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L'evoluzione del paradigma urbano e l'attualità dell'insegnamento di Le Corbusier

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Academic year: 2021

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L’evoluzione del paradigma urbano e l'attualità dell'insegnamento di Le Corbusier Michele Talia

Il grumo di riflessioni sulla città moderna che è contenuto nelle opere di Le Corbusier offre una pluralità di spunti a chi oggi si propone di riprendere il percorso di ricerca che è stato intrapreso dal grande architetto nel secondo dopoguerra, ma che pochi anni dopo la sua scomparsa è stato progressivamente abbandonato.

In particolare l’evoluzione del contributo di Le Corbusier alla cultura urbanistica trae origine dalla proposta della Ville Radieuse del 1935, per culminare poi nella svolta maturata a partire dalla metà degli anni Quaranta con la pubblicazione di Manièr de penser l’urbanisme (1946-1963).

Nell’arco temporale delimitato da queste poche date matura la svolta teorica che ha portato il pensiero di Le Corbusier a spingersi oltre la semplice prefigurazione di un modello di città isolata, nel quale si tentava di perseguire un rapporto equilibrato tra uomo e natura, fino a concepire un differente paradigma, nel quale la città tende invece a superare i suoi limiti spaziali e a dissolversi nel territorio.

Nei suoi ultimi anni l’architetto urbanista proietta dunque la sua ricerca fino a intuire la dissoluzione della città contemporanea che verrà pienamente alla luce solo alcuni decenni dopo, quando la metropoli universale e la città invisibile e ubiquitaria sembreranno costituire il destino ultimo della forma urbana nel Paesi a economia matura.

Un lascito che è ancora da interpretare

Discutere dell’eredità di un progettista e di un intellettuale che ha offerto un contributo eccezionale al Movimento Moderno e all’architettura del XX secolo può apparire velleitario, soprattutto se a farlo è qualcuno che intende affrontare un tema così complesso e dibattuto limitandosi a mettere in luce alcuni aspetti apparentemente marginali della sua produzione. Eppure una rilettura, a oltre cinquant’anni di distanza dalla pubblicazione della seconda edizione di Manière de penser l’urbanisme, dimostra con chiarezza che l’opera più importante di Le Corbusier urbanista è ancora in grado di trasmettere un insegnamento di estrema attualità, che risiede nella scoperta del modello insediativo come principio ordinatore dello spazio alla scala territoriale. La sua riflessione sul “tipo” e sul “modello” - e l’individuazione del contributo che entrambi possono dare alla costruzione di un’idea di futuro - ha dimostrato da tempo la possibilità di utilizzare questi costrutti concettuali non tanto per descrivere la situazione esistente, o per assoggettare le trasformazioni programmate ad un quadro normativo più o meno cogente, ma piuttosto per esplorare le prospettive di superamento di formazioni territoriali di cui era ormai evidente l’incapacità di ospitare adeguatamente l’esprit noveau della modernità.

Se privilegiamo questa linea di ricerca, possiamo sperare di inquadrarla correttamente se solo proviamo a concentrarci sull’evoluzione del pensiero di Le Corbusier che è avvenuta soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta, quando la sua riflessione in campo urbanistico sembra aver raggiunto una piena maturazione. A differenza del periodo

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precedente, che si era caratterizzato per l’estremo dinamismo e per la vocazione a indagare in più direzioni, talvolta contraddittorie – come ci ricorda Caludio Saragosa, quando afferma che “in Le Corbusier c’è tutto e, forse, il contrario di tutto” (2011, pag. 225) – questa fase di assestamento ruota intorno ad una elaborazione teorica e progettuale che denuncia una marcata tendenza alla frammentazione dei temi di interesse, e che si manifesta tanto alla scala dei tessuti edilizi quanto a quella territoriale, a dimostrazione che per l’Autore la città ha ormai perso la sua “misura” e che non è più leggibile dall’esterno con uno sguardo d’insieme (Gerosa, 2002, pag. 75).

Di nuovo la lettura di Maniera di pensare l’urbanistica può rivelarsi molto istruttiva, soprattutto se analizziamo in successione l’edizione del 1946 e la riedizione del 1963. A distanza di quasi un ventennio, il percorso intellettuale di Le Corbusier tradisce infatti un’autentica frattura, che consente di giustapporre una primitiva argomentazione, secondo la quale “la città era un corpo architettonico, che si opponeva con la sua forma compiuta alla campagna” (id., pag. 80), ad una successiva riflessione, in cui invece si evidenzia un brusco passaggio dalla lettura della città “isolata” alla enucleazione del concetto di spazio antropizzato, denso di contraddizioni e conflitti che solo una nuova cultura progettuale è in grado di sanare.

Avendo preso atto che la città ha ormai rinunciato alla propria identità formale, l’autore rivolge la sua attenzione ai frammenti, e cioè ai tessuti edilizi (o unità paesaggistiche) discontinui, che acquistano un rilievo crescente nella riflessione effettuata negli anni della maturità. Sia detto per inciso che questa progressiva perdita di centralità dell’organismo urbano complessivamente inteso è stato più volte evidenziata dagli interpreti del pensiero corbuseriano nei termini di un’inevitabile conseguenza delle premesse teoriche del modello progressista, che privilegiando l’individuo-tipo alla comunità-tipo aveva finito per indirizzare la ricerca verso i temi che ruotavano intorno all’habitat umano (Choay, 1973, pag. 37). Ma molto più probabilmente l’attenzione per la piccola scala e per la sfera più direttamente associata allo sviluppo dell’individuo trova conferma nella parabola disegnata dalla biografia di un pensatore e architetto al tempo stesso pragmatico e visionario, che di fronte alle delusioni maturate sul fronte delle grandi visioni rifondatrici, può aver ripiegato verso obiettivi più realistici e controllabili con gli strumenti dell’urbanistica.

Qualunque sia l’origine di questo slittamento concettuale, la forte carica anticipatrice del suo contributo teorico ci porta a riconoscere il debito maturato dagli studiosi dei nuovi paradigmi insediativi nei confronti di chi, nel presentare la ristampa di Manière de penser l’urbanisme, già sosteneva: “la città concentrico-radiale industriale ha fatto fallimento. Essa tormenta i suoi abitanti con la frenetica circolazione meccanica che impone quotidianamente, e col caotico groviglio di luoghi di lavoro e luoghi d’abitazione....Ogni cosa viene rettificata, coordinata, migliorata ogni giorno, ma tutto a spese dell’uomo e per la sua infelicità. Le condizioni di natura sono state abolite” (pagg. 6-7).

Il progetto della “città futura”

La critica della città industriale, che non diversamente dal brano appena richiamato si tinge sovente di accenti apocalittici, costituisce il riferimento in negativo della proposta radicale messa a punto da Le Corbusier per l’urbanistica della modernità. Nel passare in rassegna i contenuti più visionari del progetto della Ville Radieuse molti autori ne hanno sottolineato

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l’ispirazione utopica, giungendo ad enfatizzarne la matrice ideologica, ma a differenza di altri architetti e urbanisti della sua generazione, che hanno contaminato i propri modelli urbani (“paradigmi”) con sistematiche incursioni nel pensiero utopico di ogni tempo (da Tommaso Moro a Karl Mannheim, e da Marx a Ebenezer Howard), è sul tavolo da disegno che Le Corbusier “compone” la sua città futura (Choay, 1973, pag. 34).

Coerentemente con questa visione dei compiti che la società sembrerebbe avergli assegnato, l’urbanista dimostra di aver rinunciato al sostegno esercitato dalle grandi rappresentazioni, per assumere ruoli più direttamente operativi, che nella misura in cui si riflettono in una depoliticizzazione della disciplina implicano al tempo stesso un coinvolgimento più diretto nel processo di modernizzazione del sistema socio-economico e del territorio che si stava affermando nei primi decenni del ventesimo secolo (idem, pag. 27).

Ma questa scelta di campo, se ha contribuito ad accentuare l’efficacia e la capacità di penetrazione delle proposte di Le Corbusier, non ha certamente impedito che le formulazioni veicolate tanto dai suoi scritti e progetti, quanto dal suo instancabile attivismo nei Ciam (congressi internazionali di architettura moderna) e nelle altre sedi di dibattito internazionale, acquisissero una carica utopica affatto peculiare, che era legata alla espressione di una coscienza etica che era al tempo stesso critica e progettuale. Com’è stato evidenziato di recente da un filosofo della storia, questa associazione tra approcci pragmatici e tentazioni utopiche costituisce un tratto ricorrente di molte grandi figure del Novecento, tanto da avvalorare l’affermazione secondo la quale “un futuro che non susciti l’attesa e la speranza finisce con il rivelarsi privo di senso perché, come aveva notato anche Heidegger, priva l’uomo di una delle sue funzioni fondamentali, che è quella di progettare” (Quarta, 2015, pag. 12). Impiegando i classici concetti del “tipo” e del “modello” nel progetto della città progressista, Le Corbusier disegna nuovi scenari urbani che le formazioni urbane dell’Occidente adotteranno in misura assai limitata, ma che assumono al contrario un valore emblematico ora che gli effettivi processi di urbanizzazione hanno ulteriormente enfatizzato quei cambiamenti che egli aveva stigmatizzato nelle sue opere più tarde. Lungo la stretta linea di crinale che separa la tendenza alla metropolizzazione dall’impulso alla polverizzazione della trama insediativa la riflessione compiuta da Le Corbusier sembra subire un’improvvisa accelerazione; non solo l’aspirazione a un ordine superiore di razionalità che l’aveva portato ad affermare che “la cultura è uno stato d’animo ortogonale” (Le Corbusier, 1923, pag. 35), ma anche le soluzioni spaziali prefigurate in Manière de penser l’urbanisme per pianificare le trasformazioni indotte da processi di agglomerazione sempre più intensi si caricano quasi improvvisamente di un rinnovato valore allegorico, tale da imporsi nell’immaginario collettivo degli abitanti di conurbazioni sempre più estese. Se dunque la condizione di partenza per una rinuncia al futuro era costituita in molti casi dalla convinzione di vivere “nel migliore dei mondi possibili”, le paure suscitate da un progresso economico sempre meno rispettoso dei bisogni fondamentali dell’uomo e dell’ambiente determinano un improvviso risveglio, e diffondono la consapevolezza che è venuto finalmente il momento di riprendere la marcia (Talia, 2015a, pag. 161).

Nel proiettare la sua ricerca ben oltre l’ideologia macchinista postulata dalla rivoluzione industriale, Le Corbusier sembra quasi aver previsto quella dissoluzione della città contemporanea che si manifesterà pienamente solo dopo alcuni decenni, arrivando a sostenere che “la moderna città industriale concentrico-radiale è un cancro che prospera a dovere” (Le Corbusier, 1965, pag. 7). Ora che la metropoli universale e la città invisibile e

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ubiquitaria sembrano costituire il destino ultimo della forma urbana dei Paesi a economia matura, è dunque possibile tornare a queste elaborazioni della metà del secolo scorso, che possono aprire il campo a una riflessione sul futuro finalmente in grado di costituire un prezioso antidoto nei confronti degli atteggiamenti rinunciatari che hanno dominato a lungo la scena. Ne può derivare un controllo delle dimensioni spaziali e temporali più incline al cambiamento, e una rinnovata attitudine ad affidare alle “utopie realizzabili” così care a Jona Friedman la missione di avvistare quelle possibilità politiche ed empiriche che negli anni del prolungato appiattimento sul presente sembravano non più praticabili (Talia, 2015b).

La dissoluzione della forma urbana e la battaglia per la disponibilità dei suoli

Avendo rinunciato all’obiettivo di preservare l’identità formale delle città, Le Corbusier tende dunque a concentrarsi sugli aspetti morfologici e progettuali del mestiere dell’architetto, con la conseguenza inevitabile di smarrire almeno in parte la sua carica visionaria e innovatrice. Nel concepire la città come un assemblaggio incoerente di oggetti architettonici la forma urbana sembra scomparire, mentre le sue opere cominciano ad ospitare un’estesa rassegna di schizzi e progetti nei quali l’attenzione per gli elementi percettivi ed estetici è ormai divenuta prevalente (Gerosa, 2002, pag. 82-83).

In questo ripiegamento sul “particolare” è possibile cogliere un’ulteriore proiezione della crisi delle discipline del progetto che ha attraversato in modo discontinuo, ma prepotente, il lungo periodo che ha fatto seguito alla diffusione territoriale della manifattura, e che si è accentuata a partire dalla fine degli anni Trenta del secolo scorso. Secondo Bernardo Secchi, all’origine di un declino così prolungato vi è l’incapacità di comprendere a pieno gli effetti traumatici prodotti dalla transizione da una forma degli insediamenti che traeva ispirazione dalla tradizione della modernità ad un’idea di città contemporanea (Secchi, 2000, pag. 73), ma almeno per quanto riguarda Le Corbusier si avverte nei suoi scritti la consapevolezza che alla disgregazione dei tradizionali equilibri insediativi corrisponda non già la fine di una civiltà urbana, ma piuttosto l’inizio di una nuova.

Ne consegue pertanto che la sua riflessione, nella misura in cui sviluppa una critica radicale della città del Novecento, si rivela pienamente attuale ora che una nuova utopia, che potremmo definire “temperata”, sembra fondarsi sul rifiuto, o perlomeno sul superamento della città contemporanea. In questa prospettiva l’affermazione che l’individuo impegnato nella riscoperta di un rapporto equilibrato con l’ambiente è affatto diverso dall’uomo “profondamente modificato dal secolare artificio della civiltà e ... terribilmente snervato da cent’anni di macchinismo” (Le Corbusier, 1965, pag. 40) acquista un nuovo significato, e con essa la dichiarazione del 1933 ripresa da Francesco Tentori (“Prélude, themes préparatoires è l'action”): "Io sono architetto e urbanista: io faccio dei piani che, tenendo conto delle realtà attuali, esprimono il vero volto del giorno d'oggi. Tutti i miei critici, senza eccezione, parlano della mia Città futura! Io protesto invano; io affermo di ignorare tutto dell'avvenire, ma di conoscere solo il presente”.

Si deve a questo radicamento nel presente se la convinzione e l’energia con cui sostiene le sue battaglie non sembra venir meno anche quando la sua indiscussa leadership non è più in grado di garantirgli il successo. E non si tratta solamente delle ripetute accuse di utopismo che sono adombrate nella citazione precedente; ben più rilevante appare il conflitto che ruotava intorno ad alcune proposte più realizzabili, quale ad esempio l’appello a rimuovere gli ostacoli

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che si frapponevano alla disponibilità dei suoli urbani in vista della attuazione delle scelte di piano e che Le Corbusier ha provato a diffondere in occasione del V Ciam di Parigi del 1937. Con riferimento a questa battaglia fondamentale per l’evoluzione del regime dei suoli è stato osservato che Le Corbusier appare disponibile, anche in questo caso, a mitigare l’impatto di una proposta potenzialmente devastante, pur di conseguire qualche risultato più limitato, ma concreto. Dopo aver sostenuto di essere pervenuto a conclusioni rivoluzionarie percorrendo una strada strettamente professionale, e aver affermato che a causa della snaturalizzazione della proprietà può accadere che “il lavoro grazie al quale funziona la libertà individuale, l'entusiasmo creativo, la fede civica e l'operosità collettiva, divengano tutti irrealizzabili” (Le Corbusier, 1935), egli prova a mettere da parte l’ipotesi estrema di una nazionalizzazione del suolo per aderire a un progetto di “liberazione e mobilitazione” delle aree urbane, in grado cioè di superare l’eccessiva parcellizzazione della proprietà dei suoli (Ischia, 2012, pag. 54) senza minarne in ultima analisi il fondamento. Sempre secondo Ugo Ischia si cerca in questo modo di portare a termine il processo di trasformazione del suolo in merce, superando l’eventuale deficit di fungibilità – che può derivare ad esempio da problemi di accessibilità, o da squilibri presenti nel rapporto tra domanda e offerta di aree trasformabili – grazie ad un ricorso sistematico alla pianificazione.

Nonostante questo sforzo di mediazione, la proposta di Le Corbusier è tuttavia destinata a suscitare marcate contrapposizioni da parte di quanti avversavano le tesi dell’urbanistica progressista, con la conseguenza di determinare l’accantonamento di un’intuizione che avrebbe manifestato la sua fertilità solo molti anni dopo. Soprattutto in Italia, la difesa intransigente della proprietà dei suoli e della iniziativa individuale ha finito per rinviare ripetutamente le iniziative di riforma che avrebbero consentito di accogliere questa proposta, che solo recentemente ha trovato nello strumento della perequazione urbanistica un primo, parziale accoglimento.

Riferimenti bibliografici

- Francoise Choay, La città. Utopie e realtà, Einaudi, Torino, 1973.

- Pier Giorgio Gerosa, “Le Corbusier, Manière de penser l’urbanisme, 1946. La Khorapolis e i suoi costruttori”, in P. Di Biagi (a cura), I classici dell’urbanistica moderna, Donzelli, Roma, 2002.

- Ugo Ischia, La città giusta: idee di piano e atteggiamenti etici, Donzelli, Roma, 2012. - Le Corbusier, Urbanisme, Crès, Parigi, 1923.

- Le Corbusier, La Ville Radieuse, Editions de l'Architecture d'Aujourd'hui, Boulogne, 1935. - Le Corbusier, Maniera di pensare l’urbanistica, Laterza, Bari, 1965 (prima edizione

italiana).

- Cosimo Quarta, Homo utopicus. La dimensione storico-antropologica dell’utopia, Dedalo, Bari, 2015.

- Claudio Saragosa, Città tra passato e futuro, Donzelli, Roma, 2011. - Bernardo Secchi, Prima lezione di urbanistica, Laterza, Bari, 2000.

- Michele Talia, “I limiti della crescita urbana e il rischio di rinunciare al futuro”, in F.D. Moccia e M. Sepe (a cura), Una politica per le città italiane, INU Edizioni, Roma, 2015a. - Michele Talia, “Nuove mappe cognitive per interpretare il cambiamento”, Quaderni PDT, n.

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