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3. Antonio Salmeri, La mia giovinezza

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Academic year: 2021

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La mia giovinezza

Antonio Salmeri

La nascita

Sono nato ad Augusta (SR) in via Limpetra 6 alle due del pomeriggio del 29 apri-le 1933 subito dopo che mia madre con grande appetito aveva divorato un ab-bondante piatto di pasta al sugo.

Mia madre Mio padre

Sono nato in casa così come era consuetudine molti anni fa, senza che mia ma-dre avesse mai fatto una ecografia, se ero maschio o femmina lo si apprese nel momento della nascita. Fu mia nonna materna che mi aiutò a nascere e che e-sclamò: “Masculo è”. Gioia incontenibile dopo due figlie femmine.

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Il mio primo viaggio fu in “continente”, infatti poche settimane dopo la mia na-scita mio padre, allora Brigadiere di Finanza ramo Mare, fu trasferito a Civita-vecchia prima ancora che si potesse organizzare il mio battesimo che per con-suetudine veniva fatto pochi giorni dopo la nascita.

Il battesimo

Una volta arrivati a Civitavecchia una vicina di casa, avendo saputo che non ero stato ancora battezzato, si offri immediatamente a farmi da madrina di Batte-simo, si chiamava: Maddalena Barraco.

Il marito era titolare di una Agenzia di Viaggio marittima. Siamo rimasti in buoni rapporti per molti anni nonostante avessimo lasciato Civitavecchia pochi mesi dopo per stabilirci per qualche anno a Catania.

In quel periodo i militari dei corpi di polizia subivano per legge continui trasfe-rimenti. Inutile dire che questi continui traslochi erano molto fastidiosi soprat-tutto per una normale frequentazione della scuola in quanto si era costretti a

Catania – Panorama, Sullo sfondo l’Etna

interrompere la normale frequenza e riprendere a metà anno in altra scuola con tutti i comprensibili disagi. A Catania viveva la sorella di mia madre sposata con un sottufficiale di Marina e madre di due figli, Guido e Carlo di età quasi uguale a quella delle mie sorelle Rina, nata a Messina nel 1927 e Lidia nata a Ravenna nel 1929.

Le vacanze

Le nostre vacanze le trascorrevamo a San Giorgio, piccolo villaggio sul mare di fronte alle isole Eolie in casa dei nonni materni: Onofrio e Caterina. La casa era composta da quattro appartamenti, due al piano terra e due al primo piano. In

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uno di quelli al primo piano abitavano i miei nonni e l’altro del primo piano era affittato alla maestra del paese che si chiamava Manca, ovviamente era una delle persone più in vista de Villaggio. Due stanze, sala da pranzo e una camera da letto si affacciavano sulla strada e quindi avevano la vista del mare e le ri-manenti, cucina, camera da letto e servizi si affacciavano verso l’interno, ovve-ro verso la ferovve-rovia e la collina dietovve-ro la quale calava il sole nelle prime ore del pomeriggio offrendo la necessaria frescura.

San Giorgio era allora una piccolissima frazione di qualche centinaio di abitanti. I miei nonni e bisnonni erano nati e vissuti in questo villaggio. Ma non è un vil-laggio qualsiasi, a San Giorgio, frazione di Gioiosa Marea, è nata la prima Ton-nara d’Europa con stabilimento nel Palazzo dei Conti Cumbo Borgia, ormai adi-bito a Museo della Tonnara. Purtroppo da molti anni lo stabilimento è chiuso, così come tutte le tonnare artigianali soppiantate da quelle industriali.

San Giorgio (ME) – Sullo sfondo le isole Eolie

Oggi è nota per altri due motivi: E’ il luogo di nascita di Annarita Sidoti che no-nostante l’altezza di metri 1,50, inusuale per un’atleta, è stata medaglia d’oro di marcia e sulle distanze di 3000 e 10 mila metri in campionati mondiali, mor-ta prematuramente qualche anno fa all’età di 45 anni; San Giorgio ha dato i na-tali alla moglie di Ennio Morricone che per i suoi insuperabili meriti di composi-tore ha ricevuto la cittadinanza onoraria dal Comune.

Noi trascorrevamo il periodo estivo sempre a San Giorgio in casa dei nonni ma-terni ed era anche occasione per incontrare i cugini Carlo e Guido, figli della so-rella di mia madre ed i cugini figli di Anna soso-rella di mio padre, Natalino, Maria, Antonio, Assuntina, Salvatore e Rocco. Altri cugini, figli della sorella Tindera di mio padre abitavano a Barcellona poco distante da San Giorgio.

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San Giorgio ha una bellissima spiaggia, nonostante ciò noi bambini non face-vamo il bagno in quanto dopo pochi metri l’acqua era profonda e c’era il rischio di annegare per chi, come noi vissuti sempre in città, non aveva imparato a nuotare.

Il divertimento consisteva nel prendere il sole e impegnarci a cercare i bei sas-solini. Infatti nella spiaggia si trovavano una infinità di bellissimi sassolini lisci e colorati, di ogni colore, poi c’erano sassolini simili al marmo che in realtà erano pietre focaie in quanto strofinati fra loro emettevano scintille e poi si trovavano sulla spiaggia, dopo le giornate di tempesta, le pietre pomice che venivano por-tate dal mare dalle vicine isole vulcaniche. Riempivamo scatole piene di questi tesori ma arrivati a casa nelle valigie erano rimaste soltanto le pietre pomice che venivano utilizzate in cucina, tutte le altre a nostra insaputa venivano riget-tate sulla spiaggia con nostro grande disappunto.

Ovviamente le nostre vacanze erano più lunghe delle ferie di mio padre per cui appena arrivati a San Giorgio mio padre ripartiva per poi tornare col treno ogni quindici giorni. Il nostro arrivo era “allietato” dalla visita dei parenti che porta-vano come dono di benvenuto cestini di fichi, di fichi d’india, di gelsi, di uova appena fatte, di gelsi sia bianchi che neri, di pesce appena pescato. Inutile dire che le visite iniziavano pochi minuti dopo il nostro arrivo senza avere il tempo di riposare dopo un lungo viaggio. Ho detto che venivano a trovarci i parenti, ovvero tutti gli abitanti di San Giorgio in quanto più o meno eravamo tutti pa-renti.

Lume a petrolio Stadera

La vita a San Giorgio era completamente diversa da quella che trascorrevamo in città. In primo luogo ancora non c’era l’allaccio alla corrente elettrica, per cui ad una certa ora si accendeva il lume a petrolio la cui intensità della fiamma veniva regolata con una rotellina esterna che modificava l’altezza della miccia. I fornelli erano a carbone e l’accensione aveva una lunga procedura. Si accartoc-ciava un foglio di carta, sopra si metteva della carbonella costituita da gusci di

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mandorle carbonizzate che si infuocavano velocemente, poi si metteva il car-bone e contemporaneamente con un ventaglio di paglia intrecciata si faceva vento e si finiva di fare vento quando il carbone diventava incandescente. Nelle case mancava l’acqua corrente. Quella potabile si prendeva dalla fontanella che stava in strada riempiendo recipienti in terracotta con due manici e smaltati nella zona superiore, quella per gli altri usi si attingeva con secchi in lamiera zincata dal pozzo. La spesa per gli ortaggi si faceva direttamente negli orti dei contadini e le cose da acquistare venivano colte nel momento della vendita e venivano pesate nelle stadere, la carne veniva venduta su un carretto che veni-va in paese due volte a settimana ed il pesce si compraveni-va direttamente sulla spiaggia, quando nel tardo pomeriggio veniva tirata la sciabica e nella rete si vedeva il pesce ancora vivo e guizzante.

Pescatori tirano la sciabica Messina – Il Duomo e il campanile

A noi non veniva venduto, ma regalato in quanto eravamo i “forestieri” e quin-di eravamo riveriti da tutti i paesani. Per noi non c’era bisogno quin-di aspettare la sciabica in quanto la mattina trovavamo un piatto con il pesce sulla soglia del portone portato da ignoto donatore. Erano gli anni 1936-38.

Inizia la scuola

Nel 1938 la nostra famiglia si trasferì da Catania, via Calì, a Messina in via Ro-magnosi. Era una bell’appartamento nei pressi del viale Boccetta.

L’anno dopo sarei andato a scuola ed ero felice di questa nuova avventura an-che perché con l’aiuto delle mie sorelle avevo già imparato a leggere e scrivere e non vedevo l’ora di imparare tante cose nuove. Messina mi piaceva molto in quanto i palazzi erano nuovi, le strade larghe e la sera per le strade si sentiva il profumo dei gelsomini.

Io cominciai ad andare a scuola proprio a Messina, ricordo ancora il nome della mia prima maestra: si chiamava Lombardi. Quando entrai in classe, l’anno sco-lastico era da poco iniziato, fui guardato dagli altri bambini con senso di curiosi-tà: il mio grembiule nero aveva un colletto bianco inamidato ed un vistoso fioc-co azzurro. Forse per questo mio abbigliamento che appariva eccentrifioc-co, fui

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fatto sedere in un banco isolato posto vicino la cattedra! Mi sentivo a disagio e non compresi il motivo di questo trattamento. Mi accorsi che ero l’unico che sapeva già leggere e scrivere e sapevo già fare le quattro operazioni. Feci subito amicizia con gli altri bambini e mi dispiacque molto separarmi da loro in quanto mio padre ebbe un nuovo trasferimento.

Trasferimento a Bari

Infatti nel marzo di quell’anno mio padre fu trasferito a Bari. I trasferimenti per i militari di carriera erano frequenti con evidenti disagi per le famiglie in quanto potevano avvenire in un qualunque mese e quindi c’era il problema di inter-rompere l’anno scolastico e continuarlo in un’altra città. Quando noi bambini apprendemmo quella notizia andammo a cercare sull’Atlante dov’era Bari, ad-dirittura per arrivarci bisognava attraversare tutta la Calabria e poi dal mare Io-nio si doveva attraversare la penisola salentina ed arrivare sull’Adriatico. Come era lontana da Messina! Si incominciarono i preparativi per il trasloco, in quei giorni morì il Papa Pio XI, proprio alla vigilia di un memorabile discorso di con-danna nei confronti del Nazismo e del Fascismo, così come seppi moltissimi an-ni dopo. Ricordo che i giornali riportavano le foto dei Cardinali che potevano essere eletti Papa. Ma un nome spiccava fra tutti ed era quello del Segretario di Stato Cardinale Eugenio Pacelli. Forse fu l’ultima volta che le previsioni furono rispettate.

Arrivammo a Bari il 10 marzo del 1939, mio padre aveva provveduto ad affitta-re un modesto appartamento in via Bovio, ma subito dopo cambiammo casa forse perché troppo piccola ed andammo ad abitare in via Trevisani ad un isola-to dal mare e vicino al palazzo della Guardia di Finanza ed al Ginnasio Liceo O-razio Flacco, dal balcone si vedeva il mare!

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Nacque il problema di trovare una scuola che accogliesse noi bambini a metà anno. La sola possibilità era quella di iscriversi in una scuola privata e poi dare l’esame da privatista. Per me fu trovata scuola privata vicino casa in piazza Ga-ribaldi.

L’impatto con la nuova realtà fu traumatico. In quegli anni quasi tutti in Italia parlavano il dialetto ed il dialetto barese fu, soprattutto per noi bambini, com-pletamente incomprensibile. La prima conseguenza fu quella di prendere cattivi voti nei dettati in quanto non capivo le parole che venivano pronunciate.

Intervenne mio padre e chiese alla maestra di avere un po’ di pazienza e parla-re possibilmente in italiano. Le cose cominciarono ad andaparla-re meglio. Superato l’esame di ammissione alla seconda elementare, mi iscrissi alla Scuola Garibal-di, in piazza Risorgimento, e lì conobbi la mia nuova maestra: la signora Marti-no era sempre vestita di nero. Era corpulenta, un bel viso bonario ed i capelli completamente bianchi, per noi bambini era una seconda mamma. La la-sciammo con grande dolore alla fine della terza elementare. L’anno seguente ebbi un maestro. Penso che la regola fosse questa: nelle prime tre classi l’in-segnante era una donna e nelle due classi superiori l’inl’in-segnante era un uomo.

Inizia la guerra

Già vi era aria di guerra, ma noi bambini vedevamo la cosa con totale indiffe-renza: quasi come se si dovesse giocare una partita di calcio e noi apprendeva-mo dalla Propaganda che eravaapprendeva-mo invincibili ed avremapprendeva-mo vinto contro tutti, almeno queste erano le informazioni che si ricevevano sia dai famosi film Luce (L’Unione Cinematografica Educativa). Questi documentari, sotto lo stretto controllo del regime, dovevano essere proiettati in tutti i Cinema prima del film. Costituivano un continuo inneggiare al regime Fascista. Noi bambini era-vamo orgogliosi di avere la nostra divisa, ci sentiera-vamo difensori d’Italia.

Eravamo in piena guerra che, iniziata in sordina, con il passare dei mesi diventò sempre più dura coinvolgendo le nazioni di tutto il pianeta. Basti pensare che ad un certo punto ci trovammo: Italia, Germania e Giappone contro Stati Uniti, Urss, Francia e Gran Bretagna dove questa ultime occupavano con le loro Colo-nie quasi tutti i continenti. Cominciarono i primi bombardamenti anche sulla città: Bari era un bersaglio a causa della presenza del porto. Quasi ogni notte venivamo svegliati dal lugubre suono delle sirene che avvertivano dell’avvi-cinarsi di aerei nemici: l’allarme veniva dato con sei suoni di sirena, mentre il cessato allarme consisteva in un solo suono più lungo. Tutti gli edifici avevano avuto l’ordine di erigere all’interno dell’atrio di ingresso dei muri

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“parascheg-ge” e adibire eventuali cantine a “Rifugio antiaereo”. Noi ci radunavamo a pia-no terra nel laboratorio di falegnameria del padrone di casa che si chiamava Lu-igi Coppolone.

A. Salmeri a 7 anni, Figlio della Lupa

Quando suonava l’allarme dovevamo vestirci alla meglio e correre nel rifugio più vicino. Mia madre, previdente come tutte le madri, preparava ogni sera una piccola borsa della spesa, di colore rosso, con dentro le provviste per sopravvi-vere in caso di crolli della casa! Era inutile preparare una borsa più grande per-ché sarebbe rimasta mezza vuota.

Razionamento generi alimentari

In quel periodo i cibi erano stati razionati con quantità bastevoli per la soprav-vivenza. Tutto era razionato dal pane alla pasta, al riso, allo zucchero, alla fari-na, alla carne. Quello che non era razionato era introvabile. Erano rilasciate ad ogni persona delle “Carte Annonarie” che venivano portate all’esercente per farsi consegnare il corrispettivo di ogni genere.

Quasi tutti trovavano qualcosa al cosiddetto “mercato nero”, ma a mio padre, finanziere, nessuno vendeva un tozzo di pane di contrabbando. Inoltre noi era-vamo “i forestieri”, tutti avevano parenti nelle campagne che provvedevano a procurare cibo al di fuori di quanto tesserato. Ricordo ancora il colore di queste tessere: celeste tendente al grigio. Il razionamento dei viveri durò anche parec-chi anni dopo la fine della guerra. Ricordo che ogni persona poteva disporre di soli 100 grammi di pane al giorno che era un eufemismo chiamarlo pane in quanto era un qualcosa di immangiabile in quanto alla farina di grano veniva aggiunta farina di altri cereali e non solo.

Col tempo fu difficilissimo acquistare scarpe e tessuti di ogni genere. Quando a noi bambini le scarpe non entravano più, si tagliava la punta. Per i vestiti si a-dattavano quelli dei fratelli maggiori, eventualmente rivoltandoli.

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Carta Annonaria per pane e generi di minestra

All’interno delle famiglie ci si ingegnava a sopperire alla mancanza di ogni cosa; avevamo imparato a costruire gli zoccoli con la base di legno e strisce di stoffa inchiodate sopra. Le donne di casa avevano imparato a cucire per stringere gli abiti, accorciarli e rivoltarli. Una volta riuscimmo ad avere, non so come, un in-tero paracadute americano che fu utilizzato per fare camicie, era una stoffa di seta pura, ancora ne ho in casa un grande pezzo.

Palloni frenati antiaerei

Nel corso di una incursione aerea una bomba cadde proprio davanti al portone di casa senza esplodere: Altre due, a pochi metri l’una dall’altra, esplosero e provocarono morti anche fra nostri amici.

Inutile dire che il giorno dopo ogni bombardamento a scuola era di prammatica il dettato che cominciava quasi sempre con queste parole: “Questa notte le or-de barbariche nemiche hanno bombardato la nostra bellissima città. ...”.

D’estate, finita la scuola, si andava a San Giorgio anche per trovare i nonni ma-terni; i nonni paterni erano già morti: mia nonna durante la prima guerra

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mon-diale quando mio padre era al fronte e mio nonno, di cui porto il nome, era morto qualche anno prima.

Il viaggio era molto lungo, durava circa due giorni in quanto il treno lo facevano viaggiare soltanto di notte e con i finestrini oscurati per non essere visti dagli aerei nemici. Nonostante queste precauzioni, una volta il treno nel quale viag-giavamo, fu individuato e bombardato per fortuna senza essere colpito.

In uno di questi allucinanti viaggi ebbi l’occasione, passando da Taranto che era una delle nostre più importanti basi navali, di vedere tanti palloni frenati che sovrastavano il porto. La loro funzione era quella di impedire agli aerei di avvi-cinarsi al porto. Inutile precauzione in quanto gli aerei americani volavano a quote superiori dei nostri palloni frenati ed infatti qualche mese dopo le nostre più importanti navi da guerra, in quello stesso porto, furono affondate!

Ordine di sfollare

Nel giugno del 1942 mio padre ci comunicò che erano arrivati ordini superiori ai Militari di portare le proprie famiglie lontano dalle città portuali in quanto si sa-rebbero intensificati bombardamenti aerei ed anche forse navali.

Terlizzi (Ba) – La torre

Mio padre incominciò a cercare nelle cittadine vicine verso l’interno e ben col-legate con Bari. La ricerca fu laboriosa in quanto in quel periodo non si costrui-va e quindi non si trocostrui-vacostrui-vano appartamenti da affittare, bisognacostrui-va cercare qual-cuno disposto ad affittare la propria ed andare ad abitare da qualche parente. Finalmente fu trovato un piccolo appartamento nella periferia di Terlizzi, citta-dina dell’entroterra a trenta chilometri da Bari raggiungibile per mezzo della ferrovia Bari – Barletta. La proprietaria, la signora Amendolaggine si trasferì a casa di una sorella affittandoci la sua misera abitazione.

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Per noi fu una tragedia in quanto l’abitazione era priva di servizi igienici e di ac-qua corrente, come la maggior parte delle case di periferia di quel tempo. L’acqua bisognava andarla a prendere ad una delle rare fontanelle posta nella piazza distante un centinaio di metri dall’abitazione. Quindi noi bambini era-vamo incaricati a fare rifornimento più volte al giorno riempiendo capienti brocche.

Si faceva la fila per ogni cosa

L’acqua doveva servire per bere, per cucinare, per lavarsi e per le pulizie. Ov-viamente la maggior parte della popolazione si serviva di queste fontanelle che erogavano un filo di acqua che riempiva una brocca in un tempo interminabile e quindi si era costretti a fare lunghissime file sotto un sole cocente oppure sot-to una pioggia. In realtà in quegli anni bisognava fare la fila per ogni cosa. Ma questo dell’approvvigionamento dell’acqua era il disagio minore. Gli altri pro-blemi erano, uno la mancanza di servizi igienici per cui ci si doveva servire di un “vaso da notte” il cui contenuto doveva essere versato in grossi bidoni posti su un terrazzo adiacente che quando pieni venivano svuotati da personale del Comune. L’altro era la presenza inverosimile di mosche durante il giorno e zan-zare durante la notte, per non parlare delle cimici.

Questi insetti furono combattuti con l’arrivo delle truppe americane con il DDT di cui si scopersero molti anni dopo le fortissime proprietà cancerogene sul-l’uomo. Si può immaginare cosa poteva essere la concomitanza di questi depo-siti a cielo aperto e mancanza di acqua corrente. Questo strazio durò una intera estate, dopo di che preferimmo tornare in città e rischiare la vita sotto conti-nue incursioni aeree che erano quasi sempre mirate al porto dove vi era un continuo arrivo e partenze di navi per approvvigionamento di viveri e armi per i nostri soldati, prima e le truppe alleate poi, impegnati nei vari fronti.

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Il mio “Soldato di guerra”

Inoltre vi erano le navi ospedaliere che riportavano i militari feriti in patria. Queste navi si dovevano distinguere dalle navi da guerra e dai piroscafi in quan-to non dovevano essere attaccate da forze nemiche secondo la Convenzione di Ginevra ed il loro affondamento veniva considerato crimine di guerra.

Avevano lo scafo dipinto di bianco con delle grandi croce rosse dipinte sulle fiancate. Ma tale convenzione non fu mai rispettata e quasi tutte le nostre navi ospedaliere furono affondate da aerei delle forze anglo-americane. Inascoltate furono le rimostranze fatte dal Comando Militare. In quel periodo vi fu una ini-ziativa delle scuole che istituirono un rapporto fra ciascuno studente ed un feri-to in guerra ricoveraferi-to in un ospedale cittadino.

Man mano che arrivavano i feriti dal fronte nei nostri ospedali, a ognuno di essi veniva associato uno studente che si doveva impegnare ad andarlo a trovare e portargli generi di conforto o scrivere per loro una lettera da inviare alla fami-glia. A me fu assegnato un soldato che era stato ferito gravemente durante uno scontro sul fronte libico, era un giovane biondo di appena vent’anni ed era na-tivo del Veneto, lo andavamo a trovare due volte a settimana e gli portavamo qualcosa che lui desiderava o che mamma cucinava apposta per lui. Un giorno ci consegnò una lettera chiedendo di spedirla alla madre che aspettava sue no-tizie. Eravamo diventati amici e in qualche componimento a scuola parlavo del mio valoroso soldato che aveva combattuto eroicamente contro i soldati della “perfida Albione”. La settimana dopo non andammo a fare visita al “mio solda-to” perché avevo la febbre alta. Tornammo la settimana seguente sempre con mio padre che in quanto militare poteva entrare anche fuori dall’orario stabili-to. Quando entrammo mio padre fu avvicinato da un infermiere che ormai ci conosceva, parlarono a voce bassa e mio padre mi prese per mano e mi dis-se:”Il tuo soldato è tornato a casa perché guarito”, ma aveva un’espressione triste, ma mentre uscivamo dallo stanzone pieno di letti, un ferito mi salutò e mi disse ad alta voce:”Bambino, il tuo soldato tre giorni fa è morto”. Mio padre

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fece finta di non sentire e uscimmo senza dire una parola. Arrivato a casa andai da mia madre l’abbracciai e mi misi a piangere. La guerra non era un gioco così come pensavamo, era una tristissima sciagura.

Le scuole diventano caserme

Era l’aprile del 1943, io frequentavo la quinta elementare. La scuola, Giuseppe Garibaldi, era un bellissimo edificio in piazza Risorgimento sormontato da un

Bari - Scuola Elementare Giuseppe Garibaldi

orologio e con un piazzale sul davanti, con al centro una grande fontana, dove si radunavano in perfetto ordine i bambini prima del suono della campanella. Le bambine su un lato ed i bambini sull’altro. L’edificio aveva appunto due in-gressi, uno sulla destra per le bambine e l’altro per i bambini.

Sul retro vi era uno spiazzo che con un po’ di buona volontà divenne un “orto di guerra”. Ci fu insegnato, nelle ore di Educazione Fisica a zappare ed a seminare, non ricordo cosa, ma non vedemmo mai crescere nulla.

Un giorno bussa trafelata la bidella e dice al Maestro che bisognava abbando-nare la scuola perché era stata requisita dal Comando tedesco, perché doveva essere utilizzata come caserma. Scendemmo precipitosamente nello spiazzo antistante la scuola sotto la guida del Maestro che ci disse: ”Ragazzi, noi conti-nueremo a fare scuola a casa mia. Non è grande, ma ci arrangeremo.”

Il giorno dopo ci recammo a casa del nostro maestro con la cartella di fibra pie-na di libri, pie-naturalmente era l’edizione che si usava nelle città (edizione urbapie-na) che era diversa dai libri in uso nelle campagne (edizione rurale). I quaderni negli ultimi tempi di guerra consistevano in registri di uffici, scritti solo da una parte. L’altra serviva per fare i compiti, era difficile trovare quaderni. Insieme ai libri c’era l’astuccio in legno con coperchio scorrevole che conteneva l’asticciola e i

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pennini, una matita, un temperamatite e, a parte, alcuni fogli di carta assorben-te ed un calamaio con l’inchiostro.

Salimmo tutti insieme sino al secondo piano ed entrammo nella casa del nostro Maestro. Sulla porta una targa in ottone con la scritta: Maestro - Cav. Cataldo Mastromauro – Gerarca. Ne andava fiero di essere Gerarca. Alcune volte, forse il sabato, veniva a scuola con la divisa, ma anche noi eravamo in divisa, ma la nostra era soltanto la divisa di Balilla o figli della lupa a seconda dell’età. En-trammo a stento nella casa del maestro e ci sedemmo per terra in quanto le poche sedie non bastavano per oltre trenta bambini.

Gli esami di licenza elementare non furono fatti e per iscriversi alla scuola me-dia sarebbe bastata la pagella di quinta elementare.

Si improvvisano scuole in appartamenti vuoti

Ma l’anno dopo le scuole non aprirono. Sorsero scuole private improvvisate. Io fui iscritto ad una scuola composta da una sola grande aula, forse era un teatro, nella quale si tenevano lezioni di tutte le materie per tutti gli otto anni: scuola media e liceo scientifico. Le lezioni venivano tenute nella stessa grande “aula” dove noi ragazzi, a seconda della materia e della classe ci radunavamo intorno all’improvvisato insegnante. Non erano professori, ma persone di buona volon-tà che cercavano alla meglio di insegnarci le varie materie, di alcuni capivamo che erano molto bravi, altri poverini cercavano alla meglio di assolvere il loro compito forse per pochi centesimi. Ovviamente eravamo liberi di far parte di un gruppo o di un altro in quanto non ci conoscevano e non c’erano registri.

Io ebbi l’idea di frequentare le lezioni di matematica soprattutto per capire co-sa ci poteva essere in matematica, oltre le quattro operazioni. In un anno se-guii, anche se superficialmente ma con un certo interesse, tutta la matematica dalla prima media all’ultimo anno di liceo scientifico. Ovviamente a scapito so-prattutto del latino, dove la nostra “insegnante” in realtà non conosceva bene neppure l’italiano; le lacune nella lingua latina me li portai sino all’ultimo, anzi sino al penultimo anno di Liceo.

L’Italia viene invasa dalle truppe anglo-americane e tedesche

Comunque la guerra continuava in modo sfavorevole per noi, tanto che il 10 lu-glio del 1943 apprendemmo dal Bollettino di Guerra, eravamo l’unica famiglia nel caseggiato che possedeva la Radio tanto che ci veniva chiesto dalle altre famiglie di tenere le finestre aperte e la radio a tutto volume per ascoltarla, che truppe anglo-americane e canadesi erano sbarcate nella costa meridionale della Sicilia. Erano 180 mila uomini portati da oltre 2500 navi. Nel periodo di

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guerra venivano trasmessi soltanto i Bollettini di Guerra che facevano la crona-ca della situazione nei vari fronti ed elencrona-cavano i bombardamenti che erano avvenuti nelle nostre città e il numero di aeri abbattuti dalla nostra contraerea.

Sicilia – Sbarco di truppe anglo-americane

Si cominciò quindi a combattere sul suolo italiano: le truppe alleate (anglo-americane e canadesi) contrapposte ai soldati italiani e tedeschi presenti nelle varie città. C’è da tenere presente che in Sicilia non si trovavano in quel mo-mento soldati tali da contrastare l’avanzata, ma piccoli presidi di uomini di una certa età destinati soprattutto alla contraerea. Subito dopo ci fu la resa del-l’Italia. Ma la guerra, contrariamente a quanto noi pensavamo, non finì in quan-to fummo costretti a difenderci dai tedeschi che già li avevamo in casa e ci con-sideravano traditori.

Le truppe americane, prima nemici, poi nostri alleati – si fa per dire - si insedia-rono nella città di Bari dove abitavo e soprattutto fecero del porto la loro base per rifornimenti di munizioni e soldati per il fronte che nel frattempo si era spo-stato a nord di Bari. L’arrivo delle truppe americane fu salutato anche a Bari fe-stosamente anche perché i soldati elargivano alla popolazione gratuitamente i loro generi alimentari; vidi dopo molti anni il pane bianco che aveva un sapore ben diverso da quello che veniva distribuito con la Carta Annonaria. Il presidio americano a Bari fu ben diverso dal precedente presidio tedesco. Gli americani erano quasi tutti oriundi italiani e quindi se la cavavano abbastanza con l’italiano e non si comportavano da occupanti ma da liberatori. Ogni tanto qualcuno ci fermava per strada e ci domandava se poteva venire a cena da noi e al cibo avrebbe pensato lui. Con la fame che ci attanagliava si accettava di buon grado e quando veniva portava un ben di Dio, pane bianco, cioccolata, salsicce in scatola, che chiamavano wurstel, scatole di soupe che era una polve-re verde che forse non sapevamo utilizzapolve-re. Insomma si stava bene per qualche giorno. Quando venivano a casa parlavano in continuazione della loro famiglia lontana, dei loro bambini che non vedevano da anni e ci facevano vedere le fo-to che conservavano gelosamente nel portafoglio. Insomma avevano bisogno di sentirsi in famiglia. Una volta ne venne uno a casa i cui genitori erano nati

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pro-prio a San Giorgio e ci divertimmo molto in quanto si mise a parlare in dialetto con mio padre, conosceva il dialetto, parlato dai suoi genitori, ma non l’italiano.

Bari: Pearl Harbor mediterranea

Una sera, era il 2 dicembre sempre del 1943, mio padre tornò a casa e ci dis-se:”Prepariamoci perché stanotte succederà l’inferno, è arrivato un convoglio di oltre 40 navi che trasportano militari destinati al fronte, bombe per aerei e munizioni, un ricognitore tedesco ha seguito il convoglio e senz’altro ha dato la notizia al comando tedesco”. Non passò neppure un’ora che 170 bombardieri tedeschi raggiunsero il cielo di Bari e cominciarono a sganciare bombe nella zo-na del porto centrando ad uzo-na ad uzo-na tutte le zo-navi ancora cariche di bombe, munizioni e carburante.

Fu un’inferno per tutta la notte, con fortissime e assordanti esplosioni a ripeti-zione. Noi che abitavamo a poche decine di metri dal porto ritenemmo oppor-tuno scappare da casa nella fredda notte di dicembre, coperti alla meglio, verso l’interno della città e vedevamo nel cielo pezzi di navi incendiate che cadevano con immenso fragore sulle case.

Questa fu chiamata la “Pearl Harbor” del Mediterraneo. Il bombardamento du-rò quasi tutta la notte a più riprese e noi cercammo riparo lontano da casa all’interno di qualche ricovero lontano dal porto. Quante furono le vittime? Tantissime, ma il numero restò segreto in quanto molte furono quelle dovute al bombardamento, ma molte di più furono i morti nei mesi seguenti in quanto una nave affondata conteneva oltre 5000 tonnellate di yprite gas velenosissimo e di cui era proibito l’uso dalla Convenzione di Ginevra ma che gli americani a-vevano intenzione di utilizzare contro i tedeschi per debellare la loro resistenza in territorio italiano. Per cui l’yprite si era riversata nelle acque del porto e ave-va contaminato, a causa delle esplosioni dei fusti che lo conteneave-vano, anche le case adiacenti al porto. Il Comando americano fece di tutto per nascondere l’episodio e quindi non furono presi i corretti provvedimenti per contenere la strage.

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La scuola del tempo che fu

L’anno dopo, si fa per dire, aprirono le scuole. I locali erano appartamenti re-quisiti dal Comune perché liberi. Le lezioni si tenevano un giorno sì ed uno no a settimane alterne. I libri non si trovavano, ma riuscivano ad averli soltanto chi aveva amicizie fra i librai. Era pertanto necessario andare a copiare la lezione da studiare – le fotocopiatrici non esistevano – da chi aveva la fortuna di essere in possesso dei libri. Il tempo per studiare era quindi molto ridotto in quanto non ci si poteva permettere di utilizzare i rarissimi mezzi pubblici per abbrevia-re il tempo per andaabbrevia-re dai compagni che a volte si facevano negaabbrevia-re per non es-sere disturbati.

Era una fatica improba fare fra l’altro per il giorno dopo le traduzioni di 40 frasi dall’italiano e 40 dal latino. Per fortuna non si era distratti dalla televisione che ancora non esisteva. Comunque i risultati non potevano essere buoni anche perché mi portavo dietro una preparazione scolastica approssimativa.

Lezioni quasi inesistenti, libri introvabili, tempo a disposizione impegnato a cer-care chi era disponibile a fare copiare la lezione per il giorno dopo. Ovviamente fui rimandato, fortunatamente soltanto in latino e francese. Trovammo amici di famiglia che mi aiutarono un po’ a prepararmi per gli esami. Quando si avvicinò il giorno degli esami di riparazione mi recai a scuola, ovvero nell’appartamento che ci ospitava. C’era un cartello con indicazioni sommarie dei luoghi dove si sarebbero tenuti gli esami. Il giorno degli esami mi recai all’indirizzo stabilito. Eravamo tanti ragazzi davanti al portone che aspettavano di entrare. Incomin-ciarono a chiamare per nome. Alla fine rimasi solo, chiesi a chi aveva gli elenchi perché non ero stato chiamato... scopersi che gli esami per la mia sezione si dovevano sostenere in altra sede: un cambiamento dell’ultima ora comunicato con un cartello che non ero riuscito a leggere! Corsi trafelato al nuovo indirizzo, era troppo tardi! Non mi fecero entrare, tornai a casa costernato. Mio padre cercò di tranquillizzarmi e mi accompagnò dal preside della scuola: Prof. Gio-vanni Gentile. La risposta fu categoricamente negativa: “La sessione degli esami è irrimediabilmente chiusa! Mi dispiace.”

Mio padre non replicò e tornati a casa raccontò l’episodio a un nostro amico Scioscia, che era comandante dei Vigili Urbani. Per la posizione che occupava conosceva molta gente importante. Si presentò da noi il giorno dopo con una lettera indirizzata al Preside. Mio padre commentò:”Mi é sembrato molto deci-so, non penso che serva!” Il nostro amico rispose : “Non credo che potrà rifiu-tare! Questa è una lettera del Provveditore agli Studi che è un mio paesano. E’ anche politicamente abbastanza influente, si tratta del prof. Aldo Moro!” Con

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molta trepidazione ritornammo dal Preside, mio padre era molto imbarazzato, gli dava fastidio consegnare una lettera che invitava a non rispettare la legge. La lettera fu consegnata al bidello che la portò in Presidenza. Dopo qualche mi-nuto uscì trafelato il Preside: “Non c’era bisogno di rivolgersi al Provveditore, bastava spiegarmi perché non si era presentato in tempo agli esami”.

Furono immediatamente convocati i due professori che mi dovevano esamina-re. Seppi poi che la professoressa di lettere era partita per le vacanze! Gli esami a mio avviso furono una semplice formalità, si svolsero in presidenza. Mi chie-sero se mi andava bene fare tutti e due gli scritti e l’orale in un solo giorno. Fu-rono gentilissimi e gli esami fuFu-rono di una semplicità estrema, quasi imbaraz-zante. Naturalmente fui promosso in terza media. L’anno successivo le lezioni si tennero regolarmente.

L’edificio in cui era ospitata la Scuola “Giovanni Pascoli” era molto bello, occu-pava un’ala del Liceo Ginnasio Quinto Orazio Flacco. L’edificio era stato costrui-to nel 1933 era sul lungomare, proprio di fronte alla casa dove abitavo, e faceva parte di quel gruppo di edifici “stile Impero” voluti dal Ministro dei Lavori Pub-blici Araldo Di Crollalanza, che era nato a Bari e in precedenza ne era stato il Podestà.

Finalmente fu un anno tranquillo, anche se continuavo ad andare maluccio in latino, materia che mi portai ad ottobre anche se i risultati non erano in verità pessimi. Ma in quegli anni essere promossi a giugno era molto raro. Mediamen-te su trenta alunni i promossi a giugno erano quattro o cinque. Quando mi pre-sentai agli esami di riparazione la professoressa di latino mi disse:”Quest’anno finalmente ho fatto le vacanze tranquillamente”. L’esame, contrariamente al-l’anno precedente, fu difficilissimo, riuscivo a mala pena a rispondere a qualcu-na delle domande assurde che mi venivano rivolte. Quando andai a vedere i quadri ebbi la conferma che stavo pagando l’interruzione delle vacanze del-l’anno prima: Respinto. Non me la sentivo proprio di ripetere del-l’anno! Mio padre conosciuto l’esito, disse:”Me lo aspettavo, le forzature si pagano!” Si consigliò con un suo conoscente che era laureato in lettere ed aveva inoltre una vasta cultura. Chiese di esaminarmi e mi fece una lunga sfilza di domande su ogni materia ed il suo responso fu: “Sarebbe un peccato fargli perdere l’anno. Mi impegno a titolo di favore a prepararlo privatamente e fargli fare il prossimo anno l’esame di ammissione al secondo liceo scientifico”.

“Quest’anno è possibile fare questa operazione senza avere la licenza media”. L’anno seguente mi misi a studiare con molto impegno e svolsi il programma della cosiddetta classe di collegamento. Studiavo da solo e ogni tanto mi incon-travo con il professore che scrupolosamente seguiva quanto facevo. Io mi

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sen-tivo con qualche mio ex compagno per confrontare i programmi. Anche quel-l’anno andò abbastanza bene. L’anno seguente mi iscrissi al secondo anno del Liceo Scientifico “Arcangelo Scacchi”. L’atmosfera che trovai fu molto diversa da quella incontrata nella scuola media. Specialmente nelle ore di lettere si re-spirava un’aria di terrore.

L’interrogazione del primo trimestre in latino consistette in una domanda dal posto, indugiai un attimo per dare la risposta esatta e mi sentii apostrofare: ”Siedi, ti metto 1!”. Ricordo ancora la domanda, dovevo continuare a recitare a memoria i versi dell’Eneide di Virgilio in metrica: “ Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris..” Nella pagella del primo trimestre stabilì un record, forse imbattuto. Allora non c’era il libro del guinnes dei primati: Comparirono tutti i voti fra scritto e orale dall’1 al 9, la pagella l’ho conservata per mia futura me-moria. Dopo che ci fu consegnata la pagella fui chiamato in presidenza. Il presi-de era il prof. Giovanni Longo, seppi poi che era un famoso latinista.

Foto tratta da Annuario del Liceo“A. Scacchi” di Bari – Anno 2010 - 11 Il Preside, molto bonariamente mi disse,: “Ragazzo, ricordati che tutte le mate-rie sono importanti! Non devi studiare benissimo matematica e ignorare le al-tre materie. Raccontai che in realtà dedicavo più tempo allo studio del latino, di cui non avevo le basi, che alla matematica. Mi ascoltò molto interessato e bonariamente mi dette qualche consiglio. Penso che qualche “consiglio” lo

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det-te anche alla professoressa di letdet-tere, prof.ssa Lorusso Bitonti, dato che il suo comportamento nei miei confronti cambiò notevolmente. Seppi poi dal profes-sore di Educazione Fisica che durante gli scrutini per il primo trimestre c’era stata un’accesa discussione tra il professore di matematica, prof. Giuseppe Fa-retra, e la professoressa di lettere circa il giudizio su di me. Per la prima volta non fui rimandato in latino, ma in spagnolo che era la lingua che si studiava nel-la sezione D.

L’anno dopo frequentai il terzo liceo scientifico. Nel frattempo avevo acquistato una certa fama all’interno della scuola. Gli studenti degli ultimi anni, quando non riuscivano a risolvere un problema o un esercizio venivano da me e in po-chi secondi gli davo la soluzione. Proprio quell’anno, era il 1950, il Preside Gio-vanni Longo andò in pensione. Il profitto fu abbastanza buono, ma “inaspetta-tamente” fui rimandato in latino con cinque. Io pensavo che in un liceo scienti-fico valessero di più i bellissimi voti in matematica, fisica e disegno e si potesse sorvolare su un cinque in latino! Ma non bastò, a ottobre mi fu confermato il cinque che era la media fra il sei allo scritto ed un quattro all’orale! Ricordo an-cora le domande assurde che con un sorrisetto ambiguo mi venivano rivolte. Respinto! Ancora una volta non mi sentii di ripetere l’anno, frequentai il quarto anno in una scuola privata “Giacomo Leopardi” in via Ettore Fieramosca dove per il quarto scientifico ero l’unico alunno. Tale fatto mi favorì in quanto ebbi la bella idea di decidere io l’orario settimanale. Dodici ore settimanali di latino, quattro di filosofia, ..., due di fisica ed una di matematica. Fui promosso molto bene anche in latino in quanto il professore che mi seguiva in latino si impegnò molto e finalmente mi fu insegnata questa lingua dalle basi, il professore si chiamava Traetta. Ma una disgrazia si stava per abbattere sulla nostra famiglia. Noi abitavamo in un appartamento che per legge aveva il fitto bloccato, era un appartamento di tre stanze, cucina e servizi che era diventato piccolo per le no-stre esigenze, ma era difficilissimo trovare di meglio in quanto in quegli anni non si era costruito. Il nostro padrone di casa era ora una persona molto nota: era l’arbitro Lello Coppolone che in quegli anni arbitrava anche partite di calcio di serie A. Egli con la famiglia abitava in un piccolo appartamentino di due stan-ze assolutamente insufficiente per tutta la famiglia che era composta da padre madre e sei figlioli. Per cui era suo desiderio entrare in possesso dell’appar-tamento di sua proprietà anche se poco più grande. Ci chiese di lasciare libero l’appartamento e per noi fu un grosso problema in quanto i nuovi appartamenti che si riuscivano a trovare avevano costi di affitto almeno dieci volte maggiori e proprio in quel periodo mio padre andò in pensione per avere compiuto i tren-tacinque anni di Servizio con una cifra inferiore allo stipendio che sino ad allora

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aveva percepito. Per cui tutti noi figli ci siamo dovuti ingegnare a racimolare qualcosa dando ripetizioni private, le mie sorelle di lettere e francese ed io da-vo una mano con lezioni di matematica. Andammo ad abitare in Viale Mazzini. Ovviamente a poco a poco, con molti sacrifici, si dette fondo ai risparmi accu-mulati in una vita di lavoro di mio padre.

L’anno seguente mi iscrissi al quinto ed ultimo anno di Liceo e ritrovai i miei ex compagni ed anche... la professoressa di latino, la quale, quando mi vide, disse: “Ancora qui!”.

Molto bella fu la scena della consegna del primo compito di latino. C’era allora, forse anche ora, la consuetudine di consegnare il compito corretto incomin-ciando dal voto più basso, per cui man mano che la consegna andava avanti ci si rallegrava che il proprio voto non poteva essere minore di quello attribuito al compito già consegnato.

Per cui l’ansia era tanta. Incominciava la lettura: ...2+, 2 ½, ... , ...5, e qui i primi sorrisi di quelli rimasti,... 5 ½,, ....6-,.... lunga pausa: Salmeri 8 ½.

A questo punto scoppiò un lunghissimo applauso di tutti i miei compagni che mi stimavano ed erano contenti di avermi ritrovato. Il commento della profes-soressa fu: “Non riesco proprio a capire da chi hai copiato!”.

Quindi questo ultimo anno di liceo si preannunciava molto bene, in latino fi-nalmente andavo bene, quindi doveva filare tutto liscio. Invece no! Inaspetta-tamente in una materia nella quale avevo avuto sempre 8 e qualche volta 9, presi un’insufficienza: 5 in condotta!

Erano i primi giorni dell’anno, avevamo filosofia all’ultima ora. Il professore Ni-cola Dell’Andro al quale recentemente sono stati intestati al suo nome alcuni Istituti scolastici pugliesi, fratello del giudice costituzionale Renato, sempre puntualissimo anche per la sua doppia funzione di insegnante di storia e filoso-fia e di vice preside, tardava. Dopo venti minuti di attesa ci consultammo e de-cidemmo di andare dal Preside e chiedere l’autorizzazione ad andare via. Fu da-to il permesso e noi, felicissimi di da-tornare a casa un po’ prima, ci preparammo in tutta fretta e chi da una parte, chi dall’altra ci avviammo verso casa.

Ma sfortunatamente un gruppo incontrò il professore che trafelato ricondusse in classe quei pochi che aveva incontrato e senza sentire ragione mise 7 in con-dotta a quelli che si erano allontanati... senza il suo permesso! Seppi poi che non era stato il Preside a dare l’autorizzazione, in quanto occupato in una riu-nione, ma il bidello che, trattandosi dell’ultima ora di lezione, aveva espresso il suo paterno e giustificato parere.

A metà anno fummo invitati da un volantino a fare sciopero per far tornare Trieste all’Italia. Sciopero? Che voleva dire fare sciopero non lo sapevamo, ma il

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motivo era tanto nobile che ci sembrò più che giusto e doveroso aderire. Quando tornammo a scuola apprendemmo che avremmo avuto tutti indistin-tamente 5 in condotta! Abbiamo rischiato in molti di non essere ammessi agli esami.

Nasce La Scienza per i Giovani

Nei primi mesi di quell’ultimo anno accadde qualcosa che avevo sempre sogna-to. Entrò in classe il professore di Matematica, Giuseppe Faretra, che ricordo ancora con tanto affetto, e disse: “ragazzi, c’è una bellissima novità, la casa Edi-trice Felice Le Monnier ha iniziato la pubblicazione di una rivista per i giovani, si chiama “La Scienza per i Giovani” e fra l’altro indice un concorso a premi fra tutti gli studenti d’Italia. Io ne consegno una copia a Salmeri invitandolo ad ab-bonarsi ed a partecipare a questo Concorso. Sono sicuro che si farà onore. Qualche settimana prima aveva spiegato gli integrali e la possibilità per mezzo di essi di calcolare l’area delimitata da una curva di cui era nota la funzione. Il giorno dopo mi presentai dal professore e dissi:”ho scoperto che per mezzo degli integrali si può trovare anche la lunghezza di una curva.”

Il professore sorrise e mi disse: ”Questo metodo è già noto, lo studierai all’uni-versità”. Rimasi deluso ma contento che il metodo trovato era giusto. Avevo sin dalle medie la passione della ricerca ed avevo fatto molte scoperte che a me sembravano molto importanti.

Mi incominciai a sentire un genio! Non c’era problema che non riuscivo a risol-vere. Verso la fine dell’anno ebbi la notizia che il Concorso di matematica e fisi-ca fra studenti di tutta Italia promosso da “La Scienza per i Giovani” era stato vinto da me: Primo premio! Esso consisteva nella prestigiosa macchina da scri-vere Olivetti Lettera 22. Ricevetti la lettera di congratulazioni da Adriano Olivet-ti! La Direzione, nella persona di Roberto Giannarelli, della “Scienza per i Gio-vani”, nel congratularsi con me, mi invitò a scrivere sulla rivista un articolo. Io avevo, come già accennato, molti lavori di matematica, modesti, ma che a me sembravano molto importanti. Ne mandai uno che mi fu pubblicato subito dopo. Fu la mia prima pubblicazione: quasi settanta anni fa!

Continuai ad abbonarmi a “La Scienza per i Giovani” anche gli anni seguenti tanto da avere tutti i numeri che ho fatto rilegare e conservo nella mia Bibliote-ca. Quanto mi sarebbe piaciuto essere l’editore di una rivista di matematica per i giovani, chissà se questo sogno si sarebbe realizzato, l’avrei chiamata “Eucli-de.Giornale di matematica per i giovani”.

La storia della mia travagliata giovinezza finisce qui. Ma da qui inizia per fortuna una vita di grandi soddisfazioni che hanno ripagato le sofferenze, i sacrifici, le

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umiliazioni degli anni precedenti. Forse per consolarmi mi dedicavo alla ricerca matematica che è sempre stata la mia passione, anche in campi che non cono-scevo e raccolsi così tanti risultati di matematica nuovi ed interessanti che ov-viamente non pubblicai subito in quanto non sapevo a chi rivolgermi per tenta-re la pubblicazione. Non farò qui l’elenco di tutte le ricerche fatte, ma in segui-to ebbi la soddisfazione che queste ricerche, scritte da un liceale spesso respin-to furono qualche anno dopo pubblicate su riviste importanti, quali “Il Bolletti-no dell’Unione Matematica Italiana”, “Il Periodico di Matematiche”, “Il Giornale di matematiche del Battaglini”. Fu proprio un lavoro pubblicato su quest’ultimo nel 1962 che trovai citato, prima in un’importante lavoro del matematico Gian-Carlo Rota del 1972 e poi, per me grandissimo onore, citato nel testo di un clas-sico articolo di Donald Knuth, Professore Emerito dell’Arte della Programma-zione e nella Bibliografia mi trovo in compagnia, fra gli altri, dei grandi Cauchy, Fourier, Hardy, Kronecker, Mobius, Tricomi e Weierstrass.

Di questo lavoro si interessò anche la European Research Associates di Bruxel-les che ne chiese una copia alla casa Editrice Pellerano del Gaudio.

Perché ho raccontato questa storia? Certamente per fare conoscere soprattut-to ai più giovani in che modo noi della nostra età abbiamo trascorso gli anni della giovinezza, per fortuna non tutti, e poi, soprattutto, per insegnare che nella vita bisogna lottare, stringere i denti e andare avanti. Alla fine i risultati verranno, non bisogna mai disperare.

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