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3a A e 3a B Razionalizzazione_ Max Weber

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Academic year: 2021

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Razionalizzazione e disincantamento del mondo

di Max Weber L’autore Max Weber (1864-1920) è stato

un sociologo e filosofo tedesco. Dopo al-cune iniziali ricerche sul problema della divisione del lavoro, i suoi studi si sono presto orientati verso i problemi e le me-todologie delle scienze sociali.

L’opera La scienza come professione na-sce come trascrizione di una conferen-za tenuta nel 1917 all’Università di Mo-naco. Weber si interroga intorno al sen-so che nel mondo contemporaneo può

avere dedicarsi alla conoscenza e alla ri-cerca scientifica.

Il brano Nel brano che presentiamo, We-ber si concentra sul rapporto tra cono-scenza e razionalizzazione. Razionalizza-zione – secondo il sociologo tedesco – non significa conoscenza. Anzi, spesso vi-vere in un mondo razionalizzato significa vivere in un mondo di cui non conoscia-mo il funzionamento. Ma proprio perché siamo convinti della sua intrinseca

razio-nalità, possiamo affidarci a esso pur sen-za comprenderlo, sensen-za temere l’azione imprevedibile di entità soprannaturali. L’effetto di secolarizzazione del proces-so di razionalizzazione della vita moder-na è chiamato da Weber disincantamen-to, poiché corrisponde a una sorta di “ma-turazione” dell’essere umano, che cessa di percepire la realtà intorno a lui come un mondo magico e “incantato”.

Razionalizzazione e conoscenza

Anzitutto va chiarito il significato concreto della razionalizzazione intellettualistica che avviene per mezzo della scienza e della tecnica guidata dalla scienza. Forse si tratta del fatto che noi oggi – per esempio chiun-que sieda ora in chiun-questa sala – abbiamo una conoscenza migliore delle condizioni in cui si svolge la nostra vita di quanta non ne abbiano un indiano o un ottentotto1? Dif-ficile. Mentre viaggiamo in tram non abbiamo la minima idea di come esso faccia a muoversi, a meno che non sia-mo dei fisici. Ma neppure abbiasia-mo bisogno di saperlo. Ci basta poter “fare assegnamento” sul comportamento della vettura e adeguarvi il nostro, mentre nulla sappiamo di come si costruisca un tram capace di muoversi. Il selvag-gio conosce i suoi strumenti in maniera incomparabil-mente migliore di noi. Quando oggi spendiamo del dena-ro, scommetto che perfino gli eventuali colleghi di econo-mia politica presenti in sala avranno pronta ciascuno una risposta diversa alla domanda su come è possibile che per mezzo del denaro si possa comprare qualcosa – a volte tanto, a volte poco. Invece il selvaggio sa benissimo come procurarsi il cibo quotidiano, e quali istituzioni gli serva-no. Dunque la crescente intellettualizzazione e razionaliz-zazione non significa una crescente conoscenza generale delle condizioni di vita a cui si è soggetti, ma qualcosa di molto diverso: la consapevolezza, o la fede, che se solo lo si volesse, si potrebbe sempre giungere a conoscenza, ossia che in linea di principio non sono in gioco forze misterio-se e irrazionali, ma al contrario che tutte le comisterio-se possono – in linea di principio – essere dominate dalla ragione. Ciò non è altro che il disincantamento del mondo. Non è più necessario, come faceva il selvaggio (per il quale quel-le forze esistevano), ricorrere agli strumenti della magia per dominare o ingraziarsi gli spiriti. A ciò sopperiscono la ragione e i mezzi tecnici. Questo è il significato primario dell’intellettualizzazione in quanto tale.

Disincantamento e senso della morte

Ma questo processo di disincan-tamento che nella cultura occi-dentale è in corso ormai da

mil-lenni, e in generale questo “progresso” di cui fa parte an-che la scienza sia come elemento, sia come forza motrice, ha forse un senso che oltrepassi la dimensione meramen-te pratica e meramen-tecnica? La formulazione più radicale di que-sta domanda la si trova nelle opere di Lev Tolstoj2. Egli vi giunse per una sua via molto particolare. Tutte le sue ri-flessioni ruotavano sempre più intorno alla domanda se la morte abbia o non abbia un senso. La sua riposta fu: per l’uomo acculturato non lo ha. E non lo ha perché, per il suo stesso senso immanente, la vita individuale civiliz-zata inserita nel “progresso”, nell’infinito, non dovrebbe avere mai fine. C’è sempre un altro progresso da compie-re. Nessuno che muore è giunto all’apice della parabola, perché l’apice è posto all’infinito. Abramo, come qualsia-si contadino dei tempi antichi, poteva morire «vecchio e sazio di giorni3» perché apparteneva al ciclo della vita or-ganica, perché anche in relazione al proprio senso la vita gli aveva ormai dato, sul finire dei suoi giorni, quanto poteva offrirgli, perché non rimaneva più alcun mistero che egli desiderasse risolvere. Perciò per lui era possibile averne abbastanza. Invece l’uomo acculturato inserito nel processo di arricchimento della civiltà in idee, in sapere e in problemi potrà anche divenire “stanco” della vita, mai però “sazio”, perché di ciò che la vita dello spirito conti-nuamente genera egli coglie sempre solo la minima parte e sempre solo qualcosa di provvisorio, nulla di definitivo. Per questo la morte è per lui un’entità priva di senso.

(M. Weber, La scienza come professione, Bompiani, Milano 2008)

1. Nome gergale per il gruppo etnico dei Khoi, abitanti dell’Africa

sudoc-cidentale. Nel Novecento era usato come sinonimo di uomo primitivo.

2. Il famoso romanziere russo (1828-1910). 3. Così si esprime la Bibbia a

proposito della morte di Abramo.

Commento Weber si interroga intorno al significato della razionalizzazione intellettualistica, che si è verificata per mezzo della scienza e della tecnica in età moderna. Più esattamente il sociologo si chiede se la raziona-lizzazione delle condizioni di vita abbia portato a una loro mag-giore conoscenza. Ovvero: per il fatto che la situazione

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mate-riale in cui si svolge la nostra vita è stata interamente raziona-lizzata, possiamo dire di conoscerne meglio le caratteristiche? La risposta di Weber è negativa. Infatti, fatta eccezione per al-cune ristrette categorie di persone, nessuno di noi può dire di conoscere il funzionamento degli strumenti che usa quotidia-namente, per esempio i mezzi di locomozione (nel testo si fa l’esempio del tram). Ne facciamo uso regolarmente, sappiamo come ci dobbiamo rapportare nei loro confronti, ma non ne conosciamo quasi mai il funzionamento. Un selvaggio ha una conoscenza maggiore rispetto alla nostra degli strumenti che utilizza. Ma – si chiede Weber – se la crescente razionalizzazio-ne delle nostre condizioni di vita non ha comportato una mag-giore conoscenza, quale è stato il suo effetto sulle nostre vite? Weber risponde che è stato il disincantamento del mondo. È vero che noi non conosciamo le cose che ci circondano, tutta-via abbiamo la consapevolezza (o quantomeno la fede) che vo-lendo potremmo conoscerle. Sappiamo che quello che abbia-mo davanti non funziona grazie all’azione di forze misteriose, ma secondo leggi precise, che si possono conoscere razional-mente. Essere disincantati, in questo senso, significa non la-sciarsi incantare dal mondo circostante nella certezza di poter-lo dominare attraverso la ragione.

Q

ualche domanda

➜ Che cosa intende Weber per “disincantamento del

mondo”?

Che cosa comporta il processo di disincantamento sul

piano della conoscenza?

➜ Può il processo di disincanta mento avere un senso che

vada al di là della dimensione pratica e tecnica?

Nella seconda parte del brano, Weber pone un’altra domanda. Il processo di disincantamento ha un senso che vada al di là della dimensione pratica e tecnica? L’uomo disincantato, per esem-pio, è in grado di dare un senso alla morte? Seguendo lo scrit-tore Lev Tolstoj, anche questa volta Weber dà una risposta ne-gativa. Infatti, mentre l’uomo dei tempi antichi poteva sentirsi sazio della vita e percepire la morte come il termine di un per-corso compiuto, per l’uomo acculturato c’è sempre un nuovo progresso da compiere. Per lui, di conseguenza, la morte non può avere alcun senso.

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