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Sviluppo di una tecnica ottica di lettura attiva per i superheated emulsion dosimeters

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Università di Pisa

Dipartimento di Fisica

TESI DI LAUREA MAGISTRALE IN FISICA

Curriculum Fisica Medica

Sviluppo di una tecnica ottica di lettura attiva per i

superheated emulsion dosimeters.

Relatore:

Prof. Francesco d’Errico

Candidato:

Giovanni Orlando

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Indice

Introduzione ... 1

Capitolo 1 ... 3

Definizioni utili e limiti ... 3

I neutroni ... 9

Dosimetri ... 13

Le emulsioni surriscaldate ... 13

Dosimetri attivi e passivi ... 24

Sistema di lettura attiva operata da trasduttori piezoelettrici ... 25

Sistema optoelettronico di lettura attiva ... 26

Sistema di lettura attiva basato su variazioni volumetriche ... 30

Capitolo 2 ... 34

Un nuovo sistema automatizzato di misura attiva ... 34

L’apparato sperimentale ... 34

Principi del sistema di lettura ... 39

Algoritmo per l’elaborazione e il conteggio ... 41

Misure preliminari ... 48

Nuova metodologia di lettura attiva ... 58

Capitolo 3 ... 62

Misure ... 62

Descrizione delle condizioni di misura... 62

Risultati ... 63

Capitolo 4 ... 75

(4)

Conclusioni ... 81

(5)

1

Introduzione

Nel 1932 lo scienziato inglese James Chadwick dedusse l’esistenza di una particella con massa leggermente maggiore rispetto a quella del protone, che denominò neutrone. Tale scoperta si basava sulle supposizioni di Rutherford nel 1920 e sulle osservazioni fatte nel 1930 da Walther Bothe ed Herbert Becker, secondo i quali, nuclei leggeri come berillio, boro e litio, bombardati con le particelle alfa derivate dal decadimento del polonio, generavano una radiazione neutra più penetrante dei raggi gamma conosciuti al tempo. Nei decenni successivi furono fatti studi sempre più approfonditi che hanno permesso il raggiungimento del livello di conoscenza attuale.

Il neutrone è una particella priva di carica, avente massa pari a 939,565 MeV, corrispondente ad 1,008 uma. Fa parte della categoria delle radiazioni indirettamente ionizzanti, cioè che causano la ionizzazione del mezzo utilizzato come bersaglio, tramite le particelle cariche con cui interagiscono. Proprio questa proprietà li rende difficili da rilevare e da trattare.

La dosimetria neutronica nasce dunque per analizzare le interazioni specifiche che sussistono tra i neutroni e la materia, per tutelare i lavoratori radio-esposti e per garantire il rispetto dei limiti previsti e sanciti dalla legge. Proprio per questi scopi esistono diversi approcci che vengono adottati per la rivelazione dei neutroni. Tra di essi possiamo annoverare i dosimetri a traccia (Nuclear Track Emulsion), i quali sono costituiti da strati di policarbonati o nitrati di cellulosa nei quali si forma una pista generata dal deposito locale di energia dei protoni secondari, visibile col microscopio elettronico se trattata coi giusti solventi. Esistono poi i dispositivi a termoluminescenza (TLD), i quali emettono luce visibile se riscaldati dopo aver subito un irraggiamento, a causa dell’intrappolamento di elettroni nei difetti della struttura cristallina del mezzo; i cosiddetti Direct Ion Storage

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2

Devices, e infine le emulsioni surriscaldate, su cui ci soffermeremo

maggiormente in questo lavoro di tesi. In particolare si tratterà delle proprietà di questa tipologia di dosimetro, costituito da una fiala al cui interno si trovano delle gocce di un materiale idrocarburo (o carburo alogenato), in sospensione in un gel acquoso, mantenute in uno stato liquido pur trovandosi al di sopra della temperatura di ebollizione. Si discuteranno i principi fisici che stanno alla base di questa tecnologia di rivelazione, i fattori che influenzano le prestazioni del dispositivo e le varie possibilità di lettura attiva o passiva che sono state sviluppate negli anni per tale categoria di dosimetri. Si tratterà poi la realizzazione di una metodologia ottica di lettura attiva dei dosimetri di superheated emulsions e si illustreranno i test effettuati presso il Laboratorio di Misure della Scuola di Ingegneria dell’Università di Pisa. Verranno infine citate le possibili applicazioni e i futuri sviluppi dell’idea originaria.

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3

Capitolo 1

Definizioni utili e limiti

Prima di andare avanti con la trattazione è necessario definire alcuni concetti chiave, che sono basilari per comprendere appieno quanto verrà esposto in seguito. Chiamiamo fluenza (φ) il numero di particelle incidenti su un piano per unità d’area. Definiamo poi la dose assorbita in un punto P, o semplicemente dose (D), l’energia media corrispondente ad una specifica radiazione ionizzante, depositata all’interno dell’elemento di massa dm posto in P. Tale quantità è utile per determinare l’energia rilasciata in un mezzo, dalla radiazione presa in analisi e si misura in gray (Gy) nel SI, dove 1 Gy è pari ad 1 Joule per kilogrammo. È una grandezza di notevole importanza, anche se non fornisce direttamente informazioni sul danno biologico provocato da una specifica radiazione, ragion per cui sono stati introdotti i concetti di dose equivalente, che non è altro che la dose assorbita moltiplicata per un fattore di peso denominato wR che è diverso in base alla tipologia di radiazione che si sta analizzando, e dose efficace, che si ottiene dal prodotto tra la dose equivalente ed un ulteriore coefficiente wt che ha la funzione di distinguere gli effetti provocati su tessuti biologici differenti. Qui di seguito sono riportate le formule ed i valori dei due coefficienti wR e wt.

𝐻𝑇 = ∑ 𝑤𝑅 𝑅𝐷𝑅

;

(1)

Tabella 1. Fattori di pericolosità delle differenti particelle, [1].

Tipo di radiazione Fattore di pericolosità wR

γ 1 β+,β- 1 p (E>2MeV) 5 Nuclei atomici 20 n 5 + 17𝑒−(ln( 2𝐸 𝑀𝑒𝑉))2 6

(8)

4

𝐸 = ∑ 𝑤𝑇 𝑇𝐻𝑇 ; (2)

Tabella 2. Fattori di radiosensibilità tissutali. Valori considerati fino al 2003 e valori aggiornati al 2008, [1] . Organo 2003 2008 corpo intero 1 1 gonadi 0.20 0.08 midollo osseo 0.12 0.12 colon 0.12 0.12 polmone 0.12 0.12 stomaco 0.12 0.12 vescica 0.05 0.04 mammella 0.05 0.12 tiroide 0.05 0.04 cute 0.01 0.01 ossa 0.01 0.01 tessuto nervoso 0.01 0.01

L’entità del danno prodotto da ciascuna radiazione è data dal LET (Linear Energy Transfer) che è pari all’energia trasmessa da una radiazione ionizzante ad un determinato materiale per unità di lunghezza, o meglio ancora il modulo del gradiente dell’energia cinetica residua della radiazione primaria: F=-|∇E|. Queste due quantità si misurano, secondo il SI in sievert (Sv) che equivale ancora ad un Joule per kilogrammo. Negli Stati Uniti le unità di misura utilizzate sono differenti e sono dette Rad (1 gray = 100 Rad) e Rem (1 sievert = 100 Rem).

Un’altra grandezza fondamentale per la dosimetria è il KERMA

(Kinetic Energy Released in Matter), che coincide con l’energia cinetica

rilasciata nella materia dalle particelle che costituiscono una radiazione. Questa quantità è stata definita dal momento che, quando si ha una radiazione indirettamente ionizzante e vengono liberate particelle cariche

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secondarie, queste non sempre depositano interamente la loro energia nel mezzo, ma talvolta ne perdono una parte in fenomeni di irraggiamento come il brehmsstrahlung. Il KERMA è utile dunque per trovare la dose assorbita, nelle situazioni in cui quest’ultima non sia facilmente misurabile. Il KERMA può essere inoltre suddiviso in due componenti, una radiativa ed una collisionale. In campo medico la prima delle due è sempre trascurabile rispetto l’altra. La relazione tra KERMA e dose assorbita, rispetto alla penetrazione in un mezzo è descritta in modo esplicito dalla figura 1. Possiamo notare che mentre il primo ha un andamento esponenziale decrescente e assume dunque il suo massimo valore sulla superficie del mezzo, la dose assorbita procede in modo differente, partendo da un valore nullo, poi aumentando e divenendo esponenziale decrescente solo dopo aver raggiunto un massimo e superato il valore del KERMA. Tale superamento è dovuto al fatto che l’energia rilasciata dalle particelle cariche in un punto è assorbita dopo un certo spessore e dunque la dose è maggiore poiché è dovuta al KERMA registrato ad una minore profondità. Quando tali quantità hanno lo stesso valore si ha il cosiddetto equilibrio delle particelle cariche, indicato con la sigla CPE.

Figura 1. Raffigurazione del KERMA e della dose assorbita rispetto alla profondità di penetrazione, [2] .

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Un’altra grandezza fondamentale per i nostri scopi è l’equivalente di

dose (H), pari al prodotto tra la dose assorbita e Q, un coefficiente detto fattore di qualità della radiazione, che dipende dall’ EBR (efficacia biologica relativa), cioè la capacità di diverse radiazioni di indurre effetti

biologici a parità di D.

Tutto quello che è stato definito fino ad ora ci serve per capire come si opera in radioprotezione. È necessario innanzitutto distinguere due categorie di danni in cui si può incorrere qualora siamo esposti a una radiazione ionizzante.

Gli effetti deterministici si manifestano prevalentemente dopo la morte di numerose cellule, o a seguito dell’insorgenza di disfunzioni delle stesse, a causa dell’esposizione a dosi massicce. Tale tipologia di danni presenta le seguenti caratteristiche:

 è possibile definire una dose-soglia, il cui superamento provoca l’insorgenza di un determinato effetto in tutti gli individui irradiati;

 il valore della soglia dipende strettamente dalla distribuzione temporale della dose;

 il periodo di latenza è relativamente breve e varia da poche ore a poche settimane in base all’entità dell’esposizione;

 la gravità degli effetti aumenta all’aumentare della dose.

Gli effetti stocastici invece, si manifestano a causa della mutazione di una cellula o di un gruppo di cellule. In questo caso non è più la gravità del danno, ma piuttosto la probabilità dello stesso che è proporzionale alla dose. Gli effetti stocastici cui si fa riferimento sono l’induzione di tumori letali e di effetti genetici severi. Le caratteristiche in questo caso sono le seguenti:

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7

non è necessario il superamento di una dose-soglia per avere effetti;

 gli effetti hanno una distribuzione casuale all’interno della popolazione esposta a radiazione;

 maggiori sono le dosi a cui un individuo è esposto, maggiore è la probabilità di insorgenza di tali effetti;

 presentano tempi di latenza dell’ordine di anni, e talora decenni, dall’irradiazione;

 i tumori insorti per via di questi effetti sono indistinguibili da quelli apparsi per altre cause.

Detto questo, la radioprotezione si propone di limitare gli effetti stocastici ed eliminare del tutto quelli deterministici, stabilendo dei limiti di dose che garantiscano il raggiungimento di questi obiettivi. Essa opera in base a tre principi: giustificazione, ottimizzazione e limitazione delle dosi. Il principio di giustificazione sancisce che ogni procedura che si serve di radiazioni ionizzanti deve essere giustificata, dunque il beneficio dato dall’utilizzo di queste ultime deve essere maggiore del rischio corso. L’ottimizzazione del processo stabilisce la necessità di ottenere il miglior risultato sia in termini di diagnosi che di cura, ricorrendo alla minima dose possibile. Questo principio sottolinea dunque indirettamente l’obbligo a mantenere un livello tecnologico all’avanguardia, compatibilmente con la situazione economica presente in ciascuna realtà. Per trattare il principio di

limitazione delle dosi si deve prima fare una distinzione tra lavoratori

esposti, popolazione e pazienti. Per la prima delle tre categorie, i limiti previsti dalla legge sono maggiori rispetto a quelli fissati per la popolazione, poiché la popolazione dei lavoratori comprende solo individui in età adulta, mentre la popolazione nel suo complesso comprende anche soggetti di minore età, assai più sensibili alle radiazioni. Per quanto riguarda i pazienti invece, tale principio non viene applicato, in quanto l’ordine di grandezza tipico dei limiti delle due categorie viste in precedenza, non permetterebbe di

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ottenere risultati efficaci sia in ambito terapeutico che diagnostico. Si può osservare di seguito una tabella che mostra i limiti sanciti per lavoratori e pubblico:

Tabella 3. Limiti di esposizione per lavoratori e popolazione, [3].

Esposizione globale (Dose

efficace)

Esposizione parziale (Dose equivalente) Cristallino Pelle/estremità Lavoratori esposti 20 mSv 150 mSv 500 mSv Popolazione non esposta 1 mSv 15 mSv 50 mSv

In tale contesto si rende necessario un monitoraggio costante, che permetta di salvaguardare pazienti, lavoratori e popolazione da un’eccessiva dose di radiazioni ionizzanti, in particolare il presente lavoro di tesi illustrerà lo sviluppo di una metodologia ottica di lettura attiva per i dosimetri contenenti le superheated emulsions. Si auspica che in un futuro non troppo distante queste tecniche possano essere utili a compiere delle misure per verificare la contaminazione neutronica dei fasci X ad alta energia utilizzati in radioterapia e delle radiazioni X ed e- a bassa energia. Per comprendere in primo luogo il principio di funzionamento su cui si basano i rivelatori che utilizzeremo, studieremo dapprima l’origine dei neutroni, le loro proprietà e le interazioni a cui sono soggetti.

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I neutroni

Come già detto in precedenza il neutrone è una particella neutra di dimensione di poco superiore a quella del protone. Esso interagisce solo per effetto della forza nucleare forte non risentendo minimamente della forza coulombiana proprio per la sua proprietà di non possedere alcuna carica. È prodotto prevalentemente in tre modi: in reattori nucleari, dove i neutroni sono utilizzati per innescare la fissione e fanno anche parte dei prodotti di reazione, negli acceleratori e attraverso i raggi cosmici. Tale particella, per le sue dimensioni, interagisce specialmente coi nuclei in quattro modi possibili: per cattura neutronica, reazione nucleare ed urto elastico o anelastico, in base all’energia posseduta.

La cattura neutronica avviene con probabilità maggiore per i cosiddetti neutroni termici, i quali possiedono un’energia di qualche decina di meV. In tale tipologia di interazione si ha una vera e propria cattura da parte di un nucleo. Nei tessuti umani, questo avviene più frequentemente con nuclei di idrogeno, coi quali il neutrone reagisce formando il deuterio e sprigionando 2.2 MeV di energia, e coi nuclei di azoto, coi quali dà luogo alla seguente reazione: 147𝑁(𝑛, 𝑝)146𝐶 con l’energia del protone pari a 600 keV. In questo range di energie, la sezione d’urto del processo è inversamente proporzionale alla radice dell’energia E, dunque se noi volessimo rappresentarla graficamente in scala bilogaritmica, si otterrebbe una retta con pendenza pari a −12 .

Le reazioni nucleari avvengono dopo il superamento di una certa soglia di energia collocata tra i 5 e i 12 MeV, nell’ambito biologico che ci interessa, interagendo prevalentemente con nuclei di carbonio, azoto o ossigeno. La dinamica solitamente prevede che un neutrone assorbito da un nucleo, lo ecciti, e questo per tornare allo stato fondamentale, sia costretto ad emettere una particella carica, che in genere può essere un protone, un deutone o una particella alfa, accompagnata da un fotone.

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Lo scattering elastico consiste nell’urto tra neutrone e nucleo, regolato dalle leggi della dinamica. Nel caso non relativistico si conservano separatamente l’energia cinetica e la quantità di moto e il nucleo bersaglio rimane nel medesimo stato in cui era prima dell’urto, non ci sono quindi trasferimenti di energia. A bassa energia la sezione d’urto è costante e proporzionale ad 𝐴23,

dove con A indichiamo il numero di massa del nucleo bersaglio.

Lo scattering anelastico infine non è altri che un urto con un nucleo come nel caso precedente, ma che lascia il bersaglio in uno stato eccitato, con conseguente emissione di un fotone.

In generale dunque se noi vogliamo analizzare l’interazione tra neutroni e materia, dobbiamo tenere di conto della sezione d’urto totale σ, che non è altro che la somma di tutte le sezioni d’urto relative ai processi appena descritti. Si ha che per basse energie la σ ha un andamento che approssimativamente può essere descritto dalla formula:

𝜎 = 4𝜋𝑅2+ 𝐶

√𝐸; (3)

dove R è il raggio del nucleo che interagisce col neutrone e C è una costante. Per energie maggiori, si ha che σ presenta delle risonanze dovute ai processi di scattering ed alla cattura radiativa. Ad energie ancora più elevate infine, la sezione d’urto torna ad assumere un aspetto più regolare e decrescente. I neutroni, a causa di questa stretta dipendenza tra la sezione d’urto totale e la loro energia, sono classificati in 3 categorie: quelli termici, che hanno E nell’ordine di qualche decina di meV, quelli veloci, con E maggiore di 1 MeV, ed i neutroni intermedi. Si osserva che tendenzialmente la sezione d’urto diminuisce all’aumentare dell’energia, e proprio per questo in radioprotezione si adotta una tecnica che prevede prima il rallentamento del fascio neutronico, servendosi dello scattering elastico, e successivamente un assorbimento che avviene attraverso reazioni di cattura. Analizziamo lo

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11

un materiale per rallentare i neutroni in modo efficiente. Partiamo analizzando la situazione qui sotto illustrata nel sistema del laboratorio.

Figura 2. Rappresentazione schematica di uno scattering elastico.

Abbiamo che per la conservazione della quantità di moto possiamo scrivere: 𝑝𝑖 = 𝑝𝑖+ 𝑃

𝑖 ; (4)

dove 𝑝𝑖 e 𝑝𝑖 sono riferite al neutrone prima e dopo l’urto, mentre 𝑃𝑖 è la quantità di moto del nucleo bersaglio di cui vogliamo scoprire le caratteristiche ideali. Dette En ed mn l’energia iniziale e la massa del

neutrone, Etr quella trasferita, ϑ l’angolo di scattering e M la massa del nucleo scatterato, si ha che l’energia trasferita durante l’urto si può scrivere come:

𝐸𝑡𝑟 = 𝐸𝑛(𝑀+𝑚4𝑀𝑚𝑛

𝑛)2(cos ϑ)

2; (5)

Mediando poi in ϑ si ottiene la seguente espressione: 𝐸𝑡𝑟 = 𝐸𝑛(𝑀+𝑚2𝑀𝑚𝑛

𝑛)2 ; (6)

Si osserva perciò che il massimo trasferimento di energia avviene per M circa uguale ad mn e questo requisito è valido per i nuclei di idrogeno,

(16)

12

dunque per rallentare in modo significativo i neutroni sono necessari materiali che ne sono ricchi. Questa è l’idea basilare su cui si fonda la rivelazione dei neutroni, e di conseguenza anche tutta la branca della radioprotezione che si occupa della schermatura da questo tipo di radiazione. Tali considerazioni hanno portato alla nascita ed allo sviluppo di molteplici dosimetri. Nel paragrafo seguente si tratterà in particolare dei dosimetri detti ad emulsioni surriscaldate (superheated emulsions) presentandone le caratteristiche ed i vari studi compiuti su di esse.

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Dosimetri

Le emulsioni surriscaldate

Figura 3. Due fiale di Superheated emulsion una che è stata sottoposta a irraggiamento (sinistra), e l'altra no.

Nati da un’idea di Robert Apfel nel 1979, i dosimetri ad emulsione

surriscaldata, così denominati dalla ICRU (International Commission on Radiation Units and Measurements) e dalla ISO (International Organisation for Standardization), sono costituiti da piccole fiale contenenti gocce di un

materiale idrocarburo, sospese in un gel acquoso e mantenute sopra il punto di ebollizione. Queste si trovano ancora allo stato liquido per assenza di centri di nucleazione e proprio per quest’ultima proprietà sono dette

(18)

14

Figura 4. Diagramma di fase delle emulsioni utilizzate [4].

Il meccanismo di rivelazione ha inizio quando un neutrone, interagendo con un nucleo all’interno della goccia, provoca il rilascio di una particella carica secondaria che trasferendo la sua energia, provoca una evaporazione localizzata. Si forma un piccolo nucleo di evaporazione che si espande e si hanno due possibilità: la prima, in cui l’energia trasferita dalla particella carica è sufficiente per far raggiungere alla bolla appena formata un certo raggio detto raggio critico, la seconda, in cui questo non avviene e si ha una ricondensazione della nucleazione che torna allo stato liquido.

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L’energia ed il raggio minimo necessari per la formazione di una bolla, e dunque la sensibilità del detector, dipendono da molteplici aspetti: dalla composizione chimica delle gocce, dal numero e dalla dimensione di queste ultime nella fiala e infine dalla temperatura e dalla pressione del materiale che costituisce la matrice gelatinosa.

Per quanto riguarda le emulsioni, possiamo osservare nella tabella sottostante, quelle più comuni.

Tabella 4. Carburi solitamente utilizzati per la realizzazione dei rivelatori.

I dati della tabella sono quelli relativi alla pressione atmosferica. E’ importante dire che i carburi che fino ad ora hanno trovato maggior fortuna sono l’ottafluorociclobutano (C-318) ed il diclorofluorometano (R-12), anche se, in recenti studi, sono stati valutati dei potenziali sostituti che a temperatura e pressione ambientale si trovano nello stato surriscaldato.

Per quanto riguarda il fenomeno di nucleazione, non si ha una teoria descrittiva, poiché la dinamica della vaporizzazione radio-indotta in un liquido metastabile è molto complessa, ma esiste tuttavia una spiegazione qualitativa che ci permette di compiere un’analisi abbastanza approfondita di quanto accade. Tentando un approccio numerico, si fa l’assunzione che le equazioni che descrivono il comportamento macroscopico dei fluidi siano in grado di descrivere anche quello del mezzo nel quale si trovano le bolle, e si considera istantaneo ed uniforme il trasferimento di energia lungo una linea

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infinita. Si hanno dunque cinque equazioni differenziali: la conservazione di energia, massa e momento, e due equazioni di stato. Tuttavia questo approccio è risolvibile numericamente solo in particolari condizioni e dunque siamo costretti a ricorrere ad altri metodi [4,5,6]. Si utilizza una modellizzazione semi-empirica che si basa sulla termodinamica della nucleazione spontanea in condizioni isoterme, e sulla teoria del “picco termico” (thermal spike theory) [8,4]. Il modello si basa sull’ipotesi che le particelle cariche, durante il loro percorso di attenuazione del mezzo, trasferiscano la loro energia cinetica sotto forma di calore, creando una scia di cavità vaporizzate. La teoria prevede inoltre che le bolle, una volta formatesi e raggiunto il raggio critico, possano crescere indefinitamente. Il raggio critico Rc è calcolabile attraverso la condizione di equilibrio tra la tensione superficiale e la pressione a cui è sottoposta la parete della cavità. Si ottiene così la seguente formula:

𝑅𝑐 =(𝑝′′2𝜎−𝑝)~

2𝜎 [(𝑝𝑠−𝑝′)(1−𝑣′′𝑣′)]

; (7)

dove σ è la tensione superficiale, p è la pressione con ps valore di saturazione, v è il volume specifico e gli apici ‘ e ‘’ indicano rispettivamente la fase liquida e quella di vapore.

E’ possibile anche ottenere un’espressione per l’energia Wo, definita

come l’energia minima richiesta per ottenere nucleazione radio-indotta nelle emulsioni surriscaldate. Si presenta qui una formula sviluppata per le camere a bolle e comunque adatta al nostro caso [9,4]:

𝑊𝑜 = 16𝜋𝜎 3 [(𝑝𝑠−𝑝)2(1−𝑣′′𝑣′)2] [1 + 2∆𝐻 [(𝑝𝑠−𝑝)(1−𝑣′′𝑣′)] − 3𝑇𝜎𝑑𝜎𝑑𝑇] = 𝑊𝐺[1 + 2∆𝐻 [(𝑝𝑠−𝑝)(1−𝑣′′𝑣′)] − 3𝑇 𝜎 𝑑𝜎 𝑑𝑇] ; (8)

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in cui ΔH non è altri che il calore latente di vaporizzazione e WG, cioè il

primo fattore a primo membro, rappresenta l’energia libera richiesta per la nucleazione spontanea di una bolla di dimensioni critiche in equilibrio con l’ambiente circostante, o più semplicemente la cosiddetta nucleazione omogenea, ovvero la differenza tra l’energia libera della superficie della bolla ed il lavoro compiuto durante l’espansione contro la pressione del liquido [10,4].

Tale quantità raggiunge il suo massimo valore quando il raggio è pari al raggio critico. I termini in parentesi quadra dopo WG rappresentano l’energia in più che è necessaria per ottenere nucleazione omogenea, quando il liquido non è sufficientemente surriscaldato. Il termine 𝑑𝜎

𝑑𝑇 riflette invece

l’assunzione di dissipazione di energia cinetica sotto forma di calore, fatta all’inizio della trattazione ed inoltre esprime l’adiabaticità iniziale del processo [4].

L’energia totale spesa durante la formazione di una bolla possiede inoltre una componente irreversibile che rappresenta l’energia persa, direttamente proporzionale alla diffusività termica del mezzo e dunque inversamente proporzionale al calore specifico [4].

Per descrivere in modo più unificato le proprietà degli alocarburi è necessario introdurre un parametro detto reduced superheat [11], definito nel modo seguente:

𝑠 = (𝑇−𝑇𝑏)

(𝑇𝑐−𝑇𝑏); (9)

dove Tb è la temperatura di ebollizione e Tc è il valore di T oltre al quale non può più esistere una fase liquida. Grazie all’introduzione di questo parametro, fittando l’energia alla quale si ha la formazione delle bolle, rispetto ad s, si nota che le curve corrispondenti a differenti materiali, si

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uniscono tendenzialmente in una sola come si può vedere nelle figure seguenti:

Figura 6. Risposta in fluenza dei neutroni termici rispetto alla temperatura, per diclorofluorometano (R-12), monoclorodifluoroetano (R-142B), e diclorotetrafluoruroetano (R-114), [4]

Figura 7. Risposta in fluenza dei neutroni termici rispetto ad s come definito qui sopra, per diclorofluorometano 12), monoclorodifluoroetano 142B), e diclorotetrafluoruroetano (R-114), [4].

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19

Figura 8. Energia di nucleazione delle bolle rispetto ad s e rispetto alla temperatura ridotta t come definita in figura, per diclorofluorometano (R-12), monoclorodifluoroetano (R-142B), e diclorotetrafluoruroetano (R-114), [4].

Qui compare inoltre anche la temperatura ridotta 𝑡 = 𝑇𝑇

𝐶 , un altro parametro

termodinamico che serve per descrivere i limiti di sensibilità dei dosimetri oggetto del nostro studio.

Fino ad ora ci siamo soffermati sulle caratteristiche generali delle

superheated emulsions, vogliamo invece adesso approfondire la risposta che

hanno nella rivelazione delle varie tipologie di radiazioni, studiando inoltre come varia la sensibilità, in risposta al cambiamento di temperatura, di pressione o dell’energia delle particelle incidenti. Cominciamo col dire che questa gamma di dosimetri ha avuto successo, trovando maggiore impiego nella rivelazione dei neutroni e degli ioni, soprattutto a causa della capacità di discriminare fotoni ed elettroni. Come già detto, le bolle che si formano all’interno delle fiale contenenti le emulsioni, sono originate da cariche secondarie rilasciate a seguito di interazioni del mezzo coi neutroni, o da cariche appartenenti direttamente al fascio primario. Queste particelle rilasciano energia provocando evaporazioni localizzate in punti in cui si trovano gocce di alocarburi riscaldati sopra il punto di ebollizione. Studi

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20

degli ultimi trent’anni [12,13] hanno evidenziato come si possa descrivere la risposta delle varie emulsioni a neutroni di differenti energie, in funzione della temperatura. Si osserva che per i neutroni veloci, maggiore è la temperatura dell’emulsione, che ovviamente deve essere compresa tra TB e

TC come definite in precedenza, minore è l’energia richiesta per formare una bolla. Per alte energie, la risposta delle emulsioni è generalmente piatta. Al fine di aumentare la sensibilità dei composti alocarburi in base alla velocità delle particelle incidenti sul rivelatore (e dunque alla loro energia), si possono usare delle sostanze dopanti come ad esempio il litio per i neutroni termici, o il bismuto per i neutroni ad alta energia. I neutroni lenti solitamente interagiscono venendo catturati dai nuclei, in particolare, se la formula chimica delle gocce ha al suo interno il cloro, avviene la reazione

𝐶𝑙(𝑛, 𝑝)

17

35 𝑆

16

35 . In tale regione energetica non si riescono ad ottenere fasci di

neutroni monocromatici, perciò in generale si adottano approcci che prevedono l’utilizzo di simulazioni Monte Carlo. I risultati di un recente studio compiuto utilizzando appunto la metodologia appena menzionata [4] hanno evidenziato come sia maggiore la risposta in fluenza di un detector a base di R-12 (diclorofluorometano), rispetto alla sezione d’urto del processo

𝐶𝑙(𝑛, 𝑝)

17

35 𝑆

16 35 :

Figura 9. Risposta in fluenza del diclorofluorometano (R-12) calcolata con simulazioni Monte Carlo, paragonata con la sezione d’urto del processo 𝟏𝟕𝟑𝟓𝑪𝒍(n,p)𝟏𝟔𝟑𝟓𝑺, normalizzata rispetto ai

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21

ciò è dovuto al fatto che i neutroni vengono rallentati dalla matrice gelatinosa in cui sono sospese le gocce, e questo aumenta significativamente la probabilità di interazione tra neutrone e detector.

Le emulsioni sono ideali anche per rilevare particelle cariche come i protoni, i quali rilasciano energia nel modo descritto dalla formula di Bethe-Bloch [14]: −𝑑𝐸 𝑑𝑥 = 4𝜋𝑁𝐴𝑟𝑒 2𝑚 𝑒2𝜌𝑍𝐴𝑧 2 𝛽2[ 1 2ln ( 2𝑚𝑒𝑐2𝛽2𝛾2𝑇𝑀𝑎𝑥 𝐼2 ) − 𝛽2− 𝛿 2] ; (10)

dove NA è il numero di Avogadro, re ed me sono rispettivamente il raggio

classico e la massa dell’elettrone, ρ, I, Z ed A sono la densità, il potenziale di eccitazione medio, il numero atomico e quello di massa del mezzo su cui impatta il fascio, z è la carica della particella incidente, δ è la correzione di densità per le alte energie, β e γ sono le quantità note in relatività, ed infine TMax non è altri che massima energia trasferibile a un elettrone in un urto

singolo. Da tale formula si può notare che il rilascio da parte del protone è massimo nel momento in cui tale particella è vicina al termine del suo percorso. Graficando infatti l’energia persa, rispetto alla profondità raggiunta nel mezzo, si può osservare il cosiddetto picco di Bragg. Tale picco è visibile chiaramente anche utilizzando le emulsioni oggetto del nostro studio, come si può notare qui di seguito.

Figura 10. Fiale di emulsioni surriscaldate di (a) diclorotetrafluoruroetano (R-114) e (b) monocloropentafluoruroetano (R-115) irraggiate con protoni a 62 MeV di energia, [4].

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22

Negli ultimi tempi sono stati compiuti ulteriori studi che hanno reso possibile l’utilizzo di questi dosimetri anche per la rivelazione di elettroni e fotoni. In questo caso si ricorre alle cosiddette high superheated emulsions cioè emulsioni riscaldate ad una temperatura maggiore, rispetto ai casi precedenti. Sono perciò surriscaldate ulteriormente le gocce di alocarburi, che guadagnano così in sensibilità. E’ necessario osservare, al fine di prevedere meglio i risultati, il modo in cui gli elettroni perdono energia, illustrato dall’equazione di Bethe:

−𝑑𝐸 𝑑𝑥 = 4𝜋𝑘02𝑒4𝑛 𝑚𝑐2𝛽2 [𝑙𝑛 𝑚𝑐2ε(ε+2) √2𝐼 + 𝐹 −(𝛽)] ; (11) dove si ha che : 𝐹−(𝛽) = 1−𝛽2 2 [1 − 𝜀2 8 − (2𝜀 + 1)𝑙𝑛2] ; (12)

Qui si ha che ko è la costante di Coulomb, n è il numero di elettroni per unità di volume nel mezzo ed ε è pari ad E/mc2. La stopping power è nettamente

differente da quella dei protoni e segue l’andamento mostrato in figura.

Figura 11. Stopping power degli elettroni in monocloropentafluoruroetano (R-115) e ottafluoropropano (R-218) con dati basati sull’equazione di Bethe, [4].

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23

Dunque si ha un picco di trasferimento per energie dell’elettrone dell’ordine del decimo di keV e dopo tale massimo la curva assume un andamento decrescente.

Per ciascun detector atto a rivelare fotoni ed elettroni, possiamo definire una certa Tγ, temperatura oltre la quale il count-rate cresce

rapidamente, assumendo un andamento asintotico il cui limite è la Tc detta

precedentemente, [4]. Si ha dunque una situazione come quella in figura:

Figura 12. Sensibilizzazione delle superheated emulsion in funzione della temperatura, l'asintoto per ciascuna curva rappresenta la temperatura limite TC, [4].

Fino ad ora sono stati trattati i vantaggi, le proprietà e il meccanismo di rivelazione utilizzato da questa tipologia di dispositivi. Nel paragrafo successivo verranno analizzate le varie possibilità di lettura delle fiale fino ad ora sviluppate per misure di dosimetria neutronica.

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Dosimetri attivi e passivi

I dosimetri possono essere di due categorie: passivi o attivi. Si dicono passivi i dosimetri che non forniscono una lettura in tempo reale della misura di dose, e funzionano in assenza di ulteriori dispositivi attivi. Nel caso particolare delle superheated emulsions, la lettura passiva consiste nel conteggio manuale delle bolle, compiuto da chi effettua le misure. L’impiego di tale tecnica è vantaggioso per l’estrema precisione e poiché dà la possibilità di ricondensare le evaporazioni alla fine della misura, permettendo dunque di riutilizzare il dispositivo entro breve tempo. La sensibilità dei rivelatori varia in genere da una bolla fino ad alcune decine di bolle per μSv. Una lettura passiva consente anche di applicare un sistema di correzione della misura che tiene di conto della temperatura a cui si trova l’apparato sperimentale, che subisce una sensibilizzazione al crescere di quest’ultima. Tale sistema è detto passive temperature compensation system, [15]. Lo svantaggio principale però di questa tipologia di dosimetri è che sono utilizzabili solo fino a poche centinaia di bolle, aspetto questo che vincola molto le misure. Perciò sono stati introdotti i dosimetri attivi, costituiti dall’unione tra il rivelatore ed un sistema di lettura. Essi permettono una misura in tempo reale del numero di evaporazioni interne alla fiala, per mezzo di componenti elettroniche attive. I vantaggi sono notevoli, dal momento che non si hanno più i limiti di utilizzo visti in precedenza, e la tecnologia di rivelazione è esattamente la stessa. Il punto debole dei dispositivi appena citati consiste tuttavia nel fatto che, per avere una misura con la stessa precisione dei dosimetri passivi, sarebbe necessario applicare correzioni ai dati durante l’acquisizione, e questo porta qualche complicazione. Bisogna tenere di conto inoltre del rumore elettronico tipico della strumentazione, che causa ulteriori problemi. Perciò, nel caso in cui lo scopo della misura sia quello di avere una stima rapida della dose, si utilizzano dosimetri attivi, qualora invece sia necessario avere una certa precisione, è preferibile l’impiego di tecniche di lettura passiva. Entrando più

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nello specifico, si possono descrivere le varie tecniche attive che sono state utilizzate negli anni per ottenere una stima corretta di dose ed in particolare, per riuscire a realizzare un conteggio delle bolle con precisione accettabile, evidenziando i pregi e i difetti di ciascuna metodologia.

Sistema di lettura attiva operata da trasduttori piezoelettrici

La prima tecnica impiegata per rivelare la formazione delle bolle si basa sull’analisi dell’onda di pressione che si origina in seguito alla nascita di ciascuna nucleazione. Questa infatti si espande abbastanza rapidamente dopo l’evaporazione della goccia, e si hanno degli impulsi di pressione a frequenze intorno ai 100 Hz, rilevabili abbastanza facilmente da un trasduttore acustico. In seguito la tecnica si è evoluta e sono stati utilizzati due trasduttori, costruiti con materiali piezoelettrici, i quali operando per anticoincidenza erano in grado di ridurre il rumore dovuto alle vibrazioni ambientali. Oltre a ciò è stata compiuta un'analisi della forma dell’impulso con un microprocessore, ed è stato possibile così, riconoscere le caratteristiche tipiche del segnale dato dall’espansione di una bolla, in modo da eliminare ulteriori conteggi errati ed avere una misura più efficiente. Qui sotto si possono osservare alcune misure, ottenute in condizioni differenti, e lo schema strutturale del dosimetro.

Figura 13. Evoluzione temporale ed analisi in frequenza degli impulsi emessi durante la vaporizzazione delle gocce, nel caso di una (a), 200 (b), o 500 bolle (c).

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Figura 14. Schema elettronico di un dosimetro attivo con analisi comparativa di forma d'onda per l'eliminazione del rumore ambientale.

Un ulteriore provvedimento per migliorare le misure è consistito in un sistema di regolazione della temperatura delle emulsioni. Come è stato detto in precedenza la sensibilità di questi dosimetri varia con la temperatura, e dunque varia la loro risposta in fluenza. Il dispositivo è munito di un termistore e di un manicotto di riscaldamento, ed esegue un controllo della temperatura, regolando il valore appena il sensore registra variazioni rispetto al valore ottimale scelto. Usando emulsioni di diclorofluorometano (R-12), si ottiene una risposta dosimetrica soddisfacente per tutte le energie dei neutroni, con emulsioni stabilizzate a 31.5°C, [4]. Tali dispositivi sono stati utilizzati per diverse acquisizioni in differenti ambiti, compreso quello della dosimetria personale, fornendo in ogni caso misure soddisfacenti.

Sistema optoelettronico di lettura attiva

Questo sistema di lettura è nato come alternativa ai dosimetri passivi sviluppati verso la fine degli anni ‘90, che si basavano sull’imaging MRI,

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ottimo ma troppo costoso, e su quello tomografico, che richiedeva una lunga e accurata analisi sui dati presi. Il vantaggio principale di questa metodologia, oltre ai costi ridotti ed alla facilità di interpretazione delle acquisizioni, consiste nella possibilità di realizzare dispositivi compatti, impiegabili anche nel campo della dosimetria personale, a differenza di quelli descritti nel paragrafo precedente, che sono invece più adatti per misure ambientali. L’apparato sperimentale usato per la lettura ottica, è costituito da tre LED (Light Emitting Diode) che illuminano la fiala dal basso verso l’alto, e da tre fotodiodi posti sulle pareti del rivelatore, a distanza angolare di 120° l’uno dall’altro. In figura 15 è raffigurato l’apparato sperimentale appena descritto.

Figura 15. Apparato sperimentale per la lettura optoelettronica dei dispositivi basati sulle

superheated emulsions. Qui è stata scelta la configurazione planare per i tre fotodiodi.

I LED scelti in tale configurazione devono avere un fascio stretto ed elevata intensità in modo da poter oltrepassare tutto il campione, affinché possa essere rilevabile la formazione di bolle in tutta l’emulsione. Il colore di

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emissione scelto per illuminare la fiala è il rosso, poiché da recenti studi [17], è emerso come a parità di output, i LED a luce rossa richiedano una tensione di alimentazione nettamente inferiore. Tale effetto trova un’ovvia spiegazione nella fisica stessa di questi dispositivi. Infatti i LED, non sono altro che dei particolari diodi a giunzione p-n, costituiti da un semiconduttore sottile all’interno del quale si possono distinguere due zone, una con un eccesso di elettroni detta strato n, ed un’altra avente un maggior numero di lacune detta strato p. Questa discrepanza numerica tra elettroni e lacune nelle due aree si ottiene mediante drogaggio. La regione di confine tra i blocchi p ed n è detta zona di carica spaziale o depletion layer. Quando applichiamo una tensione al fine di ridurre la barriera di potenziale sussistente tra le due zone, gli elettroni e le lacune presenti rispettivamente in banda di valenza e in banda di conduzione, si ricombinano ed emettono energia sufficiente sotto forma di luce e dunque di fotoni. La lunghezza d’onda della luce emessa, dipende dal gap energetico tipico del materiale che costituisce la stessa giunzione p-n. Il rosso, si ottiene con una band gap pari a 1,8 eV, che è minore di quella necessaria per ottenere gli altri colori, e questo spiega quanto visto in precedenza.

Figura 16. Efficienza di luce scatterata, a seguito della formazione di bolle all'interno del rivelatore, per LED di colori differenti.

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Tornando al sistema di lettura, uno dei requisiti fondamentali per avere buoni risultati, è l’uniformità delle gocce di emulsione all’interno delle fiale. Questo garantisce una crescita regolare del segnale causato dalla luce scatterata, e garantisce la formazione di bolle di dimensioni poco distanti l’una dall’altra [17]. La risposta di tale sistema optoelettronico è lineare come mostrato in figura qui di seguito.

Figura 17. Risposta del sistema di lettura attiva optoelettronica delle superheated emulsions, in funzione del numero di bolle (R2 non è altri che il coefficiente di determinazione).

I risultati incoraggianti ottenuti da questa metodologia, hanno dato il via ad altri studi che si prefiggono l’obiettivo di realizzare un dosimetro personale basato proprio sulla tecnologia appena trattata. In figura 18 è possibile visualizzare il progetto di una struttura tridimensionale pensata per ospitare il dosimetro ed il sistema di lettura, in modo da poter avere un dispositivo compatto e di piccole dimensioni, in grado di svolgere quanto detto.

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Figura 18. Disegno di un prototipo di dosimetro personale, con lettura eseguita da un sistema optoelettronico.

Sistema di lettura attiva basato su variazioni volumetriche

Tale sistema, nasce dall’osservazione che durante la nucleazione di una bolla si ha una variazione di volume gassoso, quantificabile attraverso la formula seguente:

𝑣𝑣𝑎𝑝 =𝜌𝑙𝑖𝑞𝑣𝑙𝑖𝑞

𝜌𝑣𝑎𝑝 ; (13)

dove 𝜌𝑙𝑖𝑞 è la densità del liquido, 𝜌𝑣𝑎𝑝 la densità di vapore e 𝑣𝑙𝑖𝑞 non è altri che il volume della goccia liquida. Dunque è stato progettato un dispositivo [18], in grado di misurare appunto questa variazione di volume. Il rivelatore contenente l’emulsione viene collegato ad un ago sottile, la cui punta è immersa in acqua. La variazione di volume provoca uno spostamento d’aria, la quale esce attraverso l'ago, formando una sorta di stringa di bolle di vapore, che vengono poi contate con un sistema ottico.

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31

Figura 19. Apparato sperimentale per la misura della variazione di volume data dalla nucleazione delle bolle, [18].

Come possiamo osservare in figura, si ha un fascio, generato da un laser, che incide su un LDR, cioè una fotoresistenza (Light-Dependent Resistor). Quando avviene un fenomeno di nucleazione, il volume d’aria equivalente viene depositato dall’ago proprio nella parte sottostante il fascio, causando una diminuzione della luce incidente sull’LDR la quale provoca un aumento del valore della resistenza. Questo permette dunque la generazione di un segnale dell’ordine del mV. L’impulso uscente è poi amplificato, collegato ad un comparatore che lo confronta con un valore di riferimento, viene fatto passare per un TTL, cioè un multivibratore duale monostabile, e infine contato e registrato da un apposito sistema di acquisizione.

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Secondo quanto emerge da recenti studi [18] esistono prototipi molto efficienti basati su questa metodologia, le cui prestazioni possono essere ulteriormente migliorate, riducendo la larghezza del TTL e minimizzando il rumore dato da possibili sorgenti luminose esterne, ad esempio ponendo in una scatola chiusa il dispositivo. Qui di seguito sono mostrati i risultati ottenuti nello studio citato in precedenza. Il rivelatore, che in questo caso era costituito da un emulsione del composto idrocarburo denominato con la sigla R-12, è stato esposto ad una sorgente di 241Am-Be con un’emissione inizialmente molto alta, che poi diminuisce sensibilmente.

Figura 21. Conteggi differenziati (sinistra) e integrati (destra), ottenuti dal dispositivo attivo sopra descritto, [19].

Tuttavia tale metodologia presenta alcuni difetti, infatti è influenzata in modo non del tutto trascurabile dalla temperatura e dalle sue variazioni durante la misura, non solo nel rivelatore, ma anche nel contenitore dove avviene il conteggio ottico. Questo aspetto rende necessaria l’introduzione di un sistema di controllo analogo a quello descritto nei paragrafi precedenti, che possa correggere le fluttuazioni di volume di entrambi i contenitori. In più è importante tenere di conto delle eventuali nucleazioni spontanee che si possono registrare e che possono incidere negativamente sull’acquisizione

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dei dati. Tutte le motivazioni qui sopra elencate mostrano come tale dispositivo possa essere ottimo in misure ad alto rate di esposizione e per tempi mediamente lunghi, ma anche come sia necessario apportare dei miglioramenti. Qualora infatti, volessimo estendere l’impiego di questa metodologia a situazioni in cui le dosi in gioco siano più basse e le emulsioni utilizzate abbiano un’elevata sensibilità, l’attuale risposta dell’apparato non raggiungerebbe ancora la precisione richiesta.

Le considerazioni fatte fino ad ora hanno portato alla scelta di puntare sullo sviluppo e sul miglioramento dei dispositivi a lettura optoelettronica precedentemente visti e sono state determinanti per la nascita di una metodologia ottica di misura attiva che sarà ampiamente descritta nel capitolo successivo.

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34

Capitolo 2

Sistema ottico automatizzato di misura attiva

L’apparato sperimentale

Figura 22. Configurazione sperimentale realizzata per il nuovo sistema di lettura attiva sviluppato.

In seguito all’osservazione dei vari metodi di lettura delle fiale di

superheated emulsions, è stata pensata la possibilità di realizzare un sistema

che potesse contare le bolle attivamente e in modo automatizzato, durante l’esposizione del rivelatore ad una sorgente di neutroni. Attualmente il sistema migliore e più utilizzato è quello manuale, che viene realizzato al termine dell’esposizione fotografando la fiala in condizione di illuminazione favorevole, e poi servendosi di programmi che agevolino il conteggio come ad esempio ImageJ o Matlab. Il nuovo metodo proposto invece, si serve di una webcam opportunamente collegata con un computer, disposta in modo

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da riprendere il rivelatore. Si acquisisce un fotogramma ad un determinato istante, dopodiché l’immagine è inviata ad un programma che realizza il conteggio ed itera questa operazione ad intervalli regolari stabiliti dallo sperimentatore. Tali azioni vengono eseguite per tutta la durata dell’esposizione, restituendo al termine del tempo prestabilito il numero di bolle formatesi all’interno della fiala contenente l’emulsione. Scendendo più in dettaglio ed andando ad osservare i singoli elementi che vanno a comporre l’apparato sperimentale, si ha:

 Un computer preposto all’acquisizione e all’elaborazione delle immagini;

 Un dispositivo utilizzato come webcam, in questo caso un telefono cellulare Samsung SM-G386F;

 Un lotto di fiale contenenti gocce di emulsioni surriscaldate;

 Un contenitore con pareti piatte entro al quale va inserita acqua ed immerso il rivelatore;

 Un pannello luminoso, utile a rendere migliore la qualità delle immagini che verranno acquisite.

Partiamo descrivendo il rivelatore, un contenitore al cui interno si trovano gocce di emulsione surriscaldata sospese in una matrice gelatinosa poste solo nella zona centrale in modo da evitare fenomeni di nucleazione vicini al tappo o sul fondo, che potrebbero essere poco visibili e compromettere le misure. Il tappo centralmente presenta un foro circolare ed il gel è separato dall’ambiente esterno per mezzo di una membrana impermeabile. Tale membrana ha lo scopo di permettere la ricompressione del gel una volta terminato l’irraggiamento. Questa operazione permette il riutilizzo dei rivelatori, per un numero illimitato di volte, [16].

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36

Figura 23. Dimensioni del rivelatore utilizzato per le misure, [19].

La ripressurizzazione è compiuta attraverso un torchio idraulico contenente acqua. La pressione desiderata per i nostri scopi, pari a 400 psi (circa 27,6 bar), è raggiunta mediante un pistone a vite ed è monitorabile grazie ad un manometro esterno. Qui di seguito è possibile osservare quanto appena descritto.

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Le fiale vengono inserite nel torchio idraulico e dopo qualche ora sono pronte per essere riutilizzate. Per facilitare inoltre la loro estrazione e ridurre la probabilità di danneggiamento, è stato inserito all’interno della struttura un tubo di materiale plastico, che presenta una chiusura in silicone ad una estremità ed ha dei fori sulle pareti. Questi ultimi consentono all’acqua di entrare ed esercitare la pressione necessaria per riportare a zero il numero delle evaporazioni. La parte libera del tubo, dalla quale vengono inseriti inizialmente i rivelatori e poi estratti al termine dell’operazione, presenta un foro più grande che permette di tirar fuori il supporto plastico con l’ausilio di una bacchetta metallica con un’estremità uncinata.

Figura 25. Tubo inserito nel torchio idraulico per facilitare l'estrazione delle fiale

La fiala, durante l’acquisizione è inserita in un recipiente contenente acqua. L’effetto combinato della curvatura delle pareti del rivelatore e della stessa presenza dell’acqua, provoca un ingrandimento ottico delle bolle, le

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quali sono messe ulteriormente in evidenza grazie alla presenza di un pannello luminoso, che amplifica il contrasto visivo presente tra lo sfondo e le evaporazioni localizzate.

Il dispositivo utilizzato come webcam è, come già detto in precedenza, un telefono cellulare Samsung SM-G386F. Questo è stato collegato con il computer per mezzo di un’applicazione per il sistema Android chiamata IP Webcam, che permette una trasmissione attraverso la rete Wi-Fi, dei fotogrammi acquisiti. Le immagini vengono immagazzinate ed elaborate con il software Matlab, che compie una serie di azioni restituendo infine il numero delle bolle formatesi nel rivelatore. Per le misure è stata impiegata una sorgente di 241Am-Be con emissione il cui valore nominale è pari a 30 mCi, che equivale a 1,11 GBq. Secondo quanto stabilito nelle modalità di detenzione ed impiego, [16,20], questa tipologia di sorgente è utilizzata o per la calibrazione dei dosimetri e degli spettrometri per neutroni, o per la misura di alcuni parametri nucleari, ed in particolare del coefficiente di diffusione dei neutroni termici, nei materiali moderatori. La geometria della sorgente è mostrata di seguito in figura.

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Principi del sistema di lettura

L’idea da cui è scaturita questa nuova metodologia è la stessa su cui si basa la computer vision, la quale si propone di introdurre e realizzare sistemi in grado di descrivere una scena, emulando quello che di fatto è compiuto dall’occhio umano. Tale disciplina nacque intorno agli anni ’70 del secolo scorso, e tra le fila di coloro che contribuirono al suo sviluppo, vide il neuro-scienziato e fisiologo britannico David Marr. Egli descrisse la visione come un processo volto a determinare un'immagine tridimensionale a partire da una bidimensionale, dividendo tale meccanismo in tre livelli principali:

Il cosiddetto Raw Primal Sketch, che nell’uomo avviene nella retina e consiste in una prima descrizione dei cambi di intensità luminosa. Tale fase permette il riconoscimento degli edge, cioè i contorni degli oggetti presenti in un immagine;

 Il Full Primal Sketch ed il 2D1

2 Sketch, che sono due fasi in cui

avviene la rielaborazione delle informazioni acquisite nel livello precedente. Si hanno così le prime indicazioni sull’orientazione delle superfici e sulla profondità, anche se non è ancora possibile parlare di tridimensionalità;

 Ci sono infine moduli di alto livello, che permettono di giungere ad una rappresentazione 3D e ad una descrizione separata degli oggetti presenti nel campo visivo.

Tale approccio è stato proprio quello utilizzato per la realizzazione di un algoritmo che restituisse il numero delle bolle formate all’interno di una fiala contenente emulsioni. Quando si effettua un conteggio manuale al termine di un’esposizione, in primo luogo vengono scattate tre fotografie in tre punti pressoché equidistanti dalla fiala e separati l’uno dall’altro da un angolo di circa 120°. Attraverso appositi software poi, le immagini vengono elaborate e il contrasto accresciuto al fine di facilitare l’individuazione delle

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evaporazioni localizzate. Successivamente viene realizzato il conteggio manuale vero e proprio, a ciascuna delle tre angolazioni e, una volta noto il risultato, viene preso il più alto dei tre ottenuti. Questo viene fatto affinché la stima di dose ottenuta sia più accurata possibile. La nuova tecnica di lettura attiva sviluppata, consiste invece in un conteggio operato da una funzione scritta in Matlab, a partire da un’immagine acquisita con la modalità descritta nel paragrafo precedente. La webcam scatta fotografie ad intervalli regolari precedentemente stabiliti dallo sperimentatore, in base al peso computazionale, al tempo totale di misura e all’attività della sorgente. Per ciascuna immagine sono compiute le seguenti azioni:

 Selezione dell’area di interesse, che consiste nella riduzione della matrice di pixel che costituisce l’immagine, riducendo il campo su cui verrà compiuta l’elaborazione, al solo rivelatore. Questo viene effettuato per ridurre il rumore dell’immagine e la probabilità che gli oggetti individuati come “bolle” dall’algoritmo, siano invece variazioni locali di luminosità;

Applicazione di un algoritmo di edge detection, che possa permettere il riconoscimento dei contorni all’interno della matrice selezionata. Questa operazione è il corrispettivo del Raw Primal Sketch, definito prima. L’algoritmo scelto è quello di Canny, scritto da John Canny nel 1986. L’immagine risultante dopo questa fase di elaborazione, è una matrice nella quale i pixel identificati come appartenenti al contorno di un oggetto sono bianchi, mentre tutti gli altri sono neri;

 La terza e ultima operazione, consiste nella conta degli oggetti all’interno dell’area di interesse selezionata, cioè delle bolle formate all’interno della fiala. Ogni oggetto è identificato e distinto grazie ai suoi contorni ed alle informazioni ricavate nelle fasi precedenti dell’elaborazione dell’immagine. Dunque si nota che esiste una stretta correlazione tra quest’ultima parte dell’analisi e i moduli di alto livello identificati da Marr.

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41

Ogni operazione che si vuole far eseguire al nostro sistema di analisi rappresenta un tentativo di emulazione di quanto compiuto dal cervello umano, infatti ancora oggi il metodo di conteggio più affidabile ed accurato delle bolle nei rivelatori, rimane quello manuale. Nel paragrafo successivo saranno illustrate in modo più dettagliato le varie fasi del lavoro compiuto, e sarà descritto approfonditamente l’algoritmo utilizzato per l’elaborazione delle immagini.

Algoritmo per l’elaborazione e il conteggio

Il primo passo svolto, al fine di sviluppare un sistema di lettura che come già detto emulasse il più possibile quello manuale, è stato quello di scrivere una funzione che riuscisse ad eseguire un conteggio delle bolle presenti nelle fiale, a partire da una singola immagine. Una volta scelto Matlab quale software preposto alla rielaborazione, la fase successiva è consistita nello sviluppo di un algoritmo. Le operazioni da compiere sono le seguenti:

 Data un’immagine, si restringa l’analisi al solo rivelatore, selezionando un’area rettangolare non troppo grande che lo contenga;

 Si applichi un filtro, che possa eliminare o, dove ciò non fosse possibile, limitare il più possibile il rumore;

 Si trovino le regioni con discontinuità dei livelli di grigio, ovvero con alti valori di derivata spaziale;

 Si osservino gli andamenti di tali regioni, cercando di assegnare un valore nullo a tutti i pixel che non rappresentino un massimo;

Si compia un’operazione di sogliatura, volta a sfoltire ulteriormente il numero dei massimi, eliminando quelli non appartenenti ai contorni degli oggetti di interesse;

 Si effettui il conteggio delle bolle.

Un algoritmo che compia le operazioni desiderate, eccetto il conteggio, è il

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metodologia impiegata per l’analisi dei contorni, sia ad una dimensione, sia in più dimensioni. Egli, attraverso il calcolo delle variazioni, una tecnica molto usata in matematica per l’analisi e la ricerca dei massimi e dei minimi, ottenne che il funzionale che meglio si adattava ai suoi scopi era la derivata prima di una funzione gaussiana. All’immagine viene prima applicato un filtro Gaussiano che si convolve con l’immagine e che ha lo scopo di eliminare il rumore presente. L’espressione per un generico filtro Gaussiano di ordine (2n+1) è la seguente:

𝐻𝑖𝑗 =2𝜋𝜎12𝑒𝑥𝑝 (−(𝑖−(𝑛+1))22𝜎+(𝑗−(𝑛+1))2 2) ; 1≤ i,j ≤ (2n+1) (14)

dove σ è la deviazione standard del filtro. Ovviamente si può osservare che per piccoli valori di σ si ha uno smoothing lieve ed un taglio limitato delle alte frequenze, mentre per σ elevati l’attenuazione del rumore è notevolmente accentuata rispetto al caso precedente. Tuttavia vengono attenuati anche gli oggetti presenti nell’immagine e dunque, in base all’analisi che si vuole compiere, sarà necessario scegliere un valore adatto, che rappresenti un compromesso tra i due casi precedentemente visti.

La seconda operazione che si esegue sull’immagine e che rappresenta il cuore dell’intero procedimento, è la ricerca del gradiente della luminosità, ovvero lo studio della variazione di intensità luminosa all’interno di una scena. L’algoritmo di Canny compie questa operazione attraverso filtri preposti alla rivelazione degli edge orizzontali verticali e diagonali, sfruttando l’operatore di Sobel. Tale operatore sfrutta la potenza del vettore gradiente, il quale punta nella direzione del maggiore aumento di luminosità, e il cui modulo corrisponde alla rapidità con cui varia l’intensità luminosa.

La fase successiva consiste nell’eliminazione di quei pixel che non appartengono al contorno dell’oggetto che stiamo analizzando all’interno dell’immagine e ai quali verrà assegnato un valore nullo, durante le fasi successive dell’elaborazione. E’ importante notare che un valore elevato di

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intensità luminosa non identifica necessariamente un punto di edge. Condizione necessaria e sufficiente affinché un pixel appartenga al contorno è che esso rappresenti un massimo locale. Per rimuovere dunque i punti di non interesse, l’algoritmo di Canny ricorre alla sogliatura con isteresi. Tale operazione, consiste nella scelta di due soglie S1 ed S2, con S1>S2. Qualora il valore di un pixel sia superiore ad S1 oppure sia compreso tra S1 ed S2 e non sia in posizione adiacente ad un altro con valore minore di S2, tale punto

potrà dirsi appartenente all’edge. In caso contrario gli sarà assegnato il valore zero, come detto in precedenza.

I risultati ottenuti con questo procedimento sono fortemente influenzati dalle due operazioni fondamentali di filtraggio e sogliatura, infatti la larghezza del filtro Gaussiano regola il rumore, mentre la seconda determina le informazioni che saranno perse e quelle che invece andranno a costituire i risultati dell’elaborazione. Naturalmente tali parametri andranno regolati in base alle esigenze, all’oggetto dell’analisi e ad altri fattori come ad esempio la pesantezza in termini di potenza di calcolo. Si può affermare inoltre che la genericità di questo algoritmo, da un lato fornisce una vasta possibilità di impiego, dall’altro permette l’aggiunta di comandi e funzioni specifiche, volte al miglioramento delle prestazioni in una precisa configurazione. Nel caso analizzato in questo particolare lavoro di tesi, è stato scritto il codice di una funzione che potesse lavorare nel modo fino ad ora discusso, e che fosse in grado di fornire misure sufficientemente precise. In principio si hanno i seguenti comandi:

function BWfinal=canny(nome)

I = imread(nome);

I = I (165:375,50:630,1);

Queste prime righe sono utili a delineare l’identità della funzione. L’ultimo comando di questa porzione dell’algoritmo ha lo scopo di restringere

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l’analisi alla sola raffigurazione del rivelatore. Quest’operazione ha il compito di impedire che vengano trovati oggetti al di fuori della fiala, diminuendo così l’errore sul conteggio che verrà eseguito al termine dell’elaborazione. I numeri riportati non sono fissi, ma variano in base all’immagine, alla sua risoluzione e all’area che si vorrà indagare. Le cifre in questione sono riferite in particolare al caso mostrato in figura 27. Il risultato della selezione è visibile invece in figura 28.

Figura 27. Immagine di partenza, [23].

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La fase successiva vede come protagonista l’operatore di Sobel definito in precedenza.

threshold = edge(I, 'sobel'); fudgeFactor = .5;

BWs = edge( threshold * fudgeFactor,'sobel');

Esso viene applicato due volte. Nella seconda in particolare si ha l’introduzione di un fudge factor ossia un parametro il cui valore ottimizza i risultati, contrastando gli eventuali errori di tale operatore.

Figura 29. Seconda fase dell’elaborazione: applicazione dell'operatore di Sobel.

A questo punto, l’elaborazione prevede un’ulteriore modifica. Dobbiamo infatti eliminare il bordo della fiala, evidenziare gli oggetti che corrispondono effettivamente a delle bolle ed eliminare gli altri, in modo da facilitare il conteggio che avverrà in seguito.

se90 = strel('line', 3, 90); se0 = strel('line', 3, 0);

BWsdil = imdilate(BWs, [se90 se0]); Bwdfill = imfill(BWsdil, 'holes');

BWnobord = imclearborder(BWdfill, 4); seD = strel('diamond',1);

(50)

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BWfinal = imerode(BWnobord,seD); BWfinal = imerode(BWfinal,seD); BWfinal = bwareaopen(BWfinal,10);

Le prime due righe di questa porzione di codice hanno lo scopo di evidenziare gli oggetti rilevati fino ad ora. La funzione strel dilata i contorni servendosi di un elemento strutturale, in questo caso una linea, con lunghezza ed angolo specificati tra i parametri. La sua dimensione viene espressa in pixel, mentre l’ampiezza angolare è scritta in gradi rispetto all’orizzontale, prendendo come positivo il senso orario. L’operazione successiva alla dilatazione è il riempimento dei buchi all’interno delle strutture rilevate. Subito dopo viene eseguita l’eliminazione delle strutture connesse al bordo dell’immagine, che possono essere rimosse utilizzando la funzione imclearborder.

Figura 30. Terza fase: dilatazione degli oggetti e rimozione dei bordi.

Come possiamo notare dalla figura qui sopra, la rimozione dei bordi ha come effetto anche la cancellazione dei contorni della fiala, aspetto questo, che da notevoli vantaggi in termini di attendibilità della misura. L’ultima fase dell’elaborazione consiste in uno smoothing dei contorni, che possa conferire loro un aspetto più naturale, seguito dall’eliminazione di tutte quelle aree rivelate dall’algoritmo, minori, in termini disuperficie, di un certo numero di pixel. In questo caso particolare, il limite affinché un’area

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possa essere contata è stato fissato a 10 pixel. L’operazione appena descritta è un vero e proprio filtraggio ed è compiuto dalla funzione bwareaopen.

Figura 31. Risultato finale dell'elaborazione.

Una volta terminata l’elaborazione è possibile contare le macchie bianche rimaste, che corrispondono alle sagome delle bolle. Per far questo si utilizza il seguente comando:

[LabeledImage, numberOfBlobs]=bwlabel (I);

dove LabeledImage è una matrice e numberOfBlobs è un numero naturale che corrisponde alla quantità di aree bianche presenti nell’immagine. In questo caso l’ammontare delle bolle è pari a 36 secondo tale sistema automatizzato, e coincide col sistema di lettura manuale.

Figura 32. Immagine originale con evidenziati i punti in cui l'algoritmo ha commesso errori. L’errore in rosso evidenzia una bolla non rilevata, la blu una che invece è stata contata due

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