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Capitalismo e ineguaglianza: note in margine a Thomas Piketty

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Capitalismo e ineguaglianza: note in

margine a un volume di Thomas Piketty

GIOVANNI GOZZINI

Department of social, political, and cognitive sciences, University of Siena, San Niccolò, 43100 Siena (Italy)

ABSTRACT

The debate on inequality has been recently revived by Thomas Piketty’s, Capital in the 21st

century. The first point of the article concerns the sources: Piketty uses in an exclusionary way the documentation provided by the tax records without any comparison with other quantitative series (household surveys) and other categories (disposable income after tax, levels of consumption) commonly recurring in the scientific literature. Even if a recent rise of income inequality is documented in US and Great Britain, the current trends in the rest of the Western countries are less linear and constant. The second point relates to the limits of an Eurocentric approach, which ignores how economic development in Asiatic countries (e.g. China, above all) is currently increasing the income and the wealth not only of the richer élite but also of an emerging middle-class. The third point focuses the active role played by the international finance in the building of new, even if volatile, fortunes, opposing the centrality of inheritance stressed by Piketty. The crucial and still unsolved problem is to exert a global regulation of the phenomenon.

KEYWORDS

Income distribution, wealth, inequality, finance, economic élites, economic development, economic history, capitalism, Industrial Revolution

__________________________________________________________________________ Più di vent’anni fa Martin Feldstein, professore di Harvard già a capo dello staff economico del presidente Reagan, sosteneva che il problema non fosse l’ineguaglianza, ma la povertà.1 Nella sua visione di scuola liberale, infatti, la prima appartiene all’ordine

naturale delle cose e alimenta la concorrenza, mentre la seconda rappresenta una condizione patologica che reclama l’intervento attivo delle istituzioni. Di recente Branko Milanovic, ricercatore della World Bank, ha stigmatizzato questo approccio.

Il «mio» interesse per la povertà altrui mi fa fare una splendida figura. Sono pronto a usare i miei soldi per aiutare chi sta peggio di me […] La disuguaglianza è diversa: il solo nominarla solleva la questione dell’appropriatezza e legittimità del mio reddito.2

In qualche modo Milanovic infila il dito in una piaga antica: quella che nei primi secoli dell’era volgare separa le confessioni monoteiste tra chi (ebraismo e Islam) prescrive la carità come un obbligo di redistribuzione della ricchezza fissato in quota percentuale – la

1 M.Feldstein, Income inequality and poverty, Working Paper 6770, National Bureau of Economic Research,

Cambridge MA 1998. Per punti di vista analoghi cfr.F.Welch, In defense of inequality, «American Economic Review», 89, 1999, 2, 1-17; R.J.Barro, Inequality and growth in a panel of countries, «Journal of Economic Growth», 5, 2000, 1, pp.5-32; D.McCloskey, Equality vs. lifting up the poor, «Financial Times», 12 agosto 2014. Per una distinzione tra ineguaglianza «buona» frutto dell’eguaglianza originaria e ineguaglianza «cattiva» frutto dell’esclusione cfr.A.K.Sen, La disuguaglianza. Un riesame critico, il Mulino, Bologna 1997 (ed.or. 1992), p.40.

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decima nella Bibbia, lo zakat nel Corano – e chi (cristianesimo) la riduce a gesto facoltativo e unilaterale di compassione. Peraltro la spiritualizzazione reciproca di povertà e carità non ha impedito (anzi forse ha alimentato) che nel mondo occidentale il tema dell’ingiustizia continuasse ad agitare utopie e rivolte, motivare le ideologie socialiste, edificare il moderno stato sociale. Permane insomma una distanza e una contraddizione tra l’eguaglianza

giuridica formalizzata dalla democrazia e la disparità economica di accesso all’istruzione superiore, ai servizi sociali, allo stesso esercizio della politica professionale.

Da poco l’argomento è tornato al centro del dibattito pubblico negli Stati Uniti, grazie alla pubblicazione del libro di Thomas Piketty, economista francese da tempo attivo sul fronte delle ricerche in materia di distribuzione del reddito.3 In preda all’entusiasmo, il

premio Nobel Paul Krugman si è spinto a sostenere che «Piketty ha trasformato il nostro discorso sull’economia: non parleremo più di ricchezza e ineguaglianza nella maniera in cui eravamo abituati a farlo».4 In realtà il libro raccoglie e sistema quindici anni di ricerche sul

campo che via via si sono concentrate sui redditi delle élite più ricche (il decimo superiore della popolazione) dei paesi sviluppati. La banca dati in progress che ne risulta (World Top Incomes Database) si fonda esclusivamente su fonti fiscali di accertamento dei patrimoni prima delle tasse, che presentano l’indubbio pregio di poter generare serie di lungo periodo capaci di risalire senza soluzioni di continuità fino alla seconda metà dell’Ottocento (in Francia addirittura fino al 1791, anno di istituzione della tassa sulle eredità, da allora ininterrottamente in vigore).

Prima di Piketty, queste fonti sono state utilizzate da diversi studiosi che hanno dato vita a un prolungato dibattito attorno alla cosiddetta «curva di Kuznets». Premio Nobel nel 1971 dopo essere fuggito nel 1922 dall’Unione Sovietica, Simon Kuznets nel suo

«presidential address» alla American Economic Association del 1955 confrontò tra loro i trend secolari di Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania in materia di distribuzione del reddito, ricavandone un’ipotesi interpretativa che ridimensionava drasticamente l’«eccezione» statunitense come terra delle opportunità, libera dalle tradizionali

ineguaglianze di ceto europee e aperta alla mobilità sociale ascendente. Nei tre paesi, infatti, l’ineguaglianza dei redditi seguiva una curva simile, a forma di U rovesciata: aumentava nel corso del processo di industrializzazione fino a toccare il proprio apice quando il settore manifatturiero superava quello agricolo, per poi ridiscendere con la diffusione dei consumi di massa.5 Lo sviluppo economico – è l’implicazione politica – procede a sbalzi,

aggregandosi attorno a poli catalizzatori che attraggono capitale, lavoro, tecnologia: è lì che per tutta una fase iniziale si concentrano reddito, profitti, investimenti, prima che questi ultimi diano i loro frutti redistribuendo ricchezza al resto del corpo sociale sotto forma di posti di lavoro e salari. L’ineguaglianza è quindi un male necessario (connaturato al modo di produzione capitalistico) ma destinato a passare col tempo.

Le ricerche di lungo periodo non sono molte ma sembrano confermare la tesi di Kuznets.6 È una bibliografia che Piketty non tiene in grande considerazione, fedele a uno

stile di lavoro molto autoreferenziale e assai poco preoccupato di confrontarsi con la

3 T.Piketty, Capital in the twenty-first century, Harvard University Press, Cambridge MA 2014 (tr.it. Bompiani 2014, ed.or. Paris 2013). Di Piketty era stato finora tradotto in italiano Disuguaglianza. La visione economica, Egea-Università Bocconi, Milano 2003 (Paris 2002).

4 P.Krugman, Why we’re in a new Gilded Age, «New York Review of Books», 8 maggio 2014, p.18.

5 Cfr.S.Kuznets, Economic growth and income inequality, «American Economic Review», 45, 1955, 1, pp.1-28 (tr.it.in Id., Sviluppo economico e struttura, Il Saggiatore, Milano 1969, pp.315-50).

6 Per una rassegna cfr.A.Brandolini-T.M.Smeeding, Inequality patterns in Western democracies: cross-country differences and changes over time, in P.Beramelli-C.J.Anderson (a cura di), Democracy, inequality, and representation: a comparative perspective, Russell Sage, New York 2008, pp.25-61.

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letteratura scientifica (anche se non mancano eleganti ma episodici riferimenti all’Ottocento letterario, da Austen a Balzac). Peccato, perché sono studi che in larga misura confermano il cuore della sua interpretazione «politica» dell’ineguaglianza, fondata su una minor fiducia (rispetto a Kuznets) negli spontanei meccanismi riequilibratori dell’economia e sul richiamo a fattori esogeni come le migrazioni internazionali di fine Ottocento e le politiche di welfare successive alla crisi del 1929. Piketty è ancora più radicale perché considera il periodo storico di riduzione dell’ineguaglianza – quello compreso tra le due guerre mondiali – come una parentesi «innaturale» e forzata da catastrofi esterne: un’eccezione, quindi, nel contesto di una crescita sempre più concentrata del capitale e di un incremento altrettanto costante dell’ineguaglianza. Destinato, secondo lui, a prolungarsi e anzi ad approfondirsi nel prossimo futuro a meno di un intervento esogeno (e politico) di pari portata come la proposta, su cui si è appuntata l’attenzione dei media, di una tassa globale sulla ricchezza.

A sostenere tuttavia, almeno in parte, l’ottimismo kuznetsiano per le dinamiche «trickle down» del capitalismo (letteralmente «gocciolare verso il basso», con riferimento a profitti, risparmi e soprattutto investimenti delle élite imprenditoriali) è un’appendice

particolare ma significativa di quel dibattito, che riguarda la Rivoluzione industriale inglese e l’andamento dei salari reali. Gli «ottimisti» che vedono un rialzo di questi ultimi e una conseguente riduzione dell’ineguaglianza nell’Inghilterra di fine Ottocento – la circostanza che spingerà Lenin a denunciare l’aristocrazia operaia compartecipe dei sovrapprofitti garantiti dagli imperi coloniali – appaiono ormai in maggioranza.7 I primi tentativi di stima

dell’ineguaglianza su scala mondiale rafforzano questa opinione: il processo di

industrializzazione riduce le distanze sociali interne ai paesi che riescono a metterlo in moto ma apre uno squarcio senza precedenti tra paesi ricchi e paesi poveri, sottolineato

dall’occupazione militare di molti dei secondi da parte dei primi.8

A Piketty questi aspetti non interessano perché il suo database si concentra sul decimo più ricco delle società occidentali, documentando una curva opposta a quella di Kuznets. Dopo essere calata per l’effetto congiunto delle guerre e delle politiche sociali fino al 1970, la quota di reddito detenuta da questa élite in Stati Uniti e Gran Bretagna risale a livelli superiori a quelli pre-1914, vicini alla metà del totale. Negli altri paesi europei (e anche, con dati più lacunosi, in Canada e Australia) la curva assume piuttosto la forma di una L con livelli grosso modo simili tra 1950 e 1914, attorno a un terzo del totale, ma secondo Piketty (pp.321 e 372) si tratta solo di un ritardo temporaneo sulla strada del modello anglosassone. Previsione ricavata sulla base di una doppia assunzione: che la redditività del capitale rimanga invariata a fronte di un tasso di crescita economica e

demografica significativamente più basso. L’ineguaglianza continua invece a calare sia pure di poco nei paesi scandinavi da sempre più egualitari per ragioni storiche di avversità del clima, welfare state precocemente universalistici, coalizioni politiche «rosso-verdi» capaci di tenere insieme operai e contadini.9

7 Per la tesi che anticipa al 1820 l’avvio della fase di incremento dei salari reali inglesi cfr. G.Clark, The condition of the working-class in England 1209-2004, «Journal of Political Economy», 113, 2005, 6, pp.1307-40. Per quella che lo posticipa al 1860 cfr.R.C.Allen, Engels’ pause: technical change, capital accumulation, and inequality in the British industrial revolution, «Explorations in Economic History», 46, 2009, 4, pp.418–435. Com’è naturale, la ragione fondamentale di divergenza risiede nel calcolo del costo della vita.

8 F.Bourguignon-C.Morrisson, Inequality among world citizens 1890-1992, «American Economic Review», 92, 2002, 4, pp.727-44; J.L.van Zanden et al., The changing shape of global inequality 1820-2000: exploring a new dataset, «Review of Income and Wealth», 60, 2014, 2, pp.279-97. La coincidenza tra seconda rivoluzione industriale e

colonialismo come spartiacque fondativo dell’età contemporanea era stata a suo tempo proposta da G.Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1971, particolarmente p.52 (ed.or.1964).

9 P.Baldwin, The politics of social solidarity: class bases of the European welfare state 1875-1975, Cambridge University Press, Cambridge 1990.

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Com’è ovvio, Piketty punta il dito contro la defiscalizzazione dei redditi più alti introdotta negli anni ottanta dalla rivoluzione neoliberale di Reagan e Thatcher. Il Financial Times ha ribattuto che altre fonti statistiche non mostrano un chiaro aumento

dell’ineguaglianza, almeno per quanto riguarda il Regno Unito e il resto d’Europa:

l’economista francese ha riconosciuto che resta ancora molta ricerca da fare.10 Il problema

riguarda le fonti. Sulla distribuzione del reddito esistono altre banche dati ormai consolidate che si fondano su indagini campionarie nazionali mirate non sul reddito pre-tasse (usato da Piketty) ma sul reddito a disposizione dopo il prelievo fiscale e i trasferimenti sociali oppure sui livelli di consumo.11 Sono fonti pregiudizialmente scartate da Piketty (pp.269 e 330) per

due ragioni: i ricchi vi risultano spesso sottorappresentati e l’indicatore sintetico utilizzato (il cosiddetto indice di Gini, che misura il livello di ineguaglianza lungo una scala crescente da 0 a 1) è più sensibile alla distribuzione intermedia del reddito che non agli estremi. Forse però una maggiore disponibilità al raffronto con altre serie di dati non guasterebbe. Anche perché la mole dell’apparato documentario cui il libro (in sé mancante di bibliografia) rinvia in Internet è tale – supera di almeno tre volte le quasi seicento pagine del volume – da scoraggiare qualsiasi lettore. Ma non vi si trova quasi traccia, appunto, di altre

interpretazioni costruite su altre fonti.12

L’eccezione scandinava conferma così la regola di un quadro a tinte fosche dominato dalla divergenza della minoranza ricca dal resto del corpo sociale, che riecheggia lo slogan del movimento Occupy Wall Street «we are the 99%» cui Piketty si riferisce esplicitamente (p.254). A peggiorarlo intervengono i dati relativi alla ricchezza accumulata nel tempo. Seppur radicalmente modificati nella loro composizione interna a tutto discapito della proprietà terriera e in favore di altre forme mobili e immobili di capitale, i patrimoni del decimo più ricco appaiono in risalita dopo il 1970 verso i livelli di fine Ottocento (compresi tra 80 e 90% del totale, senza grandi differenze tra Europa e America). Non solo: al loro interno viene nuovamente prevalendo la parte di capitale ereditato, al punto da spingere Piketty a sostenere il «fallimento della Rivoluzione Francese» (p.365) in materia di divisione dei patrimoni e libera circolazione dei beni, ma sulla base di dati dettagliati (testamenti e donazioni) solo per il caso francese. A dire il vero, la lista dei miliardari nel mondo che Forbes aggiorna da 28 anni, una fonte che pure Piketty non disdegna (p.432), restituisce una realtà un po’ diversa con due terzi (in crescita dal 1980) di self-made men.13

Il problema è infatti un po’ più complesso e riguarda la trasformazione dell’impresa

10 C.Giles, Piketty findings undercut by errors, «Financial Times», 23 maggio 2014; T.Piketty, Response to FT, 28 maggio 2014 (http://piketty.pse.ens.fr/capital21c). Per una sintesi della letteratura che conferma ineguaglianza crescente per Usa e Gran Bretagna, andamento oscillante per gli altri paesi sviluppati, cfr.A.Brandolini-T.M.Smeeding, Income inequality in richer and Oecd countries, in W.Salverda-B.Nolan-T.M.Smeeding (a cura di), Oxford Handbook of Economic Inequality, Oxford University Press, Oxford, 2009, pp.71-101.

11 United Nations University, World Institute for Development Economics Research, World Income Inequality

Database, (www.wider.unu.edu/wiid/wiid.htm); Luxenbourg Income Study per il quale cfr.Brandolini-Smeeding,

Inequality patterns.

12 Per studi-ponte tra le diverse serie statistiche cfr.F.Alvaredo, A note on the relationship between top income shares and the Gini coefficient, «Economics Letters», 110, 2011, pp. 274-77; R.V.Burkhauser et al., Recent trends in top income shares in the United States: reconciling estimates from March CPS and IRS tax return data, «Review of Economics and Statistics», 94, 2012, 2, pp.371-88.

13 K.A.Dolan-L.Kroll, Inside the 2014 Forbes billionaires list: facts and figures, «Forbes», 30 marzo 2014. Documentano livelli elevati di turn-over nel percentile statunitense più ricco S.N.Kaplan-J.Rauh, Family, education, and sources of wealth among the richest Americans 1982-2012, «American Economic Review», 103, 2013, 3, pp.158-66; G.Auten-G.Gee, Income mobility in the United States: new evidence from income tax data, «National Tax Journal», 62, 2009, 2, pp.301-28. Tra 2002 e 2013 la lista delle maggiori 40 compagnie transnazionali non finanziarie registra 16 new entries (di cui una cinese): cfr.United Nations Conference on Trade and Development (Unctad), World Investment Report, ad annum.

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moderna, lungo una linea di separazione tra proprietà (ereditaria) e management, già messa in luce da un pionieristico saggio di Berle e Means del 1932.14 Rendite di lignaggio

familiare e longeve dinastie patrimoniali coesistono con la competizione imprenditoriale e tramandano la ricchezza che impressiona le statistiche di Piketty, ma perdono potere. I manager orientano le strategie di gestione verso la redditività finanziaria a breve termine per soddisfare con lauti dividendi gli azionisti loro elettori, che a propria volta ricompensano i manager con remunerazioni (negli Stati Uniti detassate dal 1986) capaci di indignare l’opinione pubblica.

Per spiegare la crescita di quest’area di privilegio – oggi il compenso medio di

superdirigenti e superstar statunitensi si aggira attorno ai 12 milioni di dollari annui – la tesi prevalente in letteratura non corrisponde né all’ereditarietà proposta da Piketty, né

all’effettivo rendimento (tra 1978 e 2000 i compensi si moltiplicano per 13 volte, la

capitalizzazione di borsa per 5) e affianca alla detassazione e al patto con gli azionisti, anche la crescita dei livelli di qualificazione: un ristretto pool di esperti formati sul campo di battaglia e sempre più richiesti sul mercato. Al «capitale umano» incrementato dalla scolarizzazione di massa è intestato un filone classico della sociologia, che vi coglie il meglio delle attitudini equalizzanti del moderno stato sociale.15 Proprio qui si manifesta però

una divergenza importante tra le due sponde dell’Atlantico: in misura ancora maggiore di quello europeo, il sistema universitario statunitense tende a riprodurre élite ereditarie e ad escludere la parte più povera della società.16

Troppo preoccupato di formulare leggi generali del capitalismo e di accreditare il ritorno a una sorta di ancien regime plutocratico ed ereditario, Piketty lascia sullo sfondo – gli unici due fuggevoli accenni sono alle pp.303 e 376 – un fattore nuovo (per quantità) nel processo di accumulazione del capitale: la crescita della leva finanziaria.17 La stima del

fenomeno è difficile ma eclatante: secondo il McKinsey Global Institute tra 1980 e 2010 il volume a prezzi correnti dello stock di finanza globale (depositi, azioni, debiti pubblici e privati) cresce da 12 a 212 migliaia di miliardi di dollari.18 Rivoluzione informatica e

derivati (scommesse sul corso di titoli, quotazioni di valute e altre variabili dei mercati) gonfiano una bolla ormai priva di rapporto con la ricchezza reale: nello stesso trentennio il prodotto lordo mondiale si moltiplica per poco meno di quattro volte. Di qui deriva buona parte della capacità delle élite ricche statunitensi (e, in misura minore, degli altri paesi sviluppati) di lasciare al resto della società, meno pratica delle leve finanziarie, solo le briciole. D’altra parte il potere di controllo, regolazione ed imposizione fiscale degli stati

14 A.A.Berle-G.M.Means, Modern corporation and private property, Commerce Clearing House, New York-Chicago 1932; M.Aglietta-A.Rebérioux, Dérives du capitalism financier, Albin Michel, Paris 2004.

15 Tra 1936 e 2005 il compenso medio dei manager Usa sale da 2 a 110 volte il salario operaio medio: cfr.C.Frydman-R.E.Saks, Executive compensation: a new view from a long-term perspective 1936--2005, «Review of Financial Studies», 23, 2010, 5, pp.2099-138. Sulla materia cfr. il numero monografico del «Journal of Economic Perspectives», 27, 2013, 3. Sul capitale umano cfr.G.S.Becker-N.Tomes, Human capital and the rise and fall of families, «Journal of Labor Economics», 1986, 3, Part 2, pp.S1-S39.

16 G.J.Duncan-R.J.Murnane (a cura di), Wither opportunity? Rising inequality, schools, and children’s life chances, Russell Sage, New York 2011.

17 La bibliografia sul punto è ovviamente sterminata. Per un’utile rassegna ad impianto fortemente storico cfr.A.M.Taylor, The great leveraging, working paper 398, Bank for International Settlements, Basel 2012.

18 C.Roxburgh-S.Lund-J.Piotrowski, Mapping global capital markets 2011, McKinsey Global Institute, New York 2011. Tra 1973 e 2004 la media di denaro scambiato giornalmente sul mercato dei cambi valutari cresce da 15 a 1900 miliardi di dollari; tra 1982 e 2012 i flussi annui di investimenti esteri diretti da 57 a 1361 miliardi di dollari; il capitale detenuto negli Usa dai fondi comuni azionari da 25 a 3488 miliardi di dollari: cfr.R.Abdelal, Capital rules: the

construction of global finance, Harvard University Press, Cambridge MA 2007, p.2; Unctad, World Investment Report; B.G.Malkiel, Asset management fees and the growth of finance, «Journal of Economic Perspectives», 27, 2013, 2, tab.1 p.99.

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nazionali su questa ricchezza capace di muoversi su scala globale senza frontiere appare ormai del tutto insufficiente e ancora tutta da costruire è una nuova politica transnazionale, fondata su accordi reciproci di comune interesse tra i diversi paesi.

Addentrarsi poco nel labirinto delle cause dell’ineguaglianza lascia così spazio sia al determinismo apocalittico («è colpa del capitalismo», ma dimenticando che il feudalesimo era ancora più ineguale) sia ad una visione cospirativa che semplifica il tutto (funzione molto richiesta in tempi di transizione) con l’avidità di pochi colpevoli, come nelle fiabe.19

Se si fosse limitato a mettere sotto accusa la sete di ricchezza, il pensiero di Marx avrebbe fatto ben poca strada. Viceversa, una dimensione globale di ricerca – che sfugge al libro di Piketty, concentrato sul bacino atlantico – mette in luce come l’esplosione finanziaria rappresenti una costante storica nel processo di spostamento del baricentro produttivo del mondo dal vecchio al nuovo paese leader: dalle repubbliche marinare all’Olanda, poi alla Gran Bretagna, poi agli Stati Uniti, poi (forse) a Cina e India. In ognuno di questi passaggi, che occupano gli ultimi cinque secoli, le finanze accumulate dal vecchio leader vanno a finanziare la crescita produttiva del leader emergente.20 È solo un’ipotesi, naturalmente. Ma

contribuisce a porre in una prospettiva e in una chiave interpretativa diversa ciò che avviene in Occidente. Gli studi sull’evoluzione dell’ineguaglianza globale negli ultimi decenni mostrano come il recente sviluppo industriale di Cina e India abbia fatto crescere non solo le fortune del percentile più ricco ma anche quelle di una classe media compresa tra i 2 e i 16 dollari al giorno (a parità di potere d’acquisto) che arriva a sfiorare i 3 miliardi di persone. Mentre le distanze tra i redditi medi pro capite delle nazioni continuano ad allungarsi, la fuoriuscita di centinaia di milioni di persone dalla povertà (sotto 1,25 dollari al giorno) in Asia – ma non in Africa sub sahariana – inverte, o quanto meno arresta, la crescita

dell’ineguaglianza ponderata secondo il numero degli abitanti di ciascun paese.21 Almeno un

po’ di farina (non eurocentrica) al sacco di Kuznets, si direbbe. In modo abbastanza

sconcertante, dalla comparazione dei patrimoni finanziari di Cina ed Europa, ma al netto del debito, Piketty ricava la previsione di «molti decenni» necessari per un eventuale sorpasso (p.463) quando è opinione comune tra gli economisti che, almeno in termini di prodotto lordo, di decenni ne basterà uno (scarso). Senza contare che una quota affatto rilevante di quel debito statunitense è oggi detenuta da risparmiatori cinesi.

L’approccio metodico di Piketty – lo studio delle élite – vanta nobilissimi precedenti nel campo delle scienze politologiche, da Mosca a Michels, ma forse non è il più adatto a studiare i processi capitalistici. Da Henry Ford costruttore di automobili in poi, la capacità egemonica ed inclusiva del capitalismo si è misurata, piuttosto che sull’arricchimento delle élite, sulla formazione di una classe media distinta per consumi e stili di vita dalla parte più povera della società. Proprio questo ingrediente cruciale dell’American dream sembra essere entrato in crisi: il reddito dei ceti bassi e intermedi cresce assai meno di quello degli estremi superiori della scala. Il meccanismo virtuoso che aumentava i salari al tempo della

19 In qualche misura indulge a tale debolezza anche L.Gallino, Il colpo di stato di banche e banchieri. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013.

20 C.Kindleberger, I primi del mondo. L’egemonia economica dalla Venezia del Quattrocento al Giappone di oggi, Donzelli, Roma 1997; G.Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 1996 (ed.or.1994); Id., Adam Smith a Pechino. Genealogie del XXI secolo, Feltrinelli, Milano 2008.

21 B.Milanovic, Mondi divisi. Analisi della disuguaglianza globale, Bruno Mondadori, Milano 2007 (ed.or. 2005); F.Bourguignon, La mondialisation de l’inégalité, Seuil, Paris 2012; J.B.Davies et al., The level and distribution of global household wealth, «Economic Journal», 121, 2010, 3, pp.223-54; B.Milanovic-C.Lakner, Global income distribution: from the fall of the Berlin Wall to the Great Recession, Policy Research Working Paper 6719, World Bank, Washington DC 2013 (una versione più breve è in corso di pubblicazione presso la «Review of Economics and

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Rivoluzione Industriale ha smesso di funzionare e la classe media orgogliosa della propria automobile appare in declino.

Figura 1. Redditi medi annui (dollari a prezzi correnti) dei quintili di popolazione e tassi medi annui composti di crescita, Stati Uniti 1967-2008.

Fonte: U.S.Census Bureau, Income, poverty, and health insurance coverage in the United States 2008, Government Printing Office, Washington DC 2009, tab.A3 p.38.

È l’effetto della rapacità dei ricchi – come sostiene Piketty – ma anche e soprattutto di una chiusura dei canali di mobilità sociale ascendente, cioè del caposaldo fattuale della lode neoclassica dell’ineguaglianza. La conclusione condivisa dagli studiosi è anzi

diametralmente opposta: sono le società più eguali (ancora quelle nordeuropee) a detenere i livelli maggiori di mobilità sociale e intergenerazionale, apertura, inclusività. In quelle più ineguali (ancora i paesi di lingua inglese) le gerarchie sociali tendono maggiormente a riprodursi per via ereditaria di padre in figlio e a ricomprendere tradizionali linee di faglia di gender e di razza.22

Proprio qui interviene la leva finanziaria del credito. Lo slogan clintoniano (1993) di una società di possessori di case – status symbol primario per il ceto medio – si traduce nell’incentivo ai famigerati mutui «subprime» concessi senza tanti riguardi per le garanzie

22 R.Frank, Falling behind: how rising inequality harms the middle class, Russell Sage, New York 2007; S.Pressman, The decline of the middle class: an international approach, «Journal of Economic Issues», 41, 2007, 1, pp.181-200; R.Burkhauser-K.Couch, Intragenerational inequality and intertemporal mobility, in Nolan-Salverda-Smeeding (a cura di), Oxford Handbook of Economic Inequality, pp.522-48; M.Corak, Income inequality, equality of opportunity, and intergenerational mobility, Discussion Paper 7520, Forschungsinstitut zur Zukunft der Arbeit, Bonn 2013. Una tesi eterodossa è quella di G.Clark, The son also rises: surnames and the history of social mobility, Princeton University Press, Princeton NJ 2014 che sulla base di dati extraeconomici (endogamia e persistenza dei cognomi nelle professioni) affianca la Svezia agli Usa per bassa mobilità nel lungo periodo.

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di solvibilità, che sono all’origine della crisi dell’estate 2007.23 La finanza serve anche ad

alimentare illusioni e a compensare col credito il reddito che ristagna. Non senza efficacia, se i sondaggi di opinione continuano a registrare soprattutto, ma non solo, negli Stati Uniti un ottimismo immotivato circa la propria collocazione sociale.24

Una sezione importante del dibattito sull’ineguaglianza riguarda la dispersione dei salari. Fino dal 1980 nei paesi avanzati le differenze retributive tra lavoratori qualificati e dequalificati sono in costante aumento, ma gli studiosi che attribuiscono questa crescita dell’ineguaglianza alla globalizzazione (sotto forma di importazione dall’estero di merci e manodopera a costo minore) appaiono in netta minoranza rispetto a quelli che sottolineano il ruolo dell’innovazione tecnologica e delle maggiori competenze richieste alla forza lavoro (e la conseguente messa fuori gioco dei lavoratori che non le possiedono). Il declino dei sindacati appare conseguenza anziché causa di tale processo.25 Il premio occupazionale e

remunerativo che deriva da qualificazione e scolarità infatti introduce nel mondo del lavoro un mutamento antropologico più ampio, indotto da media e consumi: l’emergere di un individualismo acquisitivo di massa, portato a far primeggiare le ragioni della libertà su quelle della giustizia.26 Prima ancora che sulla insostenibilità del welfare state, la

rivoluzione neoliberista degli anni ottanta si fonda su questo aspetto cruciale e difficilmente reversibile dello spirito pubblico: nessuna riedizione del compromesso keynesiano e

socialdemocratico precedente può essere possibile se non lo considera e non lo soddisfa almeno in parte.

D’altra parte, le scienze economiche rimarcano oggi – contrariamente a Kuznets e alla tradizione liberale neoclassica – l’esistenza di un nesso organico tra ineguaglianza e povertà, che lo sviluppo da solo non riesce a riassorbire: argomento peraltro già presente in Adam Smith.27 Una corposa letteratura sottolinea come livelli eccessivi di ineguaglianza

economica abbiano effetti negativi sulla crescita in termini di depressione della mobilità e dell’apertura sociale, dell’emarginazione e dei conflitti che possono derivarne.28 Ma si è

anche dimostrata la correlazione statistica tra più alti livelli di ineguaglianza interna (con particolare riferimento a Stati Uniti e Gran Bretagna) e più alti livelli di disagio sociale:

23 H.M.Schwartz, Subprime nation: American power, global capitalism, and the housing bubble, Cornell University Press, Ithaca NY 2009.

24 M.D.R.Evans-J.Kelley, Subjective social location: data from 21 nations, «International Journal of Public Opinion Research», 16, 2004, 1, pp.3-38; A.Alesina-R.Di Tella-R.MacCulloch., Inequality and happiness: are Europeans and Americans different?, «Journal of Public Economics», 88, 2004, 9-10, pp.2009-42; L.Osberg-T.Smeeding, «Fair» inequality? Attitudes toward pay differentials: the United States in comparative perspective, «American Sociological Review», 71, 2006, 3, pp.450-73; M.I.Norton-D.Ariely, Building a better America: one wealth quintile at a time, «Perspectives on Psychological Science», 6, 2011, 1, pp.9-12.

25 Per un esempio della prima tesi cfr.A.Wood, North-South trade, employment, and inequality, Clarendon, Oxford 1994. Per esempi della seconda W.Cline, Trade and income distribution, Institute for International Economics, Washington DC 1997; D.Acemoglu, Technical change, inequality, and the labor market, «Journal of Economic Literature», 40, 2002, 1, pp.7-72; C.D.Goldin-L.F.Katz, The race between education and technology, Harvard University Press, Cambridge MA 2008; D.H.Autor-L.F.Katz-M.S.Kearney, Trends in U.S. wage inequality: revising the revisionists, «Review of Economics and Statistics», 90, 2008, 2, pp.300-23; R.Z. Lawrence, Blue-collar blues: is trade to blame for rising US income inequality?, Peterson Institute for International Economics, Washington DC 2008.

26 P.Rosanvallon, La société des égaux, Seuil, Paris 2011; B.R.Scott, Capitalism: its origins and evolution as a system of governance, Springer, New York 2011.

27 Cfr.A.Smith, La ricchezza delle nazioni, [1776], Utet, Torino 1975, p.169: «nessuna società può essere fiorente e felice, se la maggior parte dei suoi membri è povera e miserabile». Per una rassegna della letteratura recente cfr.S.Voitchovski, Inequality and economic growth, in Nolan-Salverda-Smeeding (a cura di), Oxford Handbook of Economic Inequality, pp.549-74.

28 A.Alesina-D.Rodrik, Distributive politics and economic growth, «Quarterly Journal of Economics», 109, 1994, 2, 465-90; T.Persson-G.Tabellini, Is inequality harmful for growth?, «American Economic Review», 84, 1994, 3, 600-21; R.Blank, Changing inequality, University of California Press, Berkeley CA 2011.

(9)

delinquenza giovanile, gravidanze in età adolescenziale, alcolismo, omicidi, più bassa aspettativa di vita, più alta mortalità infantile, obesità. I paesi scandinavi del nord Europa contraddistinti da una minore dispersione dei redditi mostrano anche una minore incidenza di questi aspetti degenerativi.29 Non solo. L’esperienza storica dei paesi asiatici di prima e

seconda industrializzazione (Taiwan, Corea del sud, Vietnam) rivela che politiche attive di redistribuzione del reddito realizzate attraverso le riforme agrarie del secondo dopoguerra possono rivelarsi prerequisiti determinanti per una crescita economica assai più rapida di quella realizzata a suo tempo dalla Rivoluzione Industriale inglese che muoveva – almeno a stare agli scarsi dati disponibili – da livelli di ineguaglianza nettamente superiori.30 Al

contrario, i livelli record di ineguaglianza presenti in America latina costituiscono un

oggettivo freno alla crescita della domanda interna e rappresentano una perdurante difficoltà a costruire istituzioni inclusive, che deriva ancora dal passato coloniale e dalla sua

concentrazione della proprietà terriera.31

La «regola» di Kuznets conosce insomma numerose eccezioni, forse troppe. Ma non è nemmeno (solo) colpa di Reagan. La crescita della leva finanziaria come facile, ancorché volatile, rifugio dalla difficile incertezza degli investimenti produttivi (in un mondo il cui baricentro industriale si sposta verso Oriente) mette in crisi la fiducia della scuola

economica neoclassica nelle capacità redistributive del capitalismo. Ma non perché quelle capacità non siano mai esistite, come crede Piketty. Altrove, proprio ad Oriente, quelle capacità stanno funzionando su una dimensione di scala e con una rapidità temporale senza precedenti, nemmeno al tempo della Rivoluzione Industriale inglese. Declino

dell’Occidente?

29 R.Wilkinson-K.Pickett, The spirit level: why greater equality makes societies stronger, Bloomsbury Press, London 2009.

30 Cfr.Alesina-Rodrik, Distributive Politics, p.483; W.T.Alpert (a cura di), The Vietnamese economy and its

transformation to an open market system, Sharpe, Armonk NY 2005, pp.32-43; M.Ravallion-D.van de Walle, Land in transition: reform and poverty in rural Vietnam, World Bank, Washington DC 2008; G.Clark, A farewell to alms: a brief economic history of the world, Princeton University Press, Princeton NJ 2007, tab.14.2 p.281.

31 D.Acemoglu-J.A.Robinson, Perché le nazioni falliscono. Alle origini di potenza, prosperità e povertà, Il Saggiatore, Milano 2013 (ed.or.2012).

Figura

Figura 1. Redditi medi annui (dollari a prezzi correnti) dei quintili di popolazione e  tassi medi annui composti di crescita, Stati Uniti 1967-2008

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