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5. Antonio Salmeri, Ricordi della scuola ebraica di Roma negli anni delle persecuzioni razziali

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Ricordi della scuola

Ricordi della scuola

Ricordi della scuola

Ricordi della scuola eeeebraica

braica

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braica di Roma

di Roma

di Roma

di Roma

negli anni delle persecuzioni razziali

negli anni delle persecuzioni razziali

negli anni delle persecuzioni razziali

negli anni delle persecuzioni razziali

Antonio Salmeri (a cura di )

Con un Decreto-Legge in data 5 settembre 1938 il Governo Fascista di-chiarò che bambini e ragazzi ebrei non potevano frequentare la scuola di tutti: non si voleva che la cosiddetta razza impura contaminasse quella co-siddetta ariana.

E così, da un giorno all’altro, le porte delle scuole pubbliche italiane chiusero i battenti a migliaia di allievi considerati diversi. Fu però data la concessione di istituire delle scuole secondarie per ebrei, sotto il controllo di un Commissario ariano, nominato dal Ministero della Pubblica Istruzio-ne.

Così, nelle città dove il numero degli allievi ebrei era abbastanza consi-stente, furono create delle scuole “speciali” da parte delle Comunità Israe-litiche. A Roma la scuola secondaria ebraica fu organizzata in meno di due mesi. In questo breve periodo furono istituiti un Ginnasio-Liceo, un Istituto Magistrale e un Istituto Tecnico a indirizzo commerciale. Come insegnanti furono nominati quei professori ebrei che avevano perso la cattedra a se-guito delle stesse leggi razziali. Emma Castelnuovo faceva parte di questi avendo vinto il concorso per una cattedra di matematica nell’agosto del 1938, subito prima della emanazione di queste leggi.

La Scuola Secondaria ebbe inizio nel dicembre del 1938. I corsi del Gin-nasio-Liceo e dell’Istituto Magistrale si tenevano in una palazzina, presa in affitto dalla Comunità Israelitica, in via Celimontana, a pochi passi dal

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Co-losseo. La palazzina non era mai stata sede di scuole, e quindi si dovette provvedere ad allestirla: banchi, tavoli, lavagne, laboratori furono costruiti a tempo di record. Si fece di tutto perché i ragazzi non avvertissero troppo una situazione di isolamento.

Lo sforzo fatto dagli insegnanti per essere il più possibile sereni, l’atteggiamento sempre disponibile del Preside, Commissario Ministeriale, e - perché no – la posizione della palazzine situata in una delle zone più belle di Roma, hanno reso “normale” una situazione del tutto “anormale”. Nella sede di via Celimontana si è rimasti due anni scolastici: il 1938-’39 e il 1939-’40.

L'autunno sapeva ancora d'estate afosa; ma Villa Celimontana, a quattro passi dal Colosseo, prometteva una verde e riservata accoglien-za. Si saliva su per l'ampia salita, una volta lasciata la via Labicana, e la casa appariva appena, seminascosta dagli alberi. Il tram, dal Tiburtino a San Giovanni, aveva percorso i quartieri più popolari di Roma, e costeg-giato piazza Vittorio. Si era fermato in mezzo ai due colli, l'Oppio ed il Ce-lio: l'avventura incominciava di lì.

Nell'avviarsi verso la casa, lui cercava di prefigurarsi i nuovi compagni. Li immaginava scostanti, antipatici, non sapeva ancora fino a qual punto. Ec-co, pensava, dovrò vedermela coi primi, e più saccenti, di tutte le scuole di Roma, poiché è risaputo che in tutte le classi c'e un primo, e quasi sempre è un ebreo. Chi è un ebreo? Uno che non assiste alla lezione di religione. E perché s'allontana? Perché la famiglia non vuole.

Però, a partire da quell'estate, il suo concetto di ebreo si era venuto allargando. Era accaduto durante quei mesi che lui, ebreo, era diventato protagonista. Personaggio, addirittura; sulle prime pagine dei giornali. Nella cerchia della famiglia — parenti ed amici dei quali non aveva so-spettato l'esistenza neppure — la cosa non aveva fatto molto piacere. Si erano visti volti incupiti dalla preoccupazione, si erano sentiti discorsi al-larmati. Passerà presto, è un attimo di follia. Invece no, questa volta fan-no sul serio.

Un lontano parente, che aveva fatto la guerra, non tollerando quell'in-certezza, impugnò la pistola d'ordinanza e s'uccise. Ai funerali intervenne una gran folla di conoscenti, ed anche la banda del reggimento, che intonò, a detta di nonne e di zie, una bellissima marcia funebre. Parve un buon se-gno. Altri lontani parenti, iscritti all'associazione degli ex-granatieri, intensi-ficarono i turni di guardia al Pantheon, davanti alle tombe dei Reali d'Italia: una vecchia, cara abitudine, che adesso tornava benaugurante. Mussolini, dopo tante affermazioni e clamorose vittorie, poteva anche impazzire; ma il Re, certo, avrebbe pensato diversamente.

Chi aveva benemerenze, legate alla guerra o al sorgere del fascismo, si mostrava in genere più tranquillo degli altri. Anzi, qualche volta ostentava una superiorità che dava molto fastidio. Io, ho la medaglia d'argento, e so-no iscritto al partito dal '24: vedrete, la donna di servizio so-non me la toglie

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nessuno. S'invidiava uno che era stato comandato in Spagna, maggiore ai servizi di sussistenza; beato lui, che aveva fronteggiato il bolscevismo in-ternazionale, e adesso poteva vantarlo.

C'era questa faccenda delle scuole, piuttosto antipatica. Nessun ragaz-zo ebreo, neppure i figli delle medaglie d'oro, avrebbe più messo piede nelle scuole di stato. Era questo, al momento, che rattristava di più. I non-ni, dalla provincia dove vivevano, telegrafarono: vi siamo vicini con tutto it cuore. Una frase da tragedia, sproporzionata alla circostanza. Perché a lui tragedia non appariva; anzi, per molti aspetti, gli avvenimenti in corso gli erano motivo d'orgoglio.

Orgoglio è parola pesante, e può sembrare eccessiva. Ed e però esat-ta, esattissima. Essere separato da moltissimi altri, e provarne fierezza; ambire anzi ad una solitudine ancora maggiore, e orgoglio, precisamente. Del tipo di quello che aveva spinto il quattordicenne, in quello splendido scorcio d'estate, a raggiungere il più appartato di tutti gli scogli, e a im-mergersi nella contemplazione delle alghe e dei granchiolini. Ed e questo, orgoglio: sicurezza, piacere di poter bastare sempre a se stesso, la fortu-na aiutando, e il bene dell'intelletto, che nessuno può toglierti.

Per questo aveva pensato, a dispetto dei piagnistei dei parenti, che la prova nuova e imprevista doveva considerarsi la ben venuta. Un singolare privilegio di distinzione, un'occasione unica e irripetibile per formare il ca-rattere. Sempre, alle grandi imprese, le sole che mettono da parte i me-diocri, gli esitanti, gl’insicuri di sé, si è arrivati attraverso le avversità. E lo sfiorava il dubbio, persino, che una tale occasione non fosse fortuita, ma che, in verità, chi si era preposto alla guida della nazione italiana avesse voluto tentare, attraverso un audacissimo esperimento, la raffinatura d'un nuovo splendido amalgama, in grado di resistere a ben più dure prove. Come se questo fosse stato il suo reale pensiero: prendiamo un ebreo, e facciamone un uomo, anzi l'uomo senz'altro, da consegnare al domani, il migliore e più forte di tutti, in grado di sopravvivere, e d'af-fermare il proprio potere sugli altri

Ma ora gli appariva chiaro che non era il solo portatore del privilegio. La scuola, all'interno, si configurava come una banalissima scuola, con appena un po' di pittoresco e disordinato. Qualcuno si era affrettato ad affiggere in tutte le classi i ritratti del Duce e del Re. Chissà se aveva esi-tato sul pensiero di aggiungervi il Crocifisso. La preoccupazione era stata, visibilmente, di fare una scuola per quanto possibile identica a tutte le altre; con la certezza desolata di non potervi riuscire. Il corpo insegnante appariva un condensato della pedanteria della scuola italiana; la sua sola urgenza era di annunciare alla scolaresca: “Riprendiamo dal punto nel quale ci eravamo interrotti”. E gli alunni non avevano nulla dei predesti-nati a gesta eroiche da passare alla storia: quattordicenni goffi, imbruttiti dai pantaloni corti e dai maglioncini marroni, ragazzette pallide coi capel-li troppo lunghi, che andavano a confondersi col nero dei grembiucapel-li. Negcapel-li

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uni e nelle altre una gran voglia di emergere, di farsi notare; come se, a renderli degni d'attenzione, non bastassero gli occhi acquosi e profondi, perennemente smarriti nell'inutile ricerca d'un punto d'appoggio.

Per la verità due elementi c'erano, che distinguevano quella scuola da tutte le altre. Erano il preside Nicola Francesco Cimmino e il bidello Romeo Buondì.

Colui che il Ministero aveva comandato a fare da Preside veniva dall'Ac-cademia fascista della Farnesina, dove, si vociferava, aveva insegnato ginna-stica. Era un giovinotto ricciuto di camagione scurissima, e con due occhi de-cisamente mori, estremamente mobili, per non dire sfuggenti. Lo si sarebbe detto la raffigurazione perfetta del tipo tradizionale d'ebreo; ed anche la personificazione vivente dell'attivismo fascista. Si sapeva, al contrario, che ebreo non era, cosi come si sarebbe saputo più tardi che non era neppure fascista. Era un uomo tranquillo, fermamente deciso a condurre in porto l'impresa che gli era stata addossata, senza aver fastidi né procurarne. Ma incuteva timore, e la sua presenza bastava a catalizzare le disperse forze che erano confluite dentro la scuola.

Quanto al bidello Romeo, era un personaggio tutto inventato, attra-verso una lunga e consapevole manifestazione di volontà, perché non è possibile che la natura possa generare prodotti simili per germinazione spontanea. Aveva la capacità, grasso e sorridente qual'era, d'intrattenere i ragazzi sulle sue centomila disgrazie, sui problemi che gli comportava il mantenimento d'una più che numerosa famiglia, e di far ridere anche, con questo racconto, i presenti. Alla scuola ebraica si arrivava sempre assai presto, e ce se ne allontanava tardissimo, a causa del bidello Romeo, e delle sue interminabili, sollecitatissime, narrazioni in risonante e verace parlata romana. Dalla sua bocca promanava la vita, che equivale a dire gli infiniti espedienti a cui un poveraccio deve saper ricorrere per sopravvive-re: la vendita a sconosciuti di tre tagli d'abito, lasciati in casa da un paren-te richiamato sotto le armi, e di certi farsetti che una volta indossati non si staccano più dalla pelle, motivo per cui sono chiamati carabiniere. E poi la vendita, presso San Pietro, di rosari e corone, conforme a una tradizione che vuole gli ebrei fra i principali fornitori di sante reliquie cristiane. Non era certo che Romeo avesse mai fatto ricorso ad espedienti del genere, anzi, a giudicare dal suo bel viso onesto, e dal nastrino appuntato sull'uni-forme, che parlava di tante medaglie, c'era da dubitarne. Ma i suoi raccon-ti facevano bene ugualmente a chi, appena appena, incominciava a porsi il dubbio che vivere potesse anche costituire un problema difficile.

Il pezzo forte di Romeo era costituito dal «Kaddish» recitato alla me-moria di Mussolini. Il Duce era vivo, vivissimo, ma il bidello Romeo, noncu-rante delle esitazioni di molti, aveva già pronunziato la sua sentenza, e gli dedicava fin d'ora la classica preghiera ebraica di suffragio ai defunti. Que-sta recitazione comportava una specie di cerimonia, con insistenti richieste a Romeo perché acconsentisse a esibirsi, e la pronta disposizione di tutti i

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ragazzi a fargli circolo attorno, dopo aver accertato che né i professori né il preside fossero visibili sull'orizzonte.

Accomodatasi la platea, Romeo si copriva il capo col berrettino nero, che recava sempre con sé, e intonava la cantilena nei modi sinagogali, che risuonavano nuovissimi alla maggioranza degli uditori. «Itgaddal veitkad-dash Shemè Rabbà... »: che significa, ma quasi a tutti sfuggiva: «Sia magni-ficato e santimagni-ficato il Nome Suo immenso». Anche il resto della declama-zione riusciva straniero alla maggioranza, disposta soltanto a afferrare il gi-ro di frase che conteneva il richiamo «ve-nefesh Benito Mussolini», come a dire il suffragio per l'anima del Dittatore, del quale Romeo prevedeva, o soltanto auspicava la morte imminente. Ed anzi, sarebbe stata ai suoi occhi una cosa bella, bellissima, che già fosse avvenuta, cosi che tutti i drammi e i timori si fossero con essa definitivamente dissolti.

Era una burletta sciocca e superficiale, giudicava taluno, non soltanto pericolosa: un tipico prodotto di mentalità ghettaiola. Ma, intanto, con le risa, Romeo raggiungeva risultati non disprezzabili: insegnava ai presenti che era venuto il tempo di dimettere le illusioni, ammonendo inoltre che s'imponeva di prendere posizione, di combattere, e, se necessario, d'o-diare; e inoltre veniva stabilendo un collegamento fra i ragazzi tuttora di-spersi e smarriti.

Non tutti erano primi della classe. A guardare bene, c'era anche qualcu-no francamente sciocco e insignificante, che era poi, qualcu-non per caso, il più simpatico e meglio vestito; capace di canticchiare le canzonette più in voga e di avviare, con un repertorio di banalissime battutine, qualche approccio con le ragazze. Fra le quali, a parte l'automa Giuliana, che si preoccupava soltanto di annuire instancabilmente agli ammaestramenti professorali, cominciava a intravedersi qualcuna d'aspetto attraente. Era buon princi-pio, in linea di massima, disprezzarle, per quel loro fare ciarliero e quel preoccuparsi di faccende che non avevano la minima rilevanza. Ma la loro compagnia non era affatto spiacevole, non fosse stato altro che per esibire le maschie attitudini di taluno, fra i quali si poneva in primissima linea Vit-torio. Costui, di corporatura tarchiata al di là del normale, e di occhi azzurri e capelli color dell'oro, asseriva, non a torto si deve ammettere, che gran parte degli odi razziali provenivano dall'attaccamento ebraico ad un certo modo tradizionale, nell'ordine fisico e in quello spirituale. Lui, ebreo per caso, come attestavano i suoi principi e le sue note somatiche, sapeva be-ne quel che gl'incombeva di fare: coltivare le proprie attitudini fisiche, e in-crementarle anzi attraverso i più duri esercizi di forza, in attesa del giorno che avrebbe permesso, consenziente l'intera nazione, di farne riscontro. In qualche suprema prova sportiva, o nelle file d'un esercito combattente: una cosa o l'altra non rivestiva eccessiva importanza.

Fu lui che indusse parecchi a servirsi della bicicletta per raggiungere la scuola di Via Celimontana. Significava questo, per gran parte degli stu-denti, attraversare l'intera città, ma anche risparmiare la lira assegnata

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dai genitori per il tram e destinarla per le primissime sigarette. Ma non era tutto. In brevissimo tempo, pedalare diventò un gradito esercizio, che portava a compiere itinerari sempre più lunghi, presto anche extraurbani. Il sabato e la domenica, che erano entrambi giorni festivi, comportarono per quattro o cinque fra i più smaniosi d'imitare Vittorio, prodezze cicli-stiche progressivamente più impegnative: i cinquanta, e poi i cento, i duecento chilometri. Era una fatica buona, che sapeva di tante cose.. Sot-traeva ai pensieri e impegnava i muscoli fino allo spasimo. Stimolava an-che un immenso appetito, e questo facilitava l'impresa del bere, vino bianco ma rosso principalmente, poiché è risaputo che saper bere, senza avvertirne le conseguenze, è prerogativa dei grandi.

Erano i tempi che i giornali recavano, a caratteri grandi di scatola, le molte disposizioni riguardanti gli ebrei: troppe perché la natura italiana po-tesse applicarle. La consapevolezza di questa scarsa attitudine ad eseguire la legge sospingeva i polemisti più abili del regime ad esercitarsi ogni gior-no sul tema della bontà e necessità di quella legislazione. Questi incita-menti all'odio, era molto difficile dire quale influenza esercitassero sull'a-nimo dei lettori. Ma nei giovani ebrei, insieme a una disperata volontà di reagire, suscitavano un grande e sacrosanto timore.

Il secondo anno della scuola ebraica fu portatore di novità.

L'edificio di Via Celimontana si rese indisponibile e la scuola venne tra-sferita in Lungotevere Sanzio al civico 13, presso gli antichi Asili Israelitici. Era una novità formale, che rivestiva però anche una sostanza abbastanza sgradevole. Se prima la scuola poteva considerarsi, con un certo sforzo di volontà, come un istituto simile a tutti gli altri statali, ora se ne rafforzava, per ragioni di contiguità topografica, la parentela con l'antico quartiere e-braico di Roma.

Stupide difficoltà burocratiche, come scadenza di contratto o eccessive pretese di locazione, riavvicinavano gli studenti alle loro primissime origi-ni, dalle quali i loro padri con tanta fatica si erano distaccati. La volontà dei potenti non c'entrava per nulla. Ma intanto, come in certi racconti di Kafka, dei quali giusto in quei giorni s'incominciava a discorrere, si prose-guiva per un'insensibile china di degradazione, che avrebbe condotto chis-sà dove, forse alla ricostituzione dello stesso ghetto, come i più pessimisti opinavano. Intanto era incominciata la guerra, anche se 1'Italia, al momen-to, se ne teneva lontana.

I ragazzi dell'anno precedente erano passati al liceo e diventati più ma-turi, prediligevano ora le linee tranviarie. Abbandonate le biciclette, e scar-tate le linee più dirette, i ragazzi convennero che il mezzo più adatto, an-che se incomparabilmente più lento. era offerto dalla linea della circon-vallazione esterna tranviaria, la Circolare Rossa, che oggi ha cambiato no-me e percorre il più affollato centro della città. All'uscita da scuola, bastava ritrovarsi alla fermata, per compiere tutti insieme il tragitto, che per al-cuni era piuttosto un viaggio; ma un viaggio molto. piacevole, perché

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con-sentiva il proseguimento delle discussioni intraprese al mattino e perché favoriva lo sviluppo di relazioni più o meno promettenti con le giovani compagne di scuola.

Quell'uso incontrò tale favore, che s'estese poco dopo anche al per-corso della mattina. E qui fu sufficiente un piccolo lampo di genio, per ov-viare al problema d'un silenzioso appuntamento stabilito fra chi abitava nei più disparati quartieri di Roma. Bastò cioè notare che tutte le vetture recavano, a fianco del guidatore, un cartello col numero dell'orario. In breve si diffuse la parola d'ordine che la vettura da prendere era quella dell'orario 31. Intorno alle otto della mattina, sul viale della Regina, a piaz-za Quadrata, a piazpiaz-za Ungheria, sul ponte Risorgimento e presso le mura del Vaticano, si notavano gruppetti in attesa del passaggio della vettura 31.

Una volta sul tram, si faceva salotto: segno evidente che il ghiaccio era stato rotto, e che s'incominciavano a stabilire rapporti di vario genere, e relazioni.

S'intrecciavano i primi amori fra chi per la prima volta ostentava i pantaloni lunghi, dal taglio non propriamente impeccabile, e qualche ra-gazzina che si rifiutava, fuori di scuola, d'indossare il grembiule nero, o azzardava addirittura a tinteggiarsi le labbra con un po' di rossetto. I le-gami s'allacciavano e s'interrompevano con una grande facilita: il percor-so della Circolare era infatti abbastanza lungo da mettere alla prova que-gli amori. Dino si sentiva più spiritoso che mai. Roberto si lasciava andare ad ampie discettazioni, che investivano molti aspetti della liceale sapien-za. E tutto questo richiedeva dai passeggeri assonnati della mattina una dose ragguardevole di sopportazione.

Giunti a scuola, l'itinerario della mattina aveva una sua appendice du-rante l'ora di chimica, auspice l'autorevolissima Donna Maria Piazza, inse-gnante imponente e maestosa, che proveniva, e ci teneva a sottolinearlo, dal famoso Liceo Visconti, la più severa fra le scuole di Roma. Costei dove-va avere i suoi informatori, perché era sempre molto al corrente degli in-trecci amorosi che s'erano annodati, o sciolti, al mattino. E non le bastava sapere: il suo gusto era di controllare e di stuzzicare gli interessati. «Laura, lo so perché non hai combinato niente: perché hai litigato con Dino». «Vit-torio, stamattina sei particolarmente distratto. Ho capito. Hai ricominciato a filare con Paola. Io vorrei proprio sapere che cosa ci provi». Era chiaro quel che provava lei, nell'attizzare il pettegolezzo: un gusto così grande che se ne andava in chiacchiere una buona metà di lezione; qualche volta le stesse temutissime interrogazioni, le famose ripetizioni di Donna Maria, che lasciavano il segno, specie se si trattava di un tipo un po' farfallone, o di una ragazza particolarmente carina. Risuonava allora la sua frase intimi-datoria, non appena il malcapitato s'azzardava a cercare con gli occhi il sussidio di qualche brano stampato. «E non leggere su quel libro, che io me ne accorgo. Si charta deficit, tota scientia squagliat». Si vorrà rimproverare

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colui che, in quel penoso frangente, subdolamente riproponeva il tema dei folli amori interrotti? Era cosi facile il giuoco. Bastava dire: «Ha sentito, si-gnorina, di Vittorio, e di quella poveretta di Paola?». «Perché poveretta? Poteva fare a meno di civettare. E poi, che cosa è accaduto di cosi tragico? Raccontami bene, ma proprio bene davvero».

L'interrogazione poteva considerarsi finita, e scongiurato il pericolo. La vittima non era stata immolata invano: per quella mattina, Donna Maria non avrebbe più maltrattato nessuno.

Restava pur sempre un enigma chi potesse essere la fonte delle sue in-formazioni. Fra i ragazzi non era neppure pensabile che, a parte i casi ma-nifesti «ad vitandam interrogationem», si verificassero delazioni segrete. Capitava, di tanto in tanto, sulla famosa Circolare 31, qualche insegnante, che s'appartava in silenzio, e, almeno a giudicare dalle apparenze, s'im-mergeva in qualche importante lettura. Ma, per quanto ci si sforzasse, non si riusciva ad immaginare chi potesse prestarsi a fare da canale d'informa-zione.

La signorina Lidia Horn, professoressa di greco e latino; cosi seria, cosi riservata, cosi facile ad arrossire. La signorina Emma Castelnuovo, mate-matica e fisica, una sorta di maschiaccio indisciplinato, sempre pronta a sobillare i ragazzi perché non fossero troppo rispettosi delle autorità supe-riori. Una volta, li aveva perfino incitati allo sciopero, che il governo d'allo-ra consided'allo-rava materia penale: ed'allo-ra inverno e nelle aule non funzionava il riscaldamento. «E' colpa vostra», aveva sentenziato con serietà. «Perché vi comportate come pecoroni. Fate un bello sciopero, e vedrete come si ri-scalderà l'atmosfera». Parole cosi pesanti fecero una grande impressione. No, non era la Emma il tipo da immischiarsi nei pettegolezzi di Donna Ma-ria. Era giovanissima, allora, ma già si vedeva che, col passare degli anni, sarebbe rimasta sempre la stessa, nè vecchia nè giovane, eternamente so-spesa sulla storia del mondo come un'ipotesi matematica. Già, perché era figlia del celebre Guido, fra i più grandi matematici dei tempi moderni, sebbene, a rifletterci, un filo di romantica pazzia guidasse i suoi gesti, deri-vantele, forse, dal romanziere Enrico, suo nonno: così pertinace era nell'e-sigere dai ragazzi una passione concreta, carnale, per le matematiche ap-plicazioni, all'infuori di ogni astrattismo pedante. Ma era anche indulgente verso quegli allievi bravissimi in tutte le altre materie e meno in matemati-ca. Ricorda queste parole la signora Limentani: “Donatella, non ti preoccu-pare se non riesci benissimo in matematica. Hai tanti altri doti! Scrivi molto bene e sono sicura che quando sarai grande i tuoi libri li potrai illustrare con quegli intagli meravigliosi che riesci a fare. Mi raccomando, quando pubblicherai il primo libro me ne farai dono di una copia”.

Fra l’altro la giovane Emma aveva il dono di preconizzare la carriera di quei ragazzi che riuscivano molto bene nella sua materia. A Mino Priverno disse: “Tu diventerai celebre proprio per la tua passione per la matematica, ne sono sicura!”

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C'era anche Nuccia Ascoli, nel corpo femminile insegnante, dagli occhi azzurri meravigliosi, che non distinguevano a quaranta centimetri di di-stanza. A parte questo difetto di vista, che le procurava in partenza l'asluzione da ogni sospetto, era da considerare la sua età giovanissima, di so-lo due o tre anni più avanti a quella dei suoi discepoli, che le procurava problemi del tipo comune ai suddetti. E doveva stare attentissima, poiché nulla sfuggiva all'occhio curioso di Donna Maria.

Restava l'elemento maschile. Ma chi avrebbe osato sospettare del-l'insegnante d'italiano Elio Piattelli, cosi serio, e circospetto, e barcollan-te a motivo del sonno? Era, oltre tutto, un validissimo musicista, e tra-scorreva le notti a comporre un'opera lirica di vasta portata, «Ines de Suarez», che gli era stata commissionata dal governo cileno (doveva es-sere, codesta Ines, una specie d'Anita Garibaldi locale). La composizione si trascinò per l'intero anno scolastico, e, alla mattina, lo sguardo del suo autore recava chiarissimi i segni della faticosa nottata trascorsa. Apriva un libro a caso, e diceva con la voce imbrogliata dallo sbadiglio: «Legge-tevi un po' di questo Orlando Furioso. E vedete di trarne il meglio che vi riesce».

La scuola disponeva anche di un insegnante di religione, Alfredo Ra-venna, perché in nulla, ma proprio in nulla doveva differire da quelle sta-tali. La scelta era caduta su uno che era rabbino, ma che assai raramente celebrava, a causa della sua pronunzia pressoché incomprensibile della lingua italiana, — per quanto riguarda l'ebraico la faccenda rivestiva mi-nor importanza. Veniva giudicato da tutti un ottimo professore — una gran bella testa, si era soliti dire, e l'aveva infatti possente, maestosa-mente bovina, — ma, sempre per quel suo stranissimo modo d'inghiottir le parole, non riusciva a far partecipe nessuno della propria sapienza. I ragazzi si prendevano giuoco di lui. Divertente, ad esempio, era fargli trovare sulla cattedra, ispirandosi forse alla famosa storiella ebraica di Poe, una fettina di prosciutto suino. Ma il divertimento cadeva perché lui non s'avvedeva mai di quel che capitava all'esterno. E anche se avesse visto qualcosa, la sua reazione sarebbe probabilmente riuscita incomprensibile a tutti. Cosi come si può essere certi che egli non percepiva nessuna parola pronunziata dalla scolaresca. Era un uomo completamente isolato nella sua sfera interiore. Col tempo qualcuno avanzò l'ipotesi che l'insegnante di religione, certo buon conoscitore della Kabbala e del libro dello Zohar, a-vesse realizzato il sogno della mistica sospensione, su questo mondo cosi deludente ed amaro. Sebbene non a tutti la spiegazione riuscisse accetta-bile e non mancasse chi propendeva a collegare la sua concentrazione così ostinata col prefigurarsi della prossima colazione: non angeliche «sefiroth» inseguivano quegli occhi trasognati ed acquosi, ma saporose bistecche e piatti di tagliatelle fumanti.

Ma chi era il vero e grande avversario di Donna Maria, il dichiarato nemico della sua pedanteria aristotelica, il blasfemo dispregiatore della

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tradizione che faceva capo al Visconti? Chi era il corruttore infaticabile del-la gioventù sprovveduta, colui che gettava manciate di corrosivo ridicolo sulle «ripetizioni generali e complete della materia trattata durante l'an-no», e sulla alambiccata misurazione dei voti, dal cinque più al sei meno meno? Chi era il sovvertitore dei metodi collaudati da generazioni di ocula-ti Provveditori agli Studi? Chi era il novello Socrate, al quale mancava sol-tanto, nel pensiero di Donna Maria, un'Atene all'altezza di quella antica, ed altrettanto disposta a fargli un invio di abbondante ed efficace cicuta?

Il nuovo Socrate proveniva da Ancona. Ma le sue ascendenze bisogna-va ricercarle ancor più lontano, nel nord estremo d'Italia, nel Piemonte sa-baudo, regione estremamente distante dal Meridione, più che non indichi la stessa carta geografica. Non si dimentichi, poiché è elemento importan-te, che Donna Maria si esprimeva con un vigoroso accento partenopeo. E non sapeva, la poveretta, che, nella città dei suoi studi, il giovane Socrate era stato discepolo di uno dei più fieri nemici della tradizione pedante della scuola italiana, quell'Augusto Monti del quale la leggenda si protrarrà a lungo, nel bene e nel male.

I ragazzi fremevano di terminare il ginnasio, e di essere ammessi al li-ceo, alla presenza di Enzo Monferini. Lui, non si curava di questa popolarità cosi fuor del comune, ma c'era una punta evidente di civetteria nel grande cespuglio di capelli scomposti, allora appena un po' grigi, che, sulla sommi-tà del capo, si suddivideva in due cespugli minori. Sotto, due punte aguzze di spilli stavano in luogo degli occhi; la bocca, era sempre disposta a allar-garsi in una smorfia sorridente, o in una sgangherata risata. A rendere furi-bonda Donna Maria, era poi sufficiente riferirle che lui era bravissimo nel-l'imitare l'orangutano, l'andatura grottesca e le boccacce che ne fanno una caricatura dell'uomo.

L'altro docente di storia e filosofia Ugo della Seta, incaricato delle ma-gistrali, era un austerissimo mazziniano, in tutto somigliante a Giuseppe Verdi. Costui amava fare delle aule altrettanti e dei propri discorsi com-mosse orazioni, che culminavano in un dignitoso e controllatissimo pianto, allorché gli avveniva di concluderle con qualche robusta citazione dai «Do-veri dell'uomo». Capitò una volta che Gutierrez, insegnante di francese, una mingherlina piena di pepe e irriguardosa come una pollastra toscana, spalancasse la porta nel mezzo della sua lezione-orazione, e dicesse con voce squillante: «Ragazzi, domattina portate il vocabolario». Lui la fulminò con lo sguardo, osservò qualche istante di silenzio e poi, con sforzo visibile, riprese il filo della perorazione. Nuovo spalancarsi dell'uscio e la voce petu-lante di prima: «Ho cambiato idea, ragazzi; niente compito in classe, non portate il vocabolario». Fu a questo punto che si verificò l'esplosione. I baf-fi e la barba di Verdi entrarono in conflitto con l'acidità di Mazzini, mentre un urlo belluino scaturiva dal fondo dei diritti dell'uomo. La malcapitata venne inseguita fin nella sala dei professori e qui drammaticamente posta di fronte alle consapevolezze supreme: «Signorina, non sa che fra me e lei

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corre una gran differenza?». Forse già consapevole del fatto che a Roma nel quartiere Tufello gli sarebbe stata intitolata una strada. La sciagurata lo fissò negli occhi e gli rispose, con quella sua voce inguaribilmente squillan-te: «Professore, sono grandicella, e ormai la conosco, la differenza».

Quest'episodio aveva fatto il giro di tutta la scuola, aumentando la cu-riosità su colui che se ne era fatto propagatore. L'incontro, in ogni caso, non poteva essere rinviato: anche per i ragazzi del ginnasio sarebbe venuto il momento di fare la conoscenza di Monferini.

Invece, la prima lezione si configurò nel modo più banale. La testa arruf-fata fece la sua comparsa, il corpo sottile scomparve, compostamente, dietro la cattedra. Il discorso venne avviato, senza nemmeno un preambolo, sui presocratici, in termini che non avrebbero potuto essere più noiosi. Una le-zione come tantissime altre.

L'unico fatto nuovo fu l'interruzione provocata dal bidello Romeo, ve-nuto a chiamar Monferini per conto del Preside. La sua assenza si protras-se abbastanza. Il silenzio protras-seguito all'uscita si trasformò in parlottio, il par-lottio in animazione, e l'animazione in gazzarra. Neppure il gesticolare del bidello Romeo riuscì a far avvertiti i ragazzi del rientro del professore.

Quando quella realtà risultò manifesta, era un po' tardi per ricompor-si. Il professor Monferini era gia seduto dietro la cattedra. Si guardò attor-no con occhi più curiosi che diffidenti, e riprese la sua lezione.

Suonò la campana, e lui non mostrò di sentirla. Continuò a dilungarsi su Protagora e Anassimandro, sempre in un tono di voce piano, tranquillo, mentre i ragazzi, per un comprensibile senso di colpa, manifestavano una compunta attenzione, del tutto sproporzionata alla noia della materia. Co-si sproporzionata che Monferini, ad un determinato momento, non poté più resistere alla finzione. Si levò in piedi, e rivolse all'intera classe questa domanda: «E' mai possibile che tutti siate cosi interessati alla sequela di sciocchezze che da più di mezz'ora vengo dicendo? E che nessuno abbia il coraggio di farmi notare che, già da un pezzo, è suonata la campanella?».

Segui un silenzio sbigottito, esitante, che in nessun modo riusciva a trovare una soluzione.

«Voi», prosegui Monferini, e intanto si veniva sedendo sopra un ango-lo della cattedra, secondo un modo che gli era familiare nei momenti di buona vena, «voi vi trovate in una situazione particolare, frequentando una scuola abbastanza differente da tutte le altre. Il vostro insegnante di storia e filosofia deve svolgere anche le funzioni di vicepreside. Succedono molte cose, nella vita, che ci piacciono poco. Queste situazioni, ed altre ancora più gravi, come le leggi razziali che vi hanno condotto a frequenta-re quest'aula, non si discutono, almeno per il momento. Si affrontano con serietà — da uomini. Io debbo far conto su voi, non come su ragazzi ai quali si perdonano capricci ed impertinenze, ma come su adulti, dei quali ci si può fidare. Non so se abbiate questa maturità. Ma non ho altra scelta, e non vedo perché non dovreste farcela. Se poi questo vi riuscisse

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impos-sibile, tanto peggio per me, ma soprattutto tanto peggio per voi».

Ristette in pensieri, come se seguisse un filo che coinvolgeva ardue proposizioni. «Mi correggo», disse: «Tanto peggio per me. Sarò costretto, come oggi, ad arrivare tardi a colazione. Non conosco le vostre abitudini; ma io, quando viene questo momento, non resisto più dalla fame».

E se ne uscì in un'imprevedibile sghignazzata, che si comunicò dopo un attimo di smarrimento, a tutta la scolaresca, che già s'affollava attorno al suo professore, e, nonostante l'ora tarda, non aveva più voglia di uscire.

Neppure lui, dal suo canto, si ricordava più di aver fame. Scherzava gioviale e scambiava battute sull'astrusità dei temi trattati. Si limitava a ammonire: «Abbiate un po' di pazienza, prima di giudicare...». Uno come Monferini diceva sempre la propria opinione, chiunque gli stesse davanti. E questa opinione non suscitava mai rancori in nessuno.

Questo capitolo è tratto dal libro L’incendio del Tevere, Gaspari Edirore, scritto da Fabio Della Seta, con integrazioni del testo ricevute dallo stesso autore e da Donatella Limen-tani Pavoncello, che ebbero Emma Castelnuovo come insegnante di matematica in quel-la scuoquel-la nata in seguito alle leggi razziali del 1938.

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