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Persona, nichilismo e problema del senso nel pensiero di Bernhard Welte

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Academic year: 2021

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Indice

INTRODUZIONE... p. 3

CAPITOLO PRIMO – UNA DIALETTICA DI FINITO E INFINITO

1. Legittimità di un'indagine filosofica avente come oggetto la fede... p. 11

2. La fede che fonda l'esistenza... p. 16 3. Il finito nell'uomo... p. 19 4. La morte... p. 24 5. L'infinito nell'uomo... p. 28 6. Un campo da gioco tra finito e infinito... p. 32

CAPITOLO SECONDO – NICHILISMO E PROBLEMATICA DEL SENSO 1. Il nulla... p. 35

2. Il nichilismo...p. 39 3. I limiti della razionalità autonoma moderna...p. 43 4. Il presupposto di senso: la contro-istanza rispetto all'interpretazione negativa del nulla...p. 51

CAPITOLO TERZO – LA QUESTIONE DELLA LIBERTÀ

1. Libertà e ateismo...p. 57 2. La radice positiva dell'ateismo nietzschiano...p. 63 3. La libertà e il male...p. 66 4. La religione snaturata...p. 70

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CAPITOLO QUARTO – LA RELAZIONE PERSONALE COME FONDAMENTO DELLA RELIGIONE

1. La fede tra gli uomini come fondamento della fede religiosa... p. 76 2. La persona... p. 80 3. Il rapporto personale come fondamento della fede tra gli uomini... p. 89 4. Testimonianza e fede... p. 97 5. La fede esplicita in Dio e la testimonianza... p. 99 6. Personalità del mistero e limiti di questa concezione... p. 106 7. Divinità del mistero... p. 109 8. Storicità del mistero... p. 112 9. Il mutamento storico della comprensione dell'essere... p. 114 10. Necessità di una de-ellenizzazione del cristianesimo... p. 118 11. Il superamento della metafisica... p. 123

CONCLUSIONE... p. 133

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Introduzione

La consapevolezza di vivere oggigiorno in una società secolarizzata si è ormai ampiamente diffusa nella coscienza dominante. Entrato nel linguaggio giuridico in seguito alla pace di Vestfalia del 1648 allo scopo di indicare il passaggio di beni e territori di proprietà della Chiesa alla società civile, il termine “secolarizzazione” è passato in seguito (nel XIX secolo) ad indicare quel processo di autonomizzazione delle istituzioni politiche e sociali dal controllo e dall'influenza della Chiesa e della religione in generale. Esso ha poi iniziato ad essere impiegato per indicare la condizione della religione nella modernità, assumendo tuttavia connotazioni di segno opposto, perché, se per alcuni indicava positivamente un percorso di emancipazione, per altri si trattava piuttosto di un processo negativo di desacralizzazione, che apriva la strada al nichilismo. Costoro sono tuttavia accomunati dal ritenere che la religione abbia ormai perso il suo carattere di realtà oggettiva e si sia ridotta ad una mera faccenda privata, limitata alla coscienza del singolo individuo e priva pertanto di evidenza intersoggettiva e di influenza sulla vita pubblica. A questo processo avrebbe contribuito in misura non trascurabile il disincanto prodotto dalla coscienza scientifica, che ha reso il mondo empiricamente spiegabile. Sembra quindi inevitabile che il processo di secolarizzazione giunga al suo compimento e che la religione sopravviva, tutt'al più, come affare privato di una minoranza di individui.

Dobbiamo tuttavia chiederci se le cose sono veramente così semplici come potrebbe sembrare in apparenza, se la religione è veramente destinata a venir meno nella nostra società. La complessità di simili domande, unita al fatto che esse fanno riferimento ad una situazione che stiamo ancora vivendo tutt'oggi, rende estremamente

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difficile dar loro una risposta definitiva. Al fine di impostare la questione nel modo più adeguato possibile verrà quindi preso in considerazione il pensiero di uno dei più importanti filosofi della religione del XX secolo, Bernhard Welte, le cui riflessioni ci forniranno degli strumenti utili per riuscire nell'intento. Anche secondo quanto affermato dal suo allievo Bernhard Casper1, infatti, leggendo sinotticamente l'opera di Welte risulta subito chiaro come la domanda di fondo, dalla quale egli prende le mosse e a cui cerca di trovare risposta, riguarda proprio il significato che può assumere oggigiorno l'esperienza religiosa e il modo in cui un uomo che vive in una società come la nostra può intendere se stesso in quanto credente.

La casa editrice tedesca Herder ha recentemente terminato di pubblicare, in collaborazione con la Bernhard-Welte-Gesellschaft e sotto la direzione di Bernhard Casper, l'edizione delle opere complete (Gesammelte Schriften) di Welte, in cui confluiscono anche alcuni manoscritti finora inediti, provenienti dal lascito conservato nell'archivio dell'Università di Friburgo2, nonché numerosi altri testi non disponibili in traduzione italiana. Nel presentare il pensiero di questo autore verrà quindi fatto riferimento soprattutto a tali opere complete.

L'itinerario di pensiero percorso da Welte si presenta molto ricco3. Egli nasce infatti nel 1906 a Messkirch, il piccolo paese della Germania meridionale che aveva dato i natali ad un altro grande filosofo, Martin Heidegger. Dopo la maturità, conseguita al Konvikt St. Konrad di Costanza, Welte studia teologia cattolica all'Università di Friburgo in Brisgovia. Ordinato sacerdote nel 1929, diviene in un primo tempo 1 Cfr. B. Casper, Die Herausforderung des Glaubens durch das Denken, in: L. Wenzler (Hg.), Mut zum

Denken, Mut zum Glauben. Bernhard Welte und seine Bedeutung für eine künftige Theologie, Tagungsberichte der Katholischen Akademie der Erzdiözese Freiburg, Freiburg i. B. 1994, p.18. 2 Di tale lascito fanno parte numerosi manoscritti, per la gran parte ancora inediti, relativi ai corsi da lui

tenuti presso l'Università di Friburgo, e gli appunti presi dai suoi studenti in occasione di lezioni e seminari.

3 Cfr. Z. Stankevičs, Dove va l'Occidente? La profezia di Bernhard Welte, Città Nuova, Roma 2009, pp. 16-20.

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segretario dell'arcivescovo di Friburgo, Conrad Gröber, il quale lo incoraggia a proseguire gli studi teologici, per cui nel 1938 Welte si laurea in teologia con una tesi dal titolo Die postbaptismale Salbung. Ihr symbolischer Gehalt und ihre sakramentale

Zugehörigkeit nach den Zeugnissen der alten Kirche. Benché chiamato sia

dall'Università di Tubinga che da quella di Münster, Welte trascorre gli anni della guerra a Friburgo, insegnando filosofia al seminario e al Collegium Borromaeum. Da ciò deriva la sua tesi di abilitazione alla libera docenza, che porta il titolo Der philosophische

Glaube bei Karl Jaspers und die Möglichkeit seiner Deutung durch die thomistische Philosophie, con cui Welte si abilita all'insegnamento della filosofia. A partire dal 1951

Welte ricopre all'Università di Friburgo la cattedra di questioni filosofiche attinenti alla teologia, la quale si occupava di questioni “di frontiera” tra teologia e filosofia e che nel 1954 diviene la prima cattedra di filosofia della religione cristiana ad essere attivata in Germania. Nell'immediato dopoguerra Welte frequenta il cosiddetto “circolo di Friburgo”4, un gruppo di intellettuali che intendono porre il pensiero cattolico, fino ad allora dominato dalla Neoscolastica e dal Neotomismo, in rapporto con la filosofia contemporanea. Ciò rappresenta una tappa decisiva del suo percorso intellettuale, perché Welte, che durante gli anni giovanili e in vista dell'ordinazione sacerdotale aveva ricevuto una formazione improntata prevalentemente al Neotomismo, il quale rappresentava il pensiero ufficiale della Chiesa cattolica, da quel momento in poi dà il via ad un confronto con le principali correnti filosofiche dell'epoca (soprattutto fenomenologia ed esistenzialismo, come notiamo già dal titolo della sua tesi di abilitazione all'insegnamento).

L'autore che tuttavia esercitò un'influenza decisiva sul pensiero di Welte fu il suo

4 Ne facevano parte, oltre a Welte, Max Müller, Robert Scherer, Reinhold Schneider, Karl Färber e Heinrich Ochsner.

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concittadino Martin Heidegger. I due furono legati da una solida amicizia, che si protrasse per molti anni (fino al 1976, anno della morte di Heidegger) e che si tradusse in un proficuo rapporto personale ed intellettuale, di cui si hanno numerose testimonianze5. Soprattutto nei suoi ultimi anni di vita Heidegger trovò in Welte un insostituibile interlocutore, con il quale confrontarsi su temi che erano di interesse per entrambi. Questo rapporto di reciproca stima condusse Heidegger a chiedere a Welte di tenere il discorso alla sua sepoltura6 e Welte ad accogliere nel suo pensiero temi tipici della riflessione heideggeriana, come l'oblio dell'essere che caratterizza la metafisica occidentale. Entrambi si occuparono poi della questione del nulla e Welte condivide il giudizio dato da Heidegger su Meister Eckhart, e cioè che la filosofia di quest'ultimo rappresenterebbe un tentativo di rottura con la metafisica occidentale. Perfino durante l'ultimo colloquio che Welte ebbe con Heidegger, il 14 gennaio 1976, cioè pochi mesi prima della morte di Heidegger, i due si confrontarono proprio su Meister Eckhart7. Welte scrisse inoltre numerosi saggi dedicati proprio al pensiero di Heidegger. Uno di questi, dal titolo Gott im Denken Heideggers, fu inviato a Heidegger poco prima della sua pubblicazione ufficiale. Heidegger rispose con una lettera del 13 agosto 1974, in cui affermava che Welte seguiva con chiarezza una linea del suo pensiero nelle sue fasi mutevoli8 e che non aveva obiezioni da fare al suo testo9. Alla richiesta di un gesuita brasiliano, padre Stanislaus Ladusans, di ottenere una sua breve autobiografia filosofica da pubblicare in un volume che trattava della filosofia contemporanea, Heidegger

5 Cfr. B. Casper (Hg.), Martin Heidegger, Bernhard Welte. Briefe und Begegnungen, Klett-Cotta, Stuttgart 2003.

6 Cfr. B. Welte, Suchen und Finden. Ansprache zur Beisetzung von Martin Heidegger am 28. Mai 1976 auf dem Friedhof in Messkirch, in: Id., Denken in Begegnung mit den Denkern II: Hegel – Nietzsche – Heidegger, Gesammelte Schriften II/2, eingeführt und bearb. von H. Zaborowski, Herder, Freiburg i. B. 2007, pp. 187-190.

7 Cfr. B. Casper (Hg.), Martin Heidegger, Bernhard Welte. Briefe und Begegnungen, cit., p. 149. 8 Ivi, cit., p. 36.

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rispose che da anni non concedeva più interviste, indicando tuttavia il saggio di Welte come valido sostituto10. Il pensare di Heidegger e Welte fu insomma un Mitdenken, un pensare insieme11. Questo è il motivo per cui, nel corso del presente lavoro, sarà necessario soffermarsi di volta in volta sugli aspetti che accomunano il pensiero di Heidegger e quello di Welte.

Negli anni 1955 e 1956 Welte ricopre la carica di rettore all'Università di Friburgo. Negli anni Sessanta e Settanta si reca a tenere una serie di conferenze a Gerusalemme, a Roma, nel Libano e, in particolar modo, nell'America Latina, al punto che l'Università argentina di Cordoba gli conferisce nel 1973 la laurea honoris causa. Altri incontri importanti saranno quelli con Konrad Lorenz, dai quali deriva lo scritto

Determination und Freiheit del 1969, e quello del 1973 con il filosofo buddista zen

Tjuchimura. Nello stesso anno gli succede alla cattedra di filosofia della religione cristiana l'allievo Klaus Hemmerle. Muore a Friburgo nel 1983.

Il presente lavoro si suddivide in quattro capitoli.

Nel primo capitolo, dopo aver trattato della legittimità di un'indagine filosofica avente come oggetto la religione e averne delineato le condizioni di possibilità, verrà presa in considerazione la costituzione paradossale dell'uomo, la quale si presenta come una dialettica di finito e infinito12. Secondo Welte, infatti, l'esistenza dell'uomo, pur essendo finita e quindi limitata, non è mai compiuta una volta per tutte, ma si attua piuttosto come un'aspirazione e un impulso ad andare al di là dei limiti del suo sapere e del suo potere. Tuttavia, per quanti sforzi l'uomo possa fare, non potrà mai disfarsi del tutto della sua costituzione finita, poiché questa tornerà ad imporsi ogni volta di nuovo,

10 Ibidem. 11 Ibidem.

12 Cfr. I. Feige, Geschichtlichkeit. Zu Bernhard Weltes Phänomenologie des Geschichtlichen auf der Grundlage unveröffentlicher Vorlesungen, Herder, Freiburg i. B. 1989, p. 4.

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nella forma di un limite dato da qualcosa di cui non riusciamo a dare una spiegazione o che non riusciamo a dominare del tutto o di quel limite assoluto rappresentato dal fatto di dover morire un giorno. Si aprono a questo punto due possibilità, la prima delle quali è quella che conduce al nichilismo e alla disperazione per la mancanza di fondamento e senso nella nostra esistenza.

Nel secondo capitolo, dopo aver delineato i caratteri del nulla, di cui facciamo esperienza quando riflettiamo sul fatto che la nostra esistenza si trova come sospesa in mezzo ad una non-esistenza passata e ad una non-esistenza futura, verrà preso in considerazione il modo in cui Welte intende il fenomeno del nichilismo contemporaneo. Quest'ultimo gli appare caratterizzato dal venir meno della fiducia in un fondamento divino in grado di garantire il senso dell'esistenza. Più ancora, il nichilismo viene inteso da Welte come la conseguenza dell'apparenza ideologica che la scienza e la tecnica sono giunte ad assumere nel corso del loro sviluppo. Tale apparenza ideologica ha prodotto infatti l'illusione che non possa esistere altro all'infuori di ciò che si presenta come scientificamente conoscibile o tecnicamente realizzabile. In un simile contesto la religione e il divino devono necessariamente apparire come nulla. La pretesa di onnipotenza del pensiero scientifico e tecnologico rivela tuttavia le proprie lacune nell'incapacità di dare risposta alla problematica del senso. Dopo aver analizzato alcuni esempi a sostegno dell'ipotesi di Welte, secondo la quale la religione non è definitivamente tramontata nella nostra società secolarizzata, ma sopravvive come una sorta di sostrato rimosso e inconsapevole, viene mostrato che l'atteggiamento nichilistico si trova in contraddizione con la pretesa di fondo che anima la nostra esistenza, la pretesa cioè che ogni cosa abbia un senso. Se quindi vogliamo che alla nostra esistenza sia mantenuto il senso, non resta che prendere in considerazione la

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seconda delle due possibilità nominate in precedenza, vale a dire che il nulla sia inteso non come un vuoto nulla, ma come quel mistero assoluto in cui si cela il senso di ogni esistenza umana nel mondo.

Nel terzo capitolo verrà mostrato come questa via, che conduce a riconoscere nel nulla quella potenza misteriosa e incondizionata in grado di conferire senso ad ogni cosa, non costituisce una dimostrazione dell'esistenza di Dio propriamente detta. Si è giunti infatti a tale riconoscimento per mezzo di argomentazioni razionali, che tuttavia non sono universalmente necessarie, come se si trattasse di una dimostrazione di geometria. Esse lasciano piuttosto uno spazio aperto alla libertà dell'individuo, che può quindi liberamente accettarle, ma anche liberamente rifiutarle. Un simile rifiuto è ciò che fonda la possibilità dell'ateismo, di cui verranno trattate le diverse forme che, secondo Welte, questo fenomeno assume nell'età contemporanea (ateismo negativo, ateismo critico, ateismo positivo e ateismo sofferente). A ciò seguirà una riflessione sul modo in cui Welte intende l'ateismo di Nietzsche, il quale gli appare come la conseguenza della costituzione finita, ma al tempo stesso anche infinita, dell'uomo, di quella volontà che desidera andare al di là di ogni limite e di ogni divisione e che pertanto non può non venire in contrasto con un Dio esterno che limita l'uomo. Una simile volontà si trova secondo Welte anche a fondamento del fenomeno del male, nonché delle diverse forme di religione snaturata (in particolar modo del fanatismo), con cui abbiamo a che fare oggigiorno.

Nel quarto capitolo, infine, verrà messo in evidenza come quella fede che ci consente di intendere il nulla come un mistero incondizionato che dia senso alla nostra esistenza non sia ancora da intendersi, per come è stata presentata finora, come una fede esplicitamente religiosa. Dobbiamo quindi chiederci se e in che misura possiamo

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attribuire al mistero il nome di “Dio” e, prima ancora, il carattere della personalità, che è poi ciò che costituisce il fondamento di possibilità della preghiera e degli atti religiosi. Una simile riflessione sarà preceduta da un'indagine volta a chiarire il significato assunto dal concetto di “persona” all'interno della tradizione filosofica, la quale farà da sfondo all'accezione che Welte dà di questo termine. Una volta fatto questo, verrà rilevato come una fede religiosa così intesa appaia inizialmente come un salto nel buio. C'è quindi bisogno che essa trovi un sostegno nell'ambito intramondano, che è quello a noi più vicino. Questo è il motivo per cui in ogni religione vi sono uomini che si presentano come rappresentanti o testimoni di Dio. La fede religiosa, in una parola, si fonda sulla fede tra gli uomini. Tale fede tra gli uomini si basa sul fatto che l'uomo è, per essenza, in relazione con il mondo e con gli altri uomini (cosa a cui rimanda l'espressione heideggeriana In-der-Welt-Sein). Verrà quindi esaminato ciò che avviene quando un uomo presta fede ad un altro uomo e infine come si arriva alla fede esplicitamente religiosa a partire da una tale fede tra gli uomini. Questo ci condurrà al riconoscimento del carattere inevitabilmente storico delle diverse configurazioni che il divino ha assunto nel corso della storia. Attraverso una riflessione sul concetto heideggeriano di “storicità dell'essere”, si giungerà quindi a riconoscere la possibilità di un superamento di quel pensiero metafisico, che per così tanto tempo ha caratterizzato la storia dell'Occidente. Si vedranno infine le conseguenze che un simile superamento della metafisica avrà sul modo di pensare la religione all'interno della società in cui viviamo oggigiorno.

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Capitolo primo – Una dialettica di finito e infinito

1. Legittimità di un'indagine filosofica avente come oggetto la fede

La filosofia di Bernhard Welte è essenzialmente filosofia della religione: essa si pone quindi il compito di interpretare filosoficamente la relazione umana con Dio o con la sfera di ciò che chiamiamo il divino1. Si tratta di un modo di indagine che è certamente possibile, in alcuni casi perfino relativamente necessario, a seconda delle diverse circostanze storiche: soprattutto in epoca contemporanea, in cui fenomeni come fede e religione hanno perso il loro carattere di realtà ovvie e sono divenuti altamente problematici, è più che mai opportuno riflettere su di essi, sia per coloro che vivono ancora al loro interno che per quelli che se ne sono allontanati, al fine di acquisire una base critica nei confronti sia della religione che della non credenza, dato che ambedue non possono essere accettate in maniera acritica da parte di un'indagine filosofica che voglia dirsi veramente tale.

La cosa principale che bisogna tenere presente a questo proposito è che nell'opera di Welte la religione viene intesa come un “modo umano di esistenza”: “l'esistenza umana e il modo in cui essa si svolge sono il luogo in cui si verifica e viene vissuta quella relazione che chiamiamo religione”2.

All'interno della relazione religiosa la realtà primaria e fondante non è certamente l'uomo, ma ciò che chiamiamo Dio o il divino. È in relazione al divino, infatti, che l'esistenza umana può essere definita come esistenza religiosa. All'interno del rapporto che l'uomo ha con il divino è Dio colui che per primo si rivolge all'uomo, chiamandolo 1 Cfr. B. Welte, Religionsphilosophie, tr. it. di A. Rizzi, Dal nulla al mistero assoluto. Trattato di

filosofia della religione, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 14-24. 2 Ivi, tr. it. cit., p. 22.

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ed interpellandolo, vale a dire rivelandosi, tuttavia l'uomo deve in un secondo momento rispondere alla sua chiamata e sia l'appello di Dio che la risposta dell'uomo avvengono nell'orizzonte dell'esistenza umana.

Il lato umano di questa relazione, quello in cui l'uomo può stabilire un rapporto appropriato con Dio, è la fede. La fede è un modo di attuare la nostra esistenza che non si limita alla semplice affermazione di verità di ordine teoretico, dato che a queste ultime è possibile attenersi senza che la nostra esistenza ne sia in qualche modo coinvolta. La fede, invece, non rimane separata rispetto all'esistenza, ma esige che ci affidiamo completamente ad essa, che la nostra intera esistenza sia messa interamente in gioco e da essa in qualche modo trasformata.

Per quanto questi due momenti siano concettualmente separabili (fede e rivelazione, lato umano e lato divino della religione), bisogna tuttavia tenere presente che essi non sono due avvenimenti separati, ma un unico avvenimento, dato che non esiste una rivelazione isolata, che solo in un secondo tempo si imbatte nella fede, ma essa è tale solo nella misura in cui si compie nella fede ed è ad essa diretta. Fides quae

creditur e fides qua creditur non sono quindi due momenti distinti, ma due facce di un

unico avvenimento: la rivelazione di Dio e il suo essere accolta da parte dell'uomo3. La rivelazione riunisce in un unico avvenimento il rivelatore, la cosa rivelata e colui al quale viene rivelata.

In uno scritto intitolato Was ist Glauben. Gedanken zur Religionsphilosophie4 Welte avvicina la fede religiosa a qualcosa come l'ascolto di una parola rivolta da Dio all'uomo. La parola è infatti relazione: in essa qualcuno dice qualcosa a colui al quale la

3 Cfr. B. Welte, Die Wesensstruktur der Theologie als Wissenschaft, in Id., Zur Vorgehensweise der Theologie und zu ihrer jüngeren Geschichte, Gesammelte Schriften IV/3, eingeführt und bearb. von G. Ruff, Herder, Freiburg i. Br. 2007, pp. 170-174.

4 Cfr. B. Welte, Was ist Glauben. Gedanken zur Religionsphilosophie, tr. it. di G. Poletti, Che cosa è credere. Riflessioni per la filosofia della religione, Morcelliana, Brescia 1983.

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parola è rivolta. Senza un ascoltatore quantomeno possibile la parola sarebbe un suono vuoto, non una parola che dice veramente qualcosa. Ma l'ascolto della parola include anche la sua comprensione: essa non vuole solamente essere udita, vuole anche essere compresa ed eventualmente accolta, dato che noi non abbiamo ascoltato veramente la parola quando ne abbiamo udito solamente il suono. L'ascolto comprendente della parola è la condizione di possibilità della sua accettazione. Ascolto, comprensione ed appropriazione sono tuttavia fenomeni propriamente umani; essi sono quindi tali da non escludere colui al quale la parola viene rivolta, ma da includerlo nel processo. La fede è sempre fede di un uomo che crede: non esiste infatti una fede in se stessa, separata dall'uomo concreto, ma essa è ogni volta la mia fede. Pertanto anche l'uomo, in quanto destinatario della parola di Dio, ha qui qualcosa da fare e non è semplicemente passivo. Egli deve invece portare a compimento questo ascolto e questa comprensione per mezzo della sua comprensione dell'essere (Seinsverständnis), la quale costituisce in ogni uomo il fondamento che, prima della fede, rende possibile la fede stessa5.

La comprensione dell'essere è la radice comune di ogni possibile interpretazione della nostra esistenza. Ciascuno infatti può dire di se stesso: io esisto. Egli si scopre cioè come immediatamente esistente. È questa una prerogativa esclusivamente umana. Noi pensiamo infatti che anche i sassi e gli apparecchi elettronici esistano, ma questi enti non hanno in se stessi consapevolezza di sé e del proprio esistere; essi non possono mai dire di se stessi: io esisto. Solo l'uomo può farlo. In quanto comprende se stesso come esistente, l'uomo comprende se stesso alla luce dell'essere, come qualcosa che è. Egli esiste quindi come comprensione dell'essere. Ciò che per lui emerge alla luce dell'essere, in quanto esistente, non è tuttavia soltanto la propria esistenza, ma anche l'altro da sé, vale a dire gli altri uomini, le cose, la natura, in una parola il suo mondo. Se 5 Ivi, tr. it. cit., pp. 11-17.

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io esisto, viene contemporaneamente all'esistenza anche il mondo che mi circonda, tutto ciò che vedo, sento, penso, gli oggetti inanimati, ma anche le piante e gli animali, che hanno una consapevolezza di sé molto limitata e parziale6.

La comprensione dell'essere si desta per la prima volta nell'uomo quando questo, meravigliandosi dell'esistenza di qualcosa, si pone domande come “che cos'è questo?” oppure “chi sono io?”. La semplice costatazione che qualcosa è presuppone già una familiarità con ciò che esprime la parola “essere”. L'uomo, dal momento in cui esiste, si è già familiarizzato con questo essere, già da prima di poterlo nominare o comprendere. Questa familiarità, che costituisce il presupposto della domanda “che cos'è questo?”, non può sopraggiungere nella nostra esistenza a partire dall'esterno, non può esserci insegnata. Ogni spiegazione, ogni insegnamento presuppone infatti il concetto di “essere” (nella forma del “questo è...”). Il concetto di “essere” non può quindi essere raggiunto partendo da altri concetti, dato che esso è più semplice ed originario rispetto a tutti gli altri concetti ed essi lo presuppongono come loro fondamento. Tutto ciò che incontriamo è quindi circondato dalla luce dell'essere, con la quale ci siamo familiarizzati fin dall'inizio della nostra esistenza7.

Per mezzo della comprensione dell'essere che si trova già in lui l'uomo ha la possibilità di comprendere ogni parola ed ogni appello che gli vengono rivolti. Senza di essa egli non potrebbe comprendere alcunché, così come non capirebbe le parole di una lingua a lui sconosciuta, proprio perché non troverebbe in sé il fondamento di possibilità del comprendere. Questo non significa ovviamente che l'uomo e la sua comprensione dell'essere determinino la parola o l'appello che gli vengono rivolti, ma piuttosto che

6 Cfr. B. Welte, Determination und Freiheit, in Id., Person, Gesammelte Schriften I/1, eingeführt und bearb. von S. Bohlen, Herder, Freiburg i. Br. 2006, pp. 26-30.

7 Cfr. B. Welte, Heilsverständnis. Philosophische Untersuchungen einiger Voraussetzungen zum Verständnis des Christentums, in Id., Hermeneutik des Christlichen, Gesammelte Schriften IV/1, eingeführt und bearb. von B. Casper, Herder, Freiburg i. Br. 2006, pp. 32-51.

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questa parola e questo appello fanno riferimento all'uomo e alla sua possibilità di comprendere, che gli è data insieme alla sua natura e che è presupposta affinché egli possa diventare “uditore della parola” (Hörer des Wortes), come recita il titolo dell'opera più famosa di Karl Rahner8.

La filosofia costituisce per l'appunto secondo Welte l'esposizione teoreticamente articolata di questa comprensione dell'essere che l'uomo possiede. Essa è quindi necessaria per chiarire le possibilità, insite nell'uomo, di comprendere ed eventualmente accogliere la fede e la rivelazione. In questo modo Welte ritiene di poter respingere le obiezioni che Karl Barth nella sua Epistola ai Romani ha sollevato contro l'uso della filosofia in teologia. Secondo Barth non vi sarebbe alcun “aggancio” (Anknüpfungspunkt) della teologia a presupposti di ordine antropologico, perché, se la rivelazione è davvero avvenuta, allora qualcosa sarebbe stato rivelato a partire da un'origine trascendente, da un'origine che si colloca al di sopra della ragione umana e del suo ambito di competenza; di conseguenza la filosofia, in quanto “sforzo umano diretto a capire l'esistenza umana nel mondo”9 non ha nulla a che fare con ciò.

Secondo Welte non è tuttavia possibile ridurre l'elemento religioso esclusivamente a Dio, perché vi è anche l'uomo che, attraverso la comprensione dell'essere che gli è stata data, cerca di comprendere ciò in cui crede. Dio non può rivelare se stesso e al tempo stesso escludere l'uomo da ciò. Egli non può escludere l'umana comprensione dell'essere, bensì premetterla e rivolgersi ad essa. Nella rivelazione e nella fede l'uomo non si trova sotto l'effetto di un sortilegio tale da far nascere in lui un pensiero rispetto al quale egli sarebbe totalmente estraneo; in tal caso egli sarebbe sottoposto ad un potere imperscrutabile, di fronte al quale non potrebbe trovarsi né in un rapporto di possibile 8 Cfr. I. Feige, Geschichtlichkeit. Zu Bernhard Weltes Phänomenologie des Geschichtlichen auf der

Grundlage unveröffentlicher Vorlesungen, cit., p. 2.

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accettazione né di possibile rifiuto.

È questo il fondamento per il quale è possibile una filosofia della religione. Essa ha il compito di portare alla luce categorie e forme di pensiero che dovranno servire all'ascolto e alla comprensione della rivelazione. In questo suo compito essa sarà sempre tale da risultare al tempo stesso signora e ancella. Di fronte alla rivelazione, nella sua forma tramandata e tradizionale, essa dovrà sempre chiedersi che cos'è ciò e in che modo lo si debba pensare e in questo dovrà apparire come signora. Al tempo stesso tuttavia, in quanto filosofia che si rivolge alla fede per cercare di comprenderla, dovrà esserne ancella e porsi in ascolto del messaggio della rivelazione e lasciarsi guidare da esso come ciò che è dato e annunciato, per non correre il rischio di ridurre la rivelazione a qualcosa di unicamente pensato.

2. La fede che fonda l'esistenza

Ciò che Welte intende innanzitutto mostrare è che esiste una forma del credere che risulta antecedente ad ogni atto della nostra esistenza: essa quindi non solo rende possibile la stessa esistenza umana, ma si pone anche come il fondamento di ogni forma esplicita di fede.

Welte considera quindi l'esistenza umana come un atto e come un evento: esistere per l'uomo significa infatti attuare e portare a compimento, vivendo, l'evento della propria esistenza.

La cosa fondamentale da notare è che questa nostra esistenza è continuamente mossa da interesse: in essa ne va sempre di qualcosa, altrimenti non faremmo proprio niente, perché non avremmo nessun interesse a fare questo anziché quello. In questo

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modo noi ci rivolgiamo con interesse verso quello che avverrà in futuro: viviamo infatti abitualmente come proiettati in avanti, ci preoccupiamo di ciò di cui dovremo occuparci domani, progettiamo in anticipo quello che dovremo fare e in questo modo viviamo nella speranza, ma anche nel timore, di quello che avverrà. Il futuro insomma ci viene incontro, ci schiude nuove prospettive e nuovi pericoli e noi regoliamo il nostro agire anche in base ad esso10.

Di esso tuttavia non possiamo ancora conoscere niente: non sappiamo infatti quello che avverrà tra un'ora, domani o tra un anno. Quando pensiamo al futuro ci addentriamo quindi su un terreno ancora inesplorato. Ciò che ci aspettiamo dal futuro è che esso continui a sostenerci e a dare fondamento e senso alla nostra esistenza. Il più delle volte, tuttavia, non ci preoccupiamo di chiederci se il fondamento che sostiene attualmente la nostra esistenza continuerà a sostenerci anche nel futuro; in questo modo operiamo una sorta di precorrimento o anticipazione del futuro, senza il quale non potremmo vivere. Tale precorrimento può assumere varie forme, tra cui troviamo anche l'ora, il sistema per mezzo del quale misuriamo il tempo in modo esatto, il quale può essere prolungato anche nel futuro, per cui possiamo essere ragionevolmente certi per esempio che il nostro treno partirà domani alle 12.05. Naturalmente non possiamo esserne del tutto sicuri, dato che possono cambiare molte cose nel frattempo. Tuttavia l'ora produce l'illusione della certezza e della sicurezza e ci rassicura in apparenza che tutto andrà come è sempre andato11.

Ciò che conta in questo caso non è tanto sapere con certezza che cosa accadrà realmente, ma il fatto che noi ci proiettiamo con interesse nel futuro, con l'aspettativa che la nostra esistenza non solo continuerà anche in futuro, ma continuerà anche ad 10 Cfr. B. Welte, Meditation über Zeit, in Id. Mensch und Geschichte, Gesammelte Schriften I/2,

eingeführt und bearb. von I. Feige, Herder, Freiburg i. B. 2006, p. 23.

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essere buona e sensata. Possiamo chiamare “fede” una simile aspettativa.

Consideriamo più da vicino una simile fede. Ciò può essere fatto sia dal punto di vista del tempo che dal punto di vista del senso della nostra esistenza.

Riguardo al tempo diciamo che esso ci pone di fronte possibilità sempre nuove, facendone al contempo svanire altre dalla nostra vita. Esso rimette continuamente in discussione ogni cosa, noi stessi compresi. Noi tuttavia continuiamo a vivere come se niente fosse, come se la nostra esistenza dovesse continuare in eterno.

Ma noi, in ogni caso per l'impulso fondamentale della nostra vita, viviamo come se nulla fosse in discussione. Viviamo anzitutto fondandoci sul presupposto, per nulla confermato dall'esperienza, che la nostra vita abbia un senso nella nostra libertà, e questo pur sapendo che alla fine il tempo porta a termine ogni cosa.

Nella fede primaria, che costituisce l'esistenza, vive come una sorta di negazione di ogni “terminare” e “portare a termine”, una negazione dell'essenza negatrice propria del corso del tempo.

“Ogni piacere vuole eternità, vuole profonda, profonda eternità”, leggiamo in Nietzsche. In effetti, è così. Noi vogliamo sempre piacere e felicità e dal principio della nostra vita presupponiamo che essi siano imperituri. La lancetta della nostra fede primaria indica dunque l'eternità, indica un senso imperituro. E ogni “terminare”, che è comunque inevitabile, si oppone alla nostra fede primaria.

Perciò gli uomini hanno sempre avuto qualcosa contro la morte, anche se sanno che essa è inevitabile. Ma noi viviamo primariamente come se essa non ci fosse affatto12.

Prenderemo in considerazione più avanti tutto ciò che riguarda invece il senso della nostra esistenza.

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3. Il finito nell'uomo

La fede di cui abbiamo parlato finora è certamente soltanto implicita. Ma come si arriva ad una fede esplicita?

La fede esplicita si basa senz'altro sulla fede implicita, sebbene non sia affatto inevitabile che quest'ultima venga esplicitamente riconosciuta come fede in Dio. La possibilità di giungere ad una fede esplicita si fonda, oltre che sulla già citata fede implicita, anche sulla situazione fondamentale in cui si trova l'uomo nel mondo, che dobbiamo adesso prendere in considerazione.

La situazione fondamentale dell'uomo è la seguente: egli riconosce la sua esistenza del mondo come un'esistenza finita. Si tratta di un dato di fatto banale, ma che spesso è stato trascurato. Di fatto, l'esistenza umana urta costantemente contro la finitezza. Essa si manifesta in molti fenomeni con i quali abbiamo quotidianamente a che fare. Ne elenchiamo alcuni13.

Anzitutto il fatto stesso di essere in un mondo implica il riconoscimento di un orizzonte di finitezza all'interno del quale agire. Il mondo è la condizione di possibilità che permette all'uomo di dispiegare la propria esistenza, ma al tempo stesso rappresenta anche il limite che determina questa realizzazione, dato che ogni agire è sempre un agire in relazione a qualcosa. Il mondo ci offre certamente infinite possibilità di realizzazione. Per questo motivo Kierkegaard aveva individuato nella possibilità la categoria fondamentale della sua filosofia, ma al tempo stesso ne aveva messo in evidenza il carattere di angoscia e spaesamento: scegliere una possibilità equivale infatti molto spesso a rinunciare ad altre vie ugualmente percorribili, per cui l'esistenza di

13 Cfr. B. Welte, Im Spielfeld von Endlichkeit und Unendlichkeit. Gedanken zur Deutung des menschlichen Daseins, Knecht, Frankfurt a. M. 1967, pp. 21-30.

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innumerevoli possibilità e la necessità di decidere rispetto ad esse rappresenta senza dubbio un elemento di limitazione all'interno dell'esistenza finita dell'uomo14.

Oltre a ciò, non solo l'uomo è obbligato a fare una scelta escludendo tutte le altre, ma una volta compiuta questa scelta non è neppure in grado di portarla avanti fino in fondo. Nessuno infatti è in grado di conoscere o di fare ogni cosa e questo vale sia per il singolo individuo che per l'umanità in generale. Nonostante gli indiscutibili progressi della scienza e della tecnica e l'innegabile impulso che spinge l'esistenza umana ad andare sempre al di là dei suoi limiti e della sua finitezza, il limite si ripropone ogni volta di nuovo, sia pure spostato un poco più avanti. È come se la sua finitezza crescesse nella stessa misura in cui cresce il suo sapere e il suo potere, per cui non c'è alcuna possibilità di eliminare questo limite una volta per tutte15.

Il finito si annuncia inoltre nell'uomo non solo per il fatto che egli è in un mondo, ma anche perché è in questo mondo, vale a dire limitato dalla sua collocazione spaziale e temporale. Riconoscere questo significa riconoscere il significato che assume il Da della parola tedesca Dasein (il “ci” della parola “esserci”). Egli è infatti situato in un luogo ben preciso, che coincide con i confini di quello che è il suo spazio corporeo. Il desiderio di intervenire sul proprio corpo modificandolo, la volontà di essere diversi, testimoniano l'angoscia con cui siamo costretti a vivere il fatto che ci sia stato assegnato questo corpo limitato, con il quale dovremo convivere per il resto della vita. Noi abbiamo senz'altro un rapporto conflittuale con il nostro corpo: da un lato esso è ciò che ci permette di attuare le nostre potenzialità, di realizzare la nostra esistenza, ma al tempo stesso non ci identifichiamo mai del tutto con esso, specialmente quando è sottoposto alla malattia, al dolore, alla transitorietà e alla morte. In questi casi, infatti, viviamo una 14 Cfr. O. Tolone, Bernhard Welte. Filosofia della religione per non credenti, Morcelliana, Brescia 2006,

pp. 30-31. 15 Ivi, cit., pp. 31-32.

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sorta di straniamento, di scissione rispetto al nostro corpo ed esso agisce come un ostacolo alla realizzazione dei nostri desideri16.

Il limite della spazialità si manifesta anche nel fatto che un uomo, per quanto possa cercare di vivere nel modo più cosmopolita possibile, rimarrà per sempre legato al luogo della sua provenienza, non smetterà mai di appartenere ad un determinato paese, ad un determinato ambito culturale e linguistico. La sua provenienza rimane il punto di riferimento partendo dal quale può rapportarsi a tutto il resto, ed egli non può mai separarsene, così come non può mai separarsi dal proprio corpo17.

Oltre a vivere in uno spazio determinato, l'uomo vive anche in un tempo determinato, in un periodo e in un'epoca storica ben definiti, che noi non abbiamo scelto, ma che ci sono stati assegnati. Possiamo anche cercare di allargare i nostri orizzonti temporali attraverso l'erudizione storica, lo studio di lingue e civiltà trascorse, ma per quanti sforzi possiamo fare per entrare nella mentalità di un tempo non saremo mai uomini dell'antichità o del medioevo in senso pieno. Il destino che ci ha assegnato ad un determinato luogo e ad un determinato corpo, ci ha assegnato anche ad una determinata epoca e ci impedisce di sottrarci alla sua influenza e di superare le limitazioni imposte dal nostro essere spazialmente e temporalmente finiti18.

Tutto ciò si può riassumere dicendo che la finitezza coincide con la nostra esistenza a tal punto che possiamo affermare: io sono io e posso essere soltanto io. Qualunque cosa succeda, non potrò mai abbandonare questo mio io e diventare qualcun altro; neppure quando dico che vorrei essere qualcun altro desidero essere veramente un'altra persona, a meno che non si voglia rinnegare se stessi a tal punto da sprofondare nella malattia mentale e nell'alienazione. Questo io che mi è stato assegnato rappresenta 16 Ivi, cit., pp. 32-33.

17 Ivi, cit., pp. 28-29. 18 Ivi, cit., pp. 29-30.

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quindi una limitazione, un destino a cui non abbiamo la possibilità di sottrarci19.

A queste forme di limite e di finitezza se ne aggiunge anche un'altra: quella della verità. Noi attribuiamo anzitutto la verità ai giudizi e alle proposizioni, ma questi non significano più niente all'infuori della reale comprensione del singolo, della mia, della tua, dell'altrui comprensione. Una verità che non si manifestasse come verità per qualcuno, non sarebbe più verità. Essa non è qualcosa che permane immutato attraverso le epoche, ma nasce ogni volta che c'è un uomo che comprende ciò che è; all'infuori di ciò essa non è nulla. Ma appunto perché la verità può essere reale solo all'interno di un reale comprendere, essa muta a seconda dei diversi uomini che la comprendono: la sua figura pura non è mai raggiungibile, ma può essere colta solo in una reale modificazione storica, dato che ogni volta è un singolo individuo che la comprende e la esprime20.

Ogni cosa che è data alla nostra esperienza appare diversa da uomo a uomo anzitutto perché le nostre esperienze, la nostra storia, il luogo e il tempo in cui siamo nati e cresciuti influenzano il nostro modo di cogliere e di interpretare la verità. Il cielo del sud appare di un altro colore rispetto a quello del nord, il padre aveva nell'antichità un ruolo diverso da quello che ricopre nella famiglia moderna, la scuola significa per noi qualcosa di diverso nell'infanzia rispetto all'età adulta: ciascuno vede davanti a sé qualcosa di diverso quando parla di padre o di cielo o di scuola e le parole non hanno qui un significato univoco. Ogni singola esperienza influenza la totalità dell'esperienza, così come la totalità delle esperienze influenza ogni singola esperienza. Bisogna quindi guardare sempre alla totalità delle esperienze dell'altro, se vogliamo comprendere il significato che una parola ha presso un altro uomo, un altro popolo o perfino in un

19 Ivi, cit., p. 30.

20 Cfr. B. Welte, Wahrheit und Geschichtlichkeit, in Id., Mensch und Geschichte, Gesammelte Schriften I/2, cit., pp. 69-78.

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contesto diverso della nostra stessa vita21.

Oltre a ciò, la verità muta a seconda del modo, dell'intenzione e delle categorie con cui ci rapportiamo a ciò che ci troviamo di fronte: una cattedrale apparirà in modo diverso a seconda che a vederla sia uno storico, un esteta oppure un religioso22.

Infine, dobbiamo fare i conti anche con una modificazione dell'orizzonte storico della verità. Il nostro modo di comprendere la verità, infatti, muta nel corso della storia, determinando un cambiamento del nostro modo di pensare, di agire e di comprendere, che ci rende accessibili certe possibilità, mentre ce ne preclude altre. Conformemente al pensiero di Heidegger riguardante una “storia dell'essere” (Seinsgeschichte), Welte parla di “storia della verità”23, in cui gli elementi di questo cambiamento epocale della verità si trovano raccolti in unità chiamate mondi storici: per questo possiamo parlare di mondo antico o di mondo medievale, del mondo di Agostino o del mondo di Goethe. Ciascuno vive quindi all'interno di un simile mondo storico, il quale è caratterizzato da determinati concetti e categorie, da determinate visioni della natura, della società e della storia, che all'interno di quel mondo vengono vissuti come assolutamente evidenti, inoltre prescrive determinati modi di interrogare, di fare esperienza, in una parola ciò che deve essere riconosciuto come generalmente valido; ognuno comprende pertanto se stesso e il proprio mondo a partire dalla totalità del mondo storico in cui si trova a vivere. Ne deriva che ciascuno di questi mondi è al tempo stesso storico e trascendentale: si tratta in primo luogo di un singolo mondo accanto ad altri mondi, e in questo senso esso è storico, ma al tempo stesso prescrive determinati modi di esperienza e di interpretazione della totalità, ragion per cui può essere considerato trascendentale. Dalla sua trascendentalità deriva la pretesa, propria di ciascun mondo storico, di volersi 21 Ivi, cit., p. 78.

22 Ivi, cit., p. 79. 23 Ivi, cit., p. 80.

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considerare come assoluto, di proporsi come la verità assoluta, destinata a resistere a tutte le epoche. A questo proposito bisogna tuttavia tenere presente che tutto ciò che un individuo dice, pensa e fa, è mediato dalle categorie e dai concetti del mondo storico determinato in cui si trova a vivere ed è ugualmente sottoposto all'influenza di questo mondo storico, anche se crede di esservi sottratto. Possiamo quindi dire che la comprensione reale di ciascun individuo è il luogo in cui la verità si manifesta, ma questa comprensione, e di conseguenza la verità stessa, è nondimeno determinata dal mondo storico reale in cui l'individuo si trova a vivere24.

Da tutte queste considerazioni risulta che la verità non può essere colta nella sua forma assoluta, ma solo in una figura limitata e finita. Ai limiti soggettivi propri dell'uomo si aggiunge quindi anche la finitezza strutturale della verità, che delimita l'orizzonte della sua comprensione.

4. La morte

È tuttavia con la morte che la finitezza dell'uomo viene alla luce nel modo più evidente25. Nell'importanza centrale da lui attribuita alla tematica della morte Welte si pone ovviamente in continuità con quanto detto da Heidegger a proposito dell'essere-per-la-morte (Sein zum Tode)26, in particolar modo quando afferma che “la morte, come fine dell'Esserci, è la possibilità dell'Esserci più propria, incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile” e che “la quotidianità è indaffarata nel prendersi cura

24 Ivi, cit., pp. 81-82.

25 Welte parla della morte soprattutto in Der Ernstfall der Hoffnung. Gedanken über den Tod, in Id., Leiblichkeit, Endlichkeit und Unendlichkeit, Gesammelte Schriften I/3, eingeführt und bearb. von E. Kirsten, Herder, Freiburg i. Br. 2006, pp. 155-180. Sarà soprattutto a questo breve testo che ci atterremo per le riflessioni che seguono sul tema della morte.

26 Cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, tr. it. di P. Chiodi rivista da F. Volpi, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2006, pp. 296-319.

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e rifugge dall'intoppo dello stanco e inattivo pensare alla morte. Questo pensiero è costantemente rimandato a un più tardi, facendo appello alla cosiddetta opinione generale. In tal modo il Si nasconde ciò che la certezza della morte ha di caratteristico, ossia che essa è possibile a ogni attimo. La certezza della morte si accompagna alla

indeterminatezza del suo quando”27.

Welte afferma infatti che la morte è certamente per noi qualcosa di singolare, dato che il più delle volte ci comportiamo come se dovessimo vivere per sempre e la morte fosse qualcosa che non fa assolutamente parte della nostra vita. A volte veniamo a sapere della scomparsa di qualcuno a noi sconosciuto, e la cosa certamente ci turba, ma poiché continuiamo a vivere, possiamo tranquillamente proseguire la nostra esistenza come se nulla fosse. In questo senso vale la massima epicurea secondo la quale quando ci siamo noi non c'è la morte, mentre quando c'è la morte non ci siamo noi. Abbiamo qui a che fare con uno dei più arcaici meccanismi di difesa messi in atto dall'uomo, che consiste nel non voler sapere nulla della morte, nel distogliere lo sguardo di fronte ad essa. Alla morte possibilmente non si deve pensare, di essa è buona regola tacere; quando non è ridotta al silenzio, essa viene messa sullo stesso piano di un avvenimento tra gli altri, a tal punto che molto spesso troviamo nei quotidiani i necrologi accanto ad annunci pubblicitari di qualunque tipo28.

Le cose cambiano quando veniamo a sapere della morte di una persona che conoscevamo o che ci era comunque vicina. La morte, in questo caso, ci riguarda più da vicino ed è realmente presente nella nostra vita, anche se non si tratta del nostro stesso morire. Essa ci fa quindi cenno nella scomparsa di una persona vicina: ciò che ci dice è che essa tocca anche noi direttamente e così facendo dissolve l'illusione che si tratti di 27 Ivi, tr. it. cit., pp. 309-310.

28 A proposito dell'atteggiamento dell'esistenza quotidiana di fronte alla morte cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit, tr. it. cit., pp. 303-306.

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qualcosa che non ci riguarda affatto. Il cenno che la morte ci rivolge è certamente un cenno angoscioso e inquietante, perché riporta con forza la nostra attenzione sul fatto che anche noi, un giorno, dovremo morire, ma soprattutto perché non dice che cosa accadrà con questa morte, dove essa ci condurrà.

La fuga di fronte alla morte tuttavia non si compie solo nella forma del non volerne sapere, ma si manifesta anche come lotta attiva per sconfiggere questo evento: soprattutto in epoca contemporanea i progressi tecnici e scientifici, in particolar modo della scienza medica e della farmacologia, ci mettono a disposizione mezzi sempre più efficaci, che ogni volta ci consentono di allungare la nostra vita ancora di un poco. Ma per quanti sforzi possiamo fare, per quante battaglie possiamo vincere contro di essa, alla fine risulta sempre che la morte è più potente e la nostra ribellione contro di essa vana: nonostante i successi, le nuove possibilità e i traguardi raggiunti, la vita alla fine ci verrà comunque strappata via.

La morte è ciò che resiste perfino alla presa della tecnicizzazione e della razionalizzazione moderne. La scienza e la tecnica destano infatti l'illusione di poter spiegare tutto, compresa la morte. Ma in questo modo non si comprenderebbe il senso di quei rituali con cui siamo soliti far fronte alla morte, che sono presenti in ogni cultura e religione, e che resistono ancora nel nostro mondo altamente tecnicizzato e secolarizzato, perfino in coloro che non vogliono avere nulla a che fare con la religione. Se infatti intendiamo la morte semplicemente come la disgregazione di un sistema chimico e fisico di un certo tipo, perché sentiamo la necessità di vestirci in modo solenne durante le cerimonie funebri, di chiuderci in un rispettoso silenzio di fronte al morto e di ripercorrere per l'ultima volta la sua esistenza, mettendone in risalto gli aspetti migliori e tralasciando quelli meno belli? Qual è il senso di visitare il

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camposanto e adornare la tomba? Perché proviamo indignazione quando, per esempio a causa della guerra, questi rituali non vengono osservati e il rispetto per i morti viene a mancare? Di fronte a tutto questo il sapere tecnico e scientifico raggiunge un limite evidente, per cui è chiaro che la morte fa parte di un ordinamento diverso: ne è prova anche il fatto che in tutte le culture i rituali ad essa legati sono ancora oggi di competenza della sfera religiosa.

Per questo Welte chiama la morte il “caso serio” (Ernstfall) della nostra esistenza. Nella vita umana ci sono certamente altri casi seri: le decisioni politiche ed economiche, ad esempio, sono ovviamente qualcosa di molto serio, perché riguardano la vita di molte persone. La morte tuttavia non è soltanto un caso serio accanto ad altri, ma il più serio di tutti i casi seri, perché in essa non ne va solamente del molto, ma semplicemente del tutto. Essa riguarda infatti non solo l'ultimo istante della nostra esistenza, ma l'esistenza stessa nella sua totalità, tutto ciò che una persona ha costruito in questo mondo, ma anche i suoi sogni, le sue speranze, i suoi progetti futuri, tutto viene portato via e scompare irrimediabilmente. La morte sottrae all'esistenza ogni sua realtà e ogni sua possibilità immanente, il suo passato, il suo presente, ma anche ogni suo possibile futuro, tutto ciò che le resta ancora da fare e da vivere. La morte racchiude la totalità della nostra esistenza rendendola compiuta e scrivendo su di essa la parola “fine”: in questo senso si pone come l'orizzonte complessivo in cui il potere della finitezza si manifesta nell'uomo nel modo più deciso.

Il carattere di serietà della morte consiste inoltre nella sua irrevocabilità: coloro che sono sprofondati nella morte non possono più tornare indietro. La morte non aspetta neppure il nostro consenso, ma afferra tutto e per sempre, lo vogliamo o meno. In questo modo la nostra vita riceve il carattere dell'irripetibilità. Gli istanti della nostra

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esistenza ci offrono possibilità uniche e non ripetibili: ciascuno di essi porta con sé il dolore del congedarsi una volta per tutte, dato che, una volta trascorso, non potrà più fare ritorno identico a prima. Si tratta di un dolore che è certamente mitigato in superficie dal fatto che, finché siamo vivi, abbiamo sempre la possibilità di ritornare su ciò che è trascorso e modificarlo in meglio, magari dopo una più attenta riflessione. Questa possibilità tuttavia scompare con la morte, che rende definitivo ciò che è stato e gli imprime il sigillo dell'unicità e dell'irripetibilità29. Ma questa unicità e irripetibilità sono pagate a prezzo della negazione assoluta dell'esistenza umana e delle sue possibilità. Di fronte a questa negatività diventa dunque comprensibile tutto ciò che facciamo per cercare di non pensarci e per fuggire da essa il più a lungo possibile.

5. L'infinito nell'uomo

Abbiamo quindi visto che l'uomo, esistendo nel mondo, urta costantemente contro la finitezza. Essa viene da Welte intesa come la fatticità (Faktizität)30 dell'esistenza umana: lo vogliamo o meno, ci troviamo consegnati alla finitezza e dobbiamo quindi accoglierla come un dato di fatto.

Nonostante questa strutturale finitezza viviamo tuttavia in un orizzonte che non conosce fine ed è in questo senso in-finito. L'uomo è infatti l'unico essere vivente che può guardare al di là dei suoi limiti, perfino di quelli della morte. Noi vogliamo sempre andare al di là di ciò che fattualmente siamo, vogliamo avere di più di quello che abbiamo attualmente: in questo modo cerchiamo di colmare la differenza tra quello che

29 Cfr. B. Welte, Heilsverständnis. Philosophische Untersuchungen einiger Voraussetzungen zum Verständnis des Christentums, cit., pp. 113-114.

30 Cfr. B. Welte, Im Spielfeld von Endlichkeit und Unendlichkeit. Gedanken zur Deutung des menschlichen Daseins, cit., p. 31.

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siamo e quello che vorremmo essere, al fine di essere completamente in accordo con noi stessi.

Troviamo questo principio all'opera in diversi ambiti. Vediamo infatti che l'uomo non si ritiene mai soddisfatto di fronte ai limiti in cui ogni volta si imbatte; l'incontro con il limite è piuttosto ciò che lo spinge ad andare al di là di esso, quantomeno con il suo interrogare, di modo che quest'ultimo risulta essere la negazione di ogni fine. L'indagine scientifica, ad esempio, urta continuamente contro il limite. Quest'ultimo, tuttavia, non viene mai riconosciuto come qualcosa di definitivo, ma piuttosto come la molla che spinge a porsi nuove domande e ad indagare ulteriormente: ne è prova anche il fatto che le maggiori scoperte scientifiche si sono avute proprio là dove l'indagine si era imbattuta in un limite31.

Lo vediamo all'opera anche nella nostra ricerca di felicità incondizionata all'interno del nostro orizzonte condizionato: anche se non riusciamo mai a raggiungerla interamente, essa resta nondimeno il fine di tutta la nostra vita. Ogni volta che riusciamo a dare una configurazione sensata alla nostra esistenza, per quanto piacevole possa essere, ci troviamo nondimeno portati a chiedere se sia davvero tutto qui o se non sia possibile trovare qualcos'altro oltre a questo. Ciò significa che noi oltrepassiamo sempre con il pensiero ciò che è stato raggiunto, per guardare in direzione di ciò che è migliore32.

L'infinità dell'orizzonte in cui l'uomo si trova a vivere spiegherebbe anche perché il movimento della storia sembra essere inarrestabile e perché ogni stadio, per quanto definitivo possa apparire, debba essere costantemente superato. Esso sembra essere quindi il motore di tutta la storia umana. Quest'ultima ci mostra infatti che gli uomini si

31 Cfr. B. Welte, Was ist Glauben. Gedanken zur Religionsphilosophie, tr. it. cit., p. 54. 32 Ivi, tr. it. cit., pp. 53-54.

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adoperano sempre per raggiungere ciò che ogni volta appare loro migliore. Assistiamo cioè ad una vera e propria tendenza all'incremento. Gli uomini non agiscono come atomi, che si muovono in maniera indifferente gli uni accanto agli altri. Anzi, dove questo avviene, come per esempio nelle moderne società di massa, una simile condizione non sembra essere particolarmente umana. Essi sono invece spinti a cercare un accordo con il maggior numero possibile di uomini, a formare con essi unità sempre più grandi (famiglie, clan, tribù, regni, imperi), a rendere la società sempre più dignitosa e sempre più a misura d'uomo, a raggiungere insomma una condizione ideale dal punto di vista della loro esistenza storico-sociale. Si tratta cioè sempre di elevare ciò che non è buono verso il bene ed il bene verso il meglio33. La storia tuttavia ci insegna anche che ogni tentativo di raggiungere una simile condizione umana è sempre andato incontro al fallimento. Né la Pax augustea nell'antichità, né il Sacro Romano Impero nel Medioevo, né la Rivoluzione francese in età moderna sono riusciti ad imporre stabilmente una simile condizione; essa si rivela quindi essere più una linea guida, un ideale che viene sempre ricercato, ma che non può mai essere raggiunto, dato che, ogni volta che sembriamo aver raggiunto qualcosa del genere, gli uomini avvertono sempre la mancanza di qualcosa che li spinge ad andare oltre.

Tutto ciò ha assunto una nuova veste in età moderna: la veste della scienza e della tecnica. Nella scienza si tratta appunto, come abbiamo visto, di non riconoscere alcun limite come definitivo, ma di spingersi sempre oltre, in direzione dell'infinitamente grande o dell'infinitamente piccolo, come dimostrano l'astrofisica e la fisica degli atomi. Allo stesso modo è proprio ciò che è apparentemente impossibile da realizzare che suscita maggiormente l'interesse dei tecnici: altrimenti non saremmo mai giunti ad una

33 Cfr. B. Welte, Geschichtlichkeit und Offenbarung, in Id., Mensch und Geschichte, Gesammelte Schriften I/2, cit., p. 301.

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tecnologia tale da permettere la realizzazione dei viaggi spaziali34.

Si tratta insomma di un impulso che spinge l'uomo al dominio totale di ogni cosa, al di là di ogni limite: in fondo non è altro che una volontà di essere onniscienti ed onnipotenti, sebbene questo intento non possa mai essere interamente realizzato. In questo modo è anche evidente che Dio diviene superfluo di fronte ad un tale desiderio di onniscienza e di onnipotenza. È questo ciò che Nietzsche intende parlando di “morte di Dio”: si tratta in fondo del divenire autonomo dell'uomo, il quale non ha più bisogno di alcun Dio al di sopra di lui, in particolar modo di quel Dio etico che, distinguendo il bene dal male, mette l'uomo in conflitto con se stesso, imponendogli una cattiva coscienza35.

In tutti questi ambiti troviamo all'opera sempre lo stesso principio. Per questo gli uomini vivono con dolore l'esperienza dei limiti del loro sapere e del loro potere, dell'essere condannati ad essere solo ciò che sono e del dover morire un giorno, in una parola l'esperienza della loro finitezza: un simile dolore non sarebbe comprensibile se non ci fosse già nell'uomo un principio che lo induce ad andare al di là dei limiti che gli si impongono ogni volta di nuovo ed egli non lo avvertisse come contrastante con quella finitezza che costituisce la sua condizione fattuale.

Si tratta quindi di un impulso che non si presenta nel modo d'essere della fatticità, ma piuttosto in quello dell'idealità. Noi abbiamo cioè l'idea di come le cose dovrebbero andare ed in base ad essa valutiamo tutto il fattuale; in questo modo vediamo che esso non concorda affatto con l'idea che abbiamo di come dovrebbe essere, ma anzi la contraddice: da ciò deriva l'urto dell'esistenza umana, animata da quel principio ideale e infinito, contro il limite, sempre differibile, ma mai completamente estirpabile, 34 Cfr. B. Welte, Nietzsches Idee vom Übermenschen und seine Zweideutigkeit, in Id., Denken in

Begegnung mit den Denkern II: Hegel – Nietzsche – Heidegger, Gesammelte Schriften II/2, cit., p. 94. 35 Ivi, cit., pp. 95-96.

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rappresentato dalla sua finitezza fattuale. Per questo motivo Welte, citando il motto di Eraclito, secondo cui “il conflitto è padre di tutte le cose” (DK 22 B 53)36, afferma che l'esistenza umana è una campo di battaglia tra finito e infinito e che questo conflitto è proprio ciò che mette in moto e sostiene la vita dell'uomo nella totalità dei suoi aspetti.

6. Un campo da gioco tra finito e infinito

L'esistenza umana si manifesta quindi come un campo da gioco (Spielfeld) in cui si incontrano finitezza e infinità. Il loro conflitto assume varie forme, la prima delle quali la troviamo proprio all'inizio della vita dell'uomo, nell'età infantile. In essa il conflitto è come sospeso, perché l'antitesi non si è ancora manifestata: la finitezza non ha ancora imposto limiti allo sviluppo delle proprie possibilità e all'uso delle proprie forze, il dolore per la transitorietà e per la morte non viene ancora avvertito e nulla ostacola lo spirito infantile nel gioco infinito della fantasia. L'infinità con cui abbiamo a che fare qui non ha nulla a che vedere con l'affannarsi a superare i limiti della finitezza che caratterizza l'età adulta, perché qui idealità e fattualità non sono ancora distinti e il loro contrasto non è ancora emerso. L'uomo si trova come in uno stato paradisiaco, che per il resto della sua esistenza assume il significato di una consolazione e di una promessa, di una possibilità che può essere realizzata anche all'infuori dell'età infantile. Per questo Eugen Fink definisce il gioco “oasi della felicità”: mettendo a tacere per un attimo il conflitto tra fattualità e idealità, esso accompagna l'uomo anche nel corso della sua esistenza adulta, come un simbolo che gli rammenta la possibilità di una conciliazione37.

36 Cfr. B. Welte, Im Spielfeld von Endlichkeit und Unendlichkeit. Gedanken zur Deutung des menschlichen Daseins, cit., p. 40.

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Ma sappiamo bene che all'uomo non è dato restare in questo stato paradisiaco: giunge infatti per lui il momento di diventare ciò che è, per cui le componenti della sua esistenza si separano e iniziano a scontrarsi le une con le altre. Le forze che vengono qui riconosciute come la fatticità (in particolar modo quelle appartenenti alla sfera familiare), che fino a quel momento lo avevano sostenuto e protetto, iniziano ad essere avvertite come limitazioni e ostacoli da superare; inizia così a destarsi in lui l'idea dell'infinito, che lo spinge a rivolgersi contro tutto ciò che vuole mettergli dei limiti. In questo modo il Sé emerge nella sua libertà. Ma questa libertà viene pagata a caro prezzo: con la perdita del paradiso e con il dolore per quegli ostacoli rappresentati dalla sua condizione di finitezza fattuale. Si impone altresì quella che Welte chiama la “spina della finitezza” (Stachel der Endlichkeit)38: ogni traguardo raggiunto nel cammino della scienza, della tecnica e della cultura appare mutevole e transitorio, in nessuno di questi ambiti verrà mai raggiunta la pura verità, ciò che è assolutamente incondizionato, e la morte alla fine arriverà sempre a far valere la propria pretesa, sia che si tratti della morte di un individuo che della fine di una cultura. L'uomo cerca allora di fuggire di fronte a questa consapevolezza. A questo proposito sono possibili diverse strategie di fuga, sia di natura negativa che di natura positiva.

Negativamente è possibile porre fine a questa consapevolezza, sia pure in modo illusorio e ingannevole, mettendola a tacere, ossia non parlando più di certe cose e cercando di non pensarci. Lo abbiamo visto a proposito della morte: di essa non si parla, almeno non in modo serio, ma ci comportiamo e agiamo come se essa non esistesse39.

A questo tabù negativo ne corrisponde uno positivo40. Esso consiste nel rendere un certo ambito (sia esso quello della scienza razionale, della tecnica, della cultura, della 38 Ivi, cit., p. 79.

39 Ivi, cit., p. 81. 40 Ivi, cit., pp. 81-84.

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patria o della razza) un valore assoluto e incondizionato, che non può più essere messo in discussione, per cui là dove si avverte la vicinanza del limite e della finitezza, come nel caso della morte, vengono messe a tacere domande come “che senso avrà la mia opera, se tutto finirà quando sarò morto?” dicendo per esempio che la mia opera sarà proseguita da un altro dopo di me e poi da un altro ancora dopo di lui e così via in un progresso infinito, verso quella che Hegel chiamerebbe cattiva infinità. L'uomo non si accontenta della negatività che si trova di fronte, per cui cerca di riempire questo vuoto con una positività di altro tipo, volgendo lo sguardo verso la pienezza delle figure del suo mondo finito, elevandolo ad una significatività incondizionata e mettendo contemporaneamente a tacere le inquietanti questioni sollevate da fenomeni come la finitezza, la transitorietà e la morte. Attraverso questa fuga nell'immanenza il peso dell'esistenza sembra quindi essere inizialmente alleggerito. L'uomo fa questo non senza ragione, tuttavia ciò da cui crede di proteggersi con i suoi tabù rimane ad inquietarlo come un'angoscia latente, in cui inizia a manifestarsi il fallimento di quelle strategie di fuga di cui abbiamo appena parlato.

Arriva tuttavia un momento in cui la minaccia della finitezza cessa di essere latente e diventa palese a tal punto che per l'esistenza umana non c'è più alcuna possibilità di sottrarsi al suo sguardo; in essa si annuncia il fallimento di tutte le pretese infinite che animavano la nostra vita41. Tra le varie forme in cui questo fallimento può manifestarsi la più nota è ancora una volta quella della morte. La consapevolezza di dover morire un giorno, e che a questo proposito non c'è nulla che possiamo fare, spazza via ogni tabù costruito apposta per non pensarci e arriva a sopraffare l'esistenza. Essa ci mette di fronte al fatto che ciò in cui sfocia l'intera nostra vita, insieme ad ogni sua opera, ad ogni suo agire e agli uomini con cui ha avuto a che fare, è alla fin fine il nulla. 41 Ivi, cit., pp. 87-89.

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Capitolo secondo – Nichilismo e problematica del senso

1. Il nulla

La nostra principale esperienza del nulla consiste nella costatazione del fatto che non siamo sempre esistiti e che non esisteremo sempre. Il nulla, comprendendo anche la non esistenza passata, non si identifica quindi semplicemente con la morte, dato che quest'ultima riguarda solamente la non esistenza futura.

Si tratta di un'esperienza che possiede varie caratteristiche1.

Innanzitutto l'esperienza del nulla è indubitabile, dato che, a prescindere dall'interpretazione che può essere data dell'esistenza, nessuno può seriamente dubitare del fatto che non siamo sempre esistiti e che un giorno torneremo a non esistere. Ciò vale sia per l'individuo, sia per tutte le forme di esistenza umana sovraindividuale (società, culture ecc.), sia, forse, per l'umanità nel suo insieme2.

In secondo luogo, quando noi facciamo esperienza del nulla, facciamo pur sempre esperienza di qualcosa. Il nulla è quindi per noi qualcosa di dato, di positivo, pur nella sua estrema negatività, ragion per cui è possibile fare alcune affermazioni a proposito di esso3.

Il nulla è inoltre qualcosa di ambiguo, dato che l'esperienza che possiamo farne non ci permette di chiarire che cosa esso sia.

La prima affermazione che possiamo e sappiamo fare a suo riguardo concerne il nostro rapporto con esso. Tale rapporto è palesemente ambiguo: e quest'ambiguità si riflette sul 1 Cfr. B. Welte, Religionsphilosophie, tr. it. cit., pp. 42-50.

2 Ivi, tr. it. cit., p. 43. 3 Ivi, tr. it. cit., p. 44.

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modo in cui il nulla stesso ci appare. Noi non sappiamo che cos'è. Chi lo esperisce e, in forza di quest'esperienza, vede per così dire che tutti noi non saremo più, può intendere questa esperienza o come esperienza di un niente puramente vuoto e nullo (nichtiges Nichts) o come l'esperienza di un nascondimento assoluto (Nichts als absolute Verbergung). Nel primo caso egli dirà: qui non c'è proprio niente; nel secondo invece: qui non vedo nulla; ciò che qui si trova mi è interamente sottratto e nascosto. Quest'ambiguità non può risolversi in base al contenuto dell'esperienza del nulla o al suo apparire come fenomeno. Noi non sappiamo e non facciamo a prima vista l'esperienza se dietro quel nulla vi sia nascosto qualcosa o meno. Quest'ambiguità insolubile appartiene essenzialmente, per noi, all'esperienza del nulla4.

Allo stesso modo chi entra in una stanza completamente buia dirà di non vedere nulla, ma in base alla sua esperienza non gli è dato di capire subito se la stanza in cui è entrato è completamente vuota oppure se vi è qualcosa che però, a causa dell'oscurità, si sottrae interamente alla sua vista. In questo caso il fenomeno è lo stesso ed è perciò contrassegnato dalla stessa espressione linguistica (“non vedo nulla”). Esso tuttavia lascia aperte ambedue le possibilità di interpretazione ed è perciò un fenomeno essenzialmente ambiguo.

Il nulla appare inoltre come qualcosa di respingente: esso ha in sé qualcosa di minaccioso, che ci spinge a mettere in atto numerose strategie di fuga, siano queste progetti e utopie riguardanti l'esistenza futura oppure l'affaccendamento negli impegni quotidiani, come avevamo visto anche a proposito della morte, a tal punto che, come afferma Pascal (Pensées, fr. 183): “Noi precipitiamo spensieratamente nell'abisso, dopo aver messo davanti a noi qualcosa che ci impedisce di vederlo”5.

Ma se riusciamo a superare questo carattere respingente e a trovare la forza di 4 Ivi, tr. it. cit., pp. 45-46.

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