CODICE FORESTALE
CAMALDOLESE
Le radici della sostenibilità
La Regola della vita eremitica,
ovvero le Constitutiones Camaldulenses
a cura di Raoul Romano
PRIMO VOLUME
«… se saranno gl’Eremiti studiosi veramente della solitudine, bisognerà che habbiano grandissima cura, & diligenza, che i boschi, i quali sono intorno all’Eremo, non siano scemati, ne diminuiti in nium modo, ma piu tosto allargati, & cresciuti.».
Eremiticae Vitae Regula a Beato Romualdo Camaldulensibus Eremitis tradita, Paolo Giustiniani, Camaldoli 1520; tradotta dal latino alla lingua toscana da Silvano Razzi nel 1575.
Questo volume rappresenta il primo prodotto della Convenzione di ricerca stipulata tra INEA e Collegium Scriptorium Fontis Avellanae, ed è stato realizzato nell’ambito del progetto “Codice forestale camaldolese, alla ricerca delle radici della sostenibilità”, finanziato dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (D.M. 1324 del 19 gennaio 2009 e D.M 19461 del 22 dicembre 2008).
Il volume è stato redatto a cura di Raoul Romano. La stesura delle singole parti è da attribuirsi a:
Capitolo primo: (1.1); F.Socci, (1.2) M.Costantini, (1.3) M.Costantini, S.Frigerio, R.Romano,
(1.3.1) F.Di Pietro, U.Fossa, (1.3.2) R.Romano, F.Di Pietro.
Capitolo secondo: (2.1) R.Romano, (2.2) M.Costantini. Capitolo terzo: (3.1) C.Urbinati, (3.2) S.Marongiu. Capitolo quarto: (4.1) R.Romano.
Autori:
Marta Costantini: Dottore di ricerca in filosofia e counselor filosofico, Fano -‐Pesaro; Fabio Di Pietro: Dottore forestale, ricercatore Osservatorio Foreste INEA -‐ Roma; Sonia Marongiu: Dottore forestale, ricercatore Osservatorio Foreste INEA-‐ Trento;
Ugo Fossa: monaco della Congregazione Benedettina Camaldolese, bibliotecario e archivista
nella Comunità monastica dell'Eremo e Monastero di Camaldoli -‐ Arezzo;
Salvatore Frigerio: monaco della Congregazione Benedettina Camaldolese, studioso e
ricercatore nella Comunità monastica dell'Eremo di Monte Giove di Fano -‐Pesaro;
Raoul Romano: Dottore forestale, responsabile di Progetto, ricercatore Osservatorio Foreste
INEA -‐ Roma;
Francesca Socci: Dottone Beni culturali e Ambientali – Ancona;
Carlo Urbinati: Professore Associato, Docente di Selvicoltura Università Politecnica delle
Marche, Dip.to di Scienze Ambientali e delle Produzioni Vegetali -‐ Ancona;
Francesco De Santis: Dottore agronomo, supporto tecnico ed elaborazione dati INEA – Roma;
Coordinamento editoriale: Benedetto Venuto. Copertina: Roberta Ruberto.
Revisione testi: Manuela Scornaienghi. Segreteria Tecnica: Isabella Brandi. Revisione grafica: Sofia Mannozzi
Si ringrazia: Giuseppe Blasi, Luca Cesaro, Cinzia Marasca, Emanuele Vicari, Carmine Riggioni,
Giorgio Franciosini, Osvaldo Lucciarini, Teodoro Bolognini, Adriano Cardogna, Romina Pierantoni, e in particolare le Comunità Camaldolesi di Monte Giove, Camaldoli e Fonte Avellana, per la pazienza e l’ospitalità.
Indice
Presentazione ... 7
Introduzione... 13
Capitolo primo -‐ I Camaldolesi... 17
1.1 Il monachesimo ... 19
1.2 San Romualdo ... 33
1.3 La riforma romualdina... 48
1.3.1 Le fondazioni romualdine... 55
1.3.2 Camaldoli e i Camaldolesi. ... 67
Capitolo secondo -‐ Eremiticae Vitae Regula ... 91
2.1. La Regola ... 93
2.2. Le risorse naturali nella Regola...108
Capitolo terzo -‐ I Camaldolesi l’ambiente e le risorse naturali ...133
3.1 Camaldoli ...135
3.1.1 Monaci e foreste: simboli e sinergie...135
3.1.2 La foresta di Camaldoli fra cambiamenti climatici e di uso del suolo....143
3.2 Fonte Avellana ...174
3.2.1. L’eremo di Fonte Avellana: localizzazione e nascita ...177
3.2.2 L’opera di Riforma di san Pier Damiani: ultimus monachorum servus. ...182
3.2.3 Evoluzione dell’economia e della società agricola in Italia dopo il X secolo. ...186
3.2.4 Le Carte di Fonte Avellana...193
3.2.5 La gestione delle proprietà terriere e l’organizzazione del lavoro nelle terre di Fonte Avellana. ...196
3.2.6 Fonte Avellana alla luce delle attuali teorie sullo sviluppo sostenibile del territorio...209
Capitolo quarto -‐ Tra passato e presente ...219
4.1 Tra passato e Presente ...221
Bibliografia ...237
Presentazione
Se oggi possiamo pubblicare questo primo volume, dei quattro1 previsti nell’ambito del progetto “Il Codice Forestale camaldolese, alla ricerca delle radici dello sviluppo sostenibile”, lo dobbiamo alla caparbietà di un monaco camaldolese, dom Salvatore Frigerio, e alla sua profonda consapevolezza di quanto gli insegnamenti del passato possano e debbano essere fondamento per un futuro migliore. La prima idea progettuale nasce proprio da lui che, in qualità di Presidente del Collegium Scriptorium Fontis Avellanae, manifestò nel 2002 (Anno internazionale delle Montagne), agli Stati generali della Montagna di Torino, l'intenzione di mettere al centro di una ricerca scientifica il patrimonio di conoscenze e testimonianze costituitosi nel rapporto secolare che la congregazione benedettina dei monaci Camaldolesi ha avuto con le risorse naturali e in particolare con le foreste appenniniche.
“Non si tratta di un semplice studio rivolto al passato ma di poter utilizzare la ricerca storica per interrogarsi sul senso profondo e sulle motivazioni che stanno alla base del rapporto uomo-‐ ambiente, assumendoli a fondamento etico per l'avvio di una politica nazionale, regionale e locale che riconosca il ruolo insostituibile svolto dagli operatori agricolo-‐forestali e artigianali residenti nella montagna italiana.” (Frigerio, 2003).
Si tratta, quindi, di ricercare nei secoli passati le tracce storiche e culturali dei moderni concetti di sostenibilità dello sviluppo e in particolare di sfruttamento sostenibile delle risorse naturali che dal finire del secolo scorso caratterizzano il dibattito scientifico e
1 Pubblicazioni previste nell’ambito del progetto “Codice Forestale camaldolese, alla ricerca delle radici dello sviluppo sostenibile”: La regola della vita eremitica, ovvero le Constituzioni Camadolensi;La
gestione delle foreste: l’esperienza di Camaldoli; La gestione agricola: l’esperienza Camaldolese di Fonte Avellana; Nuovo Atlante storico-‐geografico Camaldolese;
politico mondiale. Con il rapporto Brundtlandt2 (1987), la moderna società scopre, quasi all’improvviso, la necessità di dover intervenire sui propri modelli di sviluppo, ridefinendo i propri obiettivi di crescita e riequilibrando le proprie azioni e attività in considerazione degli effetti ecologici, sociali ed economici, sulle generazioni presenti ma soprattutto su quelle future.
La ricerca, oggi, di un modello sostenibile di sviluppo per le comunità montane e la necessità di trovare il giusto equilibrio fra sviluppo socioeconomico e salvaguardia dell’ambiente, tra utilizzo economico delle risorse naturali e tutela del territorio e del paesaggio, non possono infatti, non tenere conto del patrimonio storico culturale, spirituale, ambientale e paesaggistico che generazioni di operosi uomini e monaci ci hanno lasciato sulle pendici degli Appennino tosco-‐emiliano e umbro-‐marchigiano.
La proposta divenne, quindi, un progetto reale dal titolo “Codice forestale camaldolese” e con la stipula di un protocollo fra il Collegium e l’IMONT (ora EIM), firmato il 18 dicembre del 2003, presero avvio le prime attività di ricerca che si conclusero con la fine del 2005. I due anni di attività hanno visto la realizzazione del primo censimento, realizzato da Antonio Gabbrielli3, dei fondi camaldolesi conservati negli Archivi di Stato italiani e una ricerca tematica su fonti e fondi dell’Archivio di Camaldoli, realizzata da Sara Cambrini4, inerenti la gestione selvicolturale camaldolese. I risultati conseguiti sono poi confluiti nel volume “Codice forestale camaldolese. Legislazione e gestione del bosco nella documentazione d'archivio romualdina” (Quaderni della Montagna, numero 4, 2009), curato da Francesco Cardarelli, che però ha purtroppo visto una edizione troppo limitata.
2 Lo sviluppo sostenibile è quella forma di sviluppo che riesce a sostenere i bisogni delle attuali generazioni senza compromettere tale possibilità per le generazioni future. Questo concetto comporta un bilanciamento tra fattori ecologici, economici e sociali (WCED, 1987);
3 Professore Antonio Gabbrielli: Ispettore Forestale, socio ordinario dell’Accademia di scienze forestali di Firenze;
Nel 2008, con un finanziamento del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, il testimone viene lasciato all’Istituto Nazionale di Economia Agraria (INEA), che firmata una convenzione con il Collegium, si impegna a proseguire il lavoro cominciato e a valorizzare il patrimonio storico e culturale dei monaci Camaldolesi non solo di Camaldoli ma anche di Fonte Avellana. Il progetto prevede infatti, una serie di attività di ricerca, raccolta e recupero del materiale archivistico di interesse sia forestale che agricolo, promuovendo azioni di divulgazione e di diffusione delle conoscenze verso i giovani (tramite attività didattiche nelle scuole), gli operatori forestali e le istituzioni affinché il patrimonio delle conoscenze storiche acquisite possa diventare spunto e indirizzo per le nuove generazioni e per l’azione di programmazione e gestione del territorio.
Nei primi mesi del 2009 prende così avvio la ricostruzione del “Codice forestale camaldolese”, con una meticolosa attività di digitalizzazione, non solo dei documenti già individuati presso l’archivio di Camaldoli dalla dottoressa Cambrini, ma anche di molti altri libri, fondi e fogli sparsi, lettere e documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Firenze e la Biblioteca e l’Archivio di Camaldoli.
Il “Codice forestale camaldolese”, che rappresenta la sintonia profonda tra la ricerca spirituale e la cura della foresta, è infatti costituito da una complessa serie di norme e disposizioni con le quali per secoli, i monaci Camaldolesi hanno gestito e tutelato le loro foreste, e che si trova contenuto oggi non solo in libri e documenti specifici, ma soprattutto frammentato in una miriade di carte e di scritture “minori” (contratti, verbali, promemoria e corrispondenza di vario genere) sparse in archivi, biblioteche e anche in collezioni private.
Il progetto, che si sviluppa in un arco di due anni, ha già organizzato e messo a sistema in un’apposita banca dati on-‐line gran parte del materiale storico, prodotto in 857 anni e inerente la gestione forestale delle proprietà camaldolesi. Cioè fino al 1866,
anno in cui le proprietà della congregazione passarono al Regno d’Italia. Sul portale internet www.inea.it/prog/camaldoli, appositamente dedicato a questo progetto, è quindi possibile non solo una prima reale ricostruzione del Codice forestale camaldolese, ma anche lo studio diretto di questi documenti da parte di esperti in scienze storiche, forestali e agrarie, economiche, sociali, giuridiche. Ciò potrà fornire spunti e contributi al dibattito sullo sviluppo culturale e socio economico delle popolazioni montane, secondo i principi della sostenibilità ambientale, dell’equilibrato utilizzo delle risorse naturali territoriali e della salvaguardia delle culture locali. Obiettivi a tutt’oggi difficili da realizzare, ma sempre più auspicabili.
Con il nostro progetto vorremmo testimoniare come la Congregazione Camaldolese abbia creato, curato e custodito per secoli le splendide foreste casentinesi. Attraverso le quattro pubblicazioni e il sito dedicato, oltre a raccogliere e rendere fruibili le fonti storiche, vorremmo mettere in luce il rispettoso e reciproco rapporto fra uomo e ambiente sviluppatosi nei secoli, ancora oggi valida base di modello economico, quel modello sostenibile tanto implorato quanto eluso quando si tratta di passare dalle parole ai fatti. Sarà un lavoro complesso ma che potrà offrire molto alla conoscenza del nostro Paese, alla riflessione di chi non vede nella natura un “idolo inappellabile”, ma una realtà che “con l’uomo e per mezzo dell’uomo si concretizza in un reale sviluppo”(Frigerio, da prefazione Borchi, 1989), in cui gli aspetti ambientali, produttivi e sociali trovano equilibrio e integrazione in una oculata gestione. Potrà risultare quindi utile al miglioramento delle competenze tecniche di chi oggi lavora sul territorio, affinché le necessità produttive diventino anche servizio per l’ambiente e quindi sempre più servizio all’uomo e alle sue comunità. Sarà un messaggio utile per quanti, politici, amministratori, tecnici e comuni cittadini vorranno ascoltarlo con la necessaria umiltà, perché gli operatori economici del territorio possano affrontare le loro fatiche e tracciare le loro prospettive sentendosi strumento di un obiettivo dalle radici solide.
Ma soprattutto potrà servire alle popolazioni di montagna che sempre più hanno bisogno di nuove, urgenti e rassicuranti certezze.
Forse stiamo affidando troppe aspettative a questo nostro lavoro, ma siamo certi che la conoscenza della nostra storia può aiutarci a trovare la via giusta per realizzare un futuro sostenibile per i boschi e le comunità non solo dell’Appennino. Ci auguriamo che esso possa rappresentare uno stimolo e un fondamento in più per chi studia, lavora, frequenta, scopre e vive le foreste, contribuendo così ad arricchire il patrimonio di conoscenze e il bagaglio di esperienze utile al presente delle generazioni future.
Anche questa, forse, è sostenibilità.
Il responsabile del Progetto Raoul Romano
Introduzione
Le pagine di questo volume sicuramente non diranno nulla di nuovo agli studiosi e ai ricercatori del mondo monastico e di storia medievale. Come scrive Giuseppe Vedovato nella premessa al volume Camaldoli e la sua congregazione dalle origini al 1184, “dopo i lavori di Giovanni Tabacco e di Wihelm Kurze si può affermare che la ricostruzione critica della vicenda di Romualdo di Ravenna e delle origini di Camaldoli è pressoché compiuta”.
Ma con queste pagine aiuteremo sicuramente, coloro che di selvicoltura e gestione sostenibile del territorio si occupano, a comprendere meglio il contesto storico e in un certo senso spirituale che accompagna la ricerca delle radici della sostenibilità.
Dopo una prima introduzione al mondo e alla storia della Congregazione Camaldolese cercheremo, attraverso l’analisi del Libro “La regola della vita eremitica stata data dal beato Romualdo à i suoi Camaldolensi Eremiti”5, di incominciare a dimostrare come una gestione delle risorse naturali, forestali e agricole, e uno sviluppo socio economico locale sostenibile era già in essere dall’XI secolo sugli Appennini del centro Italia. Quest'opera va considerata, nel suo complesso, il primo compendio ben articolato di tutte le precedenti norme e consuetudini stabilite e seguite fino ad allora dai Camaldolesi nella gestione del bosco. Ripropone infatti il rapporto secolare (iniziato nell’XI secolo con la fondazione dell’Eremo di Camaldoli), operativo e spirituale con la foresta casentinese, come parte integrante della regola di vita dei monaci Camaldolesi. Questo documento, oltre a essere pubblicato integralmente su supporto
5 La regola della vita eremitica stata data dal beato Romualdo à i suoi Camaldolensi Eremiti ovvero le
Constituzioni Camadolensi tradotte nuovamente dalla lingua latina nella toscana, stampate In Fiorenza, Appresso Bartolomeo Sermartelli MDLXXV; traduzione del 1575 ad opera del monaco camaldolese
Silvano Razzi della Eremiticae Vitae Regula a Beato Romualdo Camaldulensibus Eremitis tradita, promulgata dal Beato Paolo Giustiniani (1476-‐1528) e stampata nel 1520 con i tipi in legno dalla tipografia nel monastero (in monasterio Fontis Boni);
digitale, sarà anche disponibile sul sito dedicato al progetto, rappresentando il punto di partenza del nostro lavoro di ricerca.
Oltre alle regole caratterizzanti la vita quotidiana dei monaci eremiti di san Romualdo, nei 57 capitoli della regola ritroviamo lo spirito e il rapporto di comunione che i monaci Camaldolesi hanno sempre intrattenuto con la natura, “intenta a raggiungere il proprio compimento armonico con l'Uomo e per mezzo dell'Uomo” (Frigerio da prefazione Borchi, 2005), secondo il piano salvifico delle Scritture giudaico cristiane. In questa Regola in particolare, come in quelle che l’hanno preceduta e seguita, tornano con insistenza le parole “custodire e coltivare6”, termini che oggi acquistano una fondamentale attualità nei principi di gestione forestale sostenibile e più in generale nel concetto di sviluppo sostenibile.
Queste due parole sono le stesse con le quali nel libro della Genesi il Creatore affida all'Uomo la Terra, e riemerge così la dimensione biblica del progetto divino da realizzare in armonia con tutta la Creazione. L'armonia ricercata come comunione si evidenzia anche in questo pensare alla natura, e in particolare alla foresta, non come a qualcosa “in più” a cui provvedere, bensì a una realtà con cui vivere e realizzare il proprio percorso spirituale.
I monaci, generazione dopo generazione, garantivano la vita alla foresta che assicurava loro il silenzio, quel silenzio di cui avevano vitale bisogno per poter ascoltare la voce di Dio e degli uomini e della storia che andavano scrivendo insieme in una sorta di compiaciuta reciprocità. La custodia della foresta diventa parte ineludibile dei doveri del monaco e la Regola del Giustiniani del 1520 offre la possibilità di cogliere gli aspetti normativi, i lineamenti selvicolturali e i caratteri spirituali di una gestione forestale e del territorio che non solo appare alquanto significativa, ma pure di estrema attualità.
Circa 1400 ettari di abeti bianchi, faggi, castagni, querce, aceri, tigli, olmi e pioppi che i monaci gestirono e di cui ebbero cura fino al
1866, anno in cui le proprietà passarono al Regio Stato italiano, che nel 1871 la dichiarò inalienabile.
Nel terzo capitolo verranno introdotti i successivi volumi di approfondimento previsti dal progetto che vedranno Camaldoli e Fonte Avellana, la gestione forestale e la gestione agricola, quali soggetti principali.
Il secondo volume previsto dal progetto, dal titolo “La gestione delle foreste: l’esperienza di Camaldoli”, analizzerà, dal 1500 al 1866, il rapporto intercorso fra i monaci Camaldolesi e le popolazioni locali nella gestione delle risorse forestali dell’Appennino casentinese che ci ha consegnato, oltre a una forte comunità che ancora oggi rivendica con orgoglio il suo passato, anche un patrimonio ambientale e paesaggistico di inestimabile valore, dimostrando come la produttività e la salvaguardia sostenibile possono e devono coesistere.
Il terzo volume, “La gestione agricola: l’esperienza di Avellana” a cura di Manlio Brunetti, sarà dedicato interamente all’enorme lavoro di ricerca realizzato nel tempo sulle “Carte di Fonte Avellana”. Nella storia della Congregazione Camaldolese il venerabile Eremo di Fonte Avellana (oggi Monastero di Fonte Avellana), situato sulle pendici del monte Catria, nell’Appennino umbro marchigiano, rappresenta un passaggio fondamentale nell’evoluzione del movimento religioso camaldolese.
Fonte Avellana pur avendo avuto origine dalla stessa riforma romualdina che ha creato Camaldoli, percorrerà una strada autonoma, per ritornare alla Congregazione Camaldolese solo nel XVI secolo. Le Carte di Fonte Avellana sono rappresentate da sette volumi in cui sono trascritti atti, compravendite, contratti da cui traspare l’originalità della gestione agricola praticata dai monaci sulle terre che dal venerabile Eremo si estendono fin quasi al mare Adriatico: una originalità tendente in particolare a favorire la crescita culturale, umana, sociale e anche economica delle
popolazioni locali, di quei contadini considerati “uomini” e non “servi” come era consuetudine nel Medioevo.
In ultimo, la quarta pubblicazione, vedrà invece un aggiornamento, anche in formato digitale, dell’Atlante storico-‐ geografico Camaldolese7 scritto dal monaco Giuseppe Cacciamani nel 1963, che fornirà un interessante supporto allo studio dell’evoluzione e della distribuzione sul territorio dei Monasteri e degli Eremi camaldolesi fondati nei secoli.
7 Dom Giuseppe Cacciamani; Atlante storico-‐geografico Camaldolese con 23 tavole (secoli X-‐XX); Edizioni Camaldoli 1963;
Capitolo primo
I Camaldolesi
1.1 Il monachesimo
Sia in Oriente che in Occidente il monachesimo, come modello spirituale e di vita, è stato spesso attore principale di tanti processi culturali e sociali che hanno segnato l’evoluzione storica di piccole e di grandi comunità. Una scelta di vita che prende forma, per la cultura cristiana, in un’epoca storica ben precisa, tra il III e il IV secolo nelle terre d’Oriente di un Impero romano ormai in decadenza.
Il termine greco, μοναχός (monachos), che deriva da μόνος, (monos: unico, solo), indica colui che sceglie di vivere la propria fede in una solitaria e profonda ricerca spirituale. Nell’evoluzione cristiana diventa una ricerca più fedele allo spirito del Vangelo e in obbedienza a un unico Signore. Rifiutandosi di obbedire, quindi, a due padroni: Dio e “Mammona” (inizialmente simbolo del potere imperiale romano). In tal modo il monaco intendeva preservare la sua unità interiore, perseguendo un ideale di perfezione ascetica (da asckesis, esercizio) attraverso un’esperienza spirituale caratterizzata dalla rinuncia a ogni forma di possesso. L’abbandono della comunità sociale diventa conseguenza estrema, testimoniata nella solitudine tipica degli anacoreti (da anachoretés, ritirato, vivere in disparte), o in piccole comunità come per i cenobiti (da koinobion, vivere insieme).
Come esperienza di vita spirituale, il monachesimo è però presente fin dalle origini in molte delle grandi religioni dell’uomo; per esempio nei Veda, testi sacri induisti, databili intorno al 2.000 a.C.. Essi narrano le vicende della pratica monastica intesa come povertà itinerante e rinuncia alle cose terrene o come scelta spirituale che porta alla vita in una comunità, retta da un mahant, equivalente per autorità e funzioni all’abate del monachesimo
cristiano. Sempre in India, anche nel Giainismo8 il monachesimo è un elemento fondante e si differenzia dall’induismo per la maggiore sistematicità organizzativa. Dallo scisma, anteriore all’era cristiana, che comportò la nascita di due correnti principali, si distinguono i monaci digambar, ovvero “vestiti di cielo”, che rinunciano a qualsiasi possesso, compresi cibo e vestiti, e i monaci shvetambar, ovvero “vestiti di bianco”, che seguono precetti meno rigidi. L’elemento comune dei monaci giainisti si caratterizza per le modalità di convivenza, che avviene sotto la guida di un maestro spirituale per anni, prima di diventare sadhu, cioè veri monaci. Fra gli anziani viene eletto un capo amministrativo e disciplinare (ãchãrya), al quale ogni monaco è tenuto a fare la sua confessione. Nel Buddhismo il monaco mendicante diventa l’unico vero discepolo del Buddha, attraverso la pratica della meditazione, della povertà e della rinuncia ai beni mondani. Alla fine del noviziato, il monaco buddhista prende i voti, mantenendo però la libertà di scegliere di ritornare al mondo. Alle origini i monaci buddisti vivevano isolati in capanne o caverne, ma oggi i loro monasteri sono celebri per ricchezza, bellezza artistica e persino per potenza politica. Successivamente al loro potere spirituale si affianca infatti quello temporale, manifestandosi e realizzandosi completamente nei monaci buddisti del Tibet.
Nel mondo cristiano il fenomeno del monachesimo fa invece la sua comparsa nelle aree desertiche dell’Egitto all’inizio del IV secolo, con la forma eremitica di san Antonio Abate (+356) e le prime comunità organizzate di cenobiti di san Pacomio (+346). La nascita del fenomeno monastico si inserisce in un’epoca storica in cui la Chiesa (forte della libertà religiosa ottenuta con il discusso Editto di Costantino del 313) poteva contare su una struttura consolidata, vasti possedimenti, una gerarchia abbastanza solida e circa 7 milioni di fedeli all’interno di quello che restava dell’immenso Impero
8 Antica religione inizialmente documentata come una fede a sé stante e una filosofia basata sugli insegnamenti di Mahavira. Secondo la dottrina, la filosofia giainista è un modo di comprendere e codificare le verità eterne e universali che occasionalmente si manifestavano fra l'umanità e che più tardi riappariranno negli insegnamenti degli uomini che avevano raggiunto l'illuminazione;
romano. Politicamente si assiste alla scissione tra Impero di occidente e Impero di oriente, all’espandersi del fenomeno dell’urbanesimo e al conseguente abbandono delle campagne a causa delle invasioni dei popoli del nord Europa.
In questo contesto iniziano a manifestarsi le prime forme di monachesimo eremitico (dal greco έρημος: eremos, solitario, deserto), che evolveranno verso le forme cenobitiche. Queste aggregazioni spontanee troveranno poi una loro identità nella regola di san Benedetto.
Attraverso il cammino della solitudine, della preghiera e dell’ascesi, nasce con il monachesimo una nuova e più profonda ricerca della perfezione cristiana, mirante a conformarsi alla vita evangelica. La forma più evidente si era manifestata nell’isolamento volontario nel deserto, a testimonianza che il regno di Dio non è di questo mondo. Agli inizi la pratica dell’ascetismo trova, quindi, la sua principale espressione nell’eremitismo ascetico. In molti scelsero l’abbandono della famiglia e degli amici per ritirarsi in luoghi solitari e lontani. Non a caso Giovanni Cassiano (+435) scrive che l’eremita non è colui che fugge nel deserto per sfuggire il consorzio umano ma è colui che si ritira nel silenzio del deserto per meglio ascoltare la parola di dio e di conseguenza la parola degli uomini9. Tra i Padri del monachesimo, all’inizio del IV secolo, vi è san Antonio Abate che abbandonò tutto per ritirarsi a vita solitaria nel deserto dell’Egitto, presso il Monte Pispire, dove trascorse oltre 20 anni come eremita (Fig. 1). La sua scelta fu di grande richiamo per gli uomini e la cultura dell’epoca.
Contemporaneamente san Pacomio fondava nell’alto Egitto a Tebennisi (a Nord di Tebe sulla sponda destra del Nilo) una serie di comunità che si possono considerare i primi veri cenobi, anche se poi venivano accettate anche le iniziative personali indirizzate verso una vita spirituale più rigorosa. Nell’esperienza di Pacomio si assistette a
9 Cfr. Giovanni Cassiamo (360-‐435), Collationes: resoconto di colloqui tenuti da lui e dal suo amico Germano con eremiti egiziani;
un fenomeno particolare, in cui, intorno all’esperienza di un abbà, cioè di un Padre, si aggiungono progressivamente dei discepoli, scegliendo di riunirsi tra loro nelle cosiddette laure10. L’estremo rigore nell’attenta gestione della comunità resero l’esperienza del coenobiun di san Pacomio spunto di molteplici ispirazioni. Inoltre egli scrisse, in lingua copta, una rigida Regola che rappresenta la prima Regola monastica oggi nota, sulla base della quale lo stesso Benedetto si ispirò.
Oltre che in Egitto, alcune tra le prime forme di monachesimo nascono anche in aree della Siria e della Palestina. San Basilio di Cesarea (+379), fondò numerosi monasteri autonomi in Cappadocia, portando così alla piena affermazione il cenobitismo. I suoi monasteri erano comunità doppie di monaci e monache che vivevano seguendo i dettami evangelici e le sue regole morali non sono state altro che una raccolta dei principali passi dei testi del Nuovo Testamento. I suoi monaci scelsero la comunione dei beni, la rinuncia da parte dell’individuo di ogni ricchezza, l’amore fraterno, l’assistenza reciproca, la preghiera comune.
L’impegno di san Basilio si distinse non solo nel favorire e rivalutare il lavoro, inteso come occasione di crescita per il singolo e per la comunità, ma anche nell’individuare nelle azioni caritatevoli la prima preoccupazione del monaco. A questo proposito i monasteri basiliani si contraddistinsero per lo sviluppo di ospedali, orfanotrofi e ospizi nelle loro adiacenze. San Basilio con il suo profondo esempio di perfezione ascetica viene considerato il Padre del monachesimo orientale e la sua vita e le sue opere influenzarono grandemente il monachesimo antico e lo stesso san Benedetto (+ circa 547).
Durante il IV secolo si assiste, quindi, a un graduale passaggio, dall’eremitismo alla pratica della vita comune, ovvero alla scelta del
10 Làura (o Lavra): in epoca antica significa cammino, strada e poi quartiere. Organizzazione monastica bizantina diffusa dal IV sec. in Cappadocia, distinta dall’Eremo e dal cenobio e rappresenta l’anacoretismo in senso stretto. La Lavra indicava un gruppo più o meno grande di celle monastiche, ognuna separata e indipendente, raccolte attorno a un oratorio comune;
cenobio evidenziato anche nelle differenze tra i percorsi spirituali di san Antonio, san Pacomio e san Basilio.
Nel monachesimo cristiano delle origini i monaci incarnano le tipologie e provenienze più svariate e una delle caratteristiche principali era, e rimane tutt’oggi, la laicità. I primi monaci cristiani erano, infatti, persone semplici, fortemente legate all’insegnamento delle Sacre Scritture. Essi intendevano realizzare una vita comune intesa nel senso apostolico, ispirandosi all’isolamento dello spirito e del corpo dalla corruzione secolare. Con la loro scelta si consideravano penitenti volontari, rinunciando ai loro beni terreni e praticando liberamente l’ascetismo. Il raggiungimento dell’ascesi, o meglio la contemplazione della bellezza del Cristo e del Creato (filocalia), avviene nel colloquio costante con Dio per mezzo della preghiera, in un cammino caratterizzato dalla continua lotta non contro le passioni, ma per l’affermazione di una vita libera dalle proprie passioni, dalla compunzione di cuore e quindi dalla consapevolezza della propria natura umana e in generale della imperfezione della vita terrena.
Figura 1.1 -‐ Grotta dove visse in ascesi Sant’Antonio Abate. La vita dei suoi molti seguaci era caratterizzata da straordinaria austerità, da digiuni, veglie, penitenze e lunghi periodi di silenzio; (da monastero virtuale).
La lontananza da ogni nucleo abitativo e la solitudine rendono la spiritualità una lotta continua, nella quale il monaco è impegnato per dare la sua testimonianza alla legge divina, mirando a raggiungere la vetta della perfezione (Penco, 1983.b). Nella nascita di questo fenomeno, sono fondamentali sia i richiami biblici, come la scelta di Abramo di abbandonare ciò che possedeva, e il tema del deserto quale luogo della prova e della tentazione, sia i passi del Nuovo Testamento, in cui Cristo chiama i suoi discepoli a seguirlo in una vita più perfetta, oltre alle esortazioni di san Paolo sul tema della verginità. Nonostante la fine delle persecuzioni romane, un ulteriore elemento fondamentale è l’ideale del martirio. Il tema è una costante nella letteratura monastica antica dove i monaci, nel proclamarsi eredi e continuatori nell’evangelizzazione missionaria, trovano nel martirio la santificazione. Si parla infatti del “martirio di fede” (Vita di Antonio, 23) e del “martirio di esilio” (Vita di Ilarione, 39) e del “lento martirio della volontaria reclusione”11 (Vita di san Bonifacio, 114-‐115).
Ancora prima che gli esempi della vita monastica orientale venissero conosciuti in occidente, l’ideale monastico era sicuramente già presente in Italia, sede del successore di Pietro e centro di confluenza delle varie correnti religiose e filosofiche del mondo antico. Non dovettero tardare quindi a formarsi dei nuclei di asceti, di continenti e di sacre vergini, miranti a riprodurre nella maniera più alta possibile l’ideale cristiano di perfezione. Già dal II-‐III secolo si hanno infatti notizie di cristiani che a Roma conducevano vite austere e penitenti12. Benché scarsissime sono però le testimonianze storiche intorno ai primi asceti, che vivevano le loro severe esperienze spirituali in modo individualistico, per iniziativa privata e in ambito domestico, senza renderle pubblicamente note.
11La tradizione camaldolese interpretò l’ultima fase dell’ascetismo camaldolese: l’apostolato con la volontaria reclusione;
12 San Giustino, I Apologia, 15; Minucio Felice, Octavius, 31; Erma, Simil., IX, 10, 11; Eusebio, Hist. eccl., 6,43;
Fu il vescovo alessandrino san Atanasio (+373), giunto a Roma nel 340, a diffondere la prima idea di monachesimo. Con la Vita Antonii, scritta da Atanasio nel 365, l’influenza del monachesimo egiziano ebbe modo di esercitarsi direttamente sul movimento ascetico italiano. Sempre sul finire nel IV secolo, particolare importanza nella diffusione delle pratiche monacali ebbero le traduzioni della Regola di san Pacomio, a opera di san Girolamo (+420), e del corpus delle regole di san Basilio a opera di Rufino d'Aquileia (+411). In Italia la vita monastica andava così organizzandosi sempre di più, ma rimaneva ancora legata a espressioni ed esponenti della tradizione locale e di quella, già vigorosa e autorevole, dell’Oriente.
La prima manifestazione del monachesimo in forma cenobitica organizzata, si ebbe con san Martino di Tours (+397), che intorno al 370 fondò una serie di monasteri in Francia. Verso la fine del IV secolo, le esperienze e l’organizzazione del monachesimo gallo-‐ romano si diffusero ulteriormente, affermandosi anche nelle isole e sulle coste del Mediterraneo, in Italia, in Spagna e in Irlanda. Tutte queste prime formazioni monastiche furono successivamente segnate profondamente dalla regola di san Benedetto da Norcia (480-‐547), che portò a sintesi le esperienze passate e codificò definitivamente i caratteri del cenobitismo occidentale.
Benedetto, in seguito all’esperienza di studi a Roma, fu talmente deluso dal clima decadente della città, determinato anche dalla contesa del supremo pontificato, che si ritirò ad Affile (80 km da Roma) per dedicarsi in solitudine alla vita religiosa. Dopo un aspro e solitario percorso spirituale, secondo la tradizione viene invitato ad assumere il governo del monastero di Vicovaro (45 km da Roma, lungo la Tiburtina Valeria), a seguito della morte dell'abate. Ma i tentativi di Benedetto di creare i presupposti per una nuova vita spirituale si infrangono contro l'ostinata volontà dei monaci.
Accompagnato da un numeroso gruppo di seguaci che lo riconoscono come maestro, riprende il suo percorso per una nuova
vita spirituale. Fonda così dodici piccoli monasteri con i rispettivi superiori, che fanno tutti capo a lui, riservando per sé il monastero dedicato alla formazione dei discepoli. È infatti a Cassino che realizza quell'ideale di vita monastica maturato in lunghi anni di vita contemplativa.
La costruzione di Montecassino (Fig. 1.2) vede Benedetto impegnato come architetto, ingegnere e organizzatore del nuovo monastero: vi resterà per sempre, dedito alla definizione della sua Sancta Regula scritta nel 534, sul modello delle esperienze monastiche orientali di san Pacomio e di san Basilio di Cesarea e della letteratura già esistente. I capisaldi della vita benedettina, Ora et labora, tradotti in “prega e lavora” sintetizzano l'ideale di vita di san Benedetto, espressi nella sua Regola. L’interpretazione non rende giustizia della forza che nei secoli il motto trasmise ai monaci, rappresentando il pilastro su cui si è costruita e si costruisce la vita benedettina.
Figura 1.2 – Ricostruzione in tavola dell'abbazia di Montecassino, alla fine dell'XI secolo: da Alessandro Luciano.
Secondo la Regola benedettina la Comunità monastica è unica, indipendente, autosufficiente, separata dal mondo e assolutamente disinteressata ad avere una qualsivoglia influenza sul mondo esterno. Essa sottintende quanto già presente nella tradizione monastica, ovvero seguire totalmente il Cristo, la rinuncia alla propria volontà, l’imitazione della vita della prima comunità apostolica. La vita monastica benedettina è una vita contemplativa in cui viene data particolare importanza alla celebrazione liturgica e alla pratica della lectio divina, che medita le Sacre Scritture e le attualizza. Grazie a questa ascesi si svilupperanno lo studio e il lavoro intellettuale.
Nei secoli successivi, seguendo la spinta ascetica dell’abbandono della patria e il movente mistico del desiderio del martirio, i monaci cristiani cominceranno l’evangelizzazione dei popoli barbari del nord Europa. A seguito di questo nuovo impulso evangelico venne diffusa la Regola benedettina in Europa, con la fondazione di numerosi monasteri che però non si riunirono in un unico corpus o ordine religioso nel senso moderno. Pertanto, circa fino all’anno mille i monasteri continueranno a conservare la propria autonomia, le proprie tradizioni, le proprie osservanze particolari, così come prescritte dalle diverse Consuetudines compilate nel corso del tempo per integrare la Regola benedettina e calarla nelle tradizioni e usi locali.
Per tutto l’Alto medioevo è emblematico lo stretto rapporto tra il monachesimo benedettino e la società locale del tempo. Grazie ai monasteri e alla loro elevata presenza sul territorio, si realizzò un inatteso sviluppo rurale, con la coltivazione di terreni altrimenti abbandonati, lo sviluppo di botteghe artigiane, la consapevolezza di far parte di una comunità. Notevole fu infatti, l’influenza nell’economia del tempo, in cui i monasteri si inserivano perfettamente nella pratica tradizionale della mezzadria, dando in affitto o in concessione ai contadini parte dei terreni posseduti. Ne è un esempio la riforma agraria di Fonte Avellana con Albertino da
Montone (+1294) che teorizzò la divisione equa dei prodotti della terra tra monaci e coloni, affermando la loro uguaglianza secondo il principio non servuli sed homines"13.
Un tentativo di unificare, in base alle relative osservanze, le numerose realtà franche nate dalla regola benedettina fu compiuto dai sovrani Carolingi, nell’817, tramite un monaco visigoto, san Benedetto d’Aniano (+821). L’esperienza ananiense, con il notevole sviluppo della pratica della liturgia, ben oltre le modalità indicate da san Benedetto, fu fondamentale per il futuro del monachesimo benedettino. Con il crollo dell’Impero carolingio e l’aumentare delle incursioni saracene e ungare, si accentuarono i particolarismi locali e le ingerenze secolari nella vita interna dei monasteri si fecero sempre più forti. I monasteri diventarono importanti “centri politici” per il controllo del territorio a cui tentarono di appoggiarsi e di sfruttarne l’influenza, le autorità sia civili che della Chiesa. Nei primi decenni del X secolo un gran numero dei monasteri cominciò ad avvalersi dell’istituto giuridico dell’esenzione, ovvero l’autonomia dall’autorità vescovile competente.
Fondamentale importanza nell’evoluzione del monachesimo cristiano occidentale riveste l’Abbazia e l’Ordine benedettino di Cluny, nella regione francese della Borgogna, fondata nel 910 dall’abate Bernone di Borgogna (+927) su una donazione fondiaria di Guglielmo il Pio, duca d’Aquitania. Questo monastero sciogliendosi dalla dipendenza dai vescovi e sottoponendosi direttamente alla sede Apostolica romana, si rese completamente libero da ogni influenza civile o ecclesiastica, e grazie anche alle proprietà donate da Guglielmo ebbe quindi il privilegio di liberarsi dalle influenze secolari14 (Cardini, 2006).
13 Non servi ma uomini;
14 Franco Cardini, Marina Montesano, Storia Medievale, 2006, pag. 191 "La ricca abbazia intendeva inoltre costituirsi a modello d'indipendenza dai poteri temporali. Per questo il duca Guglielmo rinunziò al patronato su di essa: ma per impedire che qualche vescovo delle vicine diocesi pretendesse comunque di esercitarvi una qualunque forma di controllo -‐ si ricorse all'espediente di affidarla al patronato diretto della Sede pontificia.";
Figura 1.3 -‐ Monaci che pranzano, affresco di G.A. Bazzi (c.a 1505) nel refettorio dei monaci nell'Abbazia di Chiaravalle Milanese.
Nacque così l’Ordine Cluniacense, prima immagine di un organismo monastico accentrato, organizzato in vari priorati e abazie affiliati: essi furono, per la salda amministrazione e la rigorosa spiritualità, i protagonisti della riforma monastica occidentale.
A Cluny era esaltata la celebrazione liturgica, ravvivata la coscienza ecclesiale, con un conseguente ridotto lavoro manuale che contraddistingueva l’ordinamento monastico fino a quel momento. L’influsso di Cluny nelle realtà monacali d’Europa fu notevole, portando nel laicato e nel mondo ecclesiale un’immagine monastica di osservanza e rigore che vedeva però anche nella pratica della carità verso i poveri e i malati un punto di grande importanza. Il rafforzamento dell’autorità papale e il consolidamento della cristianità nell’Europa medioevale, nonché la successiva lotta per l’autonomia della Chiesa rispetto all’ingerenza imperiale sono in gran parte dovuti alle motivazioni ideali che avevano dato vita alla grande Abbazia di Cluny (Penco, 1983.a).
Le cose cambiano nel corso dell’XI secolo, quando si assiste a una profonda crisi del cenobitismo, portando alla nascita di correnti eremitiche e movimenti monastici rigoristici e riformati. Tale crisi fu dovuta alla compenetrazione sempre più profonda tra interessi laicali e mondo monastico. Inoltre si assiste a un crescente processo di clericalizzazione dei monaci, la maggior parte dei quali ascende agli ordini sacri, perdendo quella prima origine laica. Si assiste, quindi per reazione, a un affermarsi dell’eremitismo, mai sparito del tutto nel corso del Medioevo; esso aveva anzi continuato a esistere in forma sporadica e spesso non documentata. Dai secoli X-‐XII comincia invece a essere più facilmente individuabile nelle cronache storiche, e in particolare con la nascita di documentati nuovi Ordines. È proprio all’interno di questo contesto che fa la sua comparsa la figura di san Romualdo e la successiva Congregazione di Camaldoli.