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Academic year: 2021

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Abstract

For a long time, there is a change in the content of the psychiatrist’s “security position”, as evidenced by the analysis of the Criminal Law case of recent years. There has been, in all respects, the overwhelming return of social demand not only to take care of mentally ill but also to strive to counteract potential violence, self-directed or direct against other people. The closure of the psychiatric hospitals, the transfer to the mental health department of the management of psychiatric security measures, the establishment of residences for the implementation of these measures, the spread of ex-admitted to a forensic psychiatric hospital in the community facilities of the territory, has led to a profound change in the daily work of the psychiatris, with new profiles of responsibility ranging from security issues to patients and health workers, to organizational models of services. These issues are also discussed in the light of recent national regulatory innovations regarding the safety and responsibility of healthcare professionals.

Key words: responsibility • treatment • offenders • Rems • social dangerousness

Riassunto

Da tempo in Italia è in atto un cambiamento dei contenuti della “posizione di garanzia” dello psichiatra, come dimostra l’analisi della Giurisprudenza della Cassazione penale degli ultimi anni. Vi è stato, a tutti gli effetti, il prepotente ritorno della richiesta sociale non solo a prendersi cura dei malati di mente ma anche ad adoperarsi per contrastarne i potenziali compor-tamenti violenti, auto o etero-diretti. La chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, il trasferimento ai Dipartimento di salute mentale della gestione delle Misure di sicurezza psichiatriche, la creazione delle Residenze per l’esecuzione di dette misure, il diffondersi di ex-internati in OPG nelle strutture comunitarie del territorio, ha determinato un profondo cam-biamento della quotidiana attività di lavoro dello psichiatra, con nuovi profili di responsabilità che si estendono dai temi della sicurezza verso pazienti e operatori della salute, ai modelli organizzativi dei servizi. Questi temi sono discussi anche alla luce delle recenti innovazioni normative nazionali in tema di sicurezza e responsabilità degli operatori sanitari.

Parole chiave: responsabilità • trattamento • offenders • Rems • pericolosità sociale

Per corrispondenza: Roberto Catanesi, Sezione di Criminologia e Psichiatria forense, D.I.M., Policlinico, p.zza G. Cesare, 70124, Bari, • email: roberto.catanesi@uniba.it

Roberto CATANESI, Ordinario di Psicopatologia forense, Università "Aldo Moro" di Bari.

La responsabilità professionale dello psichiatra ai tempi delle REMS

Responsibility of psychiatrists at the time of REMS

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La responsabilità professionale dello psichiatra ai tempi delle REMS

1. Il ritorno della cura e controllo

Che tipo di cambiamento ha davvero prodotto, nell’assi-stenza psichiatrica, la chiusura degli OPG?

Questo tema, come da tempo non si vedeva in psichia-tria, ha sollevato timori e resistenze, un grande dibattito (Della Casa, 2013; Dell’Acqua, 2013; Di Nicola, 2015) non esente da prese di posizione anche ideologiche. In fondo, se-condo alcuni, la chiusura degli OPG, completando un per-corso di de-istituzionalizzazione lungo 40 anni, si sarebbe limitata ad indirizzare sul territorio il trattamento di un pic-colo numero di pazienti psichiatrici, circa 1500 su una stima di pazienti affidati ai DSM in Italia pari a 780.000 (Ministero della salute, 2016). Il rischio, secondo il parere anche delle più importanti organizzazioni scientifiche psichiatriche (Sip), era invece quello di trasferire sulla psichiatria istanze di difesa sociale (Pompili, Nicolò, Ferracuti, 2016).

Al di là delle prese di posizione ideologiche, quella che stanno affrontando i DSM è sfida terapeutica certamente di non poco conto. La psichiatria territoriale è chiamata alla “presa in carico” (Ciliberti et al., 2015) di pazienti cer-tamente difficili, sul piano clinico, con alle spalle svariati anni di istituzionalizzazione. Il profilo di paziente\internato tracciato dalla Commissione interministeriale Giustizia (2006) che anni fa ebbe il pregio di analizzare i 5 OPG at-tivi delineava questa tipologia di paziente: affetto da psicosi (70% schizofrenia o disturbo delirante), spesso con doppia diagnosi, alle spalle una lunga storia di ricoveri e Tratta-menti Sanitari Obbligatori, responsabile per lo più di reati contro la persona, con andamento caratterizzato da ripetute recidive di reato e conseguenti reingressi in OPG, in carico a servizi psichiatrici pubblici da molti anni, problematico sul piano trattamentale e comportamentale. Nella prospet-tiva puramente terapeutica era (è) dunque una sfida diffi-cile, e la psichiatria italiana non si è certo tirata indietro.

Il problema è, però, altro. Non quale sia il migliore, il più efficace trattamento dell’infermo di mente-reo – argo-mento che da solo meriterebbe lunga dissertazione – bensì ciò che dal trattamento ci si aspetta. Si può, si deve trattare ogni paziente, per difficile che sia. Ma allo psichiatra ita-liano, oggi, non è richiesto (solo) di applicare l’arte della sua scienza al fine di ottenere il massimo beneficio possibile ma soprattutto fare in modo che quel paziente, che ha già commesso un reato, non recidivi.

Per questa ragione a nostro avviso non può in alcun modo – se non simbolicamente – essere associata la chiu-sura dei manicomi nel ’78 a quella degli OPG oggi, perché la prima era basata sul disconoscimento della “pericolosità a

sé e agli altri” del paziente psichiatrico; questa – al contrario

– è fondata sul riconoscimento della “sociale pericolosità” del paziente psichiatrico autore di reato.

L’insieme di provvedimenti normativi che ha seguito la nota l. 17 febbraio 2012, n.9 hanno contribuito a rendere

sempre più consistente quello che a nostro avviso é il grande equivoco di fondo: l’affido alla psichiatria, ai Dipartimenti di Salute Mentale (DSM), delle Misure di sicurezza psichia-triche. Ratificando in modo chiaro l’affido agli psichiatri, insieme al dovere di cura, del controllo sociale di coloro che sono considerati socialmente pericolosi (Massaro, 2015).

È stato sancito, in definitiva, il vero ritorno della cura e controllo (Cupelli, 2016). Con profili di responsabilità pro-fessionale che non sono solo terapeutici, o organizzativi, ma si estendono al controllo comportamentale dei pazienti as-sistiti. Già il decreto 1 ottobre 2012 del Ministero della Sa-lute (12A12296), che definiva i “requisiti strutturali, tecnologici

e organizzativi delle strutture destinate ad accogliere le persone in misura di sicurezza psichiatrica” (all’epoca l’acronimo REMS

non era stato ancora definito) aveva stabilito difatti che “la

gestione interna di tali strutture è di esclusiva competenza sanita-ria”, fatta salva “l’attività perimetrale di sicurezza e vigilanza esterna”, delegata a Regioni e province autonome, in

ac-cordo con le Prefetture. In particolare, segnalava il decreto, “la responsabilità della gestione all’interno della struttura è assunta

da un medico dirigente psichiatra”.

Non la responsabilità delle cure – come sarebbe logico attendersi – bensì la responsabilità della gestione interna delle strutture, che è cosa molto più ampia e complessa. Re-sponsabilità dunque della gestione delle misure di sicurezza psichiatriche, che significa come detto anche dei compor-tamenti degli assistiti, del loro eventuale allontanamento dalle strutture, delle problematiche amministrative associate. Le radici del cambiamento sono lontane, ma sul piano giurisprudenziale rinviano simbolicamente alle note sen-tenze 18 luglio 2003, n. 53 e alla successiva 17-29 novembre 2004 n. 367 della Corte Costituzionale. La Corte, nel di-chiarare l’illegittimità dell’art. 222 e dell’art 206 cp nella parte in cui non consentiva al Giudice di adottare una di-versa misura di sicurezza (dal ricovero in OPG), stabilì difatti un principio ritenuto, da allora, non più sindacabile: “tutte

le misure di sicurezza nei riguardi degli infermi di mente incapaci si muovono fra queste due polarità – assicurare adeguate misure all’infermo di mente e far fronte alla pericolosità sociale - e, in tanto si giustificano… in quanto rispondono contemporaneamente a entrambe queste finalità, collegate e non scindibili, di cura e tutela dell’infermo e di contenimento della sua pericolosità…. Un sistema che rispondesse ad una sola di queste due finalità non potrebbe ri-tenersi costituzionalmente accettabile.

In prospettiva medica, psichiatrica, non si poteva che es-sere d’accordo. Un trattamento – per definirsi tale - non può mai rinunciare ad avere quale obiettivo la tutela della salute del paziente, a prescindere dalla cornice giuridica entro cui il trattamento è collocato. Sino a qualche tempo fa, tuttavia, i due compiti – tutela della salute dell’infermo e conteni-mento della sua pericolosità - erano ben distinti: alla psichia-tria l’onere di tutela della salute dell’infermo, al Ministero di Giustizia – nelle sue diverse organizzazioni - quella di tutela della collettività e contenimento della pericolosità.

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Tutto è cambiato nel momento in cui la gestione della

misura di sicurezza psichiatrica è stata affidata per intero ai

DSM, vuoi che sia eseguita nelle Rems (misura di sicurezza detentiva), vuoi che lo sia all’interno di strutture comuni-tarie dedicate (Crap o simili). Entrambe le finalità – cura e controllo - finiscono inevitabilmente per ricadere sulla psi-chiatria, visto che da un lato ai DSM è attribuita “esclusiva

gestione sanitaria all’interno delle strutture” e, dall’altro, “la re-sponsabilità della gestione all’interno della struttura è assunta da un medico dirigente psichiatra”.

Non si tratta di timore eccessivo da parte nostra. È suf-ficiente leggere voci provenienti dal mondo del diritto. Ad es. Cupelli (2016) così si esprime: “emerge in maniera nitida

la convergenza, nella posizione di garanzia primaria degli operatori psichiatrici, di compiti che un tempo erano allocati tra responsabili di amministrazioni distinte (penitenziaria e sanitaria), col ritorno in capo al personale sanitario (in luogo di funzioni esclusivamente terapeutiche) di obblighi congiunti di controllo e protezione, fondati non sul presupposto del vizio di mente che ha condotto al proscio-glimento degli internati, quanto piuttosto sulla pericolosità sociale che rappresenta per sé e per i terzi, alla base dell’applicazione della misura di sicurezza”.

Questo il sottile ma per certi versi clamoroso paradosso: la psichiatria, che con la legge Basaglia era riuscita a liberarsi del ruolo di controllo custodiale per valorizzare unicamente la sua funzione terapeutica, si è vista restituire le funzioni di controllo, in modo formale, nel momento stesso in cui abbatteva l’ultimo residuo “muro” istituzionale.

L’obiettivo di chiusura degli OPG, presentato come norma di civiltà e progresso – e lo è stato, ben inteso - ha però portato a trasferire silenziosamente competenze del Ministero di Giustizia alla Sanità, ai DSM, e tutto ciò senza modificare né il sistema delle misure di sicurezza né quello legato all’imputabilità.

Principi ispiratori di assoluta condivisione, come ad esempio quelli previsti dall’art. 1 della legge 23 maggio 2013, n.57, che prevede “l’obbligo per le aziende sanitarie locali

di presa in carico all’interno di progetti terapeutico-riabilitativi in-dividuali che assicurino il diritto alle cure e al reinserimento so-ciale”, di apparente esclusivo taglio clinico, sono stati posti

in continuità con frasi che ricordano a tutti gli operatori (“nonche’ a favorire l’esecuzione di misure di sicurezza alternative

al ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario) che, al fine, di

mi-sura di sicurezza si tratta.

È forse prematuro trarre considerazioni definitive sul punto, in considerazione del continuo divenire dell’assetto normativo in questa stagione (Pellissero 2012; 2013; 2014; Schiaffo 2013). Di certo, nell’attualità, pare essere divenuta ancor più complessa ed articolata la “posizione di garanzia” dello psichiatra.

2. La posizione di garanzia in psichiatria: cura e

controllo

Nonostante le resistenze della Psichiatria, per lungo tempo restia anche a prendere atto dei cambiamenti in corso, il movimento di restituzione delle funzioni di controllo dei comportamenti dei propri assistiti era iniziato da lungo tempo, ad opera della Giurisprudenza della Cassazione pe-nale (Catanesi, Carabellese, Grattagliano, 2009).

L’idea che lo psichiatra dovesse occuparsi del solo trat-tamento medico e psicologico del paziente, senza cioè dover rispondere dei comportamenti messi in atto dal pro-prio assistito, era stata già da tempo affrontata – e demolita - dalla Suprema Corte, ed appare ben sintetizzata in questa massima: «Lo psichiatra ha l’obbligo di proteggere il paziente da

condotte auto ed etero-lesive, anche se la cura è volontaria». Anche fuori dalle ipotesi di ricovero coatto lo psichiatra è titolare di una posizione di garanzia, sullo stesso gravando doveri di protezione e di sorveglianza del paziente in relazione al pericolo di condotte autolesive (e, naturalmente, eterolesive). (Cass. Pen., IV Sez., n.

48292 del 27.11.08).

Non si tratta di sentenza isolata, bensì di orientamento dottrinario che nel tempo ha condotto – anche se fortuna-tamente di rado – a condanne di psichiatri vuoi per suicidio del proprio paziente vuoi, come nel ben noto caso Pozzi, per omicidio commesso dal proprio paziente (reato colposo in delitto doloso). Diverse le motivazioni poste a fonda-mento di tale orientafonda-mento. La prima è che la Costituzione, all’art. 32, tutela la salute non solo come ‘‘fondamentale diritto

dell’individuo’’ ma anche come ‘‘interesse della collettività’’. La

seconda è che la posizione di garanzia del medico (e, dun-que, dello psichiatra) comprende non solo aspetti di cura in senso stretto, ma anche di protezione, di difesa dagli aspetti più nefasti della malattia da cui il paziente è affetto. Così come ci sembra “naturale” che lo psichiatra si adoperi al fine di evitare il suicidio del proprio paziente depresso – e non solo cioè curare la depressione – egualmente dovrà fare per evitare la messa in atto di agiti violenti se questi altro non sono, per restare all’esempio del disturbo dell’umore, che espressione di una fase di scompenso maniacale. En-trambi disturbi del comportamento strettamente connessi al disturbo mentale.

Da tali presupposti sono originate posizioni dottrinarie secondo cui ‘‘lo psichiatra.. è tenuto a realizzare tutti gli

inter-venti terapeutici necessari in vista della funzione primaria, che è quella del miglioramento delle condizioni di salute mentale del pa-ziente”, ma non possa per questo ritenersi esentato dalla “re-sponsabilità limitatamente a eventi dannosi commessi in conseguenza della omessa prevenzione che la specifica funzione te-rapeutica richiedeva”. In definitiva lo psichiatra, pur in termini

diversi e con finalità diverse, non è esentato dall’obbligo di garanzia previsto dal II cpv dell’art. 40 c.p. per gli effetti cri-minosi collegati causalmente alle alterazioni psichiche del paziente affidato alla sua cura (Bilancetti, 2005).

Segnale giurisprudenziale forte, in questa prospettiva, come si diceva è stato dato della ben nota sentenza del Tri-bunale di Bologna (27 gennaio 2006) nella quale i giudici – nel condannare uno psichiatra per il delitto commesso da un suo paziente - identificarono in capo allo psichiatra “…

un obbligo di garanzia nei confronti del malato di mente, nella forma della posizione di controllo che impone al soggetto obbligato la neutralizzazione di determinate fonti di pericolo in modo da tutelare tutti i beni giuridici che si trovano in contatto con esse e che, per questa ragione, possono versare in una situazione di peri-colo”. Sentenza che adattò alla psichiatria un principio

con-diviso con altri professionisti e che, com’è noto, fu poi ripreso sia dalla Corte d’Appello di Bologna (III Sez. Pen., 4 aprile 2007) che dalla Cassazione. Secondo quest’orien-tamento giurisprudenziale, in sostanza, lo psichiatra avrebbe l’obbligo giuridico di adoperarsi per impedire che un

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pa-La responsabilità professionale dello psichiatra ai tempi delle REMS ziente, a causa della sua patologia, possa nuocere a sé stesso

o ad altra persona.

In tempi più recenti analoga sentenza è stata pronunciata in Francia, per condizioni molto simili (la psichiatra Daniele Canarelli è stata condannata dal Tribunale di Marsiglia per l’omicidio commesso da un suo paziente).

Alla luce di questi orientamenti può ben dirsi che la Psichiatria italiana si trovi al centro di forze centrifughe, fra incudine e martello. Come sostiene Cendon (2015), con un’immagine figurata di indubbia forza, lo psichiatra si trova attualmente nella “tenaglia di due possibilità simmetriche di

re-sponsabilità civile, quella nascente da un’illecita compressione delle libertà fondamentali dell’infermo di mente e quella corrispondente alle doglianze dei vari terzi che sono rimaste vittima di un eccesso di permissivismo”. In sostanza, per fare un esempio, si può

es-sere chiamati in causa per mancato TSO – da cui sia deri-vato un gesto violento del proprio paziente – e per averlo effettuato, il TSO.

Questa, in massima sintesi, la posizione di garanzia dello psichiatra prima della chiusura degli OPG, nello specifico naturalmente del tema del comportamento violento. Cosa cambia, concretamente, a seguito della assegnazione ai DSM del trattamento degli infermi di mente responsabili di de-litti?

3. La posizione di garanzia in psichiatria ai tempi

delle Rems: cura, controllo, sicurezza interna

e protezione della collettività

Le Rems rappresentano simbolicamente il cambiamento più evidente dell’attuale assetto delle Misure di sicurezza psichiatriche, essendo anche nominalmente le uniche strut-ture “nuove” dell’assetto trattamentale dipartimentale. Il problema della responsabilità professionale, della rinnovata “posizione di garanzia” è tuttavia molto più ampio e ri-guarda tutti coloro che assistono pazienti autori di reato, vuoi che operino nelle strutture riabilitative presenti nel territorio (incluse le Rems), vuoi che svolgano la loro atti-vità nei CSM.

L’intero DSM, con le sue diverse strutture e articola-zioni, è difatti chiamato a trattare pazienti sottoposti a mi-sura di sicurezza, per i quali cioè è stato formalmente pronunciato un giudizio di sociale pericolosità, attenuata o

elevata che sia.

Alle Rems – strutture che ricevono pazienti in misura di sicurezza detentiva - sono destinati difatti pazienti carat-terizzati da alta complessità clinica ed evelato rischio di re-cidiva. Ma anche altre strutture comunitarie del territorio, ad esempio le Comunità terapeutiche dedicate agli autori di reato (per misure di sicurezza non detentive), almeno in alcune realtà regionali (come quella pugliese) accolgono pa-zienti le cui caratteristiche non sono poi così diverse:

“ne-cessità di interventi terapeutici ad alta intensità riabilitativa di lungo periodo a causa della persistenza di condizioni psicopatologiche gravi e con valutazione di rischio alto o moderato di comportamenti violenti” (Reg.Reg. 30.9.14 n.18).

Nei confronti di tutti i pazienti affidati ai servizi psichia-trici territoriali – siano essi ad elevata o attenuata pericolosità sociale – si stabilisce in definitiva una “posizione di garanzia” che prevede per lo psichiatra tanto obblighi legati alla tutela

della salute, tanto obblighi di “protezione”, cioè un insieme di misure atte a ridurre i rischi di nuovi comportamenti vio-lenti auto o etero-diretti. Una forma “psichiatrica” di con-trollo e prevenzione del comportamento violento agita nei confronti di una popolazione di pazienti che, “per defini-zione”, presenta rischio consistente di commettere compor-tamenti violenti, al punto che con sentenza di un Giudice è stato definito come “probabile” il rischio di recidiva (è il pre-supposto della sociale pericolosità).

Non solo. Il trattamento psichiatrico su pazienti indubi-tabilmente difficili dal punto di vista clinico, avviene sull’in-tero territorio nazionale secondo modalità e organizzazione strutturale molto diversa, nel rispetto di assetti prescelti dalla politica regionale che differiscono fra loro non tanto in ra-gione di maturate differenti esperienze cliniche quanto pre-valentemente in relazione a orientamenti politici locali. Abbiamo così realtà come quella lombarda, che sfruttando l’esperienza di Castiglione delle Stiviere – l’unica vera struttura che possa dirsi aver mastrutturato esperienza trattamentale -ha concentrato in una unica Rems, sia pure divisa per mo-duli, 120 pazienti, e realtà come quella pugliese che ha pre-scelto un approccio trattamentale del malato di mente autore di reato con privilegio verso piccole strutture comunitarie, massimo 10 posti (Crap), con un’unica figura professionale psichiatrica in servizio, con approccio di tipo psico-sociale, riservando a 2 sole Rems, per un totale di 38 posti, l’esercizio delle misure di sicurezza psichiatrica detentive.

Condizioni ambientali e organizzative molto differenti fra loro, come pure principi costitutivi e di approccio tera-peutico. Per tutti gli operatori valgono tuttavia analoghi ob-blighi e responsabilità. Allo psichiatra non comporta solo strutturare un progetto terapeutico – riabilitativo persona-lizzato ma garantire contestualmente, attraverso quel pro-getto, il controllo della pericolosità dell’infermo di mente reo. Su di lui gravano in definitiva, obblighi di protezione che riguardano sia la collettività che – ed è l’elemento su cui vogliano fermare la nostra attenzione – il personale di assistenza e gli altri utenti della struttura.

Diviene forte, in queste strutture, il tema della sicurezza interna, tema dai diversi provvedimenti legislativi citati o denegato o, semplicemente, affidato alle regole generali che trattano la sicurezza sul posto di lavoro.

Eppure è del tutto evidente che uno dei primi problemi da affrontare, quando si mettono insieme persone caratte-rizzate da elevata o alta “sociale pericolosità”, sia quello della sicurezza interna, sia dei lavoratori che dei singoli ospiti. Si-curezza sino a ieri affidata al Ministero di Giustizia, che ri-posava sulle spalle degli agenti di polizia penitenziaria, su strutture contentive forti – com’erano gli OPG – e che oggi invece sono state trasferite sul personale sanitario in servi-zio.

Per tutti coloro che sono chiamati a gestire pazienti au-tori di reato in misura di sicurezza diviene di conseguenza sempre più stridente la questione della gestione del rischio, tanto più complessa in presenza di un ‘‘mandato sociale’’ambivalente, che da un lato richiede promozione di salute e dei diritti del malato, sviluppo di autonomia, dal-l’altro contestuali garanzie di sicurezza sociale e obblighi di custodia.

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4. La gestione del rischio in psichiatria

Del cosiddetto “rischio consentito”, o “aggravamento del rischio consentito”, si è occupata da tempo la Cassazione Penale (IV Sez. n 4107 del 28.1.2009) che, con riferimento alla responsabilità dello psichiatra, ha più volte ricordato che «l’osservanza delle regole cautelari esonera da responsabilità per

ri-schi che siano prevedibili ma non prevenibili solo se l’agente abbia rigorosamente rispettato non solo le comuni regole cautelari ma al-tresì quelle la cui osservanza è resa necessaria dalle caratteristiche e dalle modalità che aggravano il rischio, richiedendo l’adozione di ulteriori e più rigorose regole cautelari».

In altri termini, quando la situazione clinica presenta ri-schi che possano dirsi prevedibili, lo psichiatra è chiamato ad adottare il più rigoroso rispetto delle regole cautelari, cioè la massima aderenza alle regole di scienza, diligenza e pru-denza. Prevedere un evento – nella prospettiva della respon-sabilità professionale – significa poterlo rappresentare mentalmente sulla base delle conoscenze di settore.

Nel caso di pazienti sottoposti a misura di sicurezza, che i rischi siano prevedibili può darsi per scontato, visto che si tratta di pazienti – a prescindere se collocati in Rems o in strutture comunitarie – a cui è stata riconosciuta, per legge, la “probabilità di commettere nuovi delitti”. La “prevedibilità” in questi casi è dunque condizione esistente a monte, e il rischio è definito tale per legge. Il comportamento dei sanitari che operano all’interno di queste strutture dovrà dunque essere necessariamente orientato al massimo rigore; non sono suf-ficienti le “comuni regole cautelari” bensì “le più rigorose”.

V’è da chiedersi, in concreto, quali siano le «ulteriori e più

rigorose regole cautelari» adottabili nella prospettiva della

ge-stione del rischio e come questa frase - nella vita reale – possa essere interpretata alla luce anche dei «doveri di protezione e di

sorveglianza del paziente in relazione al pericolo di condotte auto-lesive (e, naturalmente, eteroauto-lesive)». E, come il ruolo terapeutico

dello psichiatra sia coniugabile con altra avvertenza della Su-prema Corte, cioè che il rispetto dell’alleanza terapeutica «non può costituire il via libera per mettere in discussione la sicurezza

del paziente medesimo e dei terzi» (Cass. Pen., 12.1.05, n.13245).

La terapeuticità degli interventi non è dunque per lo psi-chiatra scelta prioritaria rispetto a sicurezza e controllo? Certo l’ideale è il bilanciamento di interessi, ma se questo non è con-cretamente attuabile? Tante domande sorgono spontanee.

È concretamente possibile evitare la commissione di gesti violenti (auto o eterolesivi) di pazienti inseriti in un contesto che ha la violenza, l’aggressività come comune de-nominatore? Soprattutto come è possibile farlo senza di-scutere di modelli organizzativi, progettualità e strategie terapeutiche, ma anche della qualità ed esperienza del per-sonale in servizio, della possibilità di scelta dei pazienti se-condo precisi criteri inclusivi nelle diverse strutture?

Sul piano terapeutico – ed in linea generale – va detto che la prevenzione del comportamento violento è estrema-mente difficile perché la violenza – anche quella dei pa-zienti psichiatrici – ha più spesso molteplici radici e non può essere, per tutti e sempre, derubricata a “sintomo” di malattia. La violenza del paziente bipolare in fase maniacale ha poco da spartire, ad esempio, con quella del paziente bor-derline ed entrambe sono ben diverse – sia sul piano clinico che su quello della trattabilità - da quella dello psicopatico; tre tipologie di pazienti che possono di certo essere presenti

in una Rems, ma le cui possibilità di approccio terapeutico – e soprattutto di successo nella prospettiva del controllo/gestione dei comportamenti violenti – sono molto diverse fra loro.

La ricerca criminologica e la dottrina psichiatrico-forense hanno da tempo raggiunto sul punto alcuni chiari capisaldi: il comportamento violento, anche se agito da persona por-tatrice di disturbo mentale, non necessariamente dipende dal disturbo (Fornari, 2015); non tutti i disturbi mentali sono controllabili farmacologicamente, soprattutto non lo sono i comportamenti violenti, almeno in assenza di misure pesan-temente coercitive. Affermazione dimostrata dal fatto che comportamenti auto o etero-lesivi si verificano anche in am-biente carcerario, dove l’esigenza custodialistica è esaltata ed è garantita da personale esperto e da prassi consolidata.

Questi limiti, che mettono a nudo le “improprie” richie-ste a volte provenienti dal contesto sociale e da quello giu-diziario (Scarpa, 2015), da un lato rendono fragile e precaria la richiesta di “controllo” implicita nella misura di sicurezza psichiatrica, dall’altro rischiano di alterare profondamente l’equilibrio su cui la misura di sicurezza dovrebbe reggersi, quello cioè di tenere in bilancio tutela della salute del pa-ziente e protezione della collettività. Un mandato in alcuni casi semplicemente “impossibile”, che ha in sé il rischio di trasformare la natura stessa dell’intervento psichiatrico.

Se il vero obiettivo dovesse divenire evitare (o ridurre) il comportamento violento allora sarebbe evidente il rischio di sbilanciamento verso la “neutralizzazione” dei pazienti, a volte in collisione con possibilità e obiettivi di cura. Se invece la finalità primaria resta la cura – come noi crediamo – l’obiettivo concretamente realizzabile è la minimizzazione del rischio, la strategia diviene “la gestione del rischio” nel modo migliore; a volte – purtroppo - solo la sua accettazione, lad-dove le possibilità trattamentali non consentano altro.

Se dai principi si scende poi all’operatività concreta, va ribadito che limitate sono le possibilità operative dello psi-chiatra nel controllo di comportamenti violenti, non solo per quanto detto a proposito della multiformità e plurige-nesi dei comportanti violenti, ma anche per carenza di cri-teri condivisi di inclusione nelle strutture chiamate a gestire pazienti in misura di sicurezza.

Oggi molto alto è, ad esempio, il rischio di commistioni di quadri psicopatologici ad elevato indice di “innesco”. Questo è quel che accade, in Italia, in tante strutture dedicate (Rems e CT dedicate) in cui i pazienti sono a volte “asse-gnati” dalla Magistratura d’imperio, prima ancora che un progetto terapeutico individualizzato sia stato delineato, senza preoccuparsi della tipologia di pazienti già presenti in quella struttura, senza differenziazione clinica fra le strutture e dun-que senza tener conto delle possibilità trattamentale concrete.

In ambito giudiziario il problema, oggi, è più il “dove” (la ricerca del posto) collocare il paziente che “come” trat-tarlo (quale tipo di progetto); la richiesta maggiore è ottenere un posto in una Rems, visto che in tutte le regioni, già pochi mesi dopo la loro apertura, vi sono lunghe liste d’attesa.

Eppure è di tutta evidenza quanto arrischiata possa es-sere la tendenza a mettere insieme pazienti senza adeguati criteri di inclusione, come sia rischioso – ad esempio – “mescolare” pazienti affetti da disturbi psicotici con pazienti dello spettro borderline-antisociale o, ancora, con pazienti caratterizzati da tratti psicopatici (Carabellese, Felthous, 2016). Un “mix” di ingredienti dalle possibilità di

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intera-La responsabilità professionale dello psichiatra ai tempi delle REMS zione violenta molto elevate, verso cui poco possono fare

gli operatori, sia in termini di cura che di controllo. Con rischi per l’incolumità personale che riguardano tanto gli operatori psichiatrici che i pazienti, nessuno escluso.

Vi sono a nostro avviso, al fondo della questione, una serie di problemi insoluti che hanno sul versante psichiatrico quale radice comune una visione che può definirsi o ideo-logica o infondatamente ottimistica, posta la distanza da realtà clinica ed esperienza scientifica. Evidente poi – con prospet-tiva da parte del mondo del Diritto - la sopravalutazione delle possibilità di intervento psichiatrico e segnatamente dell’efficacia dei farmaci sulle scelte di comportamento, che come detto restano sempre multi-fattoriali (Catanesi, Cara-bellese, 2004). Forte, e illusoria, è poi la convinzione che un buon trattamento produca sempre riduzione dei comporta-menti violenti, mentre le due variabili possono talora essere indipendenti (Catanesi et al., 2009; Carabellese et al., 2015); bisogna infine prendere atto che, in un certo numero di casi, nessun effettivo trattamento è davvero in grado di cambiare il comportamento di un paziente.

In questo contesto allo psichiatra sono richieste “ulte-riori e più rigorose regole cautelari”, oltre che massima ade-renza ai principi delle “buone regole cliniche” (good practice) che sono però sul punto molto scarse, perché manca sufficiente letteratura scientifica alle spalle – l’espe-rienza del trattamento totalmente territoriale del malato di mente socialmente pericoloso non ha sufficienti precedenti, nel mondo – e poi perché si discute di modelli organizzativi del tutto differenti sul piano regionale – per organici, strut-ture, numerosità e differenziazione del personale – con dif-ferenze dettate più spesso da esigenze economiche che di sicurezza.

Certo, l’obbligazione per il medico (dunque per lo psi-chiatra) è e resta di mezzi e non di risultato. Non sarà dun-que dall’agito violento che potrà giudicarsi la qualità del comportamento medico. L’avvenuto suicidio di un pa-ziente, o l’aggressione violenta agita verso altro paziente o sanitario, non potrà essere considerata dimostrazione del fal-limento della strategia terapeutica. Evitare la commissione di un gesto violento, auto o eterodiretto, non potrà mai es-sere l’obiettivo primario di uno psichiatra. Fare di tutto per-ché non avvenga lo è, curare la sua patologia nel modo migliore lo è, usare la massima prudenza lo è.

In concreto, però, nella vita reale, se un paziente in mi-sura di sicurezza, ospite in una comunità terapeutica, aggre-disce un altro paziente e lo ferisce o lo uccide, o se quel paziente si suicida – per fare esempi già occorsi a chi scrive – è bene che lo psichiatra metta in conto di essere indagato perché la prima domanda che pubblico ministero e avvocati si faranno è se siano state messe in atto quelle “particolari misure preventive” che la società si aspetta che lo psichiatra adotti per evitare la commissione di quel gesto.

5. Tutela della salute, sicurezza di pazienti e

la-voratori

La responsabilità degli operatori psichiatrici “ai tempi delle Rems” prevede che il responsabile della struttura – per legge uno psichiatra – sia il garante della tutela della salute dei pazienti, come pure della sicurezza dei lavoratori che vi

operano all’interno. Tutto ciò rinvia a problemi che riguar-dano modelli di intervento e struttura organizzativa (Cata-nesi, Di Sciascio, Palumbo, 2016).

Come in qualsiasi assetto lavorativo, difatti, gli obblighi di tutela chiamano in causa sistemi di sicurezza (lavorativa, ambientale, sanitaria, etc) adeguati e proporzionati alle fi-nalità. La gestione del rischio – in ambienti lavorativi - é com’è noto definita dal D.Lgs.81/08, che la qualifica come la “valutazione globale e documentata di tutti i rischi ..,

finaliz-zata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di prote-zione e ad elaborare il programma delle misure atte a garantire il miglioramento nel tempo dei livelli di salute e sicurezza”.

Se-condo la norma UNI 11230 (2), ambito “Risk Manage-ment”, la valutazione del rischio è il processo di identificazione, misurazione e ponderazione del rischio.

Oggetto della valutazione dei rischi deve essere, innan-zitutto, l’esatta delimitazione (art. 28 DL 81/08) di “tutti i

rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa.. ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi par-ticolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato”; lo

é anche l’individuazione delle mansioni che espongono i lavoratori a rischi specifici e che richiedono particolare ca-pacità professionale, specifica esperienza, adeguata forma-zione; le misure ritenute opportune a garantire il miglioramento dei livelli di sicurezza; l’individuazione delle procedure attuative delle misure da realizzare e i ruoli che vi devono provvedere, etc. In sostanza la valutazione del rischio ha come presupposto l’analisi quali-quantitativa di ogni aspetto del lavoro, dagli ambienti alle attrezzature, dai turni agli orari e così via, allo scopo di identificare i rischi – or-ganizzativi, per la sicurezza o per la salute – e misurarli.

La misurazione del rischio è solitamente effettuata con scale che misurano la probabilità che un evento si verifichi (ad es. improbabile/poco probabile/probabile/altamente probabile) espressa in termini di correlazione diretta fra ri-schio rilevato e verificarsi del danno ipotizzato; la gravità in termini di conseguenze, ove per gravissimo si intendono effetti letali o totalmente invalidanti, per grave effetti irre-versibili e\o di invalidità parziale, medio di inabilità o di ef-fetti reversibili, lieve di inabilità o efef-fetti rapidamente reversibili. La stima del rischio origina in sostanza dal con-fronto della probabilità dell’accadimento di un evento (P) e della sua gravità (D) secondo la formula R=PxD.

Obiettivo della valutazione del rischio é, in definitiva, l’in-dividuazione di tutte le fonti di pericolo e la valutazione della possibile incidenza sui lavoratori; l’eliminazione alla fonte dei fattori di rischio e, se non eliminabili, l’identifi-cazione di adeguati dispositivi di protezione individuale o creazione di condizioni di lavoro che li riducano al minimo; la programmazione e l’attuazione di percorsi di informa-zione e formainforma-zione del personale sui rischi da affrontare.

Naturalmente non abbiamo dati sulle strutture dedicate al trattamento dell'infermo di mente reo (Rems e Crap), essendo state appena create, nè abbiamo stime attendibili di valutazione dei rischi, anche di quelli più facilmente immaginabili, come il rischio di subire violenza sul posto di lavoro.

Con riferimento espresso ai rischi di subire violenza sul posto di lavoro, è dato consolidato in letteratura scientifica che lavorare in sanità esponga genericamente a rischio di subire violenza. È egualmente dato certo che lavorare in psichiatria sia ulteriore fattore di rischio specifico.

(7)

fre-quenza e caratteristiche dei comportamenti violenti subiti dai lavoratori psichiatrici (Grassi et al. 2001; Raya et al. 1997; Raya, Azzoni, 2005). Il luogo più indagato è certamente l’SPDC; li-mitati invece sono gli studi su episodi violenti verificatisi nelle strutture territoriali e/o comunità terapeutiche (Biancosino et al. 2009; Catanesi et al. 2010; Kynoch, Wu, Chang et al. 2011). Sul tema da segnalare i contributi di Magnavita (2011), che esaminando tutti i lavoratori sanitari impegnati in una vasta area (Civitavecchia) comprendente sia Ospedale che servizi del territorio, peraltro in periodi temporali diversi (2005, 2007, 2009), verificò che il rischio di violenza fisica per coloro che lavoravano nei servizi di salute mentale era 22 volte più alto della media. Nella sua analisi qualitativa l’Autore propose anche una interessante riflessione, secondo cui non solo “la violenza

causa stress e una percezione di ingiustizia”, ma è anche possibile

che “lavoratori stressati siano più facilmente vittime di violenza”. Un pericoloso intreccio causale fra modello dell’organizzazione di lavoro e rischiosità intrinseca.

In linea i risultanti emergenti da analoghe ricerche ef-fettuate all’estero, nei più diversi contesti, dalla Cina (Wu et al, 2012) al Giappone (Saeki et al, 2011), dal Regno Unito (Foster, et al 2007) agli Stati Uniti (Ridenour et al, 2015). Qualche ulteriore dato rilevante. Diverse ricerche (Moylan, Cullima, 2011) segnalano che il numero di ag-gressioni di cui sono rimasti vittima operatori psichiatrici sia sottostimato perché non sempre gli episodi violenti sono registrati e\o denunciati, dato trasferibile anche all’ambito italiano, per conoscenza comune; sono spesso gli infermieri la categoria che paga le conseguenze più rilevanti della vio-lenza (Foster et al, 2007) perché per più tempo si confron-tano con i pazienti (Bilgin, Buzlu, 2006; Zeng et al., 2013).) Nella prospettiva della prevenzione non si può poi igno-rare il dato (Nyame et al, 2013) che segnala come la maggior parte degli psichiatri (60%) denunci percezione di inade-guato livello di conoscenza nel fronteggiare la violenza. Dato coerente con quello ottenuto in Italia da Catanesi et al. (2010), con indagine effettuata a mezzo questionario inviato a tutti gli psichiatri italiani; fra le oltre 1200 risposte ottenute emerse che l’esperienza di aggressioni fisica lifetime era molto elevata (64,58%), soprattutto fra coloro che lavoravano in SPDC, e generalizzata era la sensazione di non essere suf-ficientemente preparati a fronteggiarla. Più di recente, altra indagine dello stesso gruppo di ricerca (Palumbo et al, 2016) su un campione di psichiatri pugliesi (n.162) ha confermato il ricorrente confronto da parte degli psichiatri con aggres-sioni fisiche (67% lifetime, 27,2% negli ultimi 12 mesi), il basso ricorso a denunce e al coinvolgimento giudiziario (meno di un quarto degli episodi) e contestualmente la ri-chiesta di maggiore conoscenza e preparazione per fronteg-giare la violenza dei propri pazienti.

La violenza contro gli staff psichiatrici sembra poi essere in aumento. Questo il parere di Soares et al. (2010) dopo una indagine svolta fra distretti di salute mentale a Stoc-colma. La maggioranza (85%) dei partecipanti lo studio (oltre 1000 persone) riportarono esposizione a violenza nel corso della loro carriera e il 57% negli ultimi 12 mesi. Ne-gativa attitudine al lavoro, diminuito senso di autonomia ri-sultarono fattori associati all’aumentata vulnerabilità alla violenza. Non emersero invece differenze significative fra psichiatri e infermieri.

Tutto ciò avviene in contesti psichiatrici “comuni”. E in quelli giudiziari?

Molto limitati sono i contributi che definiscono il rischio in contesti forensi, che peraltro nelle esperienze anglosassoni – da cui proviene buona parte della letteratura scientifica -sono comunque strutturalmente e organizzativamente molto differenti da quello ideato in Italia. Fra questi segnaliamo un recente lavoro di Kelly et al. (2015) che analizzò un ampio gruppo (N=348) di lavoratori impegnati in staff trattamentali in un ospedale psichiatrico forense; questi descrissero come “diffusissima” l’esperienza di conflitto verbale (99%) con i pa-zienti e definirono come “alta” l’incidenza di esperienze di ag-gressione fisica negli ultimi 12 mesi (70%). Un dato che fa pensare, se proiettato sull’esperienza delle Rems.

Tornando in Italia, sul piano regolamentare non si può certamente trascurare – per la evidente connessione fra si-curezza, organizzazione del lavoro e responsabilità - il do-cumento su “aggressività, rischio clinico e sicurezza sul posto di

lavoro” definito dall’Osservatorio nazionale sugli eventi

sen-tinella, che all’epoca (2009) mise a fuoco tre situazioni rite-nute significative: atti di violenza a danno di operatore (punto 12); violenza su paziente (punto 11); suicidio e ten-tato suicidio in ospedale (punto 10). Per i punti 11 e 12 il razionale del documento chiarisce che la ricorrenza di un atto di violenza a danno di un operatore “mette in evidenza

possibili carenze organizzative, quali la mancanza o la inadeguata implementazione di specifiche procedure e\o l’insufficiente comuni-cazione tra operatori o fra operatori e pazienti… in particolare l’evento può essere dovuto a scarsa vigilanza, possibile stress e burn-out del personale, nonché carente informazione e formazione”. Per

il solo punto 12 la raccomandazione prevede che “gli atti di

violenza a danno degli operatori sanitari costituiscono eventi senti-nella che richiedono la messa in atto di opportune iniziative di pro-tezione e prevenzione, dopo aver dato atto che si verificano più di frequente in “strutture psichiatriche ospedaliere e territoriali”. In

sostanza l’atto di violenza – in specie se ripetuto – diviene spia della disfunzione del modello organizzativo, in termini strutturali (tipo di modello), dinamico-relazionali (comuni-cazione fra operatori), per inadeguata vigilanza o malessere del personale e richiede l’attivazione di procedure di “pro-tezione e prevenzione” da parte dei responsabili la struttura. Il tema della sicurezza – che trascina con sé inevitabil-mente quello della responsabilità professionale – è dunque centrale, a nostro avviso, nelle neo-costituite Rems, come pure in tutte quelle strutture territoriali comunitarie che si preparano ad ospitare – o che lo hanno già fatto - pazienti psichiatrici sottoposti a misura di sicurezza non detentiva.

Gli psichiatri chiamati a “governare” dette strutture as-sumono conseguentemente su di loro la responsabilità non solo della cura dei pazienti loro affidati – comune ad ogni medico – ma anche una messe di responsabilità accessorie, una larga parte delle quali attiene profili di sicurezza verso i quali tuttavia essi appaiono poco preparati. Pochi sono di-fatti gli strumenti scientifici adeguati, vista l’assenza presso-ché assoluta di indagini utili a definire i rischi, cosa li determina e, conseguentemente, come poterli adeguata-mente affrontare.

Necessitano dunque studi ampi e longitudinali che ana-lizzino i fattori di rischio, che siano in grado di fornirne peso e incidenza nei diversi contesti di lavoro trattamentale e riabilitativo, nella consapevolezza che tanti fattori, anche le condizioni strutturali e ambientali, possono condizionare i comportamenti dei pazienti, fino a divenire esse stesse fat-tore di rischio di agiti violenti (Lawoko et al, 2004).

(8)

La responsabilità professionale dello psichiatra ai tempi delle REMS È necessario analizzare il ruolo svolto dai modelli

orga-nizzativi sulla salute degli operatori, tener conto anche degli spazi loro dedicati. Quante volte la psichiatria – specie nel territorio – è stata costretta ad adattare il proprio lavoro a spazi totalmente inadeguati, che hanno ignorato le necessità dei pazienti e dei lavoratori, anche nella prospettiva della si-curezza. In altri termini è il momento di chiedere ambienti a misura dei problemi.

È tanto più utile farlo oggi se si pensa – sempre con ri-ferimento alle Rems – quanto differenti siano state nel ter-ritorio nazionale le scelte effettuate dalle Regioni. Il confronto, vuoi in termini di efficacia della scelta organiz-zativa strutturale, vuoi di ricaduta sulla salute (di operatori e pazienti) è semplicemente indispensabile, per orientare scelte politiche che possano dirsi scientificamente fondate. Tutto ciò ben si connette con le responsabilità che gra-vano sulla figura direttiva di dette strutture, ricordando che per consolidata giurisprudenza il soggetto apicale è il ga-rante primario del dovere di sicurezza e che su di lui grava anche l’adempimento della garanzia della predisposizione di modelli organizzativi ed operativi in grado di assicurare le condizioni di “osservanza delle norme in materia di sicurezza

da parte dell’intera organizzazione”. Ai direttori delle

strut-ture, oltre che ai direttori di dipartimento di salute mentale, fanno capo difatti poteri di organizzazione, ed è molto stretta la “connessione tra responsabilità professionale e

responsa-bilità dirigenziale” in relazione all’adozione di modelli di

or-ganizzazione idonei al raggiungimento degli obiettivi. (Dodaro, 2014)

Una adeguata valutazione dei rischi e la definizione di programmi e procedure finalizzati al raggiungimento di obiettivi di sicurezza diviene in definitiva uno degli obblighi che gravano sulla figura dirigenziale psichiatrica, che si in-treccia tuttavia in modo stretto anche con i modelli orga-nizzativi, ivi inclusa la creazione e verifica di un efficace

sistema informativo interno all’organizzazione che non nega,

anzi presuppone, il principio di affidamento.

In definitiva, lo psichiatra che oggi prende la decisione di operare in una struttura dedicata a pazienti sottoposti a misura di sicurezza – detentiva o non detentiva – dovrà ef-fettuare un’analisi attenta dei fattori di rischio – sia indivi-duali, del singolo paziente, che sistemici strutturali - e adottare scelte conseguenti, tali da ridurre, per quanto pos-sibile, l’eventuale messa in atto di gesti violenti. Dovrà anche essere consapevole di dover utilizzare, in simili contesti, li-velli di attenzione, prudenza, diligenza e perizia proporzio-nali alla complessità clinica dei pazienti, e dei rischi che è chiamato a fronteggiare.

Tante volte, questa è la nostra personale esperienza, tutto ciò viene fatto ma non sempre traspare con chiarezza dalla documentazione clinica. È necessario dunque che dell’in-tero percorso trattamentale, delle scelte effettuate, delle di-scussioni di équipe, del confronto con gli altri operatori sanitari, delle raccomandazioni date al personale infermie-ristico resti chiara traccia documentale in cartella, per mo-strare come il problema é stato affrontato, discusso, valutato, soppesato e come si è giunti alla scelta delle misure adottate, posti i limiti di scienza e gli obblighi di norma. È impor-tante cioè che risulti in maniera inequivoca, dalla documen-tazione clinica, che a fronte di una situazione in cui la gestione del rischio é particolarmente elevata, i sanitari ab-biano risposto con la messa in atto di un sistema

comples-sivo di misure preventive proporzionali, fermi restando na-turalmente i limiti di scienza. In sintesi sono indispensabili buone prassi ma è anche necessario che queste siano docu-mentate, che nella lettura a posteriori della cartella clinica tutto ciò emerga con chiarezza. Questa è, a nostro avviso, la migliore “polizza assicurativa” che uno psichiatra possa ac-cendere.

6. La responsabilità professionale nel prossimo

futuro

Nel corso di processi per responsabilità professionale psi-chiatrica, per “oggettivare” le situazioni di rischio e valutare azioni o omissioni da parte di sanitari, si fa comunemente ricorso e confronto con ricerche di letteratura o con linee-guida. Variamente utilizzate, a volte strumentalizzate, ricer-che e linee-guida (per lo più straniere, riferite peraltro a contesti operativi molto diversi dal nostro) in ambito giu-diziario sono usate per “dimostrare” che di fronte a un “ri-schio” si è\non si é risposto in modo adeguato.

Avere a disposizione raccomandazioni, consigli di buona pratica clinica, linee guida codificate da prestigiose Società scientifiche nazionali potrebbe essere di grande aiuto, in specie quando lo psichiatra é chiamato ad agire in condi-zioni di aumentata rischiosità, vuoi per la difficoltà del suo lavoro, vuoi per la delicatezza giudiziaria del suo operato.

Diciamo subito che non ve ne sono, al momento, di linee guida adeguate ad aiutare gli psichiatri che, con co-raggio, decidono di lavorare nelle Rems, nelle Strutture ter-ritoriali dedicate a pazienti in misura di sicurezza psichiatrica. Non ve ne sono per la semplicissima ragione che la storia, su questo fronte, la si scriverà nei prossimi anni a partire dalla pagina zero.

La situazione è oggettivamente complessa, per certi versi paradossale. Nelle condizioni di massima esposizione (po-tenziale) di rischio lo psichiatra e tutti gli operatori che con lui sono chiamati ad operare, dovranno affrontare un lavoro dal punto di vista tecnico poco o nulla codificato, in assenza di adeguate raccomandazioni di buona pratica clinica, privi di linee guida che distillino la conoscenza scientifica di set-tore. La Società Italiana di Psichiatria, del tutto recente-mente, ha approvato un documento scritto da alcuni noti esperti (Nivoli et al., 2016) che fornisce consigli sul con-fronto con il comportamento violento di pazienti psichia-trici. Un primo importante passo.

Un cambiamento, si spera in senso migliorativo, do-vrebbe giungere dalle norme recentemente approvate sulla responsabilità medica (l.8.3.2017 n.24). Una preliminare os-servazione.

È a nostro avviso significativo che il titolo della nuova norma sia “disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della

persona assistita, nonche in materia di responsabilita professionale degli esercenti le professioni sanitarie”; un titolo che salda i concetti di

sicurezza, risk management e responsabilità professionale, così indicando anche una specifica prospettiva, sul tema.

Non è questa la sede per una lettura critica dell’artico-lato, del quale vogliamo unicamente segnalare i punti più significativi, nella prospettiva della nostra riflessione. Inizie-remmo dall’art.1, che definisce la sicurezza delle cure quale parte costitutiva “del diritto alla salute, perseguita nell’interesse

(9)

3 Per singolo evento in caso di colpa grave, non puo superare una somma pari al valore maggiore della retribuzione lorda o del corrispettivo convenzionale conseguito nell’anno di inizio della condotta causa dell’evento o nell’anno immediatamente precedente o successivo, moltiplicato per il triplo.

dell’individuo e della collettivita; sicurezza che si realizza anche con l’insieme delle attivita finalizzate alla prevenzione e alla ge-stione del rischio – concetto che torna in costanza - e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative”.

Un ruolo fondamentale la nuova normativa assegna alle

Buone pratiche clinico-assistenziali, a raccomandazioni e alle linee guida, che divengono non solo strumento clinico di aiuto

nel difficile percorso decisionale sanitario, ma anche poten-ziale ombrello protettivo verso ipotesi di responsabilità pro-fessionale (Cass. Pen., Sez IV, 22.11.11 n.4391). Gli esercenti le professioni sanitarie sono espressamente invitati – per una volta dalla legge – ad attenersi, fatte salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste da linee guida elaborate da Società scientifiche accreditate e regolamentate dal Ministro della salute. Nell’ipotesi di Responsabilita colposa

per morte o lesioni personali in ambito sanitario, qualora l’evento

si sia verificato a causa di imperizia, la punibilita è difatti esclusa se sono state rispettate le raccomandazioni previste da linee guida o, in mancanza di queste, da “buone pratiche clinico-assistenziali”, sempre che le raccomandazioni risul-tino adeguate e coerenti alla specificità del caso concreto.

La necessità che le Società Scientifiche di riferimento forniscano di conseguenza il proprio contributo è, in questa prospettiva, di tutta evidenza e dovrà divenire uno dei loro obiettivi prioritari d’azione nel prossimo futuro.

Apprezzabili cambiamenti vi sono pure in ambito civile (Venchiarutti, 2013), sia per lo psichiatra che per i DSM. La nuova normativa ha difatti previsto, nell’ambito della

Re-sponsabilita civile della struttura e dell’esercente la professione sa-nitaria, all’art.7, che la struttura sanitaria o sociosanitaria

pubblica o privata che, nell’adempimento della propria ob-bligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, risponda, ai sensi degli articoli 12181e 1228 del

codice civile, delle loro condotte dolose o colpose. L’eser-cente la professione sanitaria risponde invece del proprio operato ai sensi dell’articolo 20432 del codice civile, salvo

che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrat-tuale assunta con il paziente.

La differenza, che si pone nel solco di analogo orienta-mento del Tribunale di Milano (Trib. Milano, sez. I civ., 17 luglio 2014), produce una evidente torsione dei possibili orientamenti risarcitori da parte del paziente. Al di là dei casi in cui il paziente è legato al professionista da un rap-porto contrattuale – come ad es. avviene nello studio pro-fessionale - il criterio attributivo della responsabilità civile nei confronti del medico (e degli altri esercenti la profes-sione sanitaria) è individuato nella responsabilità da fatto il-lecito ex art. 2043 c.c., il che determina una serie di ricadute concrete e a tutto vantaggio del sanitario (è la

sunta vittima ad avere l’onere della prova; il termine di pre-scrizione si riduce e diviene quinquennale; etc).

Tutto ciò, nell’intenzione del Legislatore, avrebbe quale obiettivo favorire la cd “alleanza terapeutica medico-pa-ziente”, senza che (più o meno inconsciamente) venga in-quinata da un sottinteso e strisciante “obbligo di risultato” al quale il medico non è normativamente tenuto ma che, di fatto, la responsabilità ex art. 1218 c.c. – definita da “con-tatto sociale” - finisce a volte per attribuirgli invertendo l’onere della prova, ponendo cioè a suo carico l’obbliga-zione di risarcire il danno qualora non sia in grado di pro-vare di avere ben adempiuto e che il danno derivi da una causa a lui non imputabile. Tante volte, nell’uso estensivo di questa norma, riposerebbe anche la motivazione al ricorso a scelte di medicina “difensiva”, così pregiudizievoli per la collettività e talvolta anche per le stesse possibilità di guari-gione del malato.

L’alleggerimento della responsabilità civile del medico “ospedaliero” non avrebbe peraltro alcuna incidenza sulla distinta responsabilità della struttura sanitaria, pubblica o privata (sia essa parte del S.S.N. o una impresa privata non convenzionata), che resta invece comunque di tipo “con-trattuale” ex art. 1218 c.c.

A nostro avviso protettiva per lo psichiatra (art.9) è anche la previsione dell’azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa, che potrà essere esercitata solo in caso di

dolo o colpa grave dal pubblico ministero presso la Corte dei

conti. In ogni caso, anche se accertata, l’importo della con-danna per responsabilita amministrativa è stato apprezzabil-mente limitato3 . Ultimo punto che vogliamo segnalare

riguarda quello delle perizie e consulenze, affrontato all’art.15; se è vero, difatti, che le Sentenze le scrivono i Ma-gistrati, è altresì vero che a dar corpo alle loro parole ci sono molto spesso affermazioni scientifiche di periti e consulenti. Sul ruolo da questi svolto molto vi sarebbe da dire (Nivoli, 2005). Ci limitiamo in questa sede ad osservare che l’ob-bligo di legge, finalmente sancito, di un giudizio collegiale nei casi di responsabilità professionale e la presenza, obbli-gatoria, non di un generico specialista bensì di persona “con specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del pro-cedimento”, cioé di un vero esperto, non possa che essere considerato, per tutti, motivo di rassicurazione.

Si tratta a nostro avviso di complesso di norme che da un lato offrono maggiori garanzie allo psichiatra chiamato ad assolvere il suo delicato ruolo in un contesto così diffi-cile, dall’altro rendono non più rinviabili, per le comunità scientifiche nazionali, la stesura di raccomandazioni che siano di concreto aiuto a chi è chiamato ad operare in un ambito lavorativo così controverso.

1 Art. 1218 cc. Responsabilità del debitore. Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarci-mento del danno, se non prova che l’inadempirisarci-mento o il ri-tardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

2 Art. 2043 cc Risarcimento per fatto illecito. Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto, ob-bliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.

(10)

La responsabilità professionale dello psichiatra ai tempi delle REMS

Considerazioni conclusive

L’auspicio è che il legislatore, con un fattivo contributo tec-nico da parte delle Società scientifiche nazionali, possa ri-definire i limiti di intervento dello psichiatra al fine di ottenere un più rispettoso bilancio fra obblighi di cura e protezione, agendo in modo efficace sul sistema delle misure di sicurezza psichiatriche (Bertolino 2014; Merzagora, 2015). Anche pochi ma significativi interventi potrebbero portare grandi benefici, senza mettere in discussione i prin-cipi ispiratori della norma ma garantendo sia alla collettività che agli operatori psichiatrici possibilità di cura più efficaci e livelli di sicurezza migliori per tutti.

A solo titolo di esempio sarebbe sufficiente, a nostro av-viso, prevedere che il ricorso a misure di sicurezza psichia-triche (meglio a obbligo di cura) fosse limitato ai soli casi di applicazione del vizio totale di mente per ottenere una ri-definizione sostanziale della qualità dei pazienti ammessi nelle Rems e nelle strutture territoriali. In caso di vizio par-ziale di mente – che dovrebbe essere considerato alla stregua di una attenuante – eventuali programmi trattamentali (che potrebbero coinvolgere portatori di disturbi della personalità, abusatori sessuali et al) potrebbero essere invece svolti all'in-terno delle strutture penitenziarie.

V’è certamente poi la stringente necessità di prevedere sistemi trattamentali a differente gradiente di sicurezza, con possibilità di transito da una misura all’altra, il che prevede inevitabilmente nuovi modelli di interfaccia fra DSM, periti e Magistrati.

Ciò che però non può attendere è il ripristino di una chiara distinzione fra funzioni di cura e di controllo, con la restituzione al medico-psichiatra della sua dimensione trat-tamentale. Se così non fosse a soffrirne, oggi, saranno gli psi-chiatri ma è facile immaginare che, a medio termine, tutto ciò produrrà conseguenze non positive sulla tutela della sa-lute dei pazienti.

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