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3c. Anna Maria Gennai, Liceo Classico di Pontedera (PI)

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Academic year: 2021

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dove, chi, come, perché, quando.

Anna Maria Gennai, Liceo Classico “Andrea da Pontedera”, Pontedera (PI)

DOVE: in una struttura sicura, con tetti che non crollino, controllata frequentemente

da tecnici esperti. In aule sufficientemente grandi, dove ci sia spazio per tutti, spazio fisico ma anche temporale, nel senso che due ore settimanali di una materia per una classe di 30 studenti, tra cui alcuni BES, sono poche. 60 minuti scarsi di lezione divisi per 30 alunni sono due minuti. Due minuti a testa, due volte alla settimana, per far esprimere ciascuno studente, a patto che l’insegnante non parli mai, sono irrisori. Aule realizzate in modo che a tutti arrivi la luce in modo corretto, non aule triangola-ri con finestre che si aprono a vasistas e senza tende per oscurarle e nelle quali si debba ricorrere a pagine di giornale o a sacchetti dell’immondizia per fare ombra. Nelle aule della mia scuola ci sono degli avvolgibili che devono aver richiesto uno sforzo mentale esagerato al progettista: si aprono con delle aste lunghe circa 180 cm che per un anno siamo riusciti ad utilizzare incastrandole, con un po’ di peripezie, nei perni predisposti all’apice delle finestre. Al secondo anno di vita, ne sono rimaste circa la metà, tutte le altre si sono rotte; le aste sopravvissute si passavano da un’au-la all’altra, al momento dell’occorrenza con il sole, durante le lezioni. Dal terzo anno in poi abbiamo praticamente desistito, gli avvolgibili o stanno su o stanno giù e molti hanno le stecche distorte. Quest’anno la Provincia, che non può sostituirli per pro-blemi economici, ha avuto un’idea geniale: bloccarli a metà, così non c’è né troppa luce, né troppo buio. Ma non si potevano utilizzare le vecchie tende, ignifughe ovvia-mente? Magari prevedendo di lavarle noi insegnanti a casa, qualche volta, così come abbiamo fatto con i camici dei laboratori. Sugli avvolgibili si appiccica la resina dei pi-ni e altro, ma non vengono puliti. E ci sono scuole in espansione che avranno aule di-stribuite in vari edifici, con ritardi del personale negli spostamenti, e addirittura aule nei container (ma hanno garantito nuovi…), pur non essendo in zone terremotate.

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Una struttura pulita, dove non ci siano piccioni morti incastrati nelle reti di protezio-ne come protezio-nella scuola di mio figlio e dove non manchi mai la carta per le fotocopie, il toner, la carta igienica, le fotocopiatrici, senza pretenderle a colori, cimose e penna-relli per le lavagne bianche, lampade per le lavagne multimediali, un tecnico che pe-riodicamente mantenga efficiente la dotazione, in modo che arrivando in classe l’in-segnante possa dedicarsi al suo lavoro invece di dover cercare un’aula libera con la strumentazione funzionante, dopo aver perso dieci minuti a provare a ritrovare mouse e casse per i computer in giro per le altre aule (e così dei due minuti a ciascun alunno ne resta uno e mezzo scarso). Una struttura funzionale alla didattica, dove i computer siano a portata di ciascuno studente e non chiusi dentro un carrello chiuso dentro un’aula chiusa da una porta e da un cancello chiuso con una chiave chiusa in un armadio chiuso in vicepresidenza. Una scuola con personale tecnico preparato per allestire e seguire un’esperienza di laboratorio, in un laboratorio con dotazione periodicamente controllata e aggiornata. Negli ultimi due anni sono stata assistita da un valente falegname che si è prodigato a riparare le porte e da una disponibilissi-ma collaboratrice scolastica che non aveva disponibilissi-mai effettuato un esperimento in labora-torio di fisica. Una scuola in cui nessuno si senta escluso o emarginato.

CHI: studenti felici di andare a scuola, di imparare, impegnati nella costruzione del

proprio futuro con la guida di docenti selezionati; studenti rispettosi dei compagni, dell’ambiente, dei docenti. Che sentano il senso di appartenenza alla scuola e che si adoperino in prima persona per renderla migliore.

Dirigenti scolastici motivati a svolgere il proprio lavoro, che motivino gli insegnanti a svolgere il proprio, che a loro volta motivino gli studenti a imparare. Dirigenti scola-stici e insegnanti valutati, da commissioni di esperti opportunamente costituite, sul-la base delle capacità tecniche, ma anche professionali e resul-lazionali. Commissioni che periodicamente vengano ricostituite e dirigenti scolastici e insegnanti che perio-dicamente vengano valutati. Dirigenti scolastici che vengano valutati non sulla base di quanto riescono a risparmiare, ma di quanto riescono a produrre. Che incentivino chi lavora e spronino i docenti meno impegnati a lavorare.

Insegnanti che apprezzino il proprio lavoro, che imparino loro stessi dagli studenti e che giorno dopo giorno si adoperino per migliorare se stessi e la propria attività edu-cativa. Insegnanti per i quali lavorare qualche volta durante il giorno libero sia un piacere, non un motivo di vertenza sindacale. Docenti che trasmettano la passione per lo studio, il piacere per l’apprendimento, la curiosità di scoprire nuovi mondi. Non frustrati, ma orgogliosi della professione che svolgono.

COME: parlo per quanto riguarda l’insegnamento delle mie materie, matematica e

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so-no bravo a italiaso-no” (il che talvolta equivale a dire che è bravo solo a scrivere qualco-sa in italiano) o “perché mi piace la storia” (il che equivale a dire che studierà quasi esclusivamente storia), il 20% perché la mia è una scuola piccola, accogliente, dove gli studenti sono seguiti e “se non impari a studiare lì non ci sono speranze che tu lo faccia altrove”, il 10% per tradizione familiare, il 10% perché sono bravi in tutte le materie e la mia è una scuola di qualità. Sono fiera del mio lavoro, perché dopo aver-li prima strigaver-liati e poi incoraggiati, spronati, seguiti, assiduamente, con senso del do-vere e tenacia, con severità alternata a cordialità, disponibilità, affetto, molti dei miei studenti si appassionano e i migliori si iscrivono, oltre che a medicina, anche a ingegneria, a fisica, a matematica. Ma la partenza al ginnasio è dura, per loro e per me. Allora adotto il metodo che aveva funzionato con me, da bambina, con risultati quasi sempre positivi, salvo in alcune situazioni, circoscritte soprattutto alle classi in cui i migliori sono un po’ egocentrici.

La passione per la matematica mi fu trasmessa da uno zio di mio padre, che durante la guerra aveva lavorato come geometra ai cantieri di Monfalcone e che si era suc-cessivamente laureato in matematica, quando aveva già figli. Verso i cinque anni di età, trascorrevo molti pomeriggi con lui a ritagliare triangoli di carta a quadretti che poi coloravamo e misuravamo e componevamo per realizzare figure più complesse, di cui determinavamo le aree. Anche sua figlia, di sedici anni più grande di me, stu-diava matematica e il figlio maggiore già la insegnava alle scuole medie. L’espressio-ne ricorrente di mio zio, assieme all’altra “evviva, siamo tutti dei paesi bassi!”, era “evviva, siamo tutti matematici”. Io, bambina, non avevo la consapevolezza di che cosa significassero, ma per me dovevano essere una cosa straordinaria che avevamo la fortuna di avere e grazie a questo non ho mai avuto sensi di inferiorità per la mia modesta altezza. Così mi iscrissi alle elementari pensando che un giorno avrei voluto essere un’insegnante di matematica, perché doveva essere la cosa più bella del mon-do. Allora vorrei una scuola in cui alla primaria siano i laureati in matematica ad inse-gnare matematica e non maestri che di fronte alle difficoltà degli studenti sostengo-no “ti capisco, anche a me la matematica proprio sostengo-non piaceva”. I migliori allenatori andrebbero impiegati per i più piccoli, per gettare solide basi. Non scoraggiare in partenza, ma motivare subito i bambini ad imparare, a ragionare. Far capire quanto sia piacevole risolvere problemi matematici e utile, se non indispensabile, per inter-pretare e conoscere il mondo e la vita.

PERCHE’: perché molto di quello che ho scritto che “vorrei” mi sembra che dovrebbe

corrispondere alla normalità di una scuola normale.

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