori si sono trovati immersi in realtà in cui non dovettero fare i conti con un solo gruppo etnico (quello dei conquistati), ma con la presenza di più rappresentanze, ottenendo risultati differenti nella genesi identitaria di un popolo. Ciò è particolarmente vero per la Sicilia, che aveva vissuto quasi due secoli di dominazione araba e proprio grazie ai Normanni venne restituita alla Cristianità, mentre nelle altre regioni componenti il futuro regno (Calabria, Puglia e

Italia) convivevano come vicini, spesso in lotta tra loro, Greci

(bizantini) e Longobardi.

Relativamente meno complicata fu la questione etnica per Guglielmo il Conquistatore e i suoi discendenti, che si trovarono a fare i conti con l’etnia sconfitta degli Anglo-Sassoni (che si ritenevano inglesi) e con poche altre minoranze, come i danesi e gli scandinavi, ai quali potrebbero essere aggiunte le etnie di lingua celtica come i gallesi e gli scozzesi, con cui i Normanni dovettero dialogare, ma che non entrarono mai a far parte – sia identitariamente, sia geograficamente – del regno anglo-normanno, se non come entità autonome o legate da vincoli matrimoniali.

A queste analogie qualitative, si possono aggiungere alcune analogie contingenti che in qualche modo hanno favorito i due processi di conquista. Al momento della Conquista dell’Inghilterra, ad esempio, Guglielmo il Conquistatore e il suo esercito poterono approfittare di una congiuntura di eventi favorevoli alla loro causa: la presenza di nemici interni al regno d’Inghilterra, che minavano l’autorità stessa di Harold Godwineson; la sottovalutazione, da parte di quest’ultimo, della forza del nemico; l’attacco simultaneo della

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flotta del re norvegese Harald Haldrada. A questo si aggiunga la determinazione di Guglielmo nel perseguire la restaurazione di quello che riteneva essere un diritto usurpato, ovvero la sua successione in quanto legittimo erede di Edoardo il Confessore.

Anche in Sicilia i Normanni poterono fare affidamento su episodi favorevoli e del tutto accidentali. Insediatisi in Italia Meridionale fin dai primi anni dell’XI secolo come avventurieri e quindi mercenari, riuscirono a farsi riconoscere, con Rainulfo Drengot, la signoria di Aversa, primo centro normanno nella regione. Da qui, riuscirono abilmente ad approfittare e delle divisioni interne ai signori locali (greci e longobardi) e della indisponibilità dell’esercito bizantino, impegnato per buona parte dell’arco storico della conquista nel gestire la situazione alle frontiere sud-orientali dell’Impero. A questo si aggiunga anche l’iniziale appoggio del Papato, che fece affidamento sulla solida esperienza militare normanna per scacciare dal sud della penisola gli ultimi residui greci, e imporre così la supremazia latina su tutto l’Occidente.

Come si vede, i due processi hanno in comune alcuni elementi generali, che pur presentano differenze al loro interno. Ma l’analisi oggetto di questa trattazione non vuole – e non può – certo fermarsi qui, dal momento che per quante analogie si possano riscontrare tra le parti in causa nei processi in corso, molte sono anche le differenze. A partire dai tempi.

La conquista inglese è avvenuta con notevole rapidità: pianificata all’indomani della presunta usurpazione del trono da

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parte di Harold6 nel 1065, le campagne militari si svolsero tutte tra

l’estate e la fine del 1066. Ci vollero poi all’incirca altri cinque anni per normalizzare la situazione e pacificare definitivamente il paese, ma si può definire il processo una “conquista lampo”.

Ben diversa fu invece la situazione in Italia Meridionale, dove la penetrazione normanna fu lenta e graduale, iniziò tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo e terminò con la creazione di uno Stato unitario solo alla metà del XII secolo. In poco meno di due secoli, i Normanni del Sud si attirarono le invidie, gli asti e le inimicizie di quasi tutta la Cristianità latina, spronata dal Papato che voleva imporre il suo dominio sull’Italia Meridionale, e dall’Impero d’Oriente, che allo stesso modo voleva recuperare quelle terre, perdute proprio a causa dei Normanni.

Un’altra differenza riguarda i protagonisti. La Conquista dell’Inghilterra è l’impresa di un solo uomo: Guglielmo il Conquistatore. Sua è l’iniziativa, sua è la determinazione, sua è la vittoria. Di contro la Conquista dell’Italia Meridionale assume i tratti di una saga familiare: il regno venne fondato infine da Ruggero II, ma il processo fu iniziato dai suoi antenati, quegli otto figli di Tancredi di Hauteville, che sul finire del X secolo partirono in cerca di fortuna e la trovarono assumendo ciascuno il controllo di una signoria in Sud Italia.

Se Guglielmo era un capo di Stato, un nobile di alto rango (il Duca di Normandia), gli Altavilla erano i discendenti di un’aristocrazia minore, che aveva le sue basi nel piccolo centro di

6 La tradizione – soprattutto di parte normanna, come si evince da alcune fonti, per esempio

l’Arazzo di Bayeux – vuole che nel 1065 Harold, si recasse in Normandia a rendere omaggio a Guglielmo e a giurargli sostegno nella sua rivendicazione del trono. Vedi infra.

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Hauteville in Normandia, troppo piccolo per poter garantire a ciascun erede la parte che gli spettava.

Guglielmo partiva alla conquista di un regno straniero perché il diritto era dalla sua parte: era il legittimo erede di quel trono e doveva riprendersi ciò che era suo di diritto. Dall’altra parte, gli Altavilla erano mercenari e avventurieri, che avevano conquistato la fiducia dei loro datori di lavoro prima ancora che le terre su cui si sarebbero insediati. Carpirono i segreti e i punti deboli, le diffidenze, le inimicizie, le divisioni interne dei loro futuri avversari e sfruttarono tutte queste informazioni, unitamente alla loro eccelsa preparazione bellica, per sferrare l’attacco finale. I Normanni del Sud iniziarono il processo di conquista perché potevano farlo.

Queste sono le analogie e le differenze più evidenti tra i due episodi di conquista, ma ce ne sono altre, più profonde, che si riscontrano anche e soprattutto nella gestione dello Stato, nell’organizzazione della società, nella produzione culturale, nei rapporti con le potenze estere, in particolare con il Papato. I prossimi capitoli affronteranno appunto ciascuna di queste questioni, che hanno prodotto esiti differenti a causa anche delle particolarità riscontrabili a livello locale.

Alla fine di questo lavoro si arriverà a sollevare una nuova questione circa la Normanitas chiedendosi, e provando a darsi una risposta, se non fosse una conseguenza della Conquista, piuttosto che una premessa. Prima però, occorre fornire una rapida panoramica storica degli eventi per come si sono succeduti nelle due Conquiste.

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LA CONQUISTA NORMANNA DELL’INGHILTERRA

I. Background storico e ascesa dei Godwineson.

Quando nel 1066 moriva Edoardo il Confessore, la presenza normanna in Inghilterra era stata del tutto blanda nei secoli precedenti. Eppure fu proprio la relativa casualità dell’arrivo di Emma di Normandia, figlia di Riccardo I duca di quella regione, ad aprire la strada alle mire di Guglielmo il Conquistatore circa 60 anni prima. Nel 1002 Emma venne infatti data in sposa a Æthelræd, re inglese della stirpe anglo-sassone e nel 1016, all’indomani dell’invasione danese dell’Inghilterra, fu presa in moglie dal conquistatore Canuto. Con entrambi i re, Emma generò dei figli, tra cui quell’Edoardo il Confessore in qualche modo protagonista delle vicende che portarono alla conquista normanna dell’Inghilterra.

Ma i destini di Emma sono legati anche all’ascesa di un altro dei protagonisti degli eventi del 1066, ovvero Harold Godwineson, figlio di quel Godwine conte del Wessex che all’indomani della morte di Canuto (1035), sostenne suo figlio Harthacanuto alla successione. La vicenda fu travagliata, poiché al trono era pretendente anche Harold I, figlio naturale di Canuto nato da una relazione con una nobildonna inglese. Fu proprio questi a spuntarla alla fine, riuscendo a mettere da parte Emma e a guadagnarsi il supporto di Godwine consolidando così il proprio potere sull’Inghilterra, mentre Harthacanuto era impegnato a fare altrettanto in Danimarca.

Fu comunque nel 1040 che il figlio legittimo di Canuto ed Emma decise di recuperare i suoi diritti successori nell’isola, deciso a

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muovere guerra all’usurpatore. Sulla via dell’invasione, Harold I morì, lasciando ad Harthacanuto la via libera per prendere il potere.

Alla sua morte due anni più tardi, gli successe il fratellastro Edoardo, detto il Confessore, che fino a quel momento era stato in esilio in Normandia, portatovi dalla madre all’incirca 30 anni prima, per sfuggire all’invasione danese dell’Inghilterra7. In tutto questo

Godwine non rimase a guardare: sostenitore prima della causa di Harthacanuto, poi passato al nemico Harold, e nuovamente ritornato nelle grazie del primo, alla morte di questi appoggiò in toto la successione di Edoardo il Confessore, con cui si legò anche tramite matrimonio, dandogli in sposa la figlia Edith. Le fortune della famiglia Godwineson (come a posteriori è stata chiamata tale stirpe dagli storici) continuarono grazie ai privilegi concessi ai suoi discendenti dal re, il quale conferì il rango di conte a entrambi i figli di Godwine (Swein e Harold). Ma la famiglia aveva anche una larga base di potere derivante da «enormi abilità politiche. […] Godwine aveva accumulato un immensa rete di proprietà fin dal tempo della morte di Canuto, sebbene sia difficile dire quanto fosse estesa. Lui e i suoi figli guadagnarono terre attraverso una varietà di mezzi, alcuni dei quali assolutamente legittimi, ma altri dubbi: doni dal re, appropriazioni da varie chiese, lasciti testamentari, e senza alcun dubbio acquisti».8 Insieme a tutto ciò, va considerata inoltre una fitta

rete di relazioni con la nobiltà ad ogni livello.

Fu proprio a causa di queste risorse e del modo in cui i Godwineson vi diedero fondo, mettendosi in aperta rivolta con il re,

7 Ad opera del re Swein I, padre di Canuto.

8 H. Thomas, The Norman Conquest, England after William the Conqueror, Roman&Littlefield

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che nel 1051-1052 Godwine e Harold furono allontanati dall’Inghilterra.

II. Guglielmo il Conquistatore

È a questo punto che entra in scena Guglielmo il Conquistatore. Figlio bastardo del precedente duca di Normandia Roberto, Guglielmo fu soprannominato appunto il Bastardo finché non condusse la campagna di conquista dell’Inghilterra. Era un nobile dotato di impressionanti capacità militari – come tutti i Normanni a quel tempo, del resto – che aveva messo ripetutamente alla prova sfidando il re di Francia nella difesa del proprio ducato dalle mire espansionistiche di questi. Di diritto il ducato di Normandia era vassallo francese, ma tutti i duchi avevano sempre rivendicato la propria autonomia e di fatto la esercitavano a dispetto dei legami feudali.

Le Cronache Anglo-sassoni riportano che nel 1051 Guglielmo si recò in Inghilterra proprio durante l’assenza dei Godwineson e lì ricevette da Edoardo la designazione ad erede al trono, vista l’assenza di eredi diretti. Difficile credere che Edoardo possa aver tenuto viva questa ipotesi negli anni che seguirono, prima della sua morte, fatto sta che le fonti – soprattutto di parte normanna – riportano l’episodio, avvenuto tra il 1064 e il 1065, in cui Harold sbarcò in Normandia per recarsi alla corte di Guglielmo, e qui prestò giuramento di appoggiare il duca nelle sue rivendicazioni al trono.

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L’episodio può essere considerato propagandistico, ma nei fatti rappresenta l’unico motivo valido perché Guglielmo potesse reclamare il trono d’Inghilterra, non essendo la sua parentela con Edoardo così stretta da poter giustificare una successione legittima.

Dal canto suo, non molto più tardi Harold rivendicò la sua successione basandosi sulla promessa fatta da Edoardo stesso sul letto di morte (1066). Benché ci si possa domandare cosa possa aver fatto cambiare idea al Confessore nei confronti della famiglia da lui tanto osteggiata9, le

fonti dell’epoca, tra cui la Vita Ædwardi Regis10 e la Vita Wilelmi riportano questa versione dei fatti, che per altro Harold sostenne sempre a viva forza.

Per questi motivi, Harold reclamò per sé il trono di Inghilterra nel 1066 e Guglielmo, forte del giuramento che da quegli aveva ottenuto, organizzò la spedizione dell’estate di quello stesso anno per riprendere ciò che riteneva suo di diritto.

Come è stato già accennato, la campagna per la Conquista da parte di Guglielmo poté contare su alcuni episodi favorevoli per le armate normanne: prima su tutte la coincidenza di una spedizione analoga condotta da Harald Hardrada, re di Norvegia, il quale non aveva certo più diritti degli altri due pretendenti, ma cercò ugualmente di approfittare del vuoto di potere per assicurarsi il dominio sull’isola. Nel frattempo, il fratello di Harold, Tosti, si ribellò per l’ennesima volta (in precedenza lo

9 H. Thomas, ibid. p. 18.

10 «‘Hanc’ inquit, ‘cum omni regno tutandam tibi commendo, ut pro domina et sorore ut est

fideli serves et honores obsequio, ut, quoad vixerit, a me adepto non privetur honore debitu. Commendo partier etiam eos qui nativam terram suam reliquerunt causa amoris mei, michique hactenus fideliter sunt osecuti, ut, suscepta ab eis, si ita volunt, fidelitate, eos tuearis et retineas, aut tua defensione conductos, cum omnibus quae sub me adquisierunt, cum salute ad propria trans[fr]etari facias.» da The Life of King Edward who rests at Westminster attributed to a monk of St.

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aveva fatto con Edoardo) e impegnò parte delle forze inglesi, comandate da altri due fratelli del re, Edwin e Morcar, che lo sconfissero e mandarono in esilio definitivamente.

Approfittando di questi tumulti, che tenevano impegnate le forze nemiche su più fronti, Guglielmo e i suoi seguaci normanni (di cui facevano parte cavalieri giunti anche dal Meridione d’Italia) misero in pratica tutte le loro abilità belliche saccheggiando le terre su cui transitavano, mettendole a ferro e fuoco, per indebolire il nemico e fiaccarne il morale, erigendo i caratteristici castelli motte-and-bailey11 che

successivamente diventeranno parte integrante del paesaggio inglese tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo.

Lo scontro finale ebbe luogo il 14 Ottobre di quello stesso anno a pochi chilometri da Hastings, nel Sussex, una battaglia in cui le forze normanne poterono dare sfogo a tutta la loro preparazione e abilità militare, impressionando e sgominando gli avversari con le loro tecniche di combattimento a cavallo e l’uso di armi “non convenzionali” di nuova invenzione come le balestre. Ancora una volta l’Arazzo di Bayeux descrive, seppur con l’esagerazione di una fonte di parte, le varie fasi della battaglia e esprime con crudezza e realismo la violenza messa in campo e le perdite subite da entrambe le parti.

LA CONQUISTA NORMANNA DELLA SICILIA

Si è già accennato in precedenza di come tra l’arrivo dei primi Normanni nel Mezzogiorno d’Italia e la formazione del regno siciliano

11 Si tratta di strutture fortificate costituite da una collina (spesso artificiale) sormontata da un

fortilizio e circondata da un fossato che la separa da una seconda struttura circondata da fortificazioni posta alla sua base e che accoglie i quartieri dei soldati.

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siano trascorsi quasi 130 anni. Poiché lo spazio per la trattazione è ristretto e il compito di questi paragrafi è fornire una sinossi degli avvenimenti che hanno portato al risultato finale, fornirò qui una lista schematica degli eventi salienti dell’avventura normanna al Sud.

I. I primi Normanni in Italia.

Come già accennato in precedenza, la conquista della Sicilia e la seguente formazione del relativo stato normanno, sono eventi avvenuti in maniera graduale, i quali coprono un arco temporale di oltre un secolo.

Gli arrivi dei primi normanni assumono i caratteri di pellegrinaggi penitenziari, come dimostra la storia di Rainulfo Drengot e dei suoi fratelli, che giunsero in Italia – insieme ad un battaglione di 250 uomini d’arme – per compiere un pellegrinaggio al santuario di San Michele al Gargano (1017), dopo che uno di loro, Osmondo, aveva assassinato un parente del duca di Normandia Riccardo II (zio del futuro duca Guglielmo). In Italia, Rainulfo e i suoi compagni si proposero come guardie del corpo per i pellegrini in visita al santuario pugliese e ben presto si fecero la fama di validi mercenari, mettendosi al servizio dei vari signori locali.

Parteciparono dapprima alla fallimentare seconda insurrezione anti-bizantina di Melo di Bari (poi passato egli stesso al nemico cui si era ribellato - 1018); quindi offrirono le loro abilità militari ai vari principi longobardi della Campania, potendo saggiare le rivalità che scorrevano tra i singoli signori locali. Fu a seguito dell’appoggio a Sergio IV duca di Napoli che Rainulfo ottenne in ricompensa la titolarità della contea di

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Aversa (1030), che divenne così la prima enclave normanna in sud Italia e aprì le porte ad una penetrazione più massiccia.

In questi anni giunsero in Italia Meridionale anche gli otto figli di Tancredi conte di Hauteville in Normandia. Guglielmo, il maggiore di essi, aveva guidato tra il 1038 e il 1040 la spedizione bizantina in Sicilia, poi abbandonata insieme alle forze longobarde per una serie di dissidi tra queste e i bizantini. Al suo rientro a Melfi, altra roccaforte normanna, fu eletto capo dei Normanni e grazie all’intermediazione del principe di Salerno Guaimaro V fu consolidata l’alleanza tra gli Altavilla e i Drengot, con l’investitura di Guglielmo del rango di Conte di Puglia e la riconferma a Rainulfo del titolo di Conte di Aversa (1043). Ne seguì anche una serie di giuramenti vassallatici ai due da parte di tutti i baroni del loro contado.

Fu proprio l’investitura di Guglielmo della Contea di Puglia che diede il via sia alle vicende normanne in Sud Italia, sia alle ostilità di questi con i vari soggetti. All’indomani di tale avvenimento, infatti, Enrico III imperatore della Germania scese in Italia (1047) per assicurarsi l’appoggio e la fedeltà dei nuovi protagonisti della scena meridionale. Dopo di allora nessun altro imperatore sarebbe tornato a interessarsi del Mezzogiorno prima del 1137, ma nel frattempo i Normanni seppero curare i propri interessi con estrema dedizione attirandosi le inimicizie tanto della popolazione locale, quanto del papato che ben presto intuì la pericolosità del nuovo gruppo dirigente. Del 1053 è la prima vittoria normanna contro le forze combinate di papato e principi locali non ancora assoggettati.

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II. Roberto il Guiscardo.

Nel frattempo erano deceduti Guglielmo e Drogone, che già si erano distinti come abili capi e condottieri ed avevano rivestito uno dopo l’altro il ruolo di conti di Puglia. Il loro successore era il loro terzo fratello Umfredo, che nel 1053 guidò le forze normanne contro quelle imperiali e papali nella battaglia di Civitate. Alla sua morte (1057) restavano in vita gli ultimi due figli di Tancredi: Roberto detto il Guiscardo e Ruggero. Il primo successe come conte delle terre di Puglia (da cui furono scacciati definitivamente i bizantini tra il 1060 e il 1072) e Campania, il secondo era duca di Calabria e della Sicilia non ancora ricondotta al controllo cristiano (la cui conquista definitiva data al 1093).

Come conte di Puglia, Roberto provvide a imporre la sua autorità sulle terre confinanti, e ben presto sottomise Capua e Salerno, dando ancora prova della sua abilità e forza. Ma non delle sue intenzioni: secondo Donald Matthews «è del tutto evidente che le ambizioni di Roberto non lo avevano guidato verso la prospettiva di fare dei propri domini un corpo politico unitario» e conclude che «se il Guiscardo aveva ambizioni a lunga scadenza, non ci è dato sapere quali fossero»12.

Alla sua morte (1085) una disputa sulla successione si accese tra Boemondo, figlio del primo matrimonio con Alberada, e Ruggero Borsa, figlio della seconda moglie Sichelgaita (longobarda). Fu quest’ultimo a spuntarla, ma concesse ugualmente al fratellastro vaste terre, tra cui il principato di Taranto. Boemondo abbandonò poi i suoi averi pugliesi per partire per la crociata, dove successivamente si distinguerà per abilità militari e si porrà a capo del principato normanno di Antiochia.

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III. Ruggero Gran Conte di Calabria e Sicilia e Ruggero II

Ruggero a partire dal 1072 iniziò la riconquista della Sicilia, dove via via che vennero scacciati gli arabi si provvide a restaurare alcune diocesi e a crearne alcune ex-novo.

Alla morte del Guiscardo, Ruggero non accampò alcun diritto successorio, anche perché ne aveva ben pochi. Né negò ai suoi nipoti, eredi di Puglia, i diritti che avevano naturalmente in Calabria. L’ultimo figlio di Tancredi d’Altavilla si preoccupò piuttosto di consolidare il suo prestigio – derivante dalle imprese di Sicilia – nelle terre che controllava. E proprio in Sicilia dovevano concentrarsi gli ultimi sforzi, essendo l’isola non ancora interamente in mano cristiana e qui ricondotta nel 1093 con la presa di Palermo13.

Fu suo figlio Ruggero II a palesare le ambizioni di un regno unitario. Questi si scontrò con suo cugino Guglielmo, figlio di Ruggero Borsa, al quale contese la supremazia non solo sulle terre di Calabria – di cui mirava a ottenere un’indipendenza totale – ma ben presto anche sulla Puglia.

Siamo nei primi anni ’20 del XII secolo ed è proprio in questo frangente che hanno inizio le ostilità tra Ruggero II e i baroni normanni del Sud della penisola, capeggiati da Roberto di Capua e Rainulfo d’Alife e con il pieno supporto sia del papato sia dell’impero, ai quali si aggiungeranno, dagli anni ’40 in poi, anche le forze bizantine.

13 Un resoconto dettagliato delle imprese di Ruggero in Calabria e Sicilia viene fornito dal De rebus gestis

Rogerii Calabriae et Siciliae Comitis et Roberti Guiscardi Ducis fratris eius di Goffredo Malaterra che rappresenta, insieme all’Historia Normannorum di Amato di Montecassino e al Chronicon Beneventanus, la fonte più autorevole e dettagliata della storia di questo periodo.

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Alla fine la spuntò Ruggero II, ma fu solo con Guglielmo I il Malo, suo figlio, che il regno verrà finalmente consolidato e riconosciuto da tutti i principi della cristianità, papa incluso. Nell’anno in cui assunse la coreggenza, il Regno di Sicilia, Puglia e Calabria (secondo la denominazione ufficiale) comprendeva tutto il territorio dell’Italia Meridionale dall’odierno Abruzzo in giù e tali confini restarono pressoché invariati per altri otto secoli, fino all’impresa dei Mille nel 1860, essendo quindi lo Stato unitario più vasto e longevo d’Italia.

Da questo breve excursus sui Normanni in Sicilia ho volutamente lasciato fuori le varie vicende che hanno visto scontrarsi a più riprese il papato con gli Altavilla, in particolare con Ruggero II. L’argomento costituirà materia di un capitolo interamente dedicato e verrà pertanto trattato e approfondito in quella sede.

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CAPITOLO I

FEUDALESIMO NORMANNO

È già stato accennato nell’introduzione a questo lavoro di come sia tendenzialmente accettata l’equazione “Normanni = Feudalesimo”. Nonostante, al momento del loro insediamento in Normandia prima e nei territori conquistati di Inghilterra e Italia meridionale, il feudalesimo fosse già un’istituzione affermata in Francia, i Normanni seppero farla propria e darle delle connotazioni peculiari che resero possibile la sua “esportazione” oltre i confini del ducato.

Obiettivo di questo capitolo è quello di analizzare in che modo il sistema feudale è entrato nell’ordinamento amministrativo dell’Inghilterra e dell’Italia meridionale e quali sono stati i risvolti sul piano sociale ed economico in entrambi i regni.

In entrambi i casi qui in oggetto di studio bisogna domandarsi se l’introduzione del feudalesimo significò una vera e propria rivoluzione nei “costumi” istituzionali. L’interrogativo non è banale, perché fa riferimento ad un sistema che – oltre a garantire al signore feudale (in questo caso il re) – l’apporto sufficiente di uomini per difendere le proprie terre,

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rappresentava un vero e proprio sistema di gestione della terra, con tutto ciò che ne conseguiva a livelli economici.

Per affrontare il problema nei due Stati Normanni sono necessari innanzitutto dei caveat che ci servano a tenere presente che paragoni tra le due realtà sono utili solo se decontestualizzati: stiamo parlando di due realtà politiche che si sono formate in epoche diverse e a distanza di circa un secolo l’una dall’altra, quindi è rischioso affermare per entrambe che il “merito” dell’introduzione del feudalesimo è da attribuire ai Normanni, e come vedremo, non è del tutto vero neanche per la sola Inghilterra.

Ad aiutarci nello scioglimento di questo interrogativo abbiamo rispettivamente ancora Hugh Thomas e Gabriella Piccinni. In particolare quest’ultima si domanda, ed è interrogativo che ripropongo qui, “i Normanni, al loro arrivo, trovarono già qualche forma di signoria alla quale adattarsi, in grado di suggerire – che so io – almeno i luoghi di insediamento del centro signorile, o almeno i confini dei territori sottoposti, o le modalità di rapporti con i contadini, l’entità del prelievo?”1

La domanda viene posta per il caso italiano, ma vale anche per quello inglese, per il quale Hugh Thomas ci dice che tanto il possesso fondiario, quanto il patronato – cioè la potestà di dispensare terre ai propri sottoposti – rivestivano un’importanza cruciale tanto per l’Inghilterra,

quanto per la Normandia nell’epoca pre-Conquista2. Prima dell’impresa di

Guglielmo, il territorio inglese era organizzato in hides (singolare hide), termine che non trova corrispettivo nella lingua italiana e che azzarderei a tradurre con il termine “famiglia”, vista la somiglianza con il concetto Romano di familia. Tale sistema prevedeva che ad ogni area venisse

1 G. Piccinni, Regimi signorili e conduzione delle terre nel Mezzogiorno continentale in I caratteri

originari della conquista normanna. Diversità e identità nel Mezzogiorno (1030-1130). Atti del Centro di Studi Normanno-Svevi 16, a cura di Raffaele Licinio e Francesco Violante, Bari 2006, p. 191

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assegnato un certo numero di hidage, un’unità amministrativa in base alla quale venivano raccolte le tasse. Ogni hidage poteva avere anche più di un

hide e quindi generare maggiori introiti. La differenza la faceva il numero hides che insistevano sullo stesso hidage. Questo sistema di gestione della

terra – che pure rimase in vigore fino al XII secolo inoltrato, quindi ben oltre il regno di Guglielmo – serviva anche a garantire al re il supporto militare necessario alla difesa del regno. Quest’ultimo aspetto fu sostituito dai Normanni con il sistema delle quote, secondo il quale ciascuna unità territoriale avrebbe dovuto garantire un determinato numero di uomini al re o al signore che ne faceva richiesta.

Se sotto Edoardo il Confessore il re era il più grande possidente individuale di terra, il benessere e la ricchezza era comunque concentrato in larga parte nei possedimenti della famiglia Godwine e anche la Chiesa deteneva una buona percentuale delle terre inglesi.

Con Guglielmo, i possedimenti reali furono raddoppiati e la distribuzione di terra fra i nobili fu ridotta a non più di un paio di centinaia di famiglie. Per il nuovo sovrano normanno e per i suoi discendenti, la terra fu un mezzo per garantirsi la lealtà dei nobili e degli alleati – come vedremo fra poco – e la sua distribuzione poteva avvenire secondo quattro forme diverse:

a) tramite la nomina dei suoi seguaci ad eredi degli antichi proprietari Anglo-sassoni;

b) consegnando blocchi di territorio a singoli signori, specialmente in aree militarmente sensibili;

c) raggruppando le terre di proprietari minori e affidandole a un singolo

signore;

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Sotto questo aspetto, da una parte si ebbe una certa continuità laddove i vecchi proprietari furono sostituiti con i nuovi; dall’altra parte, molte terre un tempo appartenute a signori diversi, furono accorpate per essere affidate ad un unico signore, producendo quella restrizione di proprietà a poche famiglie cui si accennava prima.

Tuttavia, questi effetti a lungo termine furono contrastati da due fattori: alcune rivolte frequenti costrinsero tanto Guglielmo quanto i suoi successori a spezzettare nuovamente le terre in mano a signori troppo potenti; altre volte il processo prese il via su iniziativa dei signori stessi, che non volendo rinunciare alle proprie terre optarono per una loro suddivisione e successiva spartizione con nobili minori al loro servizio.

Questo argomento ci porta ad affrontare il problema del feudalesimo. Qualunque fosse il metodo attraverso il quale un nobile giungeva in possesso di un pezzo di terra, questo non era realmente suo, egli non ne aveva il possesso pieno, ma non era altro che un concessionario, il quale poteva godere dei frutti della terra che occupava grazie appunto alla concessione del sovrano. Questo concetto – benché sconosciuto con il termine “feudalesimo” ai contemporanei di Guglielmo I – fu portato in Inghilterra dai Normanni e la differenza principale con il precedente sistema di gestione della terra sta proprio qui: esso consisteva in una rete di relazioni che coinvolgeva in primo luogo il signore – il sovrano – e il suo vassallo, ma si estendeva anche ad altre figure che a loro volta dipendevano dal vassallo e potevano altresì instaurare gli stessi rapporti con individui di grado più basso, fino a creare una vera e propria piramide.

Si trattava di connessioni talmente forti che resero altrettanto indissolubile l’equazione “possesso di terra = cavalierato” (dove per

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cavalierato s’intende le forze militari sufficienti richieste dal signore al vassallo quando necessario) e diede luogo a tutta una serie di istituti chiamati “onori” che il vassallo doveva rispettare.

Gli onori altro non erano che le terre date in concessione a un nobile e a ciascuna delle quali erano assegnate delle quote di cavalieri che il nobile doveva garantire al sovrano in caso di necessità. Per raggiungere la quota richiesta, il nobile poteva suddividere la quota tra i suoi vassalli per raggiungere il numero di cavalieri dovuti al re. La caratteristica principale del feudo era che non era ereditario: il re concedeva una terra in feudo al suo vassallo a vita o finché ne fosse degno, ma alla sua morte sarebbe tornato nelle disponibilità del sovrano. Da questo punto di vista, si capisce ancora una volta perché la signoria e il patronato (o mecenatismo) fossero importanti legami sociali: da un lato il signore necessitava di un seguito per dimostrare il suo status3; dall’altro chi lo

seguiva si metteva a sua disposizione per sostentamento, supporto o ricompense di varia natura.

Tali legami, seppur non propriamente feudali, erano in vigore anche prima della Conquista Normanna e tutto ciò che Guglielmo I fece fu soppiantare la vecchia nobiltà e i vecchi signori con i nuovi. Oltre ovviamente a rendere la terra il collante delle alleanze che si venivano a creare. Tuttavia, nel breve termine furono modificati alcuni aspetti degli istituti della signoria e del patronato. Thomas ne individua quattro4:

a) la guerra fu condotta in un paese straniero, dove gli abitanti erano differenti dagli invasori per lingua, cultura e tradizioni. Ciò può aver

3 Più il seguito era nutrito, più importante e influente era il signore. 4 Hugh M. Thomas, op. cit., p. 75 e segg.

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rafforzato i legami fra signore e seguaci in maniera ancora più solida, grazie alla condivisione di una cultura comune.

b) Come già accennato in precedenza, si rafforzò l’equazione “possesso di terra = servizio militare” e si venne ad aggiungere un terzo elemento: la signoria.

c) Il possesso di terra garantito tramite i legami feudali diede vita ad una vera e propria gerarchia piramidale che emanava direttamente dal re e che Guglielmo stesso contribuì a creare approfittando dello smantellamento della vecchia aristocrazia.

d) È all’avvento dei Normanni che – sempre secondo Thomas – si deve l’istituzione delle quote.

Diversa la questione per quanto riguarda il breve e lungo periodo, in quanto le conseguenze si ebbero non in campo militare, ma nella sfera sociale. L’introduzione delle quote fece in modo che il legame di patronato fosse esplicitamente richiesto da chi aveva voglia di farsi una posizione mettendosi al servizio di un signore: se negli anni immediatamente successivi alla Conquista gli onori erano concessi dal re ai nobili e da questi ai vassalli, con il passare del tempo si ebbe un rovesciamento di interessi e si finì con l’avere seguaci, cavalieri e nobili interessati a mettere le proprie capacità o le proprie ricchezze a disposizione del signore o del re in cambio degli onori.

Strettamente legato a questo aspetto, vi è il fenomeno della sub infeudazione, ovvero ciò che abbiamo già visto in precedenza con la spartizione degli onori acquisiti da un nobile in favore di nobili minori che gli garantissero le quote richieste dal re. Ben presto il fenomeno si tramutò in problema, specie quando alla morte del feudatario, il re si trovava a fare

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i conti con gli innumerevoli vassalli di quello, i quali reclamavano ciascuno il proprio diritto sulla terra che gestivano.

Nel lungo periodo, gli “effetti collaterali” furono ancora più marcati: innanzitutto il sistema delle quote venne a soppiantare totalmente quello degli hidage; in secondo luogo, Guglielmo diede la possibilità ai signori feudali di godere di alcuni diritti sulle terre dei propri vassalli, come ad esempio quello di raccogliere le tasse in quelle terre appartenute a un tenutario morto: se questi avesse avuto un figlio ancora non in età da combattimento, la tassa sarebbe servita a pagare un guerriero che lo sostituisse finché non fosse in grado di combattere. Ciò comportò un effetto derivato, ovvero la possibilità, per un signore che non fosse in grado di garantire al re la sua quota, di pagare una somma in denaro corrispondente all’ingaggio dei cavalieri dovuti.

È possibile affermare che il sistema creato da Guglielmo sia stato d’ispirazione per la monarchia Normanna del Sud Italia? Riprendendo la domanda iniziale della Piccinni, bisogna analizzare come fosse la situazione nell’Italia Meridionale – Sicilia esclusa – quando vi giunsero i conquistatori Normanni. Partendo dalla considerazione che per anni si è visto il fenomeno signorile come una peculiarità esclusiva dell’Italia settentrionale, l’excursus della Piccinni vuole invece dimostrare – e per certi versi lo fa – che la realtà è ben diversa e anche il Meridione, seppur con tempi, modi e “quantità” differenti, ha vissuto la sua esperienza signorile anche prima dell’arrivo dei Normanni.

Dunque, qual era la situazione prima del loro arrivo? Bisogna innanzitutto fare i conti con la frammentazione politica e territoriale cui

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l’Italia meridionale era sottoposta: i principati Longobardi da un lato, la Puglia e la Calabria bizantine dall’altro, la Sicilia araba.

Nelle aree di diritto bizantino, la quasi totale assenza di istituti di natura feudale è da ricondursi alla centralizzazione del potere politico, affidato a funzionari imperiali che lo esercitavano in nome e per conto dell’imperatore. Lo stesso non può dirsi per le aree di diritto longobardo, dove l’istituto feudale era già in uso da diverso tempo. Un vecchio saggio di Antonio Rinaldi (1886)5 propone un approfondimento sulla questione

feudale in Italia meridionale e – documenti alla mano – ne conclude che la soggezione dei principati longobardi al Regno Franco, a seguito della fine del Regno d’Italia abbia aperto la strada all’introduzione del feudalesimo anche nell’Italia meridionale, con le modalità che vado a illustrare.

Innanzitutto il Rinaldi parte dalla considerazione che alcuni documenti degli anni 874, 999 e 1058 fanno riferimento a “vassalli”, in relazione alla composizione del guidrigildo, ovvero la multa dovuta per l’assassinio di un nobile. Nel principato Beneventano l’omicidio di un vassallo comportava il pagamento di 10.000 bizantini d’oro, cifra di tre volte superiore a quella dovuta per l’omicidio di un nobile6. Questa prima

testimonianza dà già un’idea della presenza dell’istituto feudale in Italia meridionale, dal momento che la denominazione di vassallo assume connotazioni specifiche di quel determinato contesto giuridico. Ma di per

5 A. Rinaldi, Dei primi feudi nell’Italia meridionale, Anfossi, Napoli 1886. Ho dovuto affidare mio

malgrado l’analisi di un argomento tanto complesso ad un testo di 130 anni fa. Nella ricerca di materiale utile alla stesura di questo lavoro mi sono imbattuto in numerosi titoli che affrontassero l’argomento del feudalesimo in Italia meridionale in epoca Normanna e pre-Normanna. Alcuni di questi lavori si sono rivelati mediamente utili, come il citato intervento della Piccinni nelle Giornate di Studio Normanno-Sveve, altri hanno dimostrato di sfiorare soltanto l’argomento, senza approfondirlo. Altri ancora – e questo è per me motivo di lamentela – benché recenti, si sono dimostrati irreperibili tanto sul web, dove pure ho trovato molto materiale, quanto in cartaceo sia presso le biblioteche italiane (ne ho contattate diverse anche importanti, specie del Sud) che presso le case editrici che hanno curato l’edizione di quei lavori.

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sé questo solo elemento non è sufficiente a dare il senso della questione e infatti lo stesso Rinaldi si propone di «studiare il contenuto delle donazioni, poiché se ci riesce di scoprirvi la potestà di far popolo, di governarlo, di godere i beni, di esercitare in una parola diritti dominicali e signorili, non possiamo non ravvisarvi l’essenza del feudo, qualunque possa essere stata la parola o la forma di concessione»7.

Innanzitutto la potestas coadunandi ovvero la facoltà del concessionario di radunare, sulle terre concesse dal sovrano, liberi homines per affidargli il lavoro della terra in un contratto di servitù. Tale potestas risulta concessa da Landolfo e Pandolfo di Capua nel 951 all’abbazia di Montecassino, dando per altro connotazione ereditaria al privilegio concesso. Si apre qui la parentesi circa l’ereditarietà della concessione feudale in epoca tardo-longobarda. Il diritto di successione era un cardine di questo feudalesimo longobardo fin dal principio, il che dimostra che tale istituzione nacque o si sviluppò in Italia meridionale già con le caratteristiche proprie dell’ultimo stadio evolutivo che il fenomeno conobbe nel resto dell’Europa feudale. A testimoniare questa sua caratteristica sono due diplomi concessi rispettivamente da Landolfo e Pandolfo di Capua (997) e Guaimaro e Giovanni di Salerno (1017) a monasteri dei rispettivi contadi.

In secondo luogo, alla concessione di cui sopra viene legato il potere giurisdizionale, aspetto cardine dell’istituzione feudale: sono ancora diplomi dei principi di Capua e di Salerno, ancora in favore di monasteri, a garantire i diritti giurisdizionali sulle terre concesse in feudo8.

7 Ibid. p. 125.

8 Ibid. pp.130-131: Concedimus et confirmamus in praephato Monasterìo, ut nullus Comes, aut iudex, vel

Schuldahìs, aut qualibet alius homo de sub nostra dicione, videlicet supra dictis Civitatibus audeant aut praesumant iudicare, aut qualibet violentiam facere de qualiscumque causaciones, aut intenciones, vel

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Tali diritti non sono da considerare alienabili, vale a dire che vendere o alienare le terre date in concessione dal signore feudale – e comunque previo consenso di questi – non comporta il trasferimento dei diritti giurisdizionali che restano al vassallo o tornano al signore.

Infine, i già citati diplomi concedevano la potestà di esigere dazi, tasse e balzelli, un’altra caratteristica fondamentale dei privilegi di tipo feudale. Il diritto a riscuotere le tasse viene ceduto dal signore al concessionario.

In conclusione, ben prima dell’arrivo dei Normanni, i principati Longobardi dell’Italia meridionale già conoscevano l’istituto feudale, almeno nelle forme. Il tutto si concretizzò giocoforza nello sviluppo di un certo grado di incastellamento, che con l’arrivo dei Normanni non cessò, ma anzi si rinnovò: «la presenza dei primi Normanni prolungò la cronologia dell’incastellamento con una seconda e una terza ondata: l’incastellamento contro i Normanni, quando i signori locali si difendevano dalla minaccia di rivendicazioni di carattere politico e territoriale più che strettamente militare, fu seguito dall’incastellamento ad opera dei Normanni»9.

Come ho accennato in precedenza, diversa era la situazione nei territori di matrice bizantina. Il centralismo burocratico e amministrativo lasciava pochi spazi di manovra in chiave feudale, ma se accettiamo la tesi del Rinaldi, secondo cui la contiguità fra i popoli e le culture e le influenze reciproche si traducono anche in influenze di carattere giuridico, neanche

alia qualibet causa ab omnibus hominibus , qui in praedictis Curtis , aut Terrìs iamfati Monasterii havitaverint , vel havitatores fuerint deomnes causaciones et intenciones, quas haduerìnt exinde iudicare, sed semper deveant eorum exinde iudicare ipsa Abatissa et Praepositus , qui in praedicto Monasterio hordinatus fuerit, quomodo melius illi scierit , ita ut nullis ex nostris Comitibus , Castaldiis, Iudicibus, vel sculdahis aut cuiuscumque persone haveant iam dicto Monasterio exinde , et eiusque custodibus , aut rectoribus qualemcumque molestiam.

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la Puglia risultò del tutto immune al feudalesimo in epoca pre-Normanna. È noto infatti che l’Impero concedesse ad alcune aree della Puglia assoggettate di mantenere il diritto Longobardo, e non è improbabile che questo sia stato d’ispirazione in qualche caso. Nel suo saggio Aperture

feudali e parafeudali nella Puglia Bizantina10, Iolanda Sisto cita un diploma del 1046 in cui il catapano Eustazio concede al giudice Bisanzio di Bari la terra di Foliano con i diritti a governarla, quale ricompensa per il suo ruolo avuto nel gestire la rivolta di Maniace. I diritti includevano la riscossione dei tributi e la totale indipendenza nei confronti di turmarchi, strateghi o altri funzionari imperiali.

Benchè Sisto ritenga la concessione un unicum nel panorama dei domini bizantini in Sud Italia, alla luce di quanto emerso dall’analisi del Rinaldi è possibile concludere che quanto meno una conoscenza del fenomeno doveva esserci, se si concretizza nelle stesse forme e modalità di stampo feudale, sebbene in un caso isolato.

C’è da ritenere quindi che l’instaurazione graduale del dominio normanno sull’Italia meridionale, da un punto di vista giuridico, ha goduto di successi differenti a seconda delle varie regioni e la normalizzazione della situazione verso un impianto propriamente feudale è stato graduale. Di certo non è possibile parlare di una novità assoluta per la regione. I Normanni non hanno portato niente di nuovo: come abbiamo visto nei territori longobardi forme di feudalesimo erano già vive e vegete e queste senz’altro hanno permesso ai Normanni stanziati ad Aversa, primo vero feudo di origine normanna in Italia meridionale, di adattarsi al substrato politico già esistente senza scombinarne troppo l’impianto.

10 I. Sisto, Aperture feudali e parafeudali nella Puglia Bizantina in Archivio Storico Pugliese XLIV,

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Diversamente è andata invece nei territori di diritto bizantino, dove il dominio fu possibile solo «in aree fino a poco prima incolte, come la Capitanata che, bordata a nord da una linea di difesa di borghi fortifiati, aveva iniziato a popolarsi nel primo ventennio dell’XI secolo e fu colonizzata davvero in epoca normanna e in un quadro signorile»11.

Ad ogni modo, non è solo nel sistema feudale in quanto sovrastruttura che si può valutare la novità portata dai Normanni, ma bisogna considerare anche in che modo esercitassero quella che la Piccinni definisce “sostanza del potere”12. L’avvento dei Normanni cambiò la

prospettiva di tutta quella massa di “villani, affidati, homines, tributarii,

angararii, censuali, vassalli rurali, adscripticii” che da qualche tempo

avevano fatto la loro comparsa nelle fonti meridionali in seguito all’affermarsi delle prerogative bannali. Queste masse conobbero con i Normanni l’affermazione del contratto d’opera, che in epoca precedente non aveva avuto un gran peso economico, e questo mutò gioco-forza i rapporti tra contadini e signori, ma anche tra terra e liberi homines.

In definitiva, le differenze nell’imposizione del regime feudale a seguito delle due Conquiste Normanne di Inghilterra e Italia sono sostanziali. Nel primo caso il regime signorile si afferma come evoluzione di un sistema totalmente diverso, di cui pure ha mantenute vive alcune caratteristiche, ed ha portato una vera e propria rivoluzione all’interno dei rapporti socio-economici. Nel caso italiano, invece, si è trattato solo di normalizzare un processo che era già in atto da lungo tempo, seppur in maniera blanda, e quindi non del tutto estraneo alle popolazioni assoggettate.

11 G. Piccinni, op. cit. pp. 200-201. 12 Ibid. p. 210.

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In entrambi i casi si assiste alla creazione di una nuova nobiltà, legata ai sovrani da rapporti vassallatico-beneficiari, ma anche qui si riscontrano differenze sostanziali: in Inghilterra il feudalesimo attraversa tutta la sua parabola evolutiva, nascendo come istituto che crea un rapporto personale tra sovrano e feudatario che cessa alla morte di questo, poi evolvendosi nel corso della dominazione Normanna nelle forme a carattere ereditario. In Italia meridionale è invece presente già in quest’ultima forma e così viene imposto e affermato dai conquistatori.

Stessa considerazione può essere fatta per l’incastellamento, che del sistema feudale è il simbolo più evidente. In Inghilterra l’arrivo dei Normanni dà inizio alla costruzione di castelli in ogni parte del Regno, al contempo simbolo del potere del re e di difesa del territorio. In Italia si è visto come non sia affatto un fenomeno nuovo, ma che conosce comunque una nuova vitalità con l’avvento dei conquistatori: castelli vengono eretti

per difendersi da loro durante la conquista e castelli vengono eretti da loro

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CAPITOLO II

RAPPORTI CON IL PAPATO E ORGANIZZAZIONE DELLA CHIESA: LA CONCEZIONE SACRALE DEL POTERE

Un aspetto spinoso e spesso conflittuale con cui sia Guglielmo il Conquistatore (e i suoi successori) sia Ruggero II (e i suoi predecessori) si sono trovati a fare i conti è stato quello dei rapporti con la Chiesa e la sua organizzazione nei rispettivi Stati. Sebbene la conflittualità esplose e fu risolta in maniera differente nelle due realtà, si possono comunque ravvisare delle analogie nel contesto storico in cui si sono sviluppate.

Diversi fattori hanno inciso sulla gestione di tali conflittualità: innanzitutto le difficoltà del papato a tenere testa alle mire imperiali nei travagliati secoli XI e XII: i papi che si sono succeduti avevano bisogno di quanti più alleati possibile per contrastare le velleità universalistiche degli imperatori tedeschi e spesso e volentieri si sono trovati costretti a formulare compromessi con interlocutori nei confronti dei quali pure avevano diritti da vantare. In secondo luogo le condizioni della Chiesa nei territori conquistati dai Normanni: tanto in Inghilterra quanto nel Sud d’Italia urgeva una riforma ecclesiastica sulla base delle direttive emanate da Roma: in particolare il Sud Italia era un mosaico di realtà che confliggevano con il

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modello romano, essendo la Puglia e la Calabria di rito greco, i territori Longobardi di rito romano e la Sicilia addirittura dominata dagli Arabi, quindi bisognosa di essere restituita alla cristianità.

Un ultimo, ma non meno importante fattore è determinato dalla posizione geografica dei due regni normanni rispetto a Roma. L’Inghilterra era sempre rimasta ai margini delle vicende politiche europee, anche perché geograficamente era periferia d’Europa: lontana da Roma, aveva vissuto un’autonomia politica ed ecclesiastica che difficilmente i papi erano riusciti a imbrigliare nel corso dei secoli. Il meridione italiano invece, per quanto strettamente prossimo a Roma, aveva per secoli gravitato nella sfera d’influenza di Costantinopoli e degli Arabi e se non geograficamente, almeno politicamente era da considerarsi (in parte) periferico. Tuttavia la conquista dei due territori da parte di un gruppo etnico europeo e cristiano (cattolico) aveva cambiato le carte in tavola e poteva risultare un’occasione d’oro per il papato e di reclamarvi la propria autorità e di portare dalla propria parte nuovi alleati nella lotta contro l’Impero.

Le cose tuttavia non andarono secondo i piani dei papi e le conflittualità si acuirono, con risvolti anche pesanti per quel che concerne il Sud Italia: la causa principale è da ricercarsi nella concezione del potere che i regnanti normanni si figuravano. Soprattutto per quel che riguarda il caso italiano, la monarchia era intesa dai Normanni con connotati sacrali: il loro potere derivava da Dio, e pertanto gli garantiva la potestà anche sulla scelta dei vescovi e dei prelati che amministrassero le questioni ecclesiastiche all’interno dei rispettivi territori. Da qui il conflitto con il papato, che non era assolutamente incline a cedere la propria autorità, si trattasse anche solo di singoli pezzi.

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Nel caso inglese è necessario distinguere due momenti del rapporto tra Guglielmo e il papato. Un primo momento è la fase precedente alla Conquista: l’arazzo di Bayeux mostra Eustazio di Boulogne reggere il vessillo con le insegne del Papa – all’epoca Alessandro II – e da molti ciò è stato visto come un’approvazione diretta della Santa Sede all’invasione da parte di Guglielmo e dei Normanni. La storia riprodotta in immagini dall’arazzo, trova riscontro anche in numerose fonti scritte contemporanee o di poco successive, su tutte Guglielmo di Malmesbury e Orderico Vitale, per quanto entrambi la riprendano a loro volta dalle Gesta Guillelmi di Guglielmo di Poitiers1.

In entrambi i casi le informazioni fornite a riguardo sono en passant, sebbene Guglielmo di Malmesbury si dilunghi maggiormente sulla ricerca di una benedizione divina da parte di Guglielmo il conquistatore: ne justam

causam temeritas decoloraret, ad apostolicum, qui ex Anselmo Lucensi episcopo Alexander dicebatur, misit, justitiam suscepti belli quantis poterat facundis nervis allegans, al contrario di Harold («turgidus natura»). E il papa, dopo aver

valutato attentamente le ragioni di Guglielmo, vexillum in omen regni

Willelmo contradidit2. Poiché, alla vigilia della partenza, il vento tardava ad arrivare, Guglielmo ordinò anche di esporre le spoglie di San Valerico, gesto che «nec mora intercessit quin prosper flatus carbasa impleret». Il racconto, a metà tra il veridico (l’avallo del papa) e il leggendario (il favore divino espresso per intercessione di un santo), viene limitato al solo episodio papale da Orderico Vitale, che comunque sembrerebbe dargli credito, nonostante fosse un cronista di solito particolarmente ostile al

1 C. Morton, Alexander II and the Norman Conquest in Latomus t. 34, fasc. 2, – Société d’etudes latines

de Bruxelles, 1975 pp. 362

2 J. A. Giles (a cura di), William of Malmesbury, Chronicle of the Kings of England,– Belle & Daldly,

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Conquistatore. Entrambe le fonti sono comunque posteriori e – come già accennato – si basano su poche righe incluse in un racconto contemporaneo all’epoca dei fatti.

Che la storia dell’approvazione papale alla Conquista sia solo una suggestione, una voce di corridoio probabilmente errata, lo suggeriscono alcuni documenti posteriori al 1066, e qui si apre il secondo momento del rapporto tra Guglielmo e la Chiesa di Roma. Catherine Morton, nel già citato saggio sul rapporto tra Alessandro II e i Normanni d’Inghilterra, mette sul piatto due documenti che sarebbero la prova che la Conquista non aveva avuto l’avallo papale3. Il primo è una lettera di penitenza inviata dalla

Santa Sede al re inglese nel 1070, in cui si chiede di fare ammenda per tutti gli omicidi compiuti nel corso della campagna di quattro anni prima. Morton si chiede come mai ad un’impresa appoggiata da Roma abbia fatto seguito un documento penitenziale per espiare i peccati e la risposta che si dà è che con ogni probabilità tale appoggio non ci fu mai stato. Confrontando la lettera di penitenza con una similare inviata dopo la battaglia di Soissons del 923, si può constatare che questa fu inviata subito dopo la battaglia, mentre quella a Guglielmo solo quattro anni dopo.

La coincidenza della data della penitenza con quella della re-incoronazione di Guglielmo, lascia pensare che «il prezzo che Papa Alessandro richiese per il riconoscimento di Guglielmo in quanto re de jure potrebbe essere stato: l’accettazione da parte di Normanni di una penitenza per la loro invasione; la re-incoronazione di Guglielmo per mano dei legati papali; la deposizione di Stigand, che Guglielmo aveva mantenuto in carica, apparentemente per ragioni politiche; e l’elezione di Lanfranco di Pavia ad

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arcivescovo di Canterbury»4. Su questi ultimi due punti ci torneremo a

breve, quanto al resto tutto sembra suggerire che non v’è prova che il papa abbia dato il beneplacito per l’impresa Normanna e che probabilmente – insiste Morton – Guglielmo di Malmesbury aveva scritto il falso nelle sue

Gesta Guillelmi.

A riprova di ciò un altro documento, stavolta del 1080 e stavolta firmato da Gregorio VII. Essendo l’Europa in balìa del conflitto tra il papa e l’imperatore Enrico IV, il primo aveva necessità di richiedere quanto più sostegno possibile dai sovrani d’Europa. Nelle due lettere, datate 24 aprile e 5 maggio 1080, inviate dal papa a Guglielmo, non si fa alcun riferimento alla Conquista né al favore vantato dalla Santa Sede nei confronti del re inglese. Eppure – ci dice Morton – sarebbe stata una leva fortissima, che spesso è stata utilizzata dai papi e da Gregorio stesso nei confronti di altri regni lontani da Roma. Una in particolare, indirizzata a Guglielmo di Burgundia, fa esplicito riferimento anche al predecessore di Gregorio, Alessandro, mentre quella qui in esame non lo cita neanche. A chiudere il cerchio, una risposta del re Normanno a Gregorio VII a seguito della sua richiesta di prestare giuramento: fidelitatem facere nolui, nec volo, quia, nec ego

promisi, nec antecessores meos antecessoribus tuis id fecisse comperio5.

In definitiva, il rapporto tra Guglielmo e la Santa Sede negli anni del suo regno e in quelli immediatamente precedenti fu di quasi indifferenza del primo nei confronti della seconda.

Il 1070 è la data spartiacque per quanto riguarda la Chiesa inglese e segna il secondo momento dell’evoluzione dei rapporti tra Guglielmo e

4 Ibid. p. 379 5 Ibid. p. 375

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Roma. Come abbiamo visto, Alessandro II richiese a Guglielmo di sostituire Stigand, arcivescovo di Canterbury, con Lanfranco di Pavia, erudito monaco longobardo che aveva accompagnato il duca di Normandia nella sua impresa. A Lanfranco fu affidato il compito di riformare la Chiesa inglese, che da lungo tempo godeva di piena autonomia ed era immune dall’autorità papale.

Fino a quel momento, e così anche successivamente, Guglielmo mantenne le prerogative di cui avevano goduto anche i suoi predecessori, ovvero nominare e deporre i vescovi e i prelati a sua discrezione. «Quando Gregorio gli chiese omaggio per la corona che gli aveva in qualche modo dato, Guglielmo rispose come un re inglese»6, tuttavia ci furono richieste a

cui il re non poté sottrarsi. La Chiesa inglese prima della Conquista, come detto, godeva di ampia autonomia da Roma: diversamente da quanto aveva fatto per la nobiltà7, Guglielmo non depose gli ecclesiastici di etnia inglese,

ma li lasciò in carica. In aggiunta, si riscontrano le seguenti peculiarità:

a) In primo luogo, poiché si trattava di una Chiesa nazionale, senza un vero capo, se non il papa – la cui autorità era però molto debole – le dispute di natura ecclesiastica erano ricomposte dalla witenagemot, l’assemblea che svolgeva anche ruolo di tribunale.

b) L’organizzazione delle diocesi differiva totalmente dal modello continentale: i loro confini non erano netti, non esistevano sedi episcopali di riferimento e il vescovo era quindi itinerante, non avendo una residenza fissa.

c) Nessun divieto era fatto ai prelati di contrarre matrimonio.

6 E. A. Freeman, William the Conqueror – Batoche Book, Kitchener 2004, p. 76. Cfr. Anche C. Morton,

op. cit. (v. nota 5) per quanto riguarda la risposta

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Il compito di Lanfranco fu pertanto quello di dare un’organizzazione più compatta alla Chiesa e dargli una connotazione più continentale, per così dire, più occidentale. Tuttavia Lanfranco non era uomo particolarmente incline a eseguire pedissequamente gli ordini del Papa, in particolare di Gregorio: fece le riforme, ma con dei distinguo.

Innanzitutto, le dispute ecclesiastiche furono tolte dalla giurisdizione dei witenagemot e demandate a sinodi specifici la cui autorità suprema era detenuta dall’arcivescovo di Canterbury. Essendo tale carica nelle sue mani, ed essendo lui uomo fidato di Guglielmo, va da sé che la distinzione tra corte laica e corte ecclesiastica era puramente formale.

Anche per quel che riguarda l’organizzazione delle diocesi, Lanfranco tese a favorire quella di sua competenza. Al 1070, molte erano quelle rimaste vacanti dopo la morte del vescovo che le reggeva, tra queste York e Peterborough. Con l’affidamento della prima a Tommaso di Bayeux, nacquero i primi contrasti tra quella e Canterbury: «la disputa in questione fu duplice: in parte faceva riferimento ai confini delle due province, ma sollevò anche la più importante questione se i due arcivescovi Inglesi possedessero un grado paritario o se l’arcivescovo di York dovesse essere

obbligato a prestare giuramento di obbedienza al primato di Canterbury»8.

La disputa venne risolta in favore di quest’ultima, che da quel momento in poi fu investita dell’autorità di cui godette per i secoli successivi.

La diocesi di Peterborough era invece rimasta vacante, sempre a causa della morte del suo precedente vescovo. Fu affidata a Turoldo, un monaco normanno che dovette sobbarcarsi anche il peso dell’autorità militare, dal

8 F. M. Stenton, William the Conqueror and the rule of the Normans – Barnes&Noble, New York 1908,

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momento che in quella regione (il Fenland) soffiavano ancora venti di rivolta9.

In un concilio del 1075, fu stabilito inoltre che ciascuna diocesi avesse una sede fissa, in cui il vescovo dovesse risiedere. Fino ad allora, il vescovo era itinerante, non dimorava in una sede fissa e i confini della sua giurisdizione erano spesso molto vaghi. Il concilio del 1075 valse a risolvere questa anomalia tutta inglese, con una ridefinizione anche dei confini: «il vescovato di Lichfield fu trasferito a Chester, quello di Selsey a Chichester, e quello di Sherborn a Old Salisbury […], il seggio della diocesi centro-orientale di Dorchester fu trasferita a Lincoln»10. Come conseguenza di

questo riassetto, l’Inghilterra vide un aumento considerevole della costruzione di chiese cattedrali.

Il terzo ambito di intervento nel processo di riforma di Lanfranco fu quello dello stato dei prelati, che fino all’avvento dei Normanni godevano della facoltà di contrarre matrimonio. Questo punto fu di particolare importanza nella riforma, in quanto tale prerogativa era stata una delle motivazioni oggetto della querelle che portò allo scisma tra Chiesa d’Oriente e Chiesa Romana (1054). La supremazia della Chiesa di Roma anche sulla Chiesa inglese non poteva prescindere dalla soluzione di questo nodo, ma per quanto Lanfranco fosse venuto incontro alle esigenze pontificie, trovò comunque la maniera di renderle meno pesanti ai preti inglesi: Gregorio pretese la proibizione del matrimonio, Lanfranco l’accordò, ma obbligatoria fin da subito solo per i prelati di alto rango, mentre per i preti minori sarebbe stata obbligatoria in futuro. Chi era già sposato, poté continuare a esserlo, ma i nuovi sacerdoti avrebbero dovuto osservare tale divieto.

9 E. A. Freeman, op.cit. p. 77. 10 F. M. Stenton, op. cit. p. 113.

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