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Ripensare l’imperialismo e l’antimperialismo nello spazio tardo ottomano (1870-1924). Una riflessione preliminare

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afriche

orienti

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www.comune.bologna.it/iperbole/africheorienti r i v i s t a d i s t u d i a i c o n f i n i t r a a f r i c a m e d i t e r r a n e o e m e d i o o r i e n t e

Imperialismo

e antimperialismo

nello spazio ottomano

(1856-1924)

Pubblicazione quadrimestrale numero 2 / 2019

a cura di

Fulvio Bertuccelli e Nicola Melis

anno XXI numero 2 / 2019

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DOSSIER

Ripensare l’imperialismo e

l’antimperialismo nello spazio

tardo ottomano (1870-1924).

Una riflessione preliminare

Nicola Melis e Fulvio Bertuccelli

A metà del ’700 la scena politica internazionale era caratterizzata da almeno tre macro-ordini regionali, l’Asia orientale, il mondo islamico e la regione europeo-cristiana (Aydın 2019), e da diversi sistemi di rete intercontinentali strettamente interconnessi sul piano diplomatico, commerciale, normativo e conflittuale (Subrahmanyam 2019). Ognuna di queste aree geo-culturali presentava al suo interno diversi regni e imperi in cui l’ordine politico e le relazioni internazionali non erano regolati da princìpi immutabili e fissi, ma si basavano su una certa vivacità degli scambi e delle interazioni. Niente preludeva a quella trasformazione politica del mondo che avrebbe creato, nel giro di un secolo, un nuovo ordine mondiale imperiale eurocentrico altamente integrato, a seguito della spinta determinata dal processo di industrializzazione europeo (Gelvin, Green 2014; Lafi 2014; Osterhammel 2014; Nicolini 2012; Washburn, Reinhart 2007).

Il ruolo dell’Europa nel resto del mondo era andato mutando per tutto il corso del XIX secolo. Dopo una iniziale penetrazione nelle reti commerciali, con l’acquisizione di privilegi amministrativi e mercantili, la supremazia europea iniziò a manifestarsi

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gradualmente sul piano della produzione e quindi in termini di capacità economiche, militari e politiche. Quando le potenze europee cominciarono la loro opera di ingerenza e di invasione del mondo extra europeo, lo Stato ottomano fu tra i sistemi imperiali dell’epoca che ne risentirono maggiormente. Stiamo parlando di un Impero che aveva esercitato per secoli la sovranità su un vastissimo territorio comprendente i Balcani, l’Anatolia, il Vicino Oriente, buona parte del Nordafrica e tratti di Africa subsahariana, sahariana e il Mar Rosso, garantendo per lungo tempo la sicurezza dei flussi di persone, merci e saperi su network transnazionali consolidati. La nuova influenza mercantile britannica sulle rotte oceaniche, e i tentativi francesi di controbilanciarla, provocò una crisi dei circuiti ottomani. Inoltre, la sconfitta subita dagli ottomani per mano russa del 1774 segnò l’inizio della progressiva riduzione territoriale risultata nella dolorosa rottura con il khanato di Crimea e la sua popolazione musulmana, finiti nella sfera geopolitica della Russia di Caterina la Grande (1762-96). L’erosione territoriale ottomana proseguì con la perdita della Grecia (1827), resasi indipendente, e dell’Algeria (1830) che fu occupata dai francesi.

Sono questi gli anni in cui i vertici ottomani, sotto l’impulso delle riforme di Mahmud II prima, e poi con la fase del processo riformistico noto con il nome di “periodo delle

tanzimat” (1839-1876), si adoperavano per ammodernare e rafforzare il potere centrale

dello Stato. Andava così a delinearsi un nuovo reciproco rapporto tra l’Impero e le sue diramazioni territoriali in Europa, Africa e Asia. In tempi recenti, l’idea storiograficamente prevalente di un Impero ottomano ottocentesco debole e ridotto ormai a ombra di sé stesso è diventata oggetto di una rivalutazione critica che ha rimesso in discussione la sostanziale passività ottomana nella contesa imperialista dell’epoca (Blumi 2016; Minawi 2017; Reinkowski 2014; Deringil 1993). Infatti, nonostante tutte le evidenti criticità di cui la dirigenza era ben conscia, l’Impero fu in grado in diverse occasioni di farsi valere sul campo internazionale (Reinhart 2007; Deringil 1998), grazie all’approccio riformistico di lungo periodo che coinvolse la diplomazia, l’amministrazione e l’apparato militare. Le élite ottomane dei Balcani, d’Asia e d’Africa cercarono in tutti i modi di reagire all’imperialismo europeo attraverso un processo di modernizzazione che partendo dalla capitale a fine ’700, si propagò negli anni seguenti in Egitto (Toledano 1985) e nelle altre regioni dell’Impero (Anderson 1984; Brown 1974).

In questo quadro, nel XIX secolo la dirigenza ottomana riteneva che l’Impero potesse e dovesse svolgere una funzione equilibratrice nel proprio ambito territoriale al fine di regolare i rapporti tra i tanti popoli e le diverse etnie che lo costituivano, garantendone le singole caratteristiche. La diversità non poteva e non doveva essere contrapposta al sistema valoriale imperiale che presupponeva ed esprimeva un’unità spirituale plurisecolare (Philliou 2011). Tuttavia, nell’ambito del modello di statualità ottomano iniziarono a emergere accese rivalità tra l’autorità centrale del sultano e le massime autorità regionali.

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di Crimea (1853-1856) e il proseguimento del percorso riformista delle tanzimat sembrarono porsi come validi tentativi per modernizzare l’Impero al cospetto delle potenze europee. Ben presto, tuttavia, la governance ottomana e gli obiettivi strategici dello Stato si trovarono a dover competere con la nuova fase dell’espansionismo imperialista in senso coloniale, con gli stati europei che si ersero sempre più a protettori delle comunità cristiane dell’Impero sostenendone le ambizioni di autonomia e indipendenza politica.

Nel periodo successivo al 1870 fino al 1914 gli equilibri di potere in Europa e il tradizionale Balance of Powers tra britannici e russi, che aveva regolato l’ingerenza diretta negli affari interni dell’Impero, cominciò a vacillare fino a estinguersi. In particolare, fu successivamente all’inaugurazione del canale di Suez (1869) che il mondo islamico, in generale, ma soprattutto l’Impero ottomano con le sue propaggini arabe e africane, divennero un’ambita preda dell’imperialismo, fautore di un’ideologia civilizzatrice eurocentrica. Nelle parole di Reinhard Schulze: «Il mondo islamico fu declassato a “cultura arretrata”, a “cultura che ignora la meccanica”» (Schulze 2004: 29).

L’insistenza sullo iato incolmabile tra Islam e modernità conduce a uno dei concetti centrali di questo dossier, ossia l’idea di “mondo musulmano” e dell’operazione di razzializzazione a esso sottesa che ha ricevuto recentemente una efficace formulazione da parte di Cemil Aydın: «L’idea di mondo musulmano è inscindibile dall’asserzione che i musulmani costituiscono una razza. […] La rappresentazione dei musulmani come razzialmente diversi – un’operazione che faceva ricorso sia all’etnicità “semitica” sia alla differenza religiosa – nonché inferiori, mirava a neutralizzare e a negare le loro richieste di diritti all’interno degli imperi europei. Gli intellettuali musulmani non potevano respingere gli assunti di differenze irriducibili, tuttavia ribattevano che essi erano uguali ai cristiani, meritevoli di diritti e di un trattamento equo. […] Gli assunti razziali consentirono inoltre di formulare le successive rivendicazioni subalterne nazionaliste di diritti attraverso il discorso della solidarietà musulmana e di un perenne conflitto tra Islam e Occidente […]» (Aydın 2018: XI).

Le reazioni da parte degli intellettuali ottomani furono estremamente diversificate ma, su un piano generale, essi non si sforzarono tanto di confutare l’intera impalcatura concettuale della razzializzazione (Murji, Solomos 2005), quanto piuttosto di contestare il ruolo di inferiorità a cui erano relegati gli ottomani (Provence 2017). Nello stesso tempo l’idea di mondo musulmano, con l’assimilazione di tutti i musulmani a un’unica identità, iniziò a essere percepita, seppur in modo palesemente contraddittorio, come una risorsa strategica nel quadro della competizione globale.

All’epoca del lungo regno del sultano-califfo Abdülhamid II (1876-1908) la classe dirigente ottomana si sforzò di collocare l’Impero nell’ambito del mutevole ordine internazionale e di affermare la propria legittimità e sovranità. L’azione dei vertici ottomani non interessò soltanto gli scenari più prossimi come il Mediterraneo e i

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Balcani ma anche zone “periferiche” come l’Africa subsahariana (Tandoğan 2015), il Corno d’Africa (Kavas 2001) e lo Yemen (Kuehn 2011). Nondimeno, le contromisure all’espansionismo europeo seguirono linee d’azione molteplici e contraddittorie. Prima di questa nuova fase storica le strategie imperiali ottomane erano state svincolate da questioni di religione e di civiltà e vi era sempre stata una stretta collaborazione intellettuale tra élite con retroterra culturali molto diversificati. L’«universalismo imperiale [...] travalicava i marcatori dell’identità religiosa cristiana e musulmana» (Aydın 2018: 25). D’altronde, l’egemonia ottomana in realtà «periferiche» come quella africana si era fondata per secoli sul sistema delle autonomie delle principali città di porto, basata a sua volta su di una rete di relazioni con il mondo extra urbano che manteneva una forte autonomia e necessitava di una continua ricontrattazione dei rapporti di potere con le stesse autorità urbane (Lafi 2011). I centri urbani portuali, pertanto, avevano costituito il raccordo politico, amministrativo, commerciale ed economico in seno alla più ampia rete imperiale ottomana. Uno snodo che connetteva le realtà nomadi e comunitarie dell’interno alle reti mercantili ottomane del Mediterraneo e del Mar Rosso.

Pertanto, nel contesto della Conferenza di Berlino del 1884-85, lo Stato ottomano si presentò sullo scenario internazionale come un impero cosmopolita di dimensione globale alla pari della Gran Bretagna e tentò persino di legittimarsi come potenza coloniale a pieno titolo. La discriminazione dell’Impero andava contrastata su diversi piani; se quello militare non era più praticabile come nel glorioso passato, uno di questi era certamente di tipo giuridico. Per questo motivo il governo ottomano si dotò di un ufficio legale composto da esperti di Diritto internazionale: gli interessi dell’Impero sarebbero stati difesi utilizzando il sistema normativo esistente di matrice eurocentrica (Aral 2016; Genell 2016).

La pretesa di difendere la nozione di sovranità imperiale, tuttavia, si scontrò con l’ormai consolidato complesso di superiorità europeo che non considerava certamente lo Stato ottomano alla stregua delle entità politiche africane e asiatiche, ritenute palesemente inferiori, ma che non lo riteneva neppure degno di stare al livello delle nazioni cristiane civilizzate. In questo senso, la politica ottomana in Africa tentò di utilizzare gli strumenti giuridici delle grandi potenze per salvaguardare ed espandere la propria sovranità, senza tuttavia rinunciare a utilizzare il prestigio della carica “califfale” quale simbolo di resistenza del “mondo musulmano” di fronte ai colonizzatori “cristiani”. Al di là delle molteplici risposte all’imperialismo illustrate dalla storiografia tradizionale, è opportuno notare come questo fenomeno andò nella direzione di costruire un’identità collettiva fondata sull’Islam e sul sentimento di solidarietà tra popoli musulmani a livello globale. Prima della razzializzazione delle civilizzazioni, nessun sovrano ottomano si era mai impegnato a realizzare una solidarietà islamica su scala globale. Si può individuare qualche riferimento passato a tale solidarietà principalmente in quelle circostanze in cui la libertà religiosa delle comunità islamiche era stata messa in discussione da sovrani

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e Stati non islamici. Per dirla con Aydın, prima del processo di razzializzazione, è lecito parlare solo di «[s]contri tra imperi, non tra fedi e civilizzazioni rivali» (Aydın 2018: 18). È alla luce di questo mutamento di prospettiva che gli ultimi due decenni del periodo hamidiano videro un progressivo aumento della retorica panislamica tinta di anti-europeismo e anti-imperialismo, destinata a divenire onnipresente dopo la rivoluzione costituzionale del 1908 dei Giovani Turchi. In questo senso, l’anti-imperialismo fu un motivo destinato a rafforzarsi nel contesto della guerra italo-ottomana in Libia (1911-1912), delle Guerre Balcaniche (1912-1913), della Grande guerra e delle resistenze che interessarono diversi territori precedentemente sottoposti alla sovranità ottomana e ora in balia degli occupanti europei. In questa prospettiva, fenomeni quali il movimento di resistenza anatolico (1919-1923), il Congresso Nazionale Siriano (1919-1920), la Repubblica tripolitana (1918-1920), la rivolta irachena (1920), insieme alle figure che più lasciarono un segno nel loro sviluppo, meritano di essere rilette criticamente. In altre parole, gli esempi citati lungi dall’essere pure manifestazioni di “coscienza nazionale”, seguendo i parametri teleologici delle storiografie nazionaliste, o rigide identità particolaristiche, come pretendeva di sostenere la vulgata imperialista, sono fenomeni che vanno compresi valutando il peso dell’eredità imperiale ottomana, dell’intreccio degli orientamenti ideologici e culturali che segnarono il crepuscolo dell’impero primi fra tutti l’ottomanismo, il panislamismo e il nazionalismo (Aydın 2018; Blumi 2016). Il dossier che proponiamo ovviamente non analizza in modo esaustivo l’ampio ventaglio di tematiche che emergono da questa riflessione preliminare. Il suo fine è piuttosto quello di concentrarsi su alcuni episodi che aiutano a problematizzare concetti quali impero, imperialismo e antimperialismo alla luce del fenomeno di razzializzazione dell’Impero ottomano. In questa prospettiva, abbiamo optato per un approccio interdisciplinare, con contributi di storia del diritto internazionale, storia economica, storia internazionale, turcologia e studi africani, che danno un’idea, per quanto parziale, delle diverse sfaccettature del lungo processo di disintegrazione dell’Impero e della genesi di alcuni movimenti antimperialisti al suo interno, alla luce dell’interazione tra agende politiche locali da parte di attori locali e competizione globale (Provence 2017). I due saggi che aprono il dossier si concentrano proprio sulle relazioni dell’Impero ottomano con le potenze europee indagandole secondo una prospettiva eurocentrica (Eliana Augusti) e ottomanocentrica (Nicola Melis). In particolare, il primo contributo riflette sulle contraddizioni insite nella percezione europea dell’Impero ottomano a margine del Trattato di Parigi del 1856, analizzando l’interazione tra il preteso universalismo del Diritto internazionale e la permanente nozione di “cristianità” che definisce i criteri di inclusione/esclusione dell’Impero ottomano, considerato dagli europei «il malato d’Europa». In senso speculare al precedente contributo, il secondo saggio cerca di proporre la visione ottomana della questione relativa al ruolo internazionale dell’Impero e si concentra, invece, sulle diverse strategie utilizzate dalla Porta durante la Conferenza di Berlino del 1884-85, fornendo una diversa

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interpretazione della politica africana dell’Impero ottomano, spesso considerata come essenzialmente marginale dalla letteratura sull’argomento. In particolare, si mette in evidenza la natura contraddittoria dell’azione politica ottomana in Africa sottolineando la perenne oscillazione tra Diritto internazionale e solidarietà islamica.

La dimensione finanziaria della penetrazione imperialista europea nell’Impero ottomano è l’oggetto d’analisi del saggio di Giampaolo Conte. In particolare, l’autore riflette su come la politica di indebitamento condotta al fine di finanziare le politiche di centralizzazione e modernizzazione abbia condotto ad accentuare il legame di dipendenza dell’Impero dalle potenze creditrici nel quadro dei rapporti centro-periferia dell’economia mondo nel periodo tardo imperiale (1838-1914). L’analisi mette in luce come l’incorporazione dell’Impero nell’economia mondiale abbia definito i contorni specifici nel contesto ottomano di una classe borghese con un maggior potere economico rispetto ai ceti legati al mercato locale generando squilibri sociali destinati ad avere ripercussioni nel lungo periodo.

L’eredità dell’immaginario imperiale e del panislamismo nei movimenti anti-coloniali sorti nei territori in diversa misura soggetti alla sovranità ottomana è il filo conduttore dei due saggi che concludono il dossier. Chiara Pagano propone una rilettura critica della figura di Sulaymān al-Barūnī, celebre leader della resistenza tripolitana al colonialismo italiano e deputato del parlamento ottomano. Attraverso una più generale ricostruzione del contesto in cui agirono i diversi movimenti coloniali nel territorio libico tra il 1912 e il 1918, l’autrice mette in evidenza il peso dell’ottomanismo e del panislamismo che si andarono a intrecciare con le rivendicazioni di autonomia amministrativa senza alcuna cesura del legame di lealtà nei confronti della Sublime Porta. In questo senso, il saggio suggerisce un ridimensionamento del ruolo del particolarismo berbero nel pensiero di al-Barūnī e più in generale del movimento anticoloniale tripolitano.

L’eclettismo dei movimenti antimperialisti all’indomani della Grande Guerra è il filo conduttore del saggio di Fulvio Bertuccelli che propone un’analisi del linguaggio politico di Mustafa Kemal Atatürk negli anni della guerra di liberazione (1919-1922) sino all’abolizione del califfato ottomano (1924). Utilizzando come fonti primarie i discorsi di Mustafa Kemal e attraverso una valutazione critica della storiografia nazionalista, Bertuccelli propone una contestualizzazione dell’arsenale retorico messo in campo dal leader del movimento di resistenza anatolico al fine di acquisire leggittimità in campo locale e internazionale. Il saggio ricostruisce il contesto che ha favorito l’efficacia di una retorica antimperialista estremamente duttile, capace di piegare alle esigenze contingenti elementi tratti da universi ideologici estremamente diversi come l’ottomanismo, il panislamismo, il nazionalismo e persino il bolscevismo.

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Riferimenti Bibliografici

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€ 13,00

ISSN 1592-6753

Numeri pubblicati

1/99 Esilî e memoria 2/99 I conflitti in Africa 3/99 La transizione in Sudafrica

4/99 Elezioni e transizioni politiche in Africa 1/00 Comunicazione, immagini, linguaggi 2/00 Processi di pace e conflitti in Sudan 3-4/00 Emigrare, immigrare, transmigrare

1/01 Informalità, illegalità e politiche pubbliche in Africa 2/01 Cultura popolare, sviluppo e democrazia 3-4/01 Sguardi antropologici sul turismo 1/02 La crisi in Afghanistan e Asia centrale 2/02 Migrazioni e xenofobia in Africa australe

3/02 Quale politica dell’Italia in Africa e nel Mediterraneo? 4/02 Idee di islam

Speciale 2003 USA-Iraq le ragioni di un conflitto

1/03 Culture coloniali e letterature dell’Africa sub-ahariana 2/03 La crisi in Zimbabwe

3-4/03 Economia e politiche dell’acqua Speciale 2004 Voci di donne nel cinema dell’Africa

e del Mediterraneo

1-2/04 Conflitto e transizione in Congo 3/04 Movimenti e conflitti sociali in Africa 4/2004 - 1/2005 Scritture dei conflitti

2/05 Ambiente e sviluppo sostenibile in Africa australe 3/05 Migranti africani in Italia: etnografie

4/05 Parole parlate. Comunicazione orale fra tradizione

e modernità

Speciale I 2006 Stato-nazione e movimenti nazionalisti

nell’Africa australe post-coloniale

Speciale II 2006 Occidente e Africa. Democrazia e

nazionalismo dalla prima alla seconda transizione

1-2/06 Sudan 1956-2006: cinquant’anni di indipendenza 3-4/06 Trasformazioni democratiche in Africa 1/07 Il ritorno della memoria coloniale

Speciale 2007 Terra e risorse naturali in Africa. Quali diritti? 2/07 Narrative di migrazione, diaspore ed esili 3-4/07 Fondamentalismi nell’Africa del XXI secolo 1/08 Mondo arabo. Cittadini e welfare sociale Speciale I 2008 Africa australe. Comunità rurali, sistemi di

autorità e politiche di decentramento

Speciale II 2008 Decentralising Power and Resource Control in

sub-Saharan Africa

2/08 La Cina in Africa

3-4/08 Donne e diritti sociali in Africa

1-2/09 Africa in Europa: strategie e forme associative Speciale II 2009 La povertà in Africa sub-sahariana: approcci e

politiche

3-4/09 La schiavitù dalle colonie degli imperi alle trasmigrazioni

postcoloniali

1/10 Il calcio in Sudafrica: identità, politica ed economia Speciale 2010 Controllare la natura.

Politiche di tutela ambientale in Africa sub-sahariana

2/10 Transnazionalismo dei saperi e ONG islamiche

nell’Africa occidentale

3-4/10 La crisi afghana e il contesto regionale 1-2/11 Unione Europea e Africa

Speciale I 2011 Sviluppo rurale e riduzione della povertà in Etiopia 3-4/11 Cittadinanza e politiche dell'appartenenza in Africa

sub-sahariana

Speciale II 2011 L’Africa sub-sahariana negli anni ‘70 1-2/12 Percorsi della democrazia in Africa

Speciale AIDS 2012 HIV/AIDS e comunità rurali in Africa australe:

sudditi o cittadini?

3-4/12 Giovani in Africa. Prospettive antropologiche 1-2/13 Linee di conflitto: il mondo arabo in trasformazione 3-4/13 Fronti della guerra fredda in Africa sub-sahariana 1-2/14 Partiti islamisti e relazioni internazionali in Nord Africa

e Medio Oriente

3/14 Il Rwanda a vent’anni dal genocidio

Speciale 2014 La questione della terra in Mozambico fra diritti

delle comunità e investimenti

Speciale 2015 Rural Development and Poverty Reduction in

Southern Africa: Experiences from Zambia and Malawi

1-2/15 Stato e società in Egitto e Tunisia: involuzioni ed evoluzioni 3/15 The New Harvest. Agrarian Policies and Rural

Transformation in Southern Africa

1/16 I movimenti delle donne in Nord Africa e Medio Oriente:

percorsi e generazioni "femministe" a confronto

2-3/16 Le pratiche dello Stato in Africa: spazi sociali e politici

contestati

1/17 Storie dell’Africa e fonti nell’era della “rivoluzione digitale” 2/17 Frontiere, confini e zone di frontiera nella regione MENA 3/17 International Solidarities and the Liberation of the

Portuguese Colonies

1-2/18 L'Africa tra vecchie e nuove potenze

3/18 Libya in Transition: Human Mobility, International Conflict

and State Building

1/19 Possibilità delle indipendenze in Africa

ISBN: 978-88-6086-184-9

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