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« C’EST LA FAUTE À MOLIÈRE » : ROUSSEAU E MARMONTEL LETTORI DEL MISANTHROPE

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« C’EST LA FAUTE À MOLIÈRE » : ROUSSEAU E MARMONTEL LETTORI

DEL MISANTHROPE

MARCO MENIN Università di Torino (Italia), Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione Un nuovo Misanthrope?

Per tutto il diciottesimo secolo il Misanthrope fu considerato, insieme al

Tartuffe, il capolavoro indiscusso di Molière1. Esso divenne l’emblema della

comédie française, poiché apparve in grado di rispecchiare, meglio di

qualsiasi altra opera, quell’« imitation des mœurs mise en action » (Diderot et d’Alembert, 1751-1765, vol. III : 665) che – stando alla definizione offerta dall’Encyclopédie – rappresenta l’essenza stessa della commedia. L’eccezionalità della figura di Molière, considerato superiore persino ad autori della classicità, è ricordata, tra gli altri, da Diderot nel Discours sur la poésie

dramatique del 1758. Qui il direttore dell’Encyclopédie, pur essendo uno dei

più convinti fautori della necessità di una riforma della scena teatrale, evidenzia come la grandezza di Molière sia tale da risultare intimidatoria per chiunque voglia cimentarsi, dopo di lui, nel genere comico : « Il est des endroits [dans l’œuvre de Molière] qui font tomber la plume des mains. Si l’on a quelque talent, il s’éclipse » (Diderot, 1975-2004, vol. X : 395).

Alla luce di tali premesse è facile comprendere il clamore che suscitò, sempre nel 1758, la Lettre à d’Alembert sur le spectacles di Rousseau, nella quale egli mette in discussione l’assioma morale su cui si fonda il teatro comico – vale a dire la convinzione che il pubblico possa emendare i propri costumi ridendo dei vizi di personaggi ridicoli – attraverso una serrata critica dell’opera di Molière in generale, e del Misanthrope in particolare. La tesi che Jean-Jacques si propone di dimostrare è infatti quella secondo cui « le plaisir même du comique étant fondé sur un vice du cœur humain, […] plus la comédie est agréable et parfaite, plus son effet est funeste aux mœurs » (Rousseau, 1959-1995, vol. V : 31). La colpa di Molière, « le plus parfait auteur comique dont les ouvrages nous soient connus » (ibidem), risiede pertanto paradossalmente nella sua grandezza : la sua produzione è nociva ai costumi non a discapito della sua perfezione letteraria, ma proprio a causa di tale perfezione. Coerentemente con questa linea argomentativa, la scelta della

pièce da analizzare in modo più approfondito ricade su « celle qu’on reconnoit

unanimement pour son chef-d’œuvre : je veux dire, le Misanthrope » (idem : 33)2.

1 Sulla straordinaria fortuna settecentesca del Misanthrope cf. Fellows, 1967; Delon, 1972; Wagner, 1973; Worth, 1991 e Gaines, 2002 : 162-163.

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Rousseau tuttavia, quasi a smentire ciò da lui stesso affermato, conduce una lettura del Misanthrope interamente basata sulla constatazione di alcune imperfezioni riscontrabili in scene specifiche (il giudizio espresso sul sonetto di Oronte, la discussione con il valletto Du Bois, ecc.) e, soprattutto, sull’insanabile contrasto tra il personaggio di Alceste e il carattere – espresso già nel sottotitolo dell’opera L’Atrabilaire amoureux – che egli avrebbe dovuto incarnare, vale a dire la misantropia : « Moliere à mal saisi le Misanthrope ! Pense-t-on que ce soit par erreur ? Non, sans doute. Mais voilà par où le désir de faire rire aux dépens du personnage, l’a forcé de le dégrader, contre la vérité du caractère » (idem : 37). Il presunto misantropo di Molière, agli occhi di Rousseau, non è altro che un uomo che ama gli altri uomini e odia i vizi. Da questa inversione di valori discende la nocività della commedia che, invece d’indirizzare moralmente la sensibilità degli spettatori, si trasforma in « une école de vices et de mauvaises mœurs » (idem : 32). Per questo motivo Rousseau difende a spada tratta la figura di Alceste, « un homme droit, sincére, estimable, un véritable homme de bien » (idem : 34), a discapito di quella di Philinte. Costui è presentato da Molière come « le Sage de la Pièce » (idem : 36), ma è esponente a ben vedere di quei perversi valori incentrati sul prevalere dell’apparenza sociale sull’autenticità naturale, la cui affermazione ha caratterizzato l’evoluzione storica del genere umano, così come ampiamente descritto nei due Discours. Proprio la tensione, centrale nel pensiero di Rousseau, tra l’être (l’honnête homme) e il paraître (l’homme du

monde) viene utilizzata per denunciare la scelta di Molière di coprire di

ridicolo Alceste al solo fine di soddisfare i gusti del pubblico :

Il [Molière] n’a donc point prétendu former un honnête homme, mais un homme du monde ; par conséquent, il n’a point voulu corriger les vices, mais les ridicules, et […] il a trouvé dans le vice même un instrument très-propre à y réussir. Ainsi voulant exposer à la risée publique tous les défauts opposes aux qualités de l’homme aimable, de l’homme de Société, après avoir joüé tant d’autres ridicules, il lui restoit à joüer celui que le monde pardonne le moins ; le ridicule de la vertu : c’est ce qu’il a fait dans Le Misanthrope (idem : 33-34).

Al termine della sua analisi Rousseau arriva addirittura a ipotizzare, in una dissacrante nota a piè di pagina, una « riscrittura » della commedia : « Je ne doute point que, sur l’idée que je viens de proposer, un homme de génie ne put faire un nouveaux Misanthrope, […] égal en mérite à celui de Moliere, et sans comparaison plus instructif » (idem : 39). Tale riscrittura, stando ai principi da lui forniti, si sarebbe verosimilmente concretizzata nell’aggiunta di un sesto atto3, ove mettere in scena la redenzione dello stesso misantropo, al

fine di riscattare la moralità della pièce che – nella sua forma originaria – « porte au mal, ou le faux bien qu’elle prêche est plus dangereux que le mal même » (idem : 42).

La linea argomentativa di Rousseau appare, di primo acchito, piuttosto ambigua. Come conciliare la reiterata affermazione della perfezione di Molière e l’ammirazione incondizionata nei suoi confronti, con la volontà di modificare il suo capolavoro ? Questa oscillazione fa emergere la tensione che sussiste nella sua analisi del Misanthrope, e del teatro in generale, tra lo sguardo del

2 Un giudizio analogo era stato già espresso dall’abate Du Bos: « Depuis longtemps les Français citent Le Misanthrope comme l’honneur de leur scène comique. C’est la pièce française que nos voisins ont adoptée avec la plus grande prédilection » (Du Bos, 1993 : 305). 3Cf. Escola, 2003.

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philosophe, interessato principalmente alla questione morale, e lo sguardo

dell’esteta (a sua volta autore teatrale4), volto a cogliere primariamente la

bellezza letteraria. Si tratta di una tensione necessaria e feconda che, invece di condurre a un’aporia, aiuta a comprendere il messaggio più profondo, e autenticamente filosofico, della Lettre à d’Alembert sur le spectacles.

Al di là delle vicende contingenti che portarono alla sua composizione (com’è noto, la pubblicazione dell’articolo « Genève » nel settimo volume dell’Encyclopédie, firmato da d’Alembert) e delle querelles personali che la animano, la Lettre à d’Alembert rappresenta una tappa importante nell’evoluzione del pensiero di Rousseau5. Se in tale opera, come d’altronde

nel resto della sua variegata produzione, Jean-Jacques s’interroga sui rapporti che legano politica e morale, egli adotta tuttavia un punto di vista specifico, che consiste nell’esplorare sistematicamente la mediazione estetica che esiste tra questi due poli. Da un lato, come mostra l’analisi delle passioni sociali, si tratta d’individuare gli effetti morali e politici dell’arte, in particolar modo dell’arte drammatica (sia essa tragedia o commedia) ; dall’altro lato, specularmente, è necessario interrogarsi su quella dimensione estetica e spettacolare che assumono inevitabilmente la morale e la politica.

In tale prospettiva, la lettura che Rousseau offre del Misanthrope, lungi dal dover essere relegata tra le sterili curiosità storiografiche, assume una pregnanza teorica non irrilevante. Essa trascende infatti la semplice ottica della critica teatrale, per investire alcuni problemi centrali dell’etica settecentesca : (i) l’influsso che le emozioni rappresentate sulla scena possono avere sulla sensibilità dello spettatore ; (ii) la relazione tra emozione vera ed emozione recitata e (iii) la possibilità d’individuare una forma morale di riso. In particolar modo per quel che concerne quest’ultimo aspetto, proprio il giudizio espresso sull’opera di Molière, la cui profondità non fu colta dalla maggior parte dei contemporanei, contribuì in modo determinante a forgiare il pregiudizio secondo cui Rousseau sarebbe un critico implacabile e un nemico giurato di qualsiasi forma di buon umore, e dell’atto di ridere in particolare. Questo « mito » si è a lungo riflesso sulla recezione critica della sua opera, a partire da Émile Faguet, autore di una monografia intitolata significativamente Rousseau contre Molière (cf. Faguet, 1911), sino a giungere a Jean Goldzink. Costui, nel suo studio dedicato all’idea del comico nell’età dei Lumi, attribuisce a Rousseau una visione completamente negativa dell’atto di ridere, il quale – con esplicito riferimento proprio al Misanthrope – « est donc [pour lui] le vice, le vice des vices, le vice absolu, et très précisément la face grimaçante de la misanthropie, de la vraie misanthropie, qui est haine du genre humain » (Goldzink, 2000 : 62).

La questione è in realtà assai più articolata e sfumata. Nella Lettre à

d’Alembert non è infatti possibile instaurare una grossolana identificazione tra

la commedia (o, se si preferisce, Molière), il comico e l’emozione del riso. La critica della commedia non è necessariamente critica del comico e la critica del comico, a sua volta, non coincide con una critica dell’atto di ridere, ma

4 All’epoca della Lettre à d’Alembert Rousseau aveva composto, o almeno abbozzato, già sette

pièces teatrali : Iphis, La Découverte du nouveau monde, Les Prisonniers de guerre, L’Engagement téméraire, Arlequin amoureux malgré lui, Narcisse ou l’Amant de lui-même e La Mort de Lucrèce. Solo Narcisse aveva avuto una rappresentazione pubblica, mentre L’Engagement téméraire era stato rappresentato in privato.

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semmai – come si proverà a fare emergere nel paragrafo conclusivo – con quella di una sua modalità specifica.

Un utile strumento per far luce sui complessi rapporti che orientano la lettura rousseauiana di Molière può essere offerta, paradossalmente, dalle obiezioni che mosse alla Lettre à d’Alembert non tanto il suo destinatario, quanto piuttosto Jean-François Marmontel, autore di una Apologie du théâtre (1761) scritta in esplicita contrapposizione con le idee di Rousseau.

« École du vice » o « école des citoyens » ?

L’Apologie du théâtre, esattamente come la Lettre che essa si propone di confutare, è uno scritto animato da una profonda vis polemica. I rapporti personali tra Marmontel e Rousseau furono del resto tesi sin a partire dai primi incontri presso il salotto del barone d’Holbach, per diventare in seguito apertamente conflittuali. Nelle Confessions Rousseau attribuisce l’origine di tale scontro proprio all’invio a Marmontel della Lettre à d’Alembert e alla successiva recensione che questi scrisse per il Mercure de France, « avec un fiel qui se sent aisément » (Rousseau, 1959-1995, vol. I : 502). Marmontel, da parte sua, tratteggia nei Mémoires un ritratto particolarmente ostile di Rousseau, accusandolo d’ipocrisia, ingratitudine e orgoglio ; nella stessa

Apologie du théâtre riesce a tratti a celare a stento un certo risentimento

personale6.

La sua minuziosa disamina – che è estremamente più prolissa del testo che si propone di confutare7 – pur essendo talvolta incentrata su argomenti già

utilizzati da altri avversari di Rousseau (in particolare Voltaire), presenta l’indubbio merito di cogliere con lucidità l’importanza che assumeva, nella

Lettre à d’Alembert, il confronto con Molière, la cui figura era già

polemicamente evocata nella recensione apparsa sul Mercure de France che tanto infastidì Jean-Jacques : « Il n’y a qu’un philosophe qui regrette le temps où l’homme marchait à quatre pattes, qui puisse trouver le Misanthrope de Molière trop doux et trop civilisé » (citazione tratta da Trousson, 2000 : 139). Marmontel si rese conto di come l’interpretazione del Misanthrope costituisca – agli occhi di Rousseau – il cuore di un’analisi « sociologica » della creazione letteraria che, grazie all’emozione da essa veicolata, diviene un dispositivo fondamentale per la costruzione del soggetto morale e politico8.

Al di là della sua perfezione formale, il Misanthrope presenta infatti un preciso contenuto filosofico9, che emerge con nettezza già nel primo atto. La

lunga scena iniziale, oltre naturalmente a introdurre i personaggi e le situazioni che s’intrecceranno nella vicenda, si può considerare alla stregua di una vera e propria disputatio10 che vede contrapposti due caratteri – l’atrabiliare e il flemmatico11 – sostenitori di due tesi antagoniste e di due

sistemi di pensiero contrapposti. Alceste, che si lamenta della condotta di Philinte, biasimandolo per aver abbracciato calorosamente un semplice

6 Sull’atteggiamento generale di Marmontel nei confronti di Rousseau cf. Cardy, 1972; sulla

querelle scatenata dalla Lettre à d’Alembert cf. Hoffmann, 1976.

7 Su questo aspetto, rinviamo in particolare agli studi di Nakagawa, 1992 e 1993. 8 Cf. Hamilton, 1975.

9 Questo aspetto è stato recentemente ribadito da Mckenna, 2005. 10 Cf. Bernardi, 2011 : 165-169.

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conoscente come se si trattasse di un amico di vecchia data, è portavoce di un ideale di vita improntato alla trasparenza e alla più assoluta sincerità :

Je veux qu’on soit sincère, et qu’en homme d’honneur,

On ne lâche aucun mot qui ne parte du cœur (Molière, 2010 vol. I : 648).

Philinte, da parte sua, controbatte che per vivere in armonia nella società è necessario salvare le apparenze. Poiché in alcuni casi essere sinceri può risultare scorretto o addirittura ridicolo, è conveniente dire ciò che gli altri vogliono sentirsi dire e tener celati i propri sentimenti reali :

Mais quand on est du monde, il faut bien que l’on rende Quelques dehors civils, que l’usage demande (idem : 649).

Entrambi gli interlocutori sono consapevoli di come la loro diatriba non riguardi banalmente le buone maniere e la politesse mondana, ma investa l’essenza stessa del legame sociale. Le loro argomentazioni sono tuttavia opposte, sebbene speculari : secondo Philinte è l’eccessivo rigore morale di Alceste a distruggere la sociabilità dell’essere umano, mentre secondo Alceste è la finta compiacenza dell’amico a deteriorare nel profondo le relazioni interpersonali. Come ha mostrato Jacques Guicharnaud, non esiste in realtà alcuna forma di mediazione tra queste diverse opinioni e, sino al calare del sipario, « chaque personnage se préfère à tous les autres » (Guicharnaud, 1963 : 510). Da qui discende il finale amaro della commedia, segnato dall’esilio volontario di Alceste, che si sente deluso e tradito da tutti e da tutto. Rousseau e Marmontel condividono l’idea secondo cui la valenza morale della commedia risiederebbe proprio nel suo tematizzare la possibilità di una correzione, agendo sulla sensibilità dello spettatore attraverso la messinscena di un personaggio « incorreggibile » come Alceste12. Se le premesse da cui i

due autori prendono le mosse sono dunque simili, le conseguenze che ne traggono sono sicuramente divergenti. Secondo Rousseau, come si è visto, il processo « educativo » legato allo spettacolo teatrale è destinato a fallire poiché il genere comico ha perso di vista la sua potenziale funzione morale : « Voilà l’esprit général de Moliere et de ses imitateurs. Ce sont des gens qui, tout au plus, raillent quelquefois les vices, sans jamais faire aimer la vertu » (Rousseau, 1959-1995, vol. V : 32). La commedia, invece di criticare come dovrebbe i vizi veri e propri, che appartengono all’umanità in quanto tale, prende semplicemente di mira i ridicules, vale a dire i difetti legati alla socievolezza. Essa si limita così di fatto a riprodurre le dinamiche dell’incedere storico, che ha visto il prevalere degli uomini più astuti e potenti, finendo con l’ « exciter les ames perfides à punir, sous le nom de sottise, la candeur des honnêtes gens » (ibidem).

Secondo Marmontel, al contrario, è proprio il « realismo » della commedia a conferirle interesse filosofico. In quanto « la scène est un tableau des passions dont le germe est dans notre cœur » (Marmontel, 1761 : 221), la commedia può ambire a un’importante funzione pedagogica : « Si donc les mœurs sont fidèlement peintes sur le théâtre comique ; si les vices et les travers en sont les jouets méprisés, la comédie peut avoir son utilité morale » (idem : 265). L’opera di Molière, che costituisce una vera e propria « école des

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citoyens » (idem : 224), deve pertanto essere difesa contro l’insensata accusa di Rousseau :

Ce n’est donc pas contre un babil philosophique, mais contre une imputation très-grave que je m’élève. Il s’agit de faire voir que depuis cent ans les pères et les mères ne sont pas assez imbéciles ou assez pervers, et dans la capitale et dans toutes les villes du royaume, et dans toutes celles de l’Europe, où cet excellent comique [Molière] est joué, pour mener leurs enfants à la plus pernicieuse école du vice (idem : 269).

Il Ginevrino, secondo Marmontel, non ha saputo scorgere la nozione fondamentale che è alla base della « morale » di Molière, ovvero la distinzione tra i « vices des fripons » e i « vices des dupes » : mentre i primi « attentent gravement à la société » (idem : 270), i secondi riguardano semplicemente il carattere dei singoli individui. Questa dicotomia « contient toute la philosophie de Molière, et ma réponse à M. Rousseau » (idem : 271). La possibilità del miglioramento dei costumi dipende dal fatto che il ridicolo non intacca la virtù in quanto tale – la quale inerisce la società – ma solo il difetto d’Alceste, ascrivibile tra i vices des dupes, che consiste nell’esacerbare la propria virtù personale : « Le but de Molière a donc été de démasquer les fripons, et de corriger les dupes; or c’est l’objet le plus utile qu’il pût jamais se proposer » (ibidem). Per questa ragione, « ce n’est donc pas le ridicule de la vertu que [Molière] a voulu jouer, mais un ridicule qui accompagne quelquefois la vertu » (idem : 292).

In definitiva, Marmontel rimprovera Rousseau di aver scambiato Alceste per un « Misanthrope métaphysique » (idem : 298), cioè un personaggio ideale, emblema di un’irrealizzabile morale astratta : « Il est inutile de donner au théâtre des leçons d’une morale outrée, qu’il ne seroit ni possible ni honnête de pratiquer dans le monde » (idem : 304). Tutta la critica della commedia di Molière sarebbe pertanto costruita su principi erronei, che fanno perdere qualsiasi pregnanza alle conclusioni tratte : « Le Misanthrope de M. Rousseau n’est pas digne à mes yeux de ce titre : il est plus inutile encore de réfuter sa conclusion contre la morale du Misanthrope et de tout le théâtre de Molière. Si les principes sont détruits, la conséquence tombe d’elle-même » (idem : 305).

La moralità del riso

Al di là della finezza e della persuasività che si voglia attribuire alle obiezioni specifiche contenute nell’Apologie du théâtre, esse fanno emergere una questione più generale che aiuta a comprendere l’opposta valenza che Rousseau e Marmontel attribuiscono al Misanthrope, ovvero la relazione che s’instaura tra l’emozione vera e l’emozione recitata.

Secondo Marmontel – come del resto secondo Diderot nel suo celebre

Paradoxe sur le comédien – l’emozione recitata ha una valenza morale superiore rispetto a quella naturale. Tale idea è espressa con particolare forza, più ancora che nell’Apologie du théâtre, negli Éléments de littérature, dati alle stampe nel 1787. L’intera opera, strutturata attraverso 192 voci tematiche che esaminano le categorie essenziali dell’estetica, trova il suo elemento unificatore nella convinzione che il pathos letterario debba riuscire a coniugare, per mantenere intatta la sua forza persuasiva, la potenza estetica

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con quella morale. Il raggiungimento di questo delicato equilibrio dipende proprio dalla capacità dell’oratore (ma il discorso è applicabile per analogia all’attore) di rappresentare e suscitare l’emozione, come conferma la dicotomia fondamentale che Marmontel individua all’interno del « patetico » : « Une distinction qu’on n’a pas assez faite, et qui peut avoir son utilité, est celle des deux pathétiques ; l’un direct, et l’autre réfléchi » (Marmontel, 2005 : 852)13. Nel primo caso ci si trova dinnanzi alla continuità tra emozione

rappresentata ed emozione suscitata, mentre nel secondo caso tale continuità viene meno a favore di una preponderanza dell’elemento razionale, il quale « media » l’emozione stessa al fine d’indirizzarla : « J’appelle direct, le

pathétique dont l’émotion se communique sans changer de nature […].

J’appelle réfléchi, le pathétique dont l’impression diffère de sa cause » (ibidem). Mentre il patetico diretto rischia tuttavia perennemente di cadere nell’eccesso o di avere una durata persuasiva limitata al presente, il patetico indiretto « il s’insinue, il pénètre, il s’empare insensiblement des esprits et les maîtrise, sans qu’ils s’en aperçoivent, d’autant plus sûr de ses effets qu’il paroît agir sans effort » (idem : 852-853).

Questa superiorità dell’emozione « a freddo » è esemplificata – quando si tratta di approfondire il ruolo che l’emozione gioca nella commedia – proprio dall’opera di Molière, che è la sola in grado di offrire quella « mediazione » filosofica e morale assente in tutti i suoi imitatori :

Ce qui manque à la plupart des peintres de caractères, et ce que Molière, ce grand model en tout genre, possédait éminemment, c’est ce coup d’œil philosophique qui saisit non-seulement les extrêmes, mais le milieu des choses. Entre l’hypocrite scélérat, et le dévot crédule on voit l’homme de bien qui démasque la scélératesse de l’un, et qui plaint la crédulité de l’autre (idem : 287-288).

Lo stesso Misanthrope, già considerato nell’Apologie du théâtre la trasposizione di una « morale en action » (Marmontel, 1761 : 283), viene qui riletto alla luce di tale meccanica emozionale : « Molière met en opposition les mœurs corrompues de la société, et la probité farouche du Misanthrope : entre ces deux excès paraît la modération d’un homme du monde qui hait le vice, mais qui ne croit pas devoir s’ériger en réformateur » (Marmontel, 2005 : 288).

Rousseau condivide con Marmontel l’idea che esista una differenza qualitativa e non semplicemente di grado, come invece sosteneva l’Abate Du Bos, tra l’emozione reale e l’emozione simulata. Egli, tuttavia, ribalta completamente la valutazione dell’autore degli Éléments de littérature : la differenza di natura tra i due tipi d’emozione risiede infatti nell’incapacità dell’emozione « recitata » d’instaurare una qualsiasi relazione morale tra gli individui : « L’on croit s’assembler au Spectacle, et c’est-là que chacun s’isole ; c’est-là qu’on va oublier ses amis, ses voisins, ses proches, pour s’intéresser à des fables, pour […] rire aux dépens des vivans » (Rousseau, 1959-1995, vol. V : 16). Le risate degli spettatori della commedia, esattamente come quelle dei frequentatori dei salotti parigini descritti nella Nouvelle Héloïse14 scaturiscono in definitiva da un sentimento di superiorità sul prossimo, favorito dalla messa in scena di un’umanità avvilita : « C’est une erreur, […]

13 Sulla retorica di Marmontel si rimanda a Sermain, 1999 e a Buffat, 2003. 14 Cf. Rousseau, 1959-1995, vol. II : 248.

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d’espérer qu’on y montre fidèlement les véritables rapports des choses : car, en général, le Poëte ne peut qu’altérer ces rapports pour les accommoder au gout du peuple. Dans le comique il les diminue et les met au-dessous de l’homme » (idem : 25). In questa prospettiva, il teatro non solo non può migliorare né i sentimenti né i costumi, ma ha inevitabilmente effetti perversi sulla sensibilità umana. I « rires moqueurs » che scaturiscono dalla rappresentazione delle debolezze altrui non conducono infatti a una vera catarsi, ma esautorano lo spettatore da un autentico ripensamento morale, favorendo l’egoismo e il cinismo: « À force de craindre les ridicules, les vices n’effrayent plus » (idem : 24).

Bisogna trarre da simili premesse la conclusione che Rousseau neghi, opponendosi anche in questo caso radicalmente a Marmontel15, qualsiasi

funzione morale all’atto di ridere ? La risposta a questo interrogativo mette nuovamente in gioco la relazione con l’autore del Misanthrope. Il riso, com’è noto, divenne un criterio costitutivo del genere comico proprio grazie all’opera di Molière, che seppe conferirgli un senso e un’utilità morale prima sconosciuti. L’estetica teatrale del Grand Siècle, infatti, era stata per lo più caratterizzata – come ha mostrato Dominique Bertrand (cf. Bertrand, 1995) – da una valutazione negativa dell’atto di ridere, aristotelicamente interpretato come espressione del brutto. Rimane dunque da domandarsi come mai Molière sia nonostante tutto uno degli autori preferiti di Rousseau e se la valutazione dell’emozione incida in qualche modo su questa predilezione. Oppure bisognerà concludere che Jean-Jacques ama un Molière senza riso, contro lo stesso Molière ?

In realtà, come emerge con nettezza nell’Émile, Rousseau non condanna l’atto di ridere in sé. Esso, al contrario, viene ricondotto ai « movimenti » naturalmente buoni che caratterizzano la natura umana ed è apertamente annoverato tra le passioni dominanti dell’infanzia : « Un enfant n’a que deux affections bien marquées, la joie et la douleur ; il rit ou il pleure, les intermédiaires ne sont rien pour lui : sans cesse il passe de l’un de ces mouvemens à l’autre » (Rousseau, 1959-1995, vol. IV : 516). A essere condannata è la degenerazione di questa emozione, accidentale ma non necessaria, che caratterizza la società – e dunque il teatro, che della società è espressione privilegiata. È così fondamentale tenere separate con nettezza la realizzazione positiva dell’atto di ridere, ovvero la gaieté, dalla sua degenerazione negativa, generalmente indicata con il termine « moquerie ». Nel primo caso si tratta di un’emozione positiva e legittima, che riprende la naturalezza di una passione pre-morale elevandola a strumento di edificazione della socialità umana ; nel secondo si tratta al contrario di un sentimento artificiale e convenzionale. Se quest’ultima forma di riso, « fredda » e distaccata16, snatura l’emozione stessa trasformandola in uno strumento di

dominio sul prossimo, il vero riso, inteso come un’emozione autenticamente morale, può diventare degna espressione della socialità dell’essere umano17.

In quanto « humour affectueux » (Crogiez, 1997 : 276), esso si può considerare non solo una manifestazione spontanea della vita interiore, ma

15 « Le rire est une convulsion douce, que le plus grand nombre des hommes préfère, autant qu’il le peut sans rougir, aux plaisirs les plus délicats du sentiment et de la pensée » (Marmontel, 2005 : 567).

16 La distinzione tra « warm laughter » e « hot laughter » è proposta da Woodruff, 1997 : 326. 17 Sulla concezione generale del riso in Rousseau cf. Chamayou, 2009. Sulla duplicità morale dell’atto di ridere, mi permetto di rinviare a Menin, 2014.

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soprattutto uno strumento particolarmente efficace per la comunicazione con gli altri individui. L’atto di ridere consente infatti, in alcuni momenti privilegiati, una circolazione gioiosa dell’emozione, grazie alla quale l’interiorità del soggetto può manifestarsi con immediatezza e trasparenza nell’esteriorità, sino a dilatarsi e « fondersi » con il mondo circostante : « Le sujet de la joie collective fait l’expérience d’une dilatation du monde ; il cesse de s’identifier au sujet social efficace qui utilise autrui comme moyen de sa satisfaction […], pour se reconnaître comme centre de vie expansive, foyer d’offrande et acceptation du don d’autrui » (Vernes, 1978 : 116).

Un esempio particolarmente evidente di questo meccanismo di « contagio » virtuoso del riso è rintracciabile proprio in una celebre nota a piè di pagina della Lettre à d’Alembert. Qui Jean-Jacques ricorda una festa ginevrina, descritta come « une danse des gens égayés » (Rousseau, 1959-1995, vol. V : 123), alla quale aveva assistito da bambino in compagnia del padre. Questa festa spontanea, che coinvolge il reggimento dei soldati di Saint-Gervais, è emblema dell’ideale di una gioia collettiva in grado d’instaurare uguaglianza e fratellanza tra gli uomini, superando le distinzioni sociali :

La danse fut suspendüe ; ce ne furent qu’embrassemens, ris, santés, caresses. Il résulta de tout cela un attendrissement général que je ne saurois peindre, mais que, dans l’allegresse universelle, on éprouve assés naturellement au milieu de tout ce qui nous est cher. Mon Pére, en m’embrassant, fut saisi d’un tressaillement que je crois sentir et partager encore (idem : 123-124).

In questo caso è la società stessa a diventare uno spettacolo per se stessa e a coinvolgere in maniera indifferenziata la totalità dei suoi membri, senza alcuna distinzione tra attori e spettatori, mettendo in scena quella che si può considerare una delle poche manifestazioni autenticamente morali dell’arte drammatica, chiaramente sui generis, rintracciabile nella Lettre à d’Alembert.

La colpa di Molière – che coincide in qualche modo con il « peccato originale » del genere comico – non risiede, in tale prospettiva, nel fatto di servirsi dell’emozione del riso in sé, bensì della sua degenerazione tipica dell’homme de société. Poiché lo humour satirico che si esprime nella commedia è una fedele trasposizione letteraria del riso immorale (la

moquerie), esso deve venir rifiutato con fermezza. Il fallimento della

commedia moderna, che si limita a criticare il ridicolo e non il vizio, è pertanto un fallimento eminentemente politico. Persino la miglior espressione letteraria di tale genere (vale a dire il Misanthrope) non può assolvere – precisamente a causa delle sue caratteristiche estetiche – quel compito civico (il perfezionamento dei costumi dei cittadini) che sia d’Alembert sia Marmontel le assegnavano.

***

In conclusione, l’ambigua relazione che lega Rousseau a Molière e il suo paradossale tentativo di « correggere » il Misanthrope – che si è qui provato a illustrare attraverso la polemica « mediazione » di Marmontel – fanno emergere la consapevolezza di come qualsiasi scelta estetica implichi inevitabili ripercussioni morali e sociali. Se è vero, de facto, che l’estetica e la politica non hanno saputo convergere nella commedia moderna, è altrettanto vero che nulla vieta, de jure, d’immaginare che ciò sia possibile. La necessità di una sinergia tra i principi del diritto politico e i « principi del diritto poetico

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» si può così probabilmente considerare come il messaggio più profondo della tormentata lettura rousseauiana di Molière, la quale mette in luce in tutta la sua forza quel nesso tra estetica e potere che caratterizza inevitabilmente l’esistenza umana, sulla scena del teatro come su quella del mondo.

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