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“Studio antropologico dei resti umani appartenenti alla Famiglia principesca degli Aragona Tagliavia di Castelvetrano: l’importanza delle ossa nell’analisi storica in contesto archeologico – funerario”

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DOTTORATO DI RICERCA IN

Bisanzio ed Eurasia ( sec. V – XVI)

Ciclo XXV

Settore Concorsuale di afferenza:05/B1 – zoologia e antropologia Settore Scientifico disciplinare:Bio/08 - Antropologia

TITOLO TESI

“Studio antropologico dei resti umani appartenenti alla Famiglia principesca

degli Aragona Tagliavia di Castelvetrano: l’importanza delle ossa nell’analisi

storica in contesto archeologico – funerario”

Presentata da: Simona Torre

Coordinatore Dottorato

Relatore

Antonio Rocco Carile

Alba Maria Orselli

(2)

INDICE

INTRODUZIONE

I QUADRO STORICO DELLA SICILIA NEGLI ANNI

VII - XIV

II CASTELVETRANO E LA FAMIGLIA PRINCIPESCA

DEGLI ARAGONA TAGLIAVIA

II. 1 Origine di Castelvetrano e della Famiglia Aragona

Tagliavia

II.2

Carlo

Aragona

Tagliavia

primo

Principe

di

Castelvetrano

III LA CHIESA SAN DOMENICO

III.1 La Chiesa San Domenico e i Domenicani a

Castelvetrano

III. 2 Architettura e scultura: i Ferraro da Giuliana

III. 3 Le Sepolture degli Aragona Tagliavia

(3)

IV lL SARCOFAGO DEGLI ARAGONA TAGLIAVIA

V STUDIO CRITICO DEL VESTIARIO

VI METODOLOGIE DI STUDIO E ARTICOLAZIONE DELLE

INDAGINI SUI RESTI DEI MEMBRI DELLA FAMIGLIA

ARAGONA TAGLIAVIA

VI. 1 Studio dei resti antropologici e metodologie di indagine

VI. 2 articolazione delle indagini sui resti dei membri della

famiglia aragona tagliavia

VII

APERTURA DELLA TOMBAE RICOGNIZIONE DEI RESTI

VII.1. Descrizione e documentazione fotografica della sepoltura

VII.2

.

Documentazione e descrizione dei resti umani

VII.3.Descrizione

e

documentazione

dello

stato

di

conservazione dei resti

VIII ANALISI ANTROPOLOGICHE DEI RESTI

(4)

VIII.2. Individuo n. 1

VIII.2.1. Determinazione del sesso

VIII.2.2. Stima dell’età alla morte

VIII.3. Individuo n. 2

VIII.3.1. Determinazione del sesso

VIII.3.2. Stima dell’età alla morte

VIII.4. Individuo n. 3

VIII.4.1. Determinazione del sesso

VIII.4.2. Stima dell’età alla morte

VIII.5. Resti erratici

VIII.5.1. Cranio

VIII.5.1.1. Determinazione del sesso

VIII.5.1.2. Stima dell’età alla morte

VIII.5.2 Omero sx

VIII.5.2.1 Determinazione del sesso

VIII.5.2.2. Stima dell’età alla morte

VIII 5.3 Tibia

VIII.5.3.1. Determinazione del sesso

VIII.6. Conclusioni

IX STUDIO DEL CORREDO E/O VESTIARIO

IX.1. Censimento del vestiario presente all’interno della

sepoltura

(5)

IX.2. Analisi del vestiario presente

(6)

INTRODUZIONE

“Se il sonno eterno appare come la conclusione di una esistenza vissuta vedremo, invece, come una sua più attenta valutazione consentirà la rinascita morale di chi, in un preciso momento storico e politico, ha reso grande e leggendario il nostro paese…”

Le ragioni che mi hanno indotto a dedicare una intera ricerca al personaggio di Carlo Aragona Tagliavia, primo Principe di Castelvetrano, risiedono dall’evidente relazione tra il tema del dottorato di ricerca, “Bisanzio ed Eurasia”, e il suo ruolo di simbolo incontrastato di lontani e, spesso, tortuosi rapporti euroasiatici, lotte politiche e alleanze strategiche che vedono la Sicilia, e in particolar modo Castelvetrano, pedina di potenze diverse, inserita all’interno di un gioco geografico - politico bizantino, e ben salda alla Corona spagnola rappresentata dagli Aragona Tagliavia di cui Carlo ne è l’iniziatore.

Un personaggio, quindi, che seppur lontano nel tempo, rivive ancora in quelle gesta e in quelle azioni che ci rappresentano come storia e come territorio. Riscoprirne, oggi, oltre le imprese e le fatiche, anche l’esistenza significa contribuire a ricostruirne una identità persa nei secoli ma ancora meritevole di attenzione.

Obiettivo di questo studio non è, quindi, solo la raccolta di fonti e documenti d’ archivio ancora custodite, ma, soprattutto, indagare mediante nuove forme metodologiche e analitiche quelle tracce indelebili di vita impresse in luogo di morte mediante esami diretti di carattere archeoantropologico. Un metodo, questo, che risulta essere innovativo, o comunque, inusuale per un lavoro di dottorato, questo, che dovrebbe non oltrepassare i confini del concetto storico.

In realtà, prescindendo dal criterio utilizzato per lo svolgimento della ricerca, sul quale torneremo, il nostro lavoro ha perfettamente aderito alle richieste del tema senza che questo fosse mancante di contenuto o tralasciasse l’elemento storico per altresì argomentazioni.

(7)

CAPITOLO I

LINEAMENTI STORICI DELLA SICILIA TRA VII E XIV SECOLO.

Per comprendere le vicende di una famiglia illustre e nobile il cui ruolo politico e sociale in Sicilia si data alle soglie del XIV secolo, non possiamo astenerci dal ricordare i fatti e gli eventi che hanno dominato la storia siciliana e determinato l’ascesa di Castelvetrano come centro signorile per eccellenza.

E’ necessario, quindi, collocare geograficamente e storicamente l’isola per inserirla all’interno di un preciso quadro socio-politico. All’origine della sua storia sono sicuramente da individuare sia il legame intercorso nei secoli tra l’Asia e l’Europa, in particolare tra l’Asia Minore bizantina e l’area mediterranea unificata proprio dall’impero di Bisanzio, sia le lotte per l’egemonia tra Chiesa e Impero, (che abbastanza presto sarà impero d’Occidente) lotte che vedono entrambe le parti impegnate a contendersi il ruolo di guida politica, morale e spirituale dell’intera cristianità medievale, ritenendo ogni altro potere subordinato al proprio. Assistiamo a un susseguirsi di vicende che non possono non interessare la Sicilia dopo che è stata coinvolta dal processo di “bizantinizzazione”, così come le fonti attestano, processo che sarà arrestato solo dagli Arabi. Nel VI secolo d. C. l’isola fu annessa all’impero romano (quello che chiamiamo bizantino) ad opera del generale Belisario, divenendo così la provincia romano-orientale di Sicilia indipendente dall’esarco di Ravenna. Se da un lato però l’autonomia le garantiva una certa sicurezza sul piano politico-sociale, dall’altro non le furono risparmiati gli scontri militari con i Goti che seppero strappare ai bizantini una cospicua parte del dominio con un susseguirsi di devastazioni e di saccheggi.

Un colpo, questo, anche sopportabile da una terra che dipendeva da dominatori di tutto rispetto; più difficile fu, invece, sopportare i disagi provocati dalla diverse controversie dottrinali e dai differenti atteggiamenti assunti dalle autorità religiose; mentre si temeva l’imminente arrivo degli Arabi. Questi, così come tutti i conquistatori interessati alla Sicilia, furono attratti dalla sua favorevole posizione centrale all’interno dell’area mediterranea che ne faceva un ottimo punto di crocevie marittime necessarie per una politica mirata ad espansioni imperialistiche.

Sospesa inizialmente tra Bisanzio e il primato romano, la prima potenza impegnata nelle decisioni politiche, fiscali, tributarie e nel sistema organizzativo, mentre la seconda era impegnata nella

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tenuta del sistema religioso, sociale ed economico, la Sicilia si ritrova alle soglie del IX secolo in mano araba.

La conquista araba, iniziata nell’8271 con la presa della città di Lilibeo, poi Marsala, concede all’isola un periodo di relativa serenità e di riorganizzazione politica e religiosa. Nella metà dei territori conquistati si continuò a predicare la fede cristiana nelle chiese preesistenti, mentre nella restante metà si diffuse la religione islamica ovviamente supportata da luoghi di culto adatti, e così numerose moschee cominciarono ad essere erette. Intanto sul piano economico si assiste ad un incremento e ad un rilancio dell’attività agricola.

La Sicilia fu così resa agli occhi dei tanti conquistatori europei una terra di splendori e ricchezze, obiettivo di mire di dominio. Furono creati tre emirati arabi.

I Normanni, all’inizio del nuovo millennio, approfittando dei disordini creatisi fra i tre emirati, con la dinastia degli Altavilla, nelle persone di Guglielmo detto “Braccio di Ferro” e di Drogone, instaurarono il proprio potere in tutta la Sicilia e ripristinarono il culto cristiano. Costretti a ritirarsi dalla Sicilia poco dopo il loro arrivo nel 1038, i Normanni ben presto riuscirono a conquistare la Puglia riproponendo così la possibilità di un loro potere su tutto il Meridione.

Intervenne contro di loro anche la Chiesa nella persona di papa Leone IX, che non riuscirà però a risolvere la questione antinormanna come invece riuscirà a fare papa Nicolò II che, nonostante l’apparente collaborazione con l’Impero d’Occidente, si ritrovò costretto a stringere un’alleanza con il normanno Roberto il Guiscardo duca di Sicilia; all’alleanza conseguì la possibilità di un attento controllo dell’apparato ecclesiastico latino sul territorio, al fine di rafforzarvi il potere cristiano-romano a scapito della presenza musulmana che era ancora persistente. L’alleanza era quasi obbligata, considerando che ora più che mai la chiesa romana si ritrovava abbandonata dagli alleati romano-bizantini impegnati in Oriente e non più in grado di sostenerla. La collaborazione con il potere normanno continuerà anche sotto il conte Ruggero; confermata dalla iniziativa di papa Urbano II nel 1089, di concedere ai Normanni la “apostolica legazia”, con una serie di privilegi e con la presenza di un legato pontificio nell’isola a garanzia di un’unità ecclesiastica oltre che politica. A Ruggero spettò il compito di consolidare sempre più la propria supremazia, secondo forme di gestione che limitavano il sorgere di possibili forze esterne che avrebbero ostacolato i suoi obiettivi. A partire da una riorganizzazione territoriale con la creazione di una rete di castelli e fortificazioni. La Sicilia divenne presto un grande regno, con Ruggero II una potenza dominante nel contesto storico euro-asiatico.

1

(9)

Se da un lato però dalla politica di Ruggero II trapela l’intenzione di riunire sotto di sé i principati normanni meridionali e riorganizzare il territorio mediante un apparato legislativo supportato da un sistema feudale ben saldo e fedele ai quadri amministrativi sia bizantini sia arabi2, d’altro lato si assiste ad un indebolimento della struttura sociale preesistente che condizionerà poi soprattutto sotto gli Svevi le manovre politiche imperiali3.

Con gli Svevi, eredi degli Altavilla, si assiste ad una continuità politica sostenuta dalle relazioni matrimoniali, secondo la consuetudine delle dinastie medievali di alleanza matrimoniali su base politica4. Enrico VI figlio di Federico Barbarossa sposò Costanza d’Altavilla figlia di Ruggero II5. L’obiettivo comune era l’ampliamento dell’Impero e l’annessione a questo dell’Italia; sarà proprio Enrico VI il primo a impegnarsi in un progetto mirato all’ampliamento dell’impero germanico, con il tentativo di conquistare i territori bizantini dell’Italia meridionale. Un obiettivo che tenterà di portare a termine il suo figlio e successore Federico II, che sarà anche re di Sicilia in quanto erede degli Altavilla. Il ruolo di spicco che Federico II assumerà per la storia della Sicilia, spesso definita “regione federiciana”6si evidenzia in quelle che sono a tutt’oggi testimonianze di una parte di storia che ha capovolto le sorti di un popolo e di un paese, a prescindere dagli effetti negativi o positivi che le scelte politiche testimoniate hanno assunto nel tempo.

Varie e discordanti, infatti, appaiono le considerazioni storico-letterarie su Federico II, una personalità che ancor oggi divide gli osservatori, ponendo in serio dubbio un suo reale interesse per una terra in cui aveva però collocato la sua dimora reale; da molti studiosi si ritiene che, in fondo, la politica avviata sulle orme dei suoi predecessori in realtà più che puntare su un riordino sociale abbia confuso le condizioni preesistenti. Ci fu però una innegabile capacità di gestione del regno, con una forte attività legislativa e un grande impulso alla innovazione culturale, forse al fine di quella unificazione territoriale e sociale tanto difficile e contrastata esternamente dalla ostilità della Chiesa, dallo strapotere del ceto germanico e dalla necessità di cancellare la presenza saracena. Quella che può essere considerata la causa più evidente delle rapide e complesse trasformazioni che di fatto investirono la Sicilia sveva del XII-XIII secolo fu la lotta contro un sistema feudale in continuo subbuglio: elemento chiave per una redistribuzione dei titoli e dei privilegi7che prende il nome di “crisi del villanaggio”8.

2 Houben, 1999,p. 24. 3 Kaspar 1999, p. 398. 4

Calamia - La Barbera – Salluzzo, 2004, p. 18.

5 Tabacco – Merlo, 1989, p. 536. 6 Maurici 2009, p. 15. 7 Kantorovic 1978, p. 25. 8 Peri 1993, p’. 9.

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Proprio in questi processi evolutivi che hanno investito il sistema feudale vanno ricercati gli aspetti politici positivi e negativi della politica sveva che mirava a un riordino della struttura del regno che senza cambiarne le sorti lo avviava a condizioni di monarchia assoluta.

Ma facciamo un passo indietro.

La strategia politica seguita da Ruggero e dal suo successore Ruggero II mirava al raggiungimento di una giustizia di governo che fosse vantaggiosa per la corona regia. In mancanza di un potere precedente solido e stabile, Ruggero II ottenne un controllo diretto sul popolo mediante la installazione di una gerarchia feudale, ovvero concedendo i feudi direttamente a baroni prescelti muniti di loro vassalli. Una condizione questa denominata “villanaggio”9; e cioè un sistema che riduceva i piccoli e medi proprietari fondiari che vivevano nei loro casali allo stato di contadini soggetti10, addirittura registrati in elenchi o Platee11. Per volere del re questi contadini già proprietari vennero ridotti alle dipendenze di nobili e di chiese, restando però nel proprio casale a lavorare la terra; una mossa strategica che permetteva il controllo simultaneo di terre e casali, che favoriva un maggiore sfruttamento della produzione e garantiva al fisco degli Altavilla entrate economiche più consistenti12. La conseguenza fu sicuramente uno strapotere feudale nei confronti delle popolazioni rurali, oltre che un maggior potere delle élites religiose e nobiliari13 e una non indifferente crescita del potere monarchico che aggravò lo stato di malcontento destinato a sfociare sia in resistenze collettive della popolazione sia nella fuga dei contadini dai loro stessi casali. Una ipotizzabile azione riequilibrativa di Federico II potrebbe individuarsi nella emanazione di una ordinanza a favore proprio dei tanti contadini che avevano abbandonato le loro terre: si dovevano requisire le proprietà occupate dai contadini musulmani14 e ristabilire le condizioni giuridico-sociali che gli stessi avevano avuto in precedenza. Però non è così se si considera che i contadini, o villani, dei casali erano proprio quelli di origine musulmana, e che punto di forza del piano amministrativo di Federico II era la dura repressione della presenza araba15.

Purtroppo la consistente presenza musulmana, pur se sicuramente minoritaria rispetto a quella cristiana, limitava i progetti del governo svevo, costringendo il sovrano ad azioni che stimolarono sicuramente un certo rimpianto per gli anni di Guglielmo II. L’isola fu colpita da una pesante trasformazione socio-territoriale; per imporre il dominio regio Federico apportò numerose modifiche alla struttura dei castelli edificati durante il dominio normanno, al fine di soddisfare con

9 Ibidem, p. 39. 10 Carocci 2007, p. 65. 11 Violante – Ceccarelli 2006, p. 242. 12 Carocci 2007, pp. 65-67. 13 Ibidem, p. 73. 14 Lizier 1907, p. 185. 15 Abulafia 1991, p. 23.

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un nuovo tipo di impianto le proprie esigenze16. Gli antichi centri abitati furono abbandonati17 e il territorio fu investito da una crisi di sottopopolamento18 senza precedenti arrivando a contare solo 500.000 abitanti.

Se l’isola era diventata parte di un grande potere imperiale, l’assetto territoriale e di conseguenza l’organizzazione sociale assunsero nuove forme; però, mentre la sfera culturale, artistica e letteraria, acquistò connotati di alto livello, la condizione economico-politica al contrario si fece molto instabile. Purtroppo neanche il successore e figlio di Federico, Manfredi, impegnato in una costante difesa del regno contro il papato ostile di Urbano IV, riuscì a rendere gradita la presenza sveva in Sicilia. Il papa Urbano IV poi fu all’origine della venuta angioina in Italia, e incoronò il francese Carlo d’Angiò come nuovo re di Sicilia. Carlo fu un re scelto dalla Chiesa perché considerato più malleabile e condiscendente rispetto ai suoi predecessori, e dunque lontano dall’ostacolare un poter papale fortemente interessato a un controllo almeno parziale dell’isola. In realtà la politica di Carlo, che era bramoso di potere e denaro, puntò subito al controllo della Sicilia, con un’ancora più marcato sfruttamento dell’economia di quella società. La mancanza in Sicilia di ceti mercantili e gestori dei traffici finanziari portò solo ad un incremento di denaro nelle casse regie e baronali, impoverendo con tasse e confische il resto della comunità. A conferma dei buoni rapporti che intercorrevano fra il papato e il re fu poi corrisposto il censo annuale alla chiesa. Il passaggio del potere angioino in Sicilia fu breve e non garantì benessere e ordine sociale a una Sicilia avversa ai francesi e soggetta a diventare fonte di approvvigionamento di personale per il controllo dei domini a scapito di un sistema basato sul baronaggio, quello instauratosi con le complicate manovre federiciane. I Siciliani, ormai stanchi, misero in atto una serie di iniziative colte a conquistare un’autonomia fino ad allora loro negata. I cosiddetti “Vespri” li portarono a chiedere aiuto agli Aragonesi. Era forse nonostante tutto la testimonianza di una nostalgia per il tempo e il governo di Federico II: l’eredità sveva la si volle infatti trovare nella corona d’Aragona, dal momento che Pietro III d’Aragona, re di Sicilia, sposò la sveva Costanza di Hohenstaufen figlia del re Manfredi. L’interesse della corona aragonese per i territori del Mediterraneo, inclusa la Sicilia, è da cercare nel sistema organizzativo che si era attuato: essendo il centro del potere lontano, si optò per un potere decentrato fondato su un rapporto di fiducia con élites locali che ne eseguivano i mandati e ne seguivano gli interessi, puntando principalmente su obiettivi più economici che politici.

Era un progetto difficile da realizzare considerando gli interventi pressanti degli Angioini insoddisfatti per la sconfitta; un trattato, sottoscritto dal re aragonese Giacomo, il trattato di Anagni

16 Maurici 2009, p. 21. 17 Ibidem, p. 25. 18 Ibidem, p. 19.

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riconsegnò l’isola al papa e di conseguenza riaprì le porte al potere angioino19. Un secolo dopo il re Federico III20 riuscì a sedare solo parzialmente l’anarchia che ne era conseguita. Sono difficoltà e disordini che trovano un’eco anche in Dante, (cfr. Purgatorio VII, 119-123; Paradiso XIX, 130-138)21. La politica di Federico III in realtà fu fortemente influenzata dall’eredità dell’antico governo normanno-svevo. Non solo la corte di Federico III fu frequentata da artisti, poeti e scienziati, ma si interessò a migliorare il ruolo del parlamento siciliano introducendo nuove norme proprio a difesa del territorio, rendendo il potere regale, pur assoluto, però almeno in teoria garante dei diritti dei cittadini. Fu però probabilmente un errore politico l’avere messo in atto un conflitto con la Chiesa, di cui è eco ancora la Divina Commedia (Paradiso VI, 100-108).

riconfigurazione dell’impero di Occidente, si inseriscono nel panorama politico-territoriale siciliano i Tagliavia. La famiglia Tagliavia è un gruppo parentale di immigrati amalfitani alle strette dipendenze degli Angiò, che consentirono loro di raggiungere posizioni di prestigio; fino a quando l’unione matrimoniale tra Giovan Vincenzo Tagliavia e Beatrice d’Aragona Cruyllas non sancì un eccezionale rapporto di fiducia fra i Tagliavia e la corona d’Aragona. Si data però a molto prima, cioè al 1299, la concessione del titolo di barone di Castelvetrano, da parte di Federico III d’Aragona re di Sicilia, a Bartolomeo Tagliavia allora maggiordomo della regina22: è il primo dei Tagliavia di cui si ha notizia, e da lui facciamo discendere quella che sarà la grande dinastia principesca di Carlo d’Aragona Tagliavia. 19 Tocco 2008, p. 43. 20 Ciccia 2002, p. 111. 21 Ibidem, p. 115. 22 Cancila 2007, p. 168.

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CAPITOLO II

CASTELVETRANO E LA FAMIGLIA PRINCIPESCA DEGLI

ARAGONA TAGLIAVIA

II. 1

ORIGINE DI CASTELVETRANO E DEGLI ARAGONA TAGLIAVIA

Per Castelvetrano, città ricca di storia e di cultura così come oggi ci appare, sembra difficile poter esprimere opinioni precise sulla sua origine e relativa cronologia. Nonostante sia stato possibile operare una attenta lettura dei documenti d’archivio, facendola precedere e affiancandola con studi preliminari su tutto il complesso del patrimonio storiografico pertinente, non si è riusciti ad ottenere consistenti informazioni circa la storia più antica della città se non per i secoli dopo il XII; solo a partire da quel tempo si riesce a delineare un quadro abbastanza chiaro e netto delle organizzazioni cittadine dell’intera Sicilia.

Restando aperto il problema del formarsi di tante strutture cittadine siciliane, e di Castelvetrano tra queste, si deve ad ogni modo considerare, e limitarsi a presentare, ciò che la memoria storica ci ha lasciato quanto al territorio.

Un’affermazione che si vorrebbe giustificata è quella che vede Castelvetrano come “stato feudale nella Sicilia moderna” di cui si ha certezza solo a progetto compiuto. Secondo Giovan Battista Ferrigno, lo storico di Castelvetrano dell’inizio del secolo scorso, sarebbero ormai ritenute prive di fondamento le opinioni di quanti identificherebbero Castelvetrano in uno o in un altro centro abitato1: “l’origine di Castelvetrano si perde nel buio dei secoli. Sulla sua antica denominazione gli scrittori non sono concordi”2. Il Ferrigno riferisce poi le opinioni degli storici più antichi a partire dal Fazello3. Studiosi del nostro tempo, come R. Cancila4, valorizzano interpretazioni tradizionali del toponimo “Castelvetrano”: sarebbe il “castello dei veterani” (selinuntini) lì rifugiatisi per sfuggire in antico ai Cartaginesi, e ancora molto più tardi ai Saraceni: Veteranum sta per luogo dove si ripongono cose ad invecchiare, ossia deposito di derrate; lì, per la custodia di quei prodotti sarebbe sorto un castello5. Noi oggi lo conosciamo come il Palazzo di Castelvetrano, e lì presso sarebbero poi state edificate le prime strutture abitative. Già nel 1732 il Noto dichiarava: “Contiene

1 Ferrigno 1909, pp. 449-454. 2 Ibidem. 3

Già anche D’Avino 1848, pp. 322-326.

4

Cancila 2007, p. 164.

5

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detta città un ampio Palazzo Ducale dove è compreso il Castello chiamato dei Veterani…”6. Dico subito che ipotesi come quella del Ferrigno non appaiono abbastanza documentate, troppo spesso forzano un patrimonio di tradizioni che non hanno fondamento sufficientemente saldo. Attingendo invece a quelli che ritengo siano i documenti e i testi più attendibili quanto all’origine della città di Castelvetrano, ci si accorge come sia plausibile credere in una Castelvetrano investita da una lunga trasformazione dovuta ad eventi storici che ne hanno modificato nei secoli l’assetto sociale oltre che strutturale. Il processo merita sicuramente un’analisi dettagliata e precisa, visto che ciò che si può dedurre circa la nascita di piccoli centri insediativi che già nel XII-XIII secolo vengono menzionati come città vere e proprie, non rinvia al singolo caso, ma richiede l’attenzione alla più generale trasformazione dell’intera Sicilia che viene investita da processi evolutivi che ne modificano profondamente l’organizzazione. Partendo dal presupposto che il territorio siciliano ha assunto, nei secoli, un ruolo di protagonista nel panorama socio-politico medievale del Mediterraneo, divenendo obiettivo principale di numerose potenze militari, non si può mettere in dubbio che vaste aree della sua terra siano state coinvolte dai giochi bellici subendone quindi le conseguenze. Le potenze che nei secoli hanno imposto il loro dominio nell’isola, mirando a proprio vantaggio alla restaurazione politica e alla ristrutturazione sociale, hanno infatti irrimediabilmente modificato l’assetto territoriale imponendo regole e norme proprie, anche alla società. E’ però da capire come in una Sicilia instabile sotto ogni punto di vista, assoggettata a forze in frequente cambiamento, siano andati prendendo forma fra l’XI e XII secolo, quei nuclei insediativi e ben organizzati ancora menzionati come “borghi” e non città, tra cui probabilmente la stessa Castelvetrano; e come il processo si sia avviato.

Avendo già escluso la possibilità di giustificare l’origine di Castelvetrano come una scelta di puro e semplice tipo collocativo-territoriale, cercherò di motivarla nel quadro della lotta sveva contro un sistema feudale troppo competitivo sfociato in quella che abbiamo già citato come la “crisi del villanaggio”. Da questa fu determinata una società strutturata sull’abuso da parte dei ceti dirigenti sulle fasce più deboli, con l’inevitabile esito di molte dure resistenze. Durante il regno di Federico II, la politica mirata a una riorganizzazione del regno favorì un cambiamento socio-insediativo che esplose e implose in una e vera e propria restaurazione sociale e di conseguenza anche gerarchica, anche modificando e ricomponendo l’assetto urbanistico in atto. Si assiste a una concentrazione di massa della popolazione dalle campagne al borgo e al sorgere di un nuovo ceto formato da quei contadini che ora si ritrovano ad essere possessori rurali salariati. Il geografo Idrisi ci informa per il 1154 della presenza vicino a Castelvetrano di diversi casali: Bilici, Selinunte, Qasr’ Ibn Mankud e

6

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Rahal al Qaid. Ovvero una dimostrazione, se Idrisi dice il vero, (e non ne abbiamo conferma da altre fonti) di quel processo migratorio che vide nascere i primi agglomerati abitativi; in realtà Idrisi non fa menzione di Castelvetrano forse perché prima di diventare città fu piuttosto un incrocio di vie di comunicazione. Anche a questo farà riferimento il Ferrigno quando scriverà: “Pertanto è da ritenere che il nome di Castelvetrano sia venuto fuori tra il 1100 e il 1272, a meno che non si voglia credere che, al tempo della fondazione (della diocesi) di Mazara, Castelvetrano non sia stato che un semplice casale e quindi ne sia stato omesso il nome; e questa opinione trova conforto nella Descriptio feudorum sub rege Federico (circa annum domini 1296) data dal Gregorio dove vediamo Castelvetrano notato come Casale”7. Si confermerebbe così l’identificazione del Castrum Veteranum con l’abitato fortificato di età sveva. L’antico ager publicus assegnato dai Romani ai veterani Selinuntini sarebbe stato il primo nucleo abitativo castelvetranese, dove Federico II, per esaltare la propria immagine di magnificenza e di forza, eresse o ristrutturò il castello di Bellum Videre ottima residenza di caccia8. Ma castrum indica un centro abitato o un castello? Il termine castrum, ovviamente latino (castellum ne è il diminutivo), venne utilizzato per tutto il periodo medievale, incluso il periodo svevo-angioino9. In tempi e presso autori diversi significò di volta in volta fortificazione, palizzata, fortezza o borgo. Dal XIII secolo in poi lo sviluppo del sistema feudale e del latifondo portò all’intensificarsi di centri abitati fortificati raccolti intorno al castello, cioè alla dimora dell’autorità feudale, simbolo del potere; a questo punto il termine castrum indicò il fortilizio di un centro abitato più che il centro stesso, adesso menzionato con il termine “terre”10. Castelvetrano, munita sicuramente di un castellum o castrum, sopravvivenza del più antico casale, può ora, in pieno XIII secolo, definirsi città.

Probabilmente la lontananza degli Angiò dalla Sicilia, in concomitanza con le trasformazioni sociali in atto, favorirono lo sviluppo delle aree demaniali sfuggite al potere regio11. Una indagine delle collette versate dalle città siciliane alla curia regia documenta come Castelvetrano passi dalle sessanta once del 1277 alle 123 once pagate nel 128312, segno di un processo evolutivo urbano in crescita, legato sicuramente a uno sviluppo sociale ed economico conseguente a un ordine socio-territoriale consolidato. Un ordine socio-territoriale che venne affidato dal governo angioino, per strategie politiche e fedeltà, a Giovanni da Lentini, membro di una delle famiglie allora più in vista in Sicilia, impegnata in primo piano a fianco degli Angioini nella lotta contro gli Svevi13. Al passaggio della

7 Ferrigno 1909, pp. 409-454. 8 Maurici 2009, pp. 42-43. 9 Calamia-La Barbera-Salluzzo, 2004, p. 23. 10 Maurici 1992, p. 126. 11 Calamia-La Barbera-Salluzzo, 2004, p. 75. 12 Giardina 1991, p. 6. 13 Calamia-La Barbera-Salluzzo, 2004, p. 76.

(16)

sovranità agli Aragonesi, il loro potere sul territorio di Castelvetrano si concluderà con il baronato di Tommaso, nipote di Giovanni, al quale verrà tolto con l’accusa di tradimento. Ne sarà investito il primo dei Tagliavia, Bartolomeo: Federico III d’Aragona concederà a Bartolomeo Tagliavia14milite da Palermo, che sarà il capostipite della principesca stirpe degli Aragona Tagliavia, il titolo e i diritti di barone di Castelvetrano15 con privilegio dato in Polizzi il 18 gennaio 129916. I diritti dei nuovi feudatari si estendevano su una parte di terra a nord del castello di Bellum Videre e sul castello e la foresta di Birribaida.

Da Bartolomeo ha inizio la storia di una Castelvetrano fortemente legata alla nobile stirpe degli Aragona Tagliavia, e le loro vicende si intrecceranno; evidenziando il rapporto di magnificenza, splendore e potere che rese grande Castelvetrano, e più tardi permise al casato di Carlo primo principe di realizzare una vera e propria signoria feudale lì dove sorgeva prima un piccolo casale. Segno visibile del rapporto sarà l’uso di un medesimo blasone, identificativo dello status sia per la città sia per il casato degli Aragona Tagliavia: al centro del blasone è la palma17. E’ però da chiarire se siano stati i Tagliavia ad averlo assunto da Castelvetrano, o se Castelvetrano ormai sede del potere nobiliare lo abbia derivato dalla casata18. In merito all’uso del simbolo della palma per la città di Castelvetrano, ce ne dà notizia il Noto nella sua Platea19. Molto prima però Virgilio aveva usato l’epiteto di palmosa per la città di Selinunte, indicata come la “’palmosa Seline” (Eneide, III, 1110 nella traduzione di Annibal Caro). Selinunte quindi sarebbe la “città palmosa”: le numerose palme selvatiche che riempivano il territorio circostante sarebbero all’origine dell’appellativo. E se si accetta l’ipotesi secondo la quale Castelvetrano risalirebbe alla presenza di un gruppo proveniente da Selinunte20 l’appellativo potrebbe discendere anche sulla città di Castelvetrano. Potrebbe essere così spiegato l’uso della palma per la città; anche se la palma cui Virgilio si riferiva doveva essere piuttosto una palma da datteri, rispetto a quella del blasone dei Tagliavia. Questa è una palma nana di un tipo molto diffuso nel territorio castelvetranese. L’acquisizione da parte dei Tagliavia sembrerebbe un elemento più tardo. Non sono d’altra parte mancati studiosi secondo i quali la palma rappresentata nello stemma dei Tagliavia, che subì varie modificazioni dovute agli intrecci nobiliari determinatisi nel tempo, lo sarebbe stata da prima che i Tagliavia facessero il loro ingresso nella città siciliana. Il Villabianca addirittura faceva risalire la simbologia ai principi svevi, dai quali gli stessi Tagliavia discenderebbero: e precisamente da Manfredi fratello del duca di Svevia, il

14 Ferrigno 1912, pp. 43-44. 15 Cancila 2007, p. 76. 16 Villabianca, vol. I, 1754-1759, p. 19. 17 Palizzolo Gravina 1875, pp. 356-360. 18 Gasparoni-Narducci 1890, p. 181. 19 Cancila 2007, p. 164. 20 Ibidem, p. 166.

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quale avendo tagliato la via ai nemici li sconfisse acquisendo l’epiteto di Tagliavia. Il simbolo del pino che fino ad allora compariva nell’araldica sveva sarebbe stato sostituito da quello di una palma d’oro su fondo azzurro. Prima dell’unione con gli Aragona la palma rappresentata era dipinta in oro con sette rami, e dopo il matrimonio fra Giovanni Tagliavia e Beatrice d’Aragona fu affiancata da quattro pali rappresentanti la reale famiglia aragonese. I diversi riferimenti iconografico-araldici al casato, che ritroviamo all’interno della chiesa di San Domenico, mausoleo della famiglia, confermerebbero l’esclusività dell’uso della palma come segno del potere assunto dai principi castelvetranesi, e da quel segno deriverebbe forse anche quello della città. Anche sovrastante la finestra all’interno del convento di San Domenico dalla quale il principe si affacciava alla chiesa per seguire la liturgia compare uno stemma con palma d’oro a nove rami, tre radici e due grappoli di datteri su fondo azzurro; sotto la palma si legge: ut palma florebit et omnia quaecumque faciet prosperabuntur. Anche le colonne agli angoli del presbiterio mostrano ognuna uno stemma con palma d’oro su fondo azzurro, con sette rami, due grappoli di datteri e tre radici scoperte; così come lo stemma scolpito sul sarcofago di Ferdinando Aragona Tagliavia che si conserva nel mausoleo.

Le unioni matrimoniali tra nobili, dotati di blasoni propri, comportavano modifiche nello stemma di famiglia; è quello che successe ai Tagliavia dopo l’unione con gli Aragona. Unendosi in matrimonio, don Carlo e donna Margherita fondano una nuova dinastia, quella dei principi e non più semplici conti di Castelvetrano, e la famiglia necessita di una nuova arma.

Che la famiglia Aragona Tagliavia abbia deciso le sorti di Castelvetrano facendone il centro dei propri diritti è certo; resta da chiarire il ruolo che ogni singolo componente del casato ebbe per la storia del territorio con l’ascesa al potere di figure chiave per la politica tardomedievale e protomoderna.

Quel potere i Tagliavia cominciano ad acquisirlo con Bartolomeo, discendente di Guido, capitano sotto l’imperatore Enrico VII21, appartenente ad una famiglia già di commercianti amalfitani, figlio della dama di compagnia di Costanza di Hohenstaufen e chiamato come eques nel 1283 da Re Pietro a prestar servizio militare presso il Monte S. Giuliano ad Erice.

Ricoprì la carica di tesoriere del regno sia nel dicembre 128822che nell’ottobre 1290 e nel 1292, per circa un anno assunse la nomina di:

<< magistrum marescallarum et aranciarum curie nostre

21

Giardina 1985, p. 75.

(18)

Regni sicilie cum omnibus honoribus iuribus et dignitatibus cum quibus officium ipsum temporibus clare memorie domini quondam imperatoris frederici proavi, et domini regis manfridi avi nostri exercere consuevit usque ad Nostrum beneplacitum>>23.

Ricevuto il titolo di primo Barone di Castelvetrano, ottenne, con privilegio dato a Castrogiovanni il 12 settembre 130624, il feudo di Castelvetrano, il feudo di Pietra Bilici e il casale di Ravenusa25. Alla morte lo successe automaticamente, senza investitura il figlio Nino I che assunse il titolo di secondo Barone di Castelvetrano26e Signore di Sommatino27.

Di Nino I, del quale si conserva il testamento in data 7 ottobre XIV Ind. 134528, abbiamo conferma di una ulteriore proprietà a Castelvetrano, oltre quella al Cassero a Palermo:

<<…due vigne chiamate Aurucubba, con casolari; venti giumenti d’ambo i sessi, col marchio e senza; due asini e quattro ronzini da barda; un servo olivastro di nome Giovanni e una serva negra cristiana di nome Fiore con due figli, un maschio e una femmina; trecento maiali e trecento capre di ambo i sessi; sei cavalli di manto diverso; nella stessa terra di Castelvetrano un asilo, ossia un tenimento di case d’abitazione, dove un tempo era un castello…; inoltre possedeva gli infrascritti feudi nella baronia, ossia la terra di Castelvetrano, nonché il Castello di Belice con i diritti e le pertinenze di essi, spettanti alla stessa baronia sita e posta in detta valle di Mazara>>.

Si sa, inoltre, di una donazione di un’oncia alla Chiesa di S. Maria e di trecento tegole alla Chiesa di San Gandolfo che Nino avrebbe fatto avvalorando, così, l’idea che i primi “Signori Tagliavia” fossero già attivi nell’organizzazione e nella riordinazione della città e di come questa cominciasse ad arricchirsi di edifici sacri.

<< Legò all’opera di S. Maria in Castelvetrano, oncia uno.

……….

Allo stesso modo dispose che si pagassero agli eredi di Vittorino da Aydone tre tarì per due ceppi di legno che aveva avuto da questi, disponendo altresì che fossero utilizzati per una delle porte della Chiesa di san Gandolfo di Castelvetranpo. Dispose egualmente che si fornissero alla chiesa di S. Gandolfo di Castelvetrano, trecento tegole>>.

Dal testamento del 7 ottobre 1345 aperto il 4 maggio 1346 e pubblicato agli atti del Notaio Federico Mastrangelo29, Nino I lascia il titolo di Barone al figlio Matteo con privilegio del Re

23Ibidem, p. 238.

24De Spucches, 1941, pp. 370 – 371.

25Società Siciliana per la storia Patria, 1967, p. 89. 26Cancila R., 2007, p.169.

27Amico, 1855 – 1856, pp. 264 – 268.

28Archivio di Stato di Palermo, Protonotaro del Regno, Busta 1482 – processo N. 60, Anno 1452 – 1453 Ind. I 29Protonotaro del Regno, Archivio di Stato di Palermo, Busta 1482 – processo N. 60, Anno 1452 – 1453 Ind. I

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Ludovico30, nato a Catania il 19 settembre 1346; dividendo in due i beni feudali, lascerà Castelvetrano a Matteo e Sommatino, altro feudo, al figlio Blasco31.

Del figlio di Matteo, Nino II32, sappiamo poco, ovvero che fu investito, da Re Martino con privilegio del 24 gennaio 1396 della baronia di Castelvetrano, e nel 1402, grazie all’accondiscendenza della Baronessa di Birribaida Serena Ferreri, di parte della foresta di Birribaida33.

Non di più ci rimane del figlio Baldassare, Barone di Castelvetrano con investitura del 4 febbraio IV Ind. 1440 e del 10 dicembre 1440 concessagli da Re Alfonso e del figlio Giovanni investito della Baronia il 12 settembre 145334morto senza figli.

A questo punto sono da chiarire alcuni punti ancora oscuri sulla reale discendenza per concessione di investitura sulla quale le fonti si dividono.

ll Ferrigno35crede in una discendenza che continua con Baldassare, Giovanni e poi Nino III e Nino IV; di quest’ultimo, addirittura menziona la data di investitura, il 1479, e il successore, Giovanni Antonio36.

Altri storici, invece, non menzionano Nino IV; il Mugnos37, fa seguire Nino III a Giovanni; il Noto38 e il De Spucches39 fanno seguire a Nino III, Giovanni Antonio; altra ipotesi è quella del Pluchinotta40 che fa succedere a Baldassare direttamente Simone nel 1453 e solo dopo questo il figlio Giovanni Antonio, non considerando Giovanni e Nino IV.

Analizzando le varie considerazioni storico – genealogiche fondanti sui dati oggi disponibili riguardo le cariche di investitura e le rispettive successioni, si può pensare quindi che vi sia stata una confusione tra Nino III e Simone che, nonostante appaiano con nomi diversi, sarebbero la stessa persona. 30Amico V., 1855-1856, pp. 262 – 266. 31Mineo, 2001, p. 222. 32Amico, Vol 1, 1855 – 1856, p. 264 – 268. 33Cancila R, 2007, p. 169. 34Bilello, 1969, p. 21. 35Ferrigno 1909, p. 50. 36Ibidem, p. 455. 37Mugnos, 1670, p. 449. 38Noto, 1732, p. 34. 39De Spucches, 1941, pp. 413 – 414. 40Pluchinotta, 2 Vol. Mss. 2Qq E 166 – 167, 1956.

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Riportiamo l’albero genealogico più probabile riguardo la Famiglia Tagliavia:

NICOLO’ GUGLIELMO Lucrezia Sanseverino

BARTOLOMEO TAGLIAVIA MATTEO

Teodora d’Aragona

NINO I MATTEO ANDREA

MATTEO BLASCO

NINO II ANTONIO

BALDASSARE

Giovanna Abbatellis

GIOVANNI NINO III (O SIMONE)

Eufemia Amato e Perollo

MARGHERITELLA GIOVANNI ANTONIO

Caterina Russo

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Considerando plausibile tale ricostruzione, valutando la possibilità che vi sia stato un Nino IV o un Nino III confuso con un Simone del quale rimane notizia sulla concessione della terra di Castelvetrano e delle sue pertinenze in data 2 dicembre 146741, ciò che più interessa è l’investitura e il ruolo che ebbe, per Castelvetrano e per le fortune degli stessi Tagliavia, Giovanni Antonio che, senza alcun dubbio, sarebbe stato investito della Baronia l’ 11 aprile IV Ind. 1488; oltre il Ferrigno42, infatti, le fonti storiche non fanno riferimento a nessun’ altra data di investitura permettendoci, così, di accettare quella proposta dal Ferrigno.

a Giovanni Antonio Tagliavia, probabilmente figlio di Nino III ( o Simone), fu attribuita la volontà di far erigere, nel 1470, il Convento e la Chiesa di San Domenico Mausoleo di famiglia43.

La data, che ci viene negata solo dall’Aymard 44viene, invece confermata sia dal Villabianca45, sia dal Pirri46, che dal Noto47.

Il Villabianca scrive:

<<Antonio Tagliavia antico. Signore di Castelvetrano investitofene al 1488. Ebbe per isposa, Eufrorina Amato, e Pero No, figlia di Giovanni Amato e Francesca Perollo Baroni di Belici, e della Merca..Quello Cavaliere fu il fondatore della Chielà e Convento dè PP. Domenicani di Castelvetrano all’anno 1470>>.

Nella sua “Platea”, il Noto ci rimanda alla Quinta parte dell ‘Istoria di S. Domenico ( 1652) dove il Frate Giovanni Lopes nelle cronache della Sacra Religione dei Predicatori, tradotta dal Padre Lettore frà Pietro Patavino48, afferma:

<<Il vigesimo terzo convento è nella città di Castelvetrano, e lo fondono i marchesi di questa città, discendenti dall’ Ill.ma casa Aragona, e la sua fondazione fu nell’anno 1470>>.

Considerando che il riferimento agli Aragona in realtà è scorretto dal momento che ancora non vi era stata alcuna unione parentelare tra i Tagliavia e gli Aragona, è corretta, invece, la data proposta che non solo concorda con gli altri dati valutati, ma addirittura viene confermata da una scritta sulla porta di ingresso della Chiesa, oggi non più leggibile, che riportava, come anno di fondazione della Chiesa proprio il 147049.

Un altro dubbio sorge nel momento in cui si vuole far risalire la fondazione della Chiesa ad Antonio; dalle parole del Villabianca questo sarebbe confermato ma il Ferrigno, e non solo, sostiene

41Cancila, 2007, pp. 170 – 171. 42Ferrigno, 1909, p. 455. 43Amico, 1855, p. 263. 44Giardina, 1985, p. 35. 45Villabianca, 1754, p. 11. 46Pirri, 1641, p. 574. 47Noto, 1732, p. 179.

48Lopez, 1622, cit. in Cancila R., 2007, p. 251. 49Giardina, 1985, p. 34.

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che la costruzione della Chiesa sia avvenuta sotto Giovan Vincenzo Tagliavia, successore di Antonio.

Dal testamento di Giovan Vincenzo datato al 12 febbraio 1538 agli atti del Notar Carlo La Gatta50, custodito presso l’archivio di G.B. Ferrigno, emerge la volontà di Giovan Vincenzo Tagliavia di essere sepolto a San Domenico e precisamente nella tomba di Famiglia con l’abito bianco dei frati predicatori; testimonianza, questa, non solo della stima che portava nei confronti dei Domenicani custodi della chiesa, ma del suo ruolo nei confronti dell’edificio sacro il quale sarebbe stato edificato per suo volere e non per volontà di Antonio.

Riportiamo parte del testo51:

<<…santa Maria lu Spasumo electa mia cappella et de mei successuri in dictu statu di la ecclesia di Sancta Maria di Jesù ordinis predicato rum Sancti Dominici per me constructa et a fundamentis edificata in dicto mio Contatu di Castello Vitrano>>.

Effettivamente, sempre il Ferrigno fa notare come tra il XV e il XVI secolo è proprio il periodo di massima espansione della città la quale si arricchisce di proprietà e terre grazie al potere e all’astuzia politica di Signori, come Giovan Vincenzo che, investito della baronia di Castelvetrano il 13 maggio IX Ind. 1491 fino alla morte il 153852, fra i suoi progetti molto probabilmente inserì la Chiesa San Domenico53.

Il suo impegno non si limitò, però, solo all’ambito politico ma come primo Conte di Castelvetrano si interessò ad organizzare la città secondo un sistema di rinforzamento di tipo legislativo, economico, edile e urbanistico; San Domenico avrebbe, quindi, fatto parte di quel processo riorganizzativo che vide sorgere la Chiesa Madre54, la Chiesa di San Nicolò, la Chiesa di Santa Lucia e del Monastero dell’Annunziata55.

Sulla Chiesa della Matrice, il Noto scrive:

<< Verso l’anno 1520 dal Signor Don Gian Vincenzo Tagliavia, conte di Castelvetrano, si fece il recinto che dovuto contenere tutta la Matrice situato nel piano del Palazo oggi detto del quarto della Galleria, che confina coll’altro piano ov’è la fontana chiamata della Piazza Vecchia […]>> Acconsentendo sulla data della costruzione di San Domenico, 1470, e sul promotore dell’ opera, Giovan Vincenzo Tagliavia, quello che non è chiaro è il fatto che quest’ultimo governò in Città dal 1491 al 153856; la data di edificazione della Chiesa non coinciderebbe, quindi, con quella di

50Giardina, 1985, p. 45. 51Ibidem, p.35 . 52Ferrigno, 1909, p. 114. 53Ibidem, pp. 113 – 119. 54Noto, 1732, p. 154. 55Ferrigno, 1909, pp. 213 – 223.

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investitura del Conte, respingendo il pensiero del Ferrigno ma anche quella del Villabianca che, come ricordiamo, affida i lavori dell’edificio ad Antonio Tagliavia che le fonti pongono a capo di Castelvetrano dal 1488 al 1490.

E’ possibile allora che l’incertezza cronologica riscontrata riguardo l’autore di San Domenico sia legata alla già confusa successione di investitura di cui detto sopra rispetto la data di costruzione della Chiesa; accettando l’idea secondo la quale un Nino IV forse non sia mai esistito o che ci sia confusi fra Nino III e Simone Tagliavia, è comunque innegabile il ruolo che Antonio, prima, e Giovan Vincenzo, dopo, ebbero per le sorti di Castelvetrano.

Giovan Vincenzo, primo Conte e Barone di Castelvetrano, è figura chiave di quei progetti di natura matrimoniali legati ad interessi di tipo economico volti a garantire una discendenza nobile mediante accordi matrimoniali spesso incestuosi ma comuni a quei tempi.

Figlio di Antonio Tagliavia, andò in sposo nel 1491 a Beatrice d’Aragona e Cruyllas sorella di Carlo d’ Aragona marchese di Avola e Terranova; l’alleanza familiare con un casato così illustre quale quello degli Aragona, discendenti da Federico III

d’ Aragona, favorì l’ estensione delle proprietà già in possesso assicurando un’ ascesa politica che li proietterà fra le famiglie più illustri del Medioevo.

Se da un lato non vi si può non riconoscere una grande capacità politica e una capacità di gestione tale da espandere i propri limiti territoriali da una parte all’altra del Regno annettendo nuove baronie e nuovi feudi, dall’altro gli esiti di una alleanza così vantaggiosa gli permise, con privilegio del 26 ottobre del 1502, del 1505 e del 10 febbraio 1507, di acquisire Burgio Milluso; il 19 gennaio 1517 una nuova investitura della terra di Castelvetrano, della Baronia di Borsetto, del feudo di Pietra Belice, acquistata per 4.070 fiorini57, e del Castello della Pietra58; nel 1522 con privilegio dell’ Imperatore Carlo V l’ investitura a Conte di Castelvetrano, della Baronia di Borgetto e Pietra Belice59.

Strategie politico – parentelari che sicuramente fino ad allora non erano comuni al casato dei Tagliavia a cui l’ Aymard60 avrebbe dato un posto marginale all’interno della feudalità siciliana sicuramente fino a quando non si sarebbero uniti agli Aragona; una dimostrazione, questa, sia di come i Tagliavia riuscirono ad acquisire un potere che li porterà ai massimi livelli nella sfera politica internazionale, ma anche di come gli stessi Aragona si trovarono costretti ad acconsentire

57Cancila, 2007, p. 170.

58Noto, 1732, p. 35. 59Ibidem, p. 36.

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ad una unione, con accordo prematrimoniale61, con un casato poco regale pur di mantenere vivi i privilegi acquisiti in mancanza di un erede maschio.

Unica clausola fu la scelta, nell’uso del doppio cognome, di far premettere il cognome Aragona a quello dei Tagliavia; ovviamente la scelta era pienamente giustificata dalla discendenza nobile del casato materno che primeggiava su quella dei Tagliavia.

Situazione che ben rispecchia una condizione di rivoluzione socio – economica che interessa tutto il Mediterraneo feudale e coinvolge, in particolar modo, la Sicilia.

L’ incrementarsi, infatti, di traffici commerciali destinati allo sviluppo economico del territorio, in concomitanza con il diffondersi di una Cristianità che divenne fulcro centrale per la piccola realtà dell’isola, modificarono quel sistema feudale già presente arricchendolo di nuovi e importanti flussi esterni; uno di questi è proprio il coinvolgimento dei Tagliavia nella discendenza nobile aragonese62 che, secondo il nuovo sistema, senza più discendenza maschile e senza più godere del potere di cui le classi aristocratiche godevano prima del ‘500, si sarebbe annullata.

Scelte socio – politiche che si estesero anche ai successori di Giovan Vincenzo mediante unioni incestuose; escludendo da tali progetti il figlio Pietro, dedito ad una vita religiosa, sia il figlio Giovanni che Ferdinando, infatti, mantennero solida, con legami coniugali63, quella discendenza ormai pluriblasonata che garantirà una certa stabilità patrimoniale fondamentale per l’ascesa di quel Carlo, nipote di Giovan Vincenzo, che onorerà quel doppio cognome.

Prima della sua morte, con testamento in Notaio Carlo La Gatta di Castelvetrano datato al 22 febbraio 7 Ind. 153864, nei progetti di Giovan Vincenzo, vi era la volontà di unire in matrimonio il figlio Francesco, primogenito, con la cugina Antonia Concessa d’ Aragona, ereditando, così, anche gli stati di Avola e Terranova in possesso della nipote65 oltre all’eredità lasciata da padre e menzionata nello stesso testamento66;

un progetto che purtroppo fallì presto ma che trovò consolazione con un secondo matrimonio. Morto prematuramente Francesco, infatti, i Tagliavia progettarono una nuova unione fra Antonia Concessa e il terzogenito Giovanni il quale si ritroverà a gestire un patrimonio che accomunava tutta l’eredità paterna con quella coniugale degli Aragona.

Se l’unione delle due casate risulta essere l’elemento fondamentale affinchè il nuovo lignaggio riuscisse ad ottenere posizioni sociali di tutto rispetto è anche vero che a scongiurare un probabile

61Scalisi, 2012, p. 11. 62Cancila O., 1983, p. 143. 63Scalisi, 2012, p. 18. 64Cancila R., 2007, p. 171. 65Cancila O., 1983, p. 147. 66Cancila R., 2007, p. 171.

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indebolimento patrimoniale, che spesso conseguiva alla cessione in eredità di beni suddivisi per tutti i discendenti67, vi furono accordi testamentari che favorirono un unico discendente.

Dal testamento di Giovan Vincenzo, si evince, fra le sue volontà, di lasciare a Ferdinando solo una dote di 1450 onze e al figlio Giovanni tutti i beni del Casato; nel 1536 Giovanni riceverà gli stati di Castelvetrano, e le baronie di Burgio, Melluso e Pietra Bilici68.

Si assiste ad un primo vero passo verso l’acquisizione di titoli e cariche che permetteranno, a Giovanni, nel 1522, di fare della Baronia di Castelvetrano una Contea, della Baronia di Terranova, nel 1530, e di Avola, nel 1544, due Marchesati.

Fortuna, mista ad astuzia e capacità gestionale, che avvicinerà il nuovo casato sempre più ad un potere regio che, se fino ad allora si presentava ostile alle grandi aristocrazie per paura di averne sminuito il ruolo, durante il ‘500 si vedrà sostenuto da chi, come i Tagliavia Aragona, ne compone le sorti.

Lo stesso Giovanni per primo, insieme ad alti esponenti della nobiltà siciliana, si schierò tra le fila belliche combattendo per Carlo V in Africa, nel Mediterraneo e in Germania e ottenendo alcune fra le cariche militari più importanti di Gran Contestabile e Grande Almirante di Sicilia69; la fiducia resa al re e l’impegno profuso nell’espandere i confini della cristianità70 e, nello stesso tempo, la difesa dell’ Isola e dell'economia spagnola contrastata da Barbarossa, furono i motivi che lo incaricarono Presidente del Regno una prima volta nel 1539 e una seconda volta nel periodo compreso fra il 1544 e 1545.

I titoli così concessigli e il grande prestigio acquisito, saranno i motivi per cui lo si vedrà attento anche a gestire l’economia di un’ Isola i cui bilanci interni si sarebbero equilibrati solo mediante azioni mirate; un impegno, che si sarebbe dovuto svolgere con il coinvolgimento di una nobiltà siciliana in grado di acquistare beni incrementando gli introiti del Regno.

Un rischio a cui il Presidente in carica non poteva andare incontro visti gli ostacoli di un potere regio e papale troppo forti con i quali non sarebbe stato vantaggioso inimicarsi ma con i quali, invece, era proficuo mantenere rapporti di fiducia e cordialità affinchè si traessero ulteriori privilegi sia personali che inerenti l’unicità del dominio siciliano; non a caso, Giovanni non trascurò certo l’interesse per i propri possedimenti; a lui si deve l’acquisto, nel 1526, di quella dimora al centro della città di Palermo simbolo di un potere incontrastato cui lo stesso Aragona Tagliavia ne è esempio:

67Mineo, 2001, p. 48.

68Scalisi, 2012, pp. 20 – 21.

69Di Blasi e Gambacorta, 1815, p. 284, cit. in Scalisi, 2012, p. 11. 70Scalisi, 2012, p. 3.

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<<…una casa grande con giardino, stanze, teatro ed altro in essa esistente sita e posta […] nel quartiere di Siralcaide vicino la chiesa, e confraternita di S. Caterina dell’ Olivella con peso di pagare onze 4 mila a d.Pietro Antonio Farfaglia di utile dominio, ed altre 4000 alla detta chiesa di S. Caterina per il prezzo e capitale di o. 800 >>71.

In quello stesso edificio visse, i suoi primi anni Carlo Aragona Tagliavia, futuro Principe di Castelvetrano e successore diretto di Giovanni.

Antonia Concessa, moglie di Giovanni, figura carismaticamente assente nel quadro politico -nobiliare del Regno, nel suo testamento redatto dal Notaio Scavuzzo il 23 settembre 1537, non solo dichiara la volontà di essere sepolta nella Chiesa di Santa Maria di Gesù di Avola dove ancora riposava il corpo del padre Carlo, ma manifesta anche l’interesse ad assegnare al figlio Carlo […il marchesato di Terranova col misto e merio Imperio...]72 nominandolo, inoltre, erede particolare nella legittima; incarichi e possessi di cui avrebbe, però, usufruito il padre Giovanni almeno fino a quando Carlo non si fosse sposato; fino ad allora a Carlo sarebbero stati concessi dal padre 1200 ducati annui.

Un modo, questo, per assicurare una buona gestione dei beni, e mantenere salde le fortune della Famiglia; di li a breve gli Aragona Tagliavia assumeranno il titolo di Principi di Castelvetrano.

71Scalisi, 2012, p. 19.

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II.2 CARLO ARAGONA TAGLIAVIA PRIMO PRINCIPE DI CASTELVETRANO

“…a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de' bravi. Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de' suoi caratteri principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità. Fino dall'otto aprile dell'anno 1583, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d'Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d'Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi.” Si apre così la grande opera del Manzoni che, raccontando Milano, decanta il Principe di Castelvetrano Carlo Aragona Tagliavia governatore della città ma anche Duca di Terranuova, Marchese d'Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, gran Contestabile di Sicilia e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia.

Discendente di un casato già consolidato, Carlo acquisisce automaticamente l’influente eredità paterna; una eredità conquistata con l’unione delle due case, quella degli Aragona di Spagna e quella dei Tagliavia, mescolate in un’unica realtà amministrativa caratterizzata da accordi, strategie e fortune, specchio di una condizione storico - sociale in divenire.

A dimostrazione di una eredità già consistente, foriera di una carriera in salita fino alle massime onorificenze ispaniche, si ricordano le parole di Giovanni Aragona Tagliavia, padre di Carlo; così scriveva al sovrano1:

<< […] si segretamente che parera la gratia libera […] >>, << […]poneremo silentio alle altre […] >>, e ancora

<< […]riconoscendo quelli del ditto Regno di Sicilia che la M.ta v.ra cumple con quelli che la serveno haveranno causa efficacissima per servirla del mondo che io ho fatto con tutta la mia casa […] >>

Giovanni chiede di rinunciare alle sue nomine di Gran Contestabile e Almirante, in favore del figlio Carlo, il quale avrebbe, così ,potuto ottenere l’ufficio di Maestro Giustiziere, ovvero di coordinare e capeggiare la magistratura2.

Una manovra, questa, che avrebbe garantito al giovane Carlo una maggiore visibilità nei confronti di un potere spagnolo da tempo presente in Sicilia.

1Scalisi, 2012, p. 95.

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L’ interesse spagnolo, dimostrato già nel 13° secolo nei confronti di un’isola che potesse accrescere il potere regio, si rese concreto nell’ultimo decennio del XIV secolo con una “restaurazione” aragonese basata sulla conquista di quel baronaggio isolano ora coinvolto in azioni diplomatiche che gli garantiranno concessioni e beni.

Manovre che non esenteranno da contrasti interni la storia siciliana e che non sottrarranno l’ Isola ad un coinvolgimento nella nuova politica della Corona spagnola che, unificate quelle forze iberiche fino ad allora in netto disordine, sfocerà nel breve Imperialismo spagnolo di cui lo stesso nobile Carlo Aragona Tagliavia farà parte.

Se fino ad allora si assiste ad una società garante di una feudalità impegnata in azioni militari di difesa nei confronti di una Monarchia in continua crisi bellica, vediamo pian piano imporsi una società meno militarmente impegnata ma più interessata ad imporsi come aristocrazia terriera bramosa di potere e ricchezza.

Il sistema burocratico imposto dal potere monarchico nel Regno di Sicilia durante la prima metà del ‘500 siciliano, infatti, non risparmierà sicuramente l’intervento di potenti locali in grado di primeggiare sia come guida dei loro stati feudali e sia come autonomisti nel controllo dei municipi promuovendo, così, l’instaurarsi di un governo isolano autosufficiente ma comunque legatovi da vincoli di subordinazione.

Gli stessi Tagliavia Aragona fecero parte di quei gruppi di dirigenti che, nonostante l’incostante robustezza del Regno, più volte indebolito da condizioni storico – belliche di grande portata, rimasero fedeli al Regno assumendo, un po’ forse a conferma di reciproca fiducia, ruoli di grande responsabilità; si assiste, insomma, ad una ascesa politica impensabile per quella nobiltà che occupava, fino ad allora, il gradino più basso della scala gerarchica ma che diviene in poco tempo l’emblema politico della feudalità siciliana.

Massimo esponente di quella Monarchia Spagnola, ormai ben presente su tutto il territorio del Regno è Carlo,ancora giovane, ma già pronto per una futura carriera diplomatica e prestigiosa che lo proietterà, così, ai massimi livelli della scena internazionale.

Proponendosi promotore di un ordine sociale che lo stesso Re, da lontano, non poteva garantire, si conquistò il ruolo di mediatore accorto in materia finanziaria e fiscale sia per quanto riguarda i propri interessi che quelli dell’intero territorio.

Un ruolo di grande responsabilità ma anche una scelta ben congegnata che incoraggerà nuovi investimenti favorendo l’ acquisizione di nuove proprietà feudali.

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Seppur non da solo, ma affiancato da amministratori capaci che lo seguissero nelle scelte più delicate, Carlo riuscì in pochi anni a raddoppiare i suoi possedimenti; ai feudi già ricevuti per discendenza, si aggiunsero nuove proprietà.

Nel 1538, alla morte della madre3 riceve il Marchesato di Terranova e la Baronia d’ Avola delle quali avrebbe potuto usufruire il padre finchè fosse in vita; per privilegio dell’ 8 agosto 1543, reso esecutorio il 16 febbraio Ind. 3 1544, per concessione dell’ Imperatore Carlo V, presto, Avola si eleva a marchesato e Carlo acquisisce il titolo di 1° Marchese d’Avola4.

E’ alla morte del padre che, secondo quanto lasciato su testamento, Carlo si investe

l’11 settembre 1549 della contea di Castelvetrano, acquisendo il titolo di Conte, delle Baronie di Pietra Belice e Burgio Milluso, acquisendo il titolo di Barone, e di altre proprietà già appartenute al padre come i diritti e preminenze sulla baronia di Sommatino e i palazzi di Palermo e Siracusa5. Carlo visse proprio i suoi primi anni a Palermo, in quella dimora al centro della città, ora di sua proprietà, acquistata dal padre Giovanni nel 1526 simbolo del potere incontrastato di un casato che stava crescendo.

<<…una casa grande con giardino, stanze, teatro ed altro in essa esistente sita e posta […] nel quartiere di Siralcaide vicino la chiesa, e confraternita di S. Caterina dell’ Olivella con peso di pagare onze 4 mila a d.Pietro Antonio Farfaglia di utile dominio, ed altre 4000 alla detta chiesa di S. Caterina per il prezzo e capitale di o. 800>>6.

Al 1558 si data l’acquisto di <<un luogo con vigne, stanze, alberi, giardini, acque e suoi diritti, e pertinenze, esistente nei territori di questa [ … ]>>7.

Al 1562 si data, per 550 onze, l’acquisto del feudo di Favara sito nel territorio di Castelvetrano. successi che rientrano perfettamente in quel sistema fatto di accordi prematrimoniali basati su alleanze e trattative che gli permisero di occupare importanti posizioni di comando e che

segneranno tutta la politica del Casato e di cui Carlo non sarà promotore ma di cui beneficerà. Andato in sposo a Margherita Ventimiglia, figlia del Marchese di Geraci, con contratto matrimoniale stipulato il 7 marzo 1544 presso il notaio Giacomo de Scavuzzo, Carlo usufruirà, infatti, della dote coniugale che il Marchese di Geraci avrebbe stabilito in 210 once l’anno

<<libere ed immune da ogni dono, sussidio, mutuo […]>> a meno che non fosse morto prima della sposa o in caso di scioglimento del matrimonio; nel primo caso la sposa avrebbe ricevuto

3Cancila R, 2007, p. 21. 4Marchese di Villabianca, 1754 - 59 p. 289. 5Scalisi, 2012, p. 102 – 103. 6 Ibidem, p. 19. 7Ibidem, pp. 163 – 164.

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5.000 scudi e nel secondo caso invece lo sposo avrebbe dovuto ritornare la dote alla famiglia della sposa. 8

A Carlo, andranno in dote per sua discendenza, invece, il Marchesato di Castro e Terra d’ Avola << […] con il suo integro stato, con i diritti e le pertinenze tutte […]>>9.

Un impegno, quello matrimoniale, che spingerà Carlo a esporsi per nuovi incarichi ancora sperati. Non esente da opposizioni, come quella del Vicerè Vega, convinto dall’ancora acerba capacità gestionale del giovane, Carlo riesce comunque ad ottenere il titolo di Capitano di Giustizia a Palermo nel 1548 e ad istaurare importanti rapporti, superando le incertezze del Vega sul nominarlo capitano del Marchesato di Terranova10.

Un incarico che cela una forte predisposizione dell’ Imperatore nei confronti dell’Aragona e una profonda delusione per un atteggiamento, quello del Vega, che sembra valicarlo nel suo ruolo; una occasione che Carlo, spinto da brama di successo ma, nello stesso tempo, consapevole della disciplina imposta dal volere imperiale, non si lascia sfuggire attuando quel piano, da tempo ben congeniato, fondato su una politica di tipo affaristica che lo condurrà a stringere forti legami con influenti personalità del governo come con il Granvelle.

Primo Consigliere dell’ Imperatore, artefice di quell’appellativo “Magnus Siculus” che segnerà tutta la carriera diplomatica di Carlo, Granvelle, nel 1553, in seguito alle continue sollecitazioni di Carlo nominerà a Cardinale11 suo zio Pietro Aragona Tagliavia, dimostrando, così, la netta posizione di comando alla quale sta giungendo il Capitano interessandosi anche ad onorare il proprio casato oltre che occuparsi di affari di tipo economico – finanziario rivolte ad assicurare ordine ed equilibrio al Regno.

Carlo riuscì presto a tessere fruttuose relazioni anche con banchieri di fiducia chiamati a gestire operazioni economiche proficue; al 1548 risale la sua richiesta a due banchieri lucchesi, Minocchi e Mahona riguardo lo scambio di onze siciliane con 500 scudi d’oro d’ Italia con l’onere di consegnarglieli; nel 1547, invece, si attesta un versamento dello stesso Carlo di 872 onze a mercanti messinesi12.

Una innata capacità governativa ma anche un equilibrato rapporto col sovrano che non dimenticò la disponibilità dell’Aragona Tagliavia nel “servire” il Regno.

Parla così, Carlo, in occasione del Parlamento del 155213:

8ASN, Fondo Aragona Pignatelli Cortés, Scanzia 128, fasc. 1, n. 30., cit. in Scalisi, 2012, p. 100. 9

Ibidem.

10Scalisi, 2012, p. 106.

11Zapperi, 1960 – 2012, cit. in Scalisi, 2012, p. 121.

12Archivio di Stato di Palermo, fondo notai defunti, Notaio Occhipinti, minuta 3758. 13Scalisi, 2012, p. 110.

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