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La relazione fra metacognizione, regolazione emotiva e qualita di vita: studio pilota

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Academic year: 2021

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La relazione fra metacognizione, regolazione emotiva e qualità della vita:

studio pilota

E una donna che reggeva un bambino al seno disse: “Parlaci dei Figli”. E lui disse:“I vostri figli non sono figli vostri. Sono figli e figlie della sete che la vita ha di sé stessa. Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi,e benché vivano con voi non vi appartengono.Potete donare loro amore ma non i vostri pensieri:essi hanno i loro pensieri.Potete offrire rifugio ai loro corpi ma non alle loro anime:esse abitano la casa del domani,che non vi sarà concesso visitare neppure in sogno.Potete tentare di essere simili a loro, ma non farli simili a voi:la vita procede e non s'attarda sul passato.Voi siete gli archi da cui i figli, come frecce vive, sono scoccate in avanti. L'arciere vede il bersaglio sul sentiero dell'infinito,e vi tende con forza affinché le sue frecce vadano rapide e

lontane. Affidatevi con gioia alla mano dell'arciere; poiché, come ama il volo della freccia, così ama la fermezza dell'arco.”

Gibran Kahlil Gibran - Il profeta

Riassunto

Il presente lavoro si propone di fornire un ulteriore contributo alla ricerca sul tema relativo alla

metacognizione, indagando a livello empirico una correlazione significativa fra capacità metacognitive, difficoltà nella regolazione emotiva e qualità della vita.

Lo studio è condotto su un campione di 45 soggetti psichiatrici ospedalizzati attraverso la

somministrazione dei seguenti strumenti self-report: l' MSAS (Metacognition Self Assessment Scale), l' SF-36 ( Shor-Form-36), e la DERS (Difficultes in Emotion Regulation Scale).

I risultati dell' analisi delle correlazioni confermano l' ipotesi di partenza evidenziando un' interdipendenza fra i suddetti costrutti clinici

Indice

Introduzione e scopo del lavoro

Metacognizione un costrutto multidimensionale La regolazione emozioni e metacognizione

Metacognizione, l' evoluzione del concetto di mentalizzazione: una prospettiva dinamica dello sviluppo del sè

– evoluzione del concetto nella letteratura – mentalizzazione e sviluppo del sè – neurobiologia mentalizzazione – quando non si mentalizza

Lo studio:

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-il campione e analisi del campione -strumenti utilizzati

-analisi dei dati e discussione -conclusioni

Introduzione

La maggior parte dei modelli esplicativi dello sviluppo cognitivo ed emotivo sono concordi nel ritenere che i fattori dello sviluppo non sono né unicamente nel soggetto (organico e psichico) né unicamente nel suo ambiente (fisico e socioculturale) ma dentro la loro interazione (soggetto-oggetto) e relazione (soggetto-soggetto).

Evidenze di ciò si possono riscontrare nelle attuali ricerche di neurobiologia sui mirror neurons e sull' esperienza interpersonale (Gallese; Daniel J.Siegel), negli studi sull' attaccamento e sviluppo infantile ( Fonagy e Target; Baron-Cohen; Main; Bowlby 1974; Liotti 2005;) e negli studi sull' efficacia delle terapie interpersonali ( Di Dimaggio, Popolo e Salvatore).

Secondo Siegel, che studia la mente in base alla teoria della complessità (Prigogine, Stengers 1984; Taylor; 1994 Skinner et al.1992), uno stato della mente può essere considerato come un pattern di attivazione che coinvolge diversi sistemi cerebrali responsabili dei processi percettivi, del tono e della regolazione delle emozioni, dei processi della memoria, dei modelli mentali e delle risposte

comportamentali.

In questa accezione, uno stato della mente può essere caratterizzato da percezioni, sentimenti, desideri, ricordi, pensieri, credenze, attitudini corrispondenti in un determinato momento all' attivazione di diversi pattern neuronali in parallelo. Uno stato della mente svolge due funzioni particolari: coordina le attività del momento e crea connessioni cerebrali che possono diventare più probabili nel tempo . Uno stato della mente permette ad attività cerebrali diverse di essere coordinate in un insieme funzionale unitario

Con il termine metacognizione non facciamo riferimento ad una funzione unica ma a diverse attività che consentono di attribuire e riconoscere stati mentali a sé ed ad altri a partire da espressioni facciali, stati somatici, comportamenti e azioni, di riflettere e ragionare sugli stati mentali, di utilizzare l’informazione sugli stati mentali per decidere, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali, e di

padroneggiare la sofferenza soggettiva (Carcione, Dimaggio,Conti et al. 2009).

Tale costrutto è quasi sinonimo di termini come mentalizzazione (Bateman e Fonagy 2004), teoria della mente (Premack e Woodruff 1978), lettura della mente (mindreading, Vogeley et al. 2001; Gallagher et al. 2000) o social cognition (Adolphs 2001) e comprende concetti come “attitudine ad attribuire intenzioni” (intentional stance, Dennett 1987), “riconoscimento di agentività” (Blair et al. 2002) o alessitimia (Taylor et al. 1997; Vanheule 2008).

Negli ultimi decenni numerose ricerche hanno indagato il ruolo del funzionamento metacognitivo in diversi disturbi psichici, quali l’autismo (Baron-Cohen 2000; Leekman e Perner 1991; Frith e Happè 1994; Frith e Frith 1999; Hill e Frith 2003), la sindrome di Asperger (Frith e de Vignemont 2005), la schizofrenia (Harrington et al. 2005; Lysaker et al. 2005; Pickup e Frith, 2001; Brüne 2003; 2005; Corcoran 2000), quadri neurologici gravi come quelli da danneggiamento del lobo frontale, oppure nell’Alzheimer o in altre forme di demenza (Rowe et al. 2001; Stuss et al. 2001; Cuerva et al. 2001; Gregory et al. 2002; Snowden et al. 2003; Starkstein e Garau 2003).

Più recentemente gli studi sugli aspetti metacognitivi sono stati estesi ai disturbi dell’umore (Carcione et al. 2008; Kerr et al. 2003; Inoue et al. 2004), e ai disturbi di personalità (Bateman e Fonagy 2004; Sicotte e Stemberger 1999; Richell et al. 2003; Dimaggio et al. 2007; Levy et al. 2006; Guttman e Laporte 2002; Semerari et al. 2005).

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mentali siano parte costitutiva di alcune patologie psichiatriche adulte, come la schizofrenia (Brüne 2005) e giochino un ruolo importante nel mantenimento della patologia (Semerari 1999). La presenza di

malfunzionamenti metacognitivi può favorire l’instaurarsi di ostacoli al trattamento (Dimaggio e Semerari 2003); ad esempio, una scarsa capacità nel riconoscimento delle proprie emozioni e delle loro cause e la difficoltà nel comunicare gli affetti agli altri hanno un impatto negativo sull’outcome probabilmente perché mediano la costruzione di un’alleanza terapeutica negativa (Ogrodniczuk et al. 2005).

I processi metacognitivi devono essere distinti dalle convinzioni o credenze metacognitive (Cornoldi 1995; Brown 1987; Butler e Winne 1995; Flavell 1987; Torgeson 1994): le funzioni metacognitive sono abilità che ci consentono di comprendere i fenomeni mentali e di operare su di essi (Carcione et al. 1997); tali abilità consentono la costruzione di credenze metacognitive in base alle quali vengono interpretati e valutati i contenuti e i processi mentali (Wells e Purdon 1999).

La metacognizione è un processo, una capacità che comunemente usiamo, ma di cui raramente siamo consapevoli, che ci permette di prendere consapevolezza e di riflettere sul nostro stato mentale (desideri, sentimenti, bisogni, afferenze somatiche, sensazioni,emozioni, pensieri, credenze..) e di fare

interpretazioni sullo stato mentale degli altri.

Possiamo chiamare la metacognizione anche affettività mentalizzata o mentalizzazione (Allen e Fonagy 1974;)

Non dobbiamo contrappore fra loro ragione ed emozione; al contrario il mentalizzare per come lo intendeva Fonagy è in gran parte una forma di conoscenza emotiva (Nussbaum 2001b). Molti degli stati mentali che cerchiamo di mentalizzare sono stati emotivi, presenti in noi stessi o negli altri. La

componente emotiva è il collante della vita psichica da cui nessuno stato mentale può prescindere. Come ci ricorda Damasio: il nostro senso del sè è ancorato agli stati emotivi (Damasio 1999).

L' affettività mentalizzata caratterizza questo senso emotivo del sè, ''l' essere consci dei propri affetti pur rimanendo all' interno dello stato affettivo'' (Fonagy, Gergely et al. 2002,96).

Il presente lavoro si propone di fornire un ulteriore contributo alla ricerca sul tema relativo alla

metacognizione, indagando a livello empirico una correlazione significativa fra capacità metacognitive, difficoltà nella regolazione emotiva e qualità della vita.

L' ipotesi da verificare è che un buon funzionamento metacognitivo sia correlato con una maggiore capacità di regolare le emozioni e con una più positiva percezione della qualità di vita.

Infatti fin dai primi anni di vita la capacità di regolare le emozioni vieni acquisita tramite il rispecchiamento, la sintonizzazione affettiva, l' holding che si istaura fra il Caregiver e il bambino.

Un buona capacità di sintonizzazione e rispecchiamento è indice di un attaccamento sicuro che a sua volta è predittivo di un buon funzionamento psicosociale, dello sviluppo di buone capacità di mentalizzazione e di regolazione emotiva nel bambino e successivamente dell' adulto.

Mentre il neonato, si caratterizza per un “Sé corporeo” (non psicologico), in quanto influenzato da percezioni non mentalizzate prevalentemente somatiche, in pochi anni, all’interno della relazione di attaccamento e di rispecchiamento con un caregiver sensibile e mentalizzante, il bambino sviluppa una teoria della mente e un “Sé psicologico” (riflessivo) [Fonagy, Moran e Target 1993; Fonagy e Target 1997], dotato della capacità di pensare a sé e agli altri in termini di stati mentali.

Una buona regolazione emozionale (espressione di una valida integrazione psicosomatica), accompagnata da una valida gestione dello stress e un attaccamento relativamente sicuro (Tipo B), sono il risultato finale di questo processo .

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Mentalizzazione e sviluppo del sè

L' autoregolazione, le modalità con cui l' entità chiamata sè arriva ad organizzare i suoi processi, si basa in gran parte sulla regolazione delle emozioni.

Secondo Sroufe nello sviluppo le emozioni hanno il duplice compito di esprimere e di gestire l' affetto, sono dunque processi intrinsecamente integrativi (Sroufe 1995);

Nel campo della psicologia evolutiva e della psicopatologia, le emozioni e la loro modulazione sono visti come processi strettamente intrecciati: le emozioni sono regolate e nello stesso tempo svolgono funzioni regolative (Cicchetti et al 1991; Garber, Dodge 1991; Fox 1994a) In base a queste interpretazioni, le emozioni sono implicate in tutte le attività della mente; per esempio Kennet Dodge afferma che ''tutti i processi di elaborazione sono basati sull' emozione, nel senso che l' emozione è l' energia che dirige, organizza, amplifica e modula l' attività cognitiva, e a sua volta costituisce l' esperienza e l' espressione di tale attività'' (Dodge 1991). Questa visione sottolinea la natura ubiquitaria delle emozioni, e nello stesso tempo indica come le comuni distinzioni fra pensieroe sentimenti, processi cognitivi ed emotivi, sono artificiali e possono ostacolare la nostra comprensione dell' attività mentale. Secondo Siegel i processi di valutazione (appraisal) e di differenziazione delle emozioni primarie in emozioni di base, sono

strettamente intrecciati con i processi rappresentazionali del pensiero; emozioni e significati sono quindi creati dagli stessi processi. A livello esperienziale e neurobiologico questi 2 processi sono

indissolubilmente legati.

Attraverso ''comunicazioni emotive'' le menti di 2 individui possono entrare in connessione, e durante le prime fasi della nostra vita i pattern di comunicazione interpersonale che si stabiliscono con le figure di attaccamento , influenzano direttamente la maturazione delle strutture cerebrali che mediano i nostri processi di regolazione. (Siegel 1999)

Fin dalla nascita, i bambini scoprono l' esistenza di menti nei loro oggetti quando cercano di trovare se stessi nelle loro azioni; in altri termini, gli stati mentali vengono scoperti attraverso interazioni

rispecchianti e contingenti con il caregiver (Gergely e Watson 1999).

Spiegherò meglio di seguito, come processi metacognitivi e regolazione emotiva si collegano e si sviluppano nel tempo a partire dalle prime relazioni di attaccamento e sono importanti per formazione e integrazione del sè nel bambino e successivamente per il benessere psicosociale nell' adulto.

Metacognizione un costrutto multidimensionale

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affettive, che permettono alle persone di identificare gli stati mentali, ragionare su di essi e ascriverli a se stessi e ad altri (Semerari 2003 e Carcione 2008). Questa definizione di metacognizione è più articolata del concetto generale di mentalizzazione, proposto da Bateman e Fonagy (2004), in quanto introduce diverse sottofunzioni sottostanti alla capacità generale, che sono distinte e che possono essere singolarmente compromesse.

Un aspetto da sottolineare è la differenza tra contenuti e funzioni metacognitive, dove per contenuti si intendono le idee e le convinzioni con cui vengono interpretati e valutati i processi mentali, mentre le funzioni rappresentano quell’insieme di abilità che ci consentono di comprendere i fenomeni mentali e di operare su di essi per padroneggiarli o per la risoluzione di compiti.

Una tra le definizioni di metacognizione più e completa sembra essere quella che la descrive come l’insieme di abilità che consentono di: (a) attribuire e riconoscere stati mentali a partire da espressioni facciali, stati somatici, comportamenti ed azioni; (b) riflettere e ragionare sugli stati mentali; (c) utilizzare le informazioni sugli stati mentali per decidere, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali e padroneggiare la sofferenza soggettiva (Dimaggio e Lisaker 2011, Semerari et al. 2008).

Secondo questa definizione, pertanto, una adeguata capacità di metacognizione si mostra attraverso: la percezione di se stessi come agenti intenzionali, che provano emozioni e sviluppano pensieri, ovvero come individui che sono consapevoli di essere distinti dagli altri e di generare i propri pensieri e le proprie emozioni: ciò significa essere consapevoli che gli altri possono influenzare i propri pensieri e i propri stati affettivi attraverso scambi interpersonali e azioni, ma che non possono determinarli, indurli o inserirli nella mente. Tale processo passa anche attraverso la capacità di riconoscere gli stati mentali propri e altrui, di inferire le emozioni e le intenzioni altrui a partire dalle espressioni facciali e dal comportamento;

la capacità di riflettere e ragionare sugli stati mentali ed elaborarli, cogliere nessi tra eventi mentali e comportamenti, riconoscere ricorrenze nelle proprie reazioni agli eventi, distinguere la soggettività del proprio punto di vista dalla realtà oggettiva, distinguere e trattare nel modo appropriato diverse classi di rappresentazione (ad esempio, percezione, ricordo, sogno, fantasia),

costruire narrazioni coerenti che spieghino la variazione degli stati mentali nel tempo risolvendo eventuali contraddizioni;

la capacità di usare coscientemente e intenzionalmente le conoscenze psicologiche per regolare piani d’azione, variando adeguatamente piani e strategie al mutare di eventi e contesti, gestire problematiche psicologiche e risolvere conflitti, costruire strategie congrue con i propri scopi, padroneggiare la sofferenza soggettiva (Carcione e Falcone 1999; Carcione et al. 1997; Dimaggio e Lysaker 2011; Semerari et al. 2003, 2008).

L’attenzione sull’argomento della metacognizione si è sviluppato intorno agli anni ’90 dello scorso secolo, quando alcuni concetti già noti in letteratura furono ripresi e messi in relazione ad altre osservazioni sempre più complesse scaturite dalla clinica e dalle scienze cognitive.

Fra questi, di fondamentale importanza è stata la formulazione del concetto di Teoria della Mente (TdM), cioè la capacità di rappresentarsi eventi mentali, di attribuire a sé e agli altri stati mentali e di prevedere e spiegare il comportamento manifesto sulla base di queste rappresentazioni (Baron-Cohen et al. 1985, Fodor 1983). A tal proposito, Frith (1992) aveva evidenziato l’esistenza di una deficitaria TdM e di un deficit di metarappresentazione nei pazienti affetti da schizofrenia. Essi infatti mostrano gravi difficoltà a riconoscere i propri pensieri come generati dall’interno e a formulare idee sui pensieri degli altri, vissuti spesso come alieni o persecutori. Nello stesso periodo, Paul Lysaker sviluppava un filone di studi e ricerca sulla metacognizione nei soggetti schizofrenici, fornendo contributi particolarmente interessanti. Ad esempio, il suo gruppo di lavoro ha osservato che le difficoltà metacognitive nelle popolazioni di soggetti schizofrenici è in parte indipendente dalle abilità cognitive compromesse e ha un potente impatto sulla sintomatologia e sulla vita sociale e lavorativa di questi soggetti, persino in misura maggiore del deficit funzionale nella cognizione (Lysaker e Bell 1995; Lisaker et al. 1998, 2005).

Su un altro versante clinico, quello della depressione, Stiles e colleghi (1990) avevano notato come i pazienti depressi mancassero, all’ingresso in terapia, di consapevolezza dei propri contenuti

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problematici, che venivano frequentemente espressi solo in forma di vaghe ruminazioni o pensieri intrusivi, mostrando un’assenza di consapevolezza delle emozioni associate e delle cause relazionali e intrapsichiche alla base degli stati depressivi.

Ancora, lavorando con pazienti afflitti da disturbo borderline di personalità, Fonagy (1991) aveva notato l’esistenza di una difficoltà nel thinking about thinking, ovvero questi pazienti a seguito di legami di attaccamento disfunzionali non sviluppavano adeguatamente la capacità di comprendere i propri processi psicologici e di attribuire senso a pensieri e intenzioni relativi agli altri con i quali entravano in relazione. Sempre negli stessi anni, presso il III Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma furono iniziati una serie di studi che alla base avaveno due importanti presupposti venuti alla luce dall’esperienza clinica: i soggetti con disturbi di personalità presentavano significativi deficit nelle funzioni metacognitive; il deficit metacognitivo non era omogeneo tra i diversi pazienti (per esempio, alcuni potevano presentare una carenza nella capacità di descrivere le proprie emozioni, altri nel distinguere la fantasia dalla realtà).

La definizione generica di metacognizione si riferisce ad un insieme eterogeneo di funzioni ed abilità. Da una parte l’autoriflessività e la comprensione della mente altrui, che fanno riferimento al potere di discriminazione, organizzazione e sintesi dei dati posseduto dai soggetti, e quindi alla capacità che questi hanno nel discriminare diverse componenti di uno stato mentale e di cogliere aspetti comuni tra essi. Dall’altra la Mastery che è riconducibile alle strategie che un soggetto usa per fronteggiare o risolvere un problema, all’efficacia delle stesse ed alla congruenza tra mezzi e fini.

Le funzioni e le sottofunzioni metacognitive sono così schematizzate:

Autoriflessività comprendente le seguenti sotto funzioni:

- Monitoraggio: capacità di identificare e definire le componenti di uno stato mentale in termini di pensieri, desideri, emozioni (Identificazione) e di comprenderne i nessi causali (Relazione tra Variabili).

- Differenziazione: capacità di cogliere la differenza esistente tra diversi tipi di rappresentazioni (sogni, fantasie, credenze e ipotesi) e tra rappresentazione e realtà nonché di cogliere la natura ipotetica e soggettiva del proprio pensiero.

- Integrazione: capacità di riflettere su differenti stati mentali e di descriverli in modo completo e coerente, all’interno di una narrazione che tenga conto di come tali stati mentali possano evolvere e modificarsi nel tempo .

Comprensione comprendente le seguenti sotto funzioni:

- Monitoraggio: Identificazione e Relazione tra Variabili relativamente alla comprensione della mentre altrui.

- Decentramento: valuta la capacità di descrivere il funzionamento mentale dell’altro formulando ipotesi indipendenti dalla propria prospettiva mentale e dal proprio coinvolgimento nella relazione.

Mastery le cui strategie possono essere divise in quattro categorie, a seconda della complessità delle operazioni metacognitive coinvolte:

- Requisiti basici: la capacità di descrivere i problemi in termini psicologici e di avere un

atteggiamento orientato alla soluzione attiva dei problemi.

-Strategie di primo livello: implicano una modificazione dello stato mentale intervenendo direttamente sull’organismo, evitamenti o il ricorso al supporto interpersonale.

- Strategie di secondo livello: comprendono l’autoinibizione di una condotta o la distrazione

volontaria.

- Strategie di terzo livello: comprendono la critica razionale a credenze disfunzionali, l’uso delle

conoscenze sugli stati mentali altrui per risolvere problemi interpersonali e l’ accettazione matura dei limiti personali.

Nella sfaccettatura autoriflessiva, in relazione a sè stessi, questi costrutti fanno riferimento alla capacità di riuscire a percepire e riconoscere e dare un significato al proprio stato interno, alle proprie emozioni e ai propri pensieri come eventi causali, dotati di significato, in relazione alla propria storia di vita, a quello specifico momento e contesto, caratterizzando il proprio essere nel mondo. La metacognizione nella sua

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sfumatura interpersonale si occupa del rapporto della propria mente con gli stati mentali degli altri, anche questi comprendenti una componente esplicita, che emerge dalla coerenza delle narrazioni, dalla

comunicazione verbale, e una implicita, deducibile dal linguaggio del corpo, (contatto oculare, postura, tono della voce, prosodia..) dalla capacità di sintonizzazione affettiva che un certo individuo riesce ad istaurare.

Molti pazienti possono infatti avere difficoltà nell' una o nell' altra modalità.

Dalle recenti ricerche neuroscientifiche emerge l’evidenza che la metacognizione è costituita da diverse abilità in parte distinte, relativamente indipendenti ma collegate tra di loro (Frith e Frith 1999; Ruby e Decety 2003; Saxe et al. 2004; Vogeley et al. 2001; Mitchell et al. 2006). Sono state individuate nell’uomo, ad esempio, aree cerebrali più specializzate nel ragionamento sui propri stati interni e sulla decodifica della mente di altri percepiti come simili al sé ed altre aree che si attivano selettivamente per comprendere la mente di altri percepiti come diversi da sé. La lettura della mente dell’altro e quella del sé è basata sull’attivazione di aree cerebrali comuni, il che spiega come per attribuire stati mentali agli altri possiamo usare il sé come modello (Gallese e Goldman 1998); ma per correggere le attribuzioni fatte all’altro, ad esempio l’attribuzione di un eccesso di similarità al sé o l’idea che l’altro sappia di noi più di quanto è veramente, abbiamo bisogno di processi cognitivi che sono svincolati dalle aree di mentalizzazione precedentemente chiamate in causa (Saxe 2005). Questa ipotesi è supportata da ricerche cliniche condotte in particolare nell’ambito dei disturbi di personalità (Dimaggio et al. in press; Semerari et al. 2003; Prunetti et al. 2008).

La regolazione delle emozioni e e metacognizione

Panksepp (1998; in Liotti, 2005) propone l'esistenza di tre cornici teoriche generali per lo studio dell'influenza dei processi cognitivi nell'attivazione, nell'attribuzione di significato e nella categorizzazione delle emozioni: la teoria psicobiologica, la teoria socio-costruttivista e quella componenziale. Presupposto della teoria psicobiologica è che alcuni processi

emozionali derivino da sistemi intrinseci dell'organismo umano e precedenti lo sviluppo individuale e della conoscenza di sé; alcune emozioni di base sarebbero quindi distinte realtà biologiche a base innata. In quest'ottica, le credenze e le cognizioni svolgerebbero un ruolo modesto nell'innesco dell'esperienza emozionale ma fondamentale nella regolazione e modulazione delle emozioni “a posteriori”.

Secondo la teoria socio-costruttivista ogni esperienza emotiva sarebbe costruita a partire da sensazioni corporee non specifiche e da stati generali di attivazione (arousal); ogni specifica emozione emergerebbe quindi da una valutazione cognitiva di tali sensazioni corporee (appraisal). Il ruolo svolto da variabili cognitive familiari, culturali è perciò determinante su tali processi di “etichettamento” (Harr, R.; 1986).

La teoria componenziale, nel tentativo di coniugare e integrare le due posizioni precedenti, ipotizza che le emozioni siano costruite prevalentemente durante le prime fasi dello sviluppo psicosociale grazie a influenze interpersonali che attribuiscono significato ad unità

neurovegetative elementari, o quelle che vengono chiamate emozioni primarie (Sroufe, 1995).

Cerchiamo allora di pensare alle emozioni come a '' fenomeni dinamici creati all' interno dei processi cerebrali di valutazione dei significati che risentono direttamente delle influenze sociali'', spiegando meglio, ci sono tre fasi principali dellla risposta emozionale:

Fase di orientamento o arousal

uno stimolo(interno o esterno) può evocare una risposta orientativa iniziale, che è associato alla sensazione ''sta succedendo qualcosa di importante: fare attenzione, ora! Tale risposta è automatica, non richiede il

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coinvolgimento della coscienza e non ha un tono positivo o negativo ( le Doux1990; Barbas 1995). Nel giro di millesecondi il cervello processa le rappresentazioni che si riferiscono alle funzioni dell' organismo e all' ambiente in quel determinato momento, inizia la

Fase di valutazione o appraisal

I processi di valutazione elaborativa determinano se uno stimolo è ''buono'' o ''cattivo'' e di conseguenza se dobbiamo avvicinarci o allontanarci da ciò che l' ha generato. In un secondo tempo vengono valutati non solo gli stimoli, ma anche le stesse emozioni primarie ( stati di arousal e di valutazione non ancora discriminati).

Le emozioni primarie, che caratterizzano queste prime 2 fasi, sono i processi con cui la mente inizia a creare significati. Si manifestano esternamente attraverso stati di attivazione del corpo, espressioni facciali, gesti e toni di voce e altri segnali non verbali. Esse costituiscono la principale forma di

comunicazione fra il bambino e il genitore. L' elaborazione delle informazioni coinvolge la creazione e la manipolazione di rappresentazioni cognitive.

Differenziazione in emozioni di base o fondamentali

Tali termini si riferiscono a sensazioni che sono per lo più famigliari come (disgusto,tristezza, rabbia, paura,sorpresa, gioia, vergogna), universalmente diffuse. A volte possiamo sentirci ''neutri'' e non essere in grado di identificare sensazioni o sentimenti particolari e verbalizzabili; in altre occasioni le nostre

emozioni primarie si differenziano in stati della mente ben definiti e danno luogo alle emozioni di base o fondamentali.

Questi stati emotivi sono spesso comunicati attraverso espressioni del volto, si manifestano con profili fisiologici tipici, e in tutte le culture umane sembrano esistere parole che permettono di descrivere le loro caratteristiche specifiche (Ekman 1992). Le emozioni fondamentali possono essere considerate come stati della mente differenziati che si si sono sviluppati come pattern di attivazione specifici; il cervello e il corpo umano elaborano questi stati della mente attraverso meccanismi caratteristici e innati.

Man mano che il bambino cresce, la differenziazione di emozioni primarie in emozioni fondamentali diventa sempre più sofisticata, e stati precoci di generico 'benessere' o 'malessere' vengono

progressivamente sostituiti da emozioni fondamentali come paura, rabbia, disgusto, sorpresa, intresse, vergogna, gioia. Stati emozionali di piacere, apprensione e frustrazione/disagio sono stati in questo senso descritti da Sroufe come 'precursori' delle emozioni maggiormente definite di gioia, paura e rabbia (Sroufe 1995). In seguito si differenziano anche emozioni più complesse e ''sociali'', come nostalgia, gelosia, e orgoglio.

La valutazione degli stimoli e l' attribuzione di significati sono funzioni fondamentali che si svolgono nell' ambito di processi emozionali.

Alcuni aspetti del nostro sistema di valutazione sono innati, come quelli legati ai sistemi motivazionali di attaccamento e della ricerca di novità, altri acquisiti attraverso esperienza.

Per esempio la ricerca dello sguardo e della prossimità del caregiver non sono comportamenti appresi, ma sono iscritti nel cervello del bambino fin dalla nascita (Siegel 1999).

L' esperienza del bambino che procedendo con l' età e crea rappresentazioni sempre più complesse del mondo esterno, può modificare queste predisposizioni innate.

Per esempio, per il bambino cercare lo ''sguardo'' del genitore rappresenta istintivamente un' interazione positiva; tuttavia, se il contatto visivo porta ad attivazioni disorganizzanti, generando ripetutivamente confusione e turbamento, verrà in seguito associato ad una valutazione negativa, e il bambino imparerà ad evitare questo tipo di interazione.

Man mano che il bambino cresce, sviluppa rappresentazioni della realtà sempre più complesse a cui associa un tono generale di ''positività'' o ''negatività''.

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Emozioni e significati sono creati dagli stessi processi

Un' aspetto importante dell' emozione è la loro funzione sociale: le emozioni primarie o fondamentali sono i mezzi di comunicazione che ci permettono di percepire gli stati della mente degli altri. Le nostre menti sono in grado di riconoscere i segnali non verbali che gli altri trasmettono, e che rivelano aspetti dei loro stati della mente.

Generate dai sistemi celebrali di valutazione, queste attivazioni emozionali influenzano tutte le funzioni della nostra mente: in base a passate esperienze, sintonizzano tutte le attività dell' intero organismo in funzione delle particolari esigenze del momento, conferiescono agli stimoli significati specifici e direzioni motivazionali; partecipano a processi della memoria stato-dipendenti; collegano processi della memoria ''sincronicamente'' e ''diacronicamente'' ( in un dato momento e nel corso del tempo) creano associazioni complesse fra processi rappresentazionali astratti che presentano analoghi significati emozionali (Ciompi 1991); danno letteralmente significato agli eventi della nostra vita.

Queste proprietà organizzative collegano quelle che sono tradizionalmente considerate separatamente come funzioni mentali, sociali, e biologiche; le emozioni sono processi intrinsecamente integrativi. Le emozioni non sono circoscritte a determinati circuiti o ad aree cerebrali specifiche; al contrario queste stesse regioni 'limbiche' ( amigdala, corteccia orbito-frontale, corteccia cingolata anteriore) sembrano mediare attività che influenzano la maggior parte delle funzioni del cervello e dei processi della mente (Syein, Trabasso 1992; Watt 1998).

Il sistema limbico è responsabile dei meccanismi che portano all' attribuzione di significati e valori agli stimoli, ed è anche implicato nel sistema di elaborazione delle informazioni che media le funzioni cognitivo sociali, incluse le capacità di riconoscere i volti, l' affiliazione e la teoria della mente. Secondo alcuni autori, queste osservazioni confermano l' origine sociale delle emozioni

(Harr 1986, Ciompi 1991; Brothers 1997) e sostengono la nozione che le emozioni sono processi che coinvolgono l' intero cervello. ( Le Doux 1996).

Nel campo della psicologia evolutiva e della psicopatologia, le emozioni e la loro modulazione sono visti come processi strettamente intrecciati: le emozioni sono regolate e nello stesso tempo svolgono funzioni regolative (Cicchetti et al 1991; Garber, Dodge 1991; Fox 1994a).

In base a queste interpretazioni, le emozioni sono implicate in tutte le attività della mente; per esempio Kennet Dodge afferma che ''tutti i processi di elaborazione sono basati sull' emozione, nel senso che l' emozione è l' energia che dirige, organizza, amplifica e modula l' attività cognitiva, e a sua volta costituisce l' esperienza e l' espressione di tale attività'' (Dodge 1991).

Il sè, secondo questa prospettiva è creato all' interno di processi che organizzano le funzioni della mente nelle sue interazioni con il mondo. L' integrazione di questi processi è mediata dall' emozione che conferiscono valori e significati e collegano le diverse attività della mente.

L' emozioni, essendo alla base dei processi interni e interpersonali creano la nostra esperienza soggettiva del sè, e l' organizzazione del sè dipende dalla modalità con cui le emozioni vengono regolate.

Secondo Sroufe nello sviluppo le emozioni hanno il ''duplice compito'' di esprimere e di gestire l' affetto. Le emozioni sono regolate , e nello stesso tempo hanno funzioni regolative; nelle loro manifestazioni, come risposte neurofisiologiche, esperienze soggettive ed espressioni interpersonali, le emozioni collegano vari sistemi all' interno di una singola mente e fra menti diverse.

La condivisione degli stati della mente e delle emozioni si basa fondamentalmente su forme di

comunicazione non verbale che è alla base delle nostre comunicazioni interpersonali soprattutto nei primi anni di vita.( Siegel D.J.1999.)

Le forme di attaccamento differiscono nelle modalità con cui le coppie genitore-figlio condividono i loro stati della mente e le loro emozioni. Il bambino può sintonizzarsi con gli stati del genitore e utilizzarli per organizzare e regolare i suoi processi mentali; per esempio nei meccanismi di riferimento sociale, osserva l' espressione del viso e altri aspetti non verbali dei segnali trasmessi dall' adulto per determinare come si deve sentire e comportare in situazioni ambigue ( Walden 1991).

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emozioni primarie e la loro differenziazione in emozioni di base dipenda dal modo in cui la loro espressione da parte del bambino è abitualmente rispecchiata dagli altri significativi; l'insieme dei

rispecchiamenti sociali svolgerebbe quindi un ruolo fondamentale nello sviluppo di capacità metacognitive adeguate per la regolazione emotiva.

Importanti diventano quindi i concetti di “Modello Operativo Interno” (Bowlby, 1972) e di Funzione Riflessiva (Fonagy, 1991). In particolare, al Modello Operativo Interno (MOI) dell' attaccamento, definito come un insieme di memorie, aspettative che regolano e guidano il comportamento e che costituiscono la premessa degli schemi basici di sé con gli altri (Liotti, 2005), viene attribuito un ruolo cruciale nella genesi del sistema di autoregolazione delle emozioni, come dimostrato da recenti ricerche su come la capacità di regolare le emozioni dell'attaccamento si rifletta sull'organizzazione cerebrale, in particolare della corteccia orbito-frontale destra (Schore, 2000).

Lo sviluppo dei processi di regolazione dell' emozioni dipende quindi da interazioni di natura sociale: il bambino diventa un essere 'emotivo' e non più semplicemente ' reattivo' attraverso processi di ''regolazione diadica'', in cui il caregiver attraverso meccanismi di sintonizzazione affettiva, modula man mano i suoi stati di arousal e di tensione ( Hofer 1994), permettendoli di creare significati e rappresentazioni soggettive.

Verso la fine del primo anno di vita, i processi di regolazione diadica vengono poi sostituiti da ''forme di regolazione assistita'' in cui il genitore aiuta il bambino a incominciare a modulare autonomamente i suoi stai della mente (Lieberman 1993)

È utile infatti segnalare che, da un punto di vista evolutivo, le attitudini mentali ed emotive di ‘sintonizzazione’ (Tronick, E.Z. 1989) e di ‘rispecchiamento’ (Gergely e Watson 1996) del genitore rivestono per il bambino una funzione organizzatrice e vitalizzante (Ferenczi 1929), in quanto gli consentono di “nascere psicologicamente” e di fare esperienza di quella che Winnicott (1956) chiamava ‘continuità dell’essere’ (going on being). Le esperienze relazionali positive vissute nell’infanzia permettono quindi lo sviluppo di un Sé psicologico e di una capacità adeguata

di regolare gli stati mentali e le reazioni somatiche che li accompagnano, venendo a costituire la base per la salute psicofisica (Baldoni 2014).

Esperienze concrete di relazione possono quindi ostacolare i processi di riconoscimento e regolazione delle emozioni e lo sviluppo della conoscenza implicita in esplicita: nei contesti di esperienza relazionale, in cui le risposte verbali e comportamentali degli altri sono in grado di riflettere più o meno adeguatamente il significato delle emozioni espresse dal bambino, si possono produrre ostacoli alla trasformazione delle emozioni da semplici processi fisiologici in sentimenti coscienti (Damasio, 1994). Tuttavia, è ipotizzabile che perchè si verifichi un ostacolo alla coscienza delle emozioni non siano sufficienti esperienze negative durante le interazioni precoci ma che vi sia un ripetersi, nel corso successivo dello sviluppo, di processi

di “invalidazione emotiva” (Linehan, 2001). Nel suo grado massimo questa mancanza di sintonizzazione affettiva nei rapporti interpersonali, e il mancato sviluppo di adeguate funzioni metacognitive (soprattutto monitoraggio), si può esprimere in diversi gradi di alessitimia: “il

deficit di conoscenza delle emozioni può variare da un carente monitoraggio metacognitivo dell'esperienza emotiva, con conseguente difficoltà a discriminare tra loro emozioni diverse, fino a una vera e propria mancanza di coscienza della emozione, che resta confinata al livello

di puro processo fisiologico”(Liotti, 2001).

Metacognizione, l' evoluzione del concetto di mentalizzazione:

una prospettiva dinamica dello sviluppo del sè

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La nozione di mentalizzazione e funzione riflessiva è già presente nel concetto freudiano di Bindung (Freud, 1911) o legame, ed è riferita al cambiamento qualitativo dell’attività psichica che passa dal piano esperienziale immediato al piano psicologico associativo (mediato), cioè dall’esterno all’interno (mentale).

Ferenczi nei suoi lavori si occupò anche del trauma infantile, evidenziando come durante il trattamento dei pazienti traumatizzati emergessero difficoltà a livello del funzionamento psichico primario con conseguente comparsa di aree di sofferenza “prive di rappresentazione e verbalizzazione”. Sembrerebbe dunque possibile collegare tale descrizione all’assenza della capacità di mentalizzare ed al ritorno di una modalità psichica di equivalenza. Ferenczi inoltre descrisse come il trauma infantile abbia la capacità di sradicare i sentimenti dalle rappresentazioni e dai processi di pensiero; l’aggressore (e l’aggressione) scompare come realtà esterna e l’evento da esterno diviene intrapsichico (Ferenczi, 1932). Anche qui è possibile scorgere l’analogia con il già menzionato meccanismo di scissione tra la modalità dell’equivalenza psichica e quella del far finta in occasione di un trauma: in questo modo è possibile relegare su di un piano totalmente scollegato dalla realtà (e cioè nella modalità del far finta) le rappresentazioni incomprensibili degli stati psichici degli oggetti e degli eventi traumatici.

A questo tema si collega anche il meccanismo di identificazione con l’aggressore ripreso e sviluppato successivamente da Anna Freud, quella particolare difesa per cui introiettando un attributo dell’oggetto fonte di angoscia, il soggetto riesce ad assimilare un’esperienza angosciosa trasformandone la paura in una sensazione di sicurezza, trasformandosi da minacciato in minacciante (Freud A., 1936).

Il concetto di mentalizzazione è strettamente collegato anche alla descrizione della Klein delle posizioni

schizo-paranoide e depressiva (Klein, 1935). La posizione depressiva non sarebbe altro che la

mentalizzazione sufficientemente acquisita: in questo stato mentale il bambino (così come l’adulto) si sente triste e colpevole per aver ferito l’oggetto. Può dunque provare dolore ed empatizzare con i suoi sentimenti: tutto ciò non sarebbe possibile senza il riconoscimento di un’intenzionalità in se stessi e negli altri. Nella posizione depressiva ci si rende conto che non è possibile cancellare gli “errori” commessi e che, al limite, si può solo cercare di rimediare ad essi. Il bambino comprende che può subire delle perdite ed esserne addolorato. Al contrario, la posizione schizo-paranoide è uno stato non-mentalizzante. In questa posizione il mondo degli altri è diviso chiaramente in quelli che sono odiati e in quelli che sono amati. Sempre nella posizione schizo-paranoide non c’è tempo o spazio per la riflessione: l’azione è tutto. La stessa Klein suggerisce che la posizione depressiva è uno stato della mente più evoluto, sebbene in diversi momenti sia possibile oscillare tra le due posizioni. Ad esempio la posizione depressiva (così come la mentalizzazione) è maggiormente raggiungibile in situazioni sicure, dove la vulnerabilità può uscire allo scoperto. La posizione schizoparanoide (così come l’inibizione della mentalizzazione), insieme alle sue difese tipiche, emerge negli stati di intensa attivazione.

Nella letteratura kleiniana i mutamenti qualitativi del pensiero sono stati largamente affrontati anche da altri autori. La Segal, ad esempio, afferma che affinché il processo di simbolizzazione possa giungere a compimento è necessario acquisire il funzionamento tipico della posizione depressiva (Segal, 1978). Anche il concetto di equazione simbolica della Segal può essere accostato, anche se non sovrapposto, a quello dell’equivalenza psichica: in effetti Fonagy ha ben spiegato come il bambino al di sotto dei quattro anni, sebbene in grado di simbolizzare, non sia in grado di concepire la rappresentazione del pensiero (Target, et al., 1996), cioè quella che Freud chiama la rappresentazione di parola accostandola alla

rappresentazione di cosa (Freud, 1915). Quest’ultima invece, per la Segal, nell’equazione simbolica

diventa identica alla rappresentazione di parola.

Vi sono pochi dubbi sul fatto che le formulazioni di Fonagy sulla mentalizzazione derivino soprattutto da quelle fatte precedentemente da Bion e Winnicott. Bion vede la capacità di pensare come dipendente dalla capacità di rêverie o contenimento della madre (Bion, 1965). Il senso del Sé del bambino, la sua sicurezza e la sua capacità di pensiero quindi dipendono dalla capacità del genitore di rispecchiare accuratamente gli stati mentali dell’infante. Bion delinea la trasformazione (funzione alfa) di eventi interni sperimentati come concreti (elementi beta) in esperienze tollerabili e pensabili (elementi alfa). È esattamente ciò che

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avviene grazie alla funzione riflessiva del caregiver descritta da Fonagy, in cui il bambino, grazie al rispecchiamento empatico del caregiver, gradualmente internalizza non solo delle rappresentazioni ma, con l’andar del tempo, anche la funzione. Anche per Bion il pensiero, che emerge come risposta alla frustrazione, ha il compito di mantenere l’equilibrio affettivo (Bion, 1962). Bion inoltre, in linea con il modello di Fonagy, pone l’accento proprio sui processi interattivi intersoggettivi che consentono la nascita e l’evoluzione del pensiero.

Mentalizzazione e sviluppo del sè

La mentalizzazione è il nucleo del concetto di metacognizione di cui abbiamo discusso finora.

Il concetto di mentalizzazione si riferisce alla capacità di percepire se stessi e gli altri in termini di stati mentali interpretando il comportamento come conseguenza di questi. Si tratta di prestare attenzione agli stati mentali propri e degli altri e attribuire al comportamento una qualità mentale sviluppando una prospettiva psicologica. In modo efficace, gli inglesi sintetizzano il concetto con la frase mind the mind (tieni in mente la mente).

Ricordiamo che si intende con stato mentale, un pattern di attivazione cerebrale che comprende l' interazione in un determinato momento di percezioni, emozioni, desideri, ricordi, pensieri, credenze, attitudini...

In modo piuttosto suggestivo, Bateman e Fonagy suggeriscono che mentalizzare significhi «tenere a mente la mente», «mantenere il cuore e la mente nel cuore e nella mente», «vedere se stessi dall’esterno e gli altri dall’interno», «pensare i sentimenti e sentire i pensieri».

Queste definizioni richiamano un secondo fondamentale aspetto della mentalizzazione, ossia il fatto che essa è costituita sia dalle competenze cognitive, sia da quelle emotivo-affettive; in quest’ottica, quando le persone mentalizzano attivano le proprie abilità cognitive di pensiero insieme alle competenze emotive e ai propri vissuti affettivi.

Cognizione ed emozione, pensiero e sentimento non sono e non possono essere disgiunti, ma sono costantemente collegati tanto che lo sviluppo stesso della mentalizzazione ha origine proprio nelle primissime relazioni affettive tra neonato e i caregiver attraverso uno scambio di emozioni tra i due. E’ proprio in queste relazioni che diviene possibile la comprensione della propria mente, del proprio Sé come “agente mentale”: in altri termini si sviluppa la percezione di se stesso come un essere dotato di una mente.

Questo “Sé psicologico” evolve, nei primi anni di vita, attraverso l’interazione con menti più mature, nella speranza che queste siano “sufficientemente buone”, cioè empatiche, sintoniche e dotate di una adeguata

capacità riflessiva. “Capire le menti è difficile per chi non abbia avuto l’esperienza di essere capito da una persona con una mente” (Allen, et al., 2006).

«Vedere se stessi dall’esterno e gli altri dall’interno», infine, richiama la caratteristica della

mentalizzazione legata alla capacità di rappresentare non solo la propria mente, ma anche quella altrui e la conseguente abilità di assumere la prospettiva degli altri: anche in questo caso, il livello non è unicamente cognitivo, ma include concetti emotivo-affettivi, quale quello di empatia.

In modo scientificamente più preciso la mentalizzazione è stata definita da Anthony Bateman e Peter Fonagy come il “processo mentale attraverso cui un individuo interpreta, implicitamente o esplicitamente, le azioni proprie o degli altri come aventi un significato sulla base di stati mentali intenzionali (desideri, bisogni, sentimenti, credenze e motivazioni personali)” (Bateman, Fonagy 2004), oppure, più

sinteticamente, come il “percepire immaginativamente o interpretare il comportamento come congiunto con gli stati mentali intenzionali” (Allen, Fonagy e Bateman 2008).

La mentalizzazione è un processo, un’attività psichica, non una capacità statica. Alcuni autori, come Jon Allen [2006], preferiscono, infatti, parlare di “mentalizzare” (mentalizing), utilizzando il verbo piuttosto che il sostantivo. Presupposto di questo processo è la capacità di rappresentare sé e gli altri in termini di stati mentali “intenzionali”, cioè elementi psicologici come desideri, sentimenti, aspettative o convinzioni che sono alla base del comportamento e lo motivano. In seguito a questa capacità le azioni possono essere

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interpretate come conseguenti a stati mentali e assumere un significato psicologico. Secondo la teoria dell’attaccamento le attribuzioni relative agli stati mentali propri e degli altri vengono interiorizzate sotto forma di “modelli operativi interni” (internal working models) un termine proposto da John Bowlby [1973] che indica le rappresentazioni interne di se stessi, delle proprie figure d’attaccamento e del mondo, come pure delle relazioni che li legano.

Il mentalizzare comporta una componente autoriflessiva (relativa alle rappresentazioni di se stessi) e una

interpersonale (legata alla rappresentazione degli altri).

La capacità di mentalizzare gli stati mentali delle altre persone, cioè la componente interpersonale, è alla base dell’empatia (cioè la consapevolezza e la parziale condivisione degli stati mentali dell’altro

manifestando la capacità di regolare l’affetto e mantenendo la distinzione tra il sé e l’altro). In assenza di capacità riflessive il comportamento non assume un significato e non è possibile essere empatici.

La componente autoriflessiva del mentalizzare ricorda il concetto di mindfulness [Siegel 2007], che nel buddismo zen corrisponde a “saper tener viva la propria consapevolezza nella realtà presente”, anche se nel significato originale questo non si riferisce solo alla mente, ma all’intero organismo. Corrisponde a un particolare stato di coscienza in cui si è presenti totalmente a se stessi, senza che la mente sia influenzata da preoccupazioni, giudizi ed emozioni disturbanti. Nonostante la mindfulness riguardi solo il Sé e non gli altri, costituisce la condizione ottimale per potere mentalizzare, al punto che la mentalizzazione è stata considerata la “mindfulness della mente” [Allen 2006].

Inoltre il mentallizzare è un processo mentale che si svolge nella mente della persona nel tempo presente, ma collega i comportamenti e gli stati mentali del Sè e degli altri, attraverso il passato e il presente proiettandoli proattivamente nel futuri (Bateman e Fonagy 2004; 2006; Zaccagnini, Messina e Zavattini2007; Wallin 2007).

Un esempio può essere rappresentato dall’atteggiamento di ascolto dello psicoterapeuta, in cui il flusso del pensiero e delle associazioni scorre liberamente senza essere eccessivamente influenzato dalle contingenze e dai giudizi del mondo esterno.

Si distinguono, inoltre, una mentalizzazione esplicita e una implicita [Allen 2006].

La mentalizzazione esplicita corrisponde al “pensare e parlare degli stati mentali” propri e degli altri, è conscia, legata al linguaggio verbale e tende ad assumere il carattere di una narrazione. Può essere più facilmente appresa culturalmente (attraverso modelli e stereotipi sociali) o con l’esperienza (in famiglia, con gli amici, a scuola, sul lavoro o in psicoterapia), ma anche imitata o falsificata attraverso atteggiamenti solo apparentemente mentalizzanti.

La mentalizzazione implicita, al contrario, è una “mentalizzazione intuitiva, procedurale, automatica e non conscia”, è maggiormente legata al comportamento non verbale e anch’essa può riguardare sia sé (senso del Sé, affettività mentalizzata) che gli altri. Si manifesta in modo spontaneo nella capacità di cambiare turno in una conversazione, quando si reagisce alle emozioni delle altre persone, o quando si utilizza un comportamento non verbale (uno sguardo significativo o un gesto espressivo, ad esempio accarezzare o toccare una parte del corpo dell’altro, come il volto, una spalla, una mano o una gamba) con la chiara intenzione di comunicare un proprio stato mentale o la comprensione dello stato mentale dell’altro [Baldoni 2013].

Non esiste un confine definito tra mentalizzazione esplicita e implicita. Bisogna considerare, inoltre, che i trattamenti psicoterapeutici, compresi quelli basati sul costrutto di mentalizzazione e di attaccamento [Bateman e Fonagy 2004; Allen e Fonagy 2006; Wallin 2007; Allen, Fonagy e Bateman 2008; Midgley e Vrouda 2012; Baldoni 2013], mirano a incrementare soprattutto le capacità riflessive esplicite [Michels 2006]. Per la sua natura spontanea, non consapevole e procedurale, infatti, la mentalizzazione implicita è più difficile da riconoscere, da descrivere e da modificare attraverso interventi verbali diretti di tipo interpretativo o cognitivo-comportamentale. In ogni caso la mentalizzazione, occupandosi della

comprensione degli stati mentali propri e degli altri, è stata considerata il più importante fattore comune di tutti i trattamenti psicoterapeutici [Allen, Fonagy e Bateman 2008].

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particolare alla qualità delle relazioni primarie [Fonagy e Target 2001; Ammaniti e Gallese 2014] e fanno riferimento alle stesse aree e funzioni cerebrali che sottostanno ai processi di attaccamento (in particolare all’attività della corteccia prefrontale). Le capacità di mentalizzazione dei genitori, assieme alla loro “sensibilità”, cioè alla capacità di favorire il benessere della prole interpretandone i bisogni e rispondendo in modo appropriato, costituiscono i maggiori predittori della qualità sicura dell’attaccamento. Ricerche basate sulla somministrazione di Adult Attachment Interview, infatti, hanno evidenziato che i genitori capaci di parlare delle proprie emozioni e dei propri processi di pensiero, in riferimento soprattutto alle esperienze significative della propria infanzia, hanno maggiori probabilità di avere dei figli con una configurazione di attaccamento sicuro [Fonagy et al. 1991]. Per un genitore, inoltre, è importante

manifestare una mind-mindedness, cioè l’inclinazione a trattare il proprio bambino come un essere dotato di una mente, una funzione studiata in particolare da Elisabeth Meins [Meins et al. 2002] che sembra a propria volta favorire nel figlio lo sviluppo di un attaccamento sicuro e di una teoria della mente. Questa capacità del caregiver si manifesta anche nei confronti di bambini molto piccoli.

Il particolare rapporto di “intersoggettività” che è alla base del legame di attaccamento tra bambino e caregiver, quindi, svolge un ruolo decisivo per lo sviluppo di un senso di Sé e la regolazione degli stati mentali e delle reazioni somatiche correlate [Fonagy et al. 2002; Ammaniti e Gallese 2014], divenendo la matrice delle future relazioni sociali e della capacità di entrare in contatto affettivo con gli altri.

Se l’ambiente relazionale e le capacità di rispecchiamento manifestate dal caregiver all’interno della relazione di attaccamento sono adeguate, il neonato può sviluppare una graduale rappresentazione del Sé accompagnata da una capacità sempre maggiore di regolare in modo autonomo le emozioni e le reazioni somatiche che le caratterizzano. Si manifesta quindi una progressiva integrazione psicosomatica tra percezioni conseguenti all’attività corporea e rappresentazioni secondarie legate a processi della neocorteccia.

La consapevolezza e la regolazione dei propri stati mentali è accompagnata da una maggiore consapevolezza degli stati mentali delle altre persone. Questa acquisizione è influenzata non solo

dalle capacità mentalizzanti e di rispecchiamento manifestate dal caregiver all' interno di una relazione di attaccamento (Meins et all 2002),ma anche dallo sviluppo del sistema nervoso centrale.

Nella nostra specie, in condizioni di accudimento sufficentemente adeguate, la maggior parte dei bambini manifesta intorno ai 4 anni una ''teoria della mente'' (Premarck e Woodruft 1978; Baron Cohen 1975) cioè la consapevolezza che la propria mente è separata da quella degli altri.

Sono state individuate delle variabili che facilitano la formazione di una teoria della mente nel bambino in interazione con un adulto:

• Attenzione Condivisa, portare la concentrazione contemporaneamente su una stessa cosa o gioco; • Imitazione Facciale, riproduzione di particolari mimiche facciali

Gioco di Finzione, simulare finti giochi tra adulto e bambin

Possedere una teoria della mente, permettedi spiegare il comportamento degli altri sulla base di conoscenze, convinzionie desideri che possono essere diversi dai propri.

Una delle conseguenze più evidenti di questa capacità è la scoperta da parte del bambino di una nuova importante strategia di adattamento: la possibilità di mentire(non avrebbe senso raccontareuna bugia senza la consapevolezza di potere trarre in inganno l’altra persona). L’acquisizione di una teoria della mente può essere facilmente dimostrata attraverso il superamento di compiti di falsa credenza come la prova di Sally e Anna [Baron-Cohen, Leslie e Frith 1985]in cui, con l’aiuto di disegni o di pupazzi, sirappresenta una scena che ha per protagonisti due bambine..

Mentre il neonato, si caratterizza per un “Sé corporeo”(non psicologico), in quanto influenzato da percezioni non mentalizzate prevalentemente somatiche, in pochi anni, all’interno della relazione di attaccamento e di rispecchiamento con un caregiver sensibile e mentalizzante,il bambino sviluppa una teoria della mente e un“Sé psicologico”(riflessivo), dotato della capacità di pensare a sé e agli altri in termini di stati mentali.

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Una buona regolazione emozionale (espressione di una valida integrazione psicosomatica), accompagnata da una valida gestione dello stresse un attaccamento relativamente sicuro(Tipo B),sono il risultato finale di questo processo.

Il Sé psicologico (o riflessivo) [Fonagy, Moran e Target 1993] è un Sé dotato di immaginazione e di una capacità di rappresentare se stessi e gli altri in termini di stati mentali.

Il Sé corporeo è un Sé fisico, pre-riflessivo e non psicologico [Fonagy, Moran e Target 1993] che ricorda il “proto-Sé” descritto da Antonio Damasio [2010], in quanto è focalizzato sugli stati enterocettivi relativi al proprio corpo.

Neurobiologia mentalizzazione

I processi di mentalizzazione sono molto complessi e richiedono una capacità di regolazione sofisticata e flessibile delle emozioni e degli stati somatici a loro correlati.

Le ricerche hanno dimostrato che l’emisfero cerebrale destro costituisce il substrato neurobiologico del sistema di attaccamento e della capacità di regolazione delle emozioni [Shore e Shore 2008; Shore 2013]. Un ruolo fondamentale per le capacità di mentalizzazione è svolto, in questo ambito, dalle aree orbitali e

mediali della corteccia prefrontale (compresa la corteccia orbitofrontale, che si estende fino alle aree

ventromediali), importanti per la rappresentazione implicita ed esplicita degli stati mentali delle altre persone, per la gestione delle relazioni interpersonali (comprese quelle di attaccamento), delle capacità di cooperazione, dell’aggressività sociale, del comportamento morale e del senso di responsabilità, al punto che queste aree della neocorteccia sono state considerate il “substrato neurale della vita sociale” [Goldberg 2001].

La corteccia orbitofrontale rappresenta anche una zona critica per l’elaborazione e il monitoraggio delle esperienze passate e attuali (compreso il loro valore affettivo e sociale) e per il controllo dell’umore [Cavada e Shultz 2000].

Attraverso una serie di studi di neuroimaging basati sul costrutto di self-reference effect (SRE), che hanno valutato se uno stimolo o un’esperienza vengano considerati pertinenti oppure estranei al Sé ( Northoff G, 2009), è stato dimostrato che nei processi di rappresentazione del Sé svolgono un ruolo fondamentale una serie di strutture localizzate nella linea mediana del cervello (tra cui la corteccia prefrontale ventro e dorso mediale, varie aree della corteccia cingolata e il precuneo), denominate nel loro complesso “Strutture Corticali Mediali” (Cortical Midline Structures, CMS). Tra le diverse funzioni, queste aree cerebrali permettono di attribuire un significato personale ai ricordi delle esperienze passate, venendo a svolgere un ruolo importante nella memoria autobiografica, fondamentale per i processi di mentalizzazione.

Un ruolo molto importante, inoltre, è svolto dall’amigdala, che è regolata dall’attività della corteccia

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memoria procedurale e automatica alla base della mentalizzazione implicita [Herpertz et all. 2001] e svolge una funzione significativa nella regolazione dello stress e delle emozioni. L’amigdala è importante per

l’attribuzione di un significato emotivo a uno stimolo e per l’associazione dello stimolo con la sua pregnanza e intensità, per questo è un’area cerebrale particolarmente significativa per l’elaborazione degli eventi dolorosi (la sua dimensione aumenta nei soggetti deprivati e traumatizzati). L’amigdala svolge un’azione attivante sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) intervenendo nella risposta allo stress (mentre, al contrario, la corteccia prefrontale mediale e l’ippocampo svolgono una funzione inibente) e influenza i processi decisionali in quanto permette la rappresentazione di una ricompensa .

I processi di mentalizzazione si attivano e si organizzano in modo differente in funzione dello sviluppo individuale, delle condizioni dell’organismo e delle specifiche necessità di adattamento all’ambiente. La regolazione neurochimica della corteccia prefrontale, infatti, è in relazione con l’attività di tutto il sistema limbico e delle strutture corticali mediali (SCM) ed è complementare a quella della corteccia posteriore e delle strutture sottocorticali .

Fig 2. Relazione fra corteccia prefrontale mediale, sistema limbico e strutture sottocorticali

Quando l’attivazione cerebrale supera un certo livello si attiva una sorta di “interruttore neurochimico” difensivo (Arnsten 1998) che protegge da un eccesso di tensione mentale. Questa reazione (mediata dai recettori alfa-2 della norepinefrina e D1 della dopamina) disconnette funzionalmente la corteccia prefrontale modificando il funzionamento del sistema nervoso centrale da una modalità mentalizzante dinamica e complessa (che richiede tempo e può esporre a un pericolo) ad altre più automatiche, veloci e geneticamente determinate quali la reazione difensiva di “attacco/fuga” (fight/flight), che mobilizza le riserve energetiche attivando l’organismo al fine di combattere o fuggire dal pericolo, o quella di “conservazione/ritiro” (o di immobilizzazione o freezing) il cui fine è resistere nel tempo inibendo il metabolismo e riducendo ogni forma di spreco energetico.

Queste reazioni difensive generalizzate, filogeneticamente più antiche, sono caratterizzate dell’attivazione non modulata dei sistemi emozionali di base e dipendono da informazioni mnemoniche procedurali non consapevoli attivate nell’amigdala e gestite dalle aree cerebrali posteriori e dalle strutture sottocorticali mediali (SCMS).

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simpatica che parasimpatica. Secondo la Teoria Polivagale di Stephen Porges [2011] le reazioni di calma, di sicurezza, di inibizione dell’aggressività e di disponibilità affettiva, relazionale e sociale, caratteristiche degli stati di mentalizzazione e delle relazioni di attaccamento, sarebbero gestite dalle fibre mielinizzate del nervo vago. Queste fibre svolgerebbero un’azione inibente sulle

reazioni difensive antiche e geneticamente determinate di fight/flight (mediate dal sistema nervoso simpatico) e di immobilizzazione ( freezing) (mediate dalle fibre non mielinizzate del nervo vago), garantendo uno stato di calma e di buona disposizione verso le relazioni affettive e sociali, comprese quelle di attaccamento. Quando l’azione inibente delle fibre vagali mielinizzate non si manifesta, le reazioni difensive generalizzate si attivano in modo automatico e il senso di sicurezza e la disponibilità affettiva e sociale vengono meno.

Questa modalità di funzionamento non mentalizzante che, come si è detto, si attiva nei momenti in cui si è esposti a stati di tensione emotiva eccessivi, protegge dal dolore mentale, è reversibile e si manifesta sia in condizioni normali che patologiche. I diversi livelli di organizzazione, da quello mentalizzante alla

disconnessione prefrontale caratterizzata da reazioni automatiche, sono accompagnati da diversi livelli di percezione del Sé che vanno dalla rappresentazione di un Sé psicologico (caratterizzato da una capacità di riconoscere sé e gli altri sulla base di stati mentali), sino a una modalità di rappresentazione focalizzata sugli aspetti somatici caratteristica di un Sé corporeo.

I processi di mentalizzazione, quindi, risultano complessi e in relazione con la qualità delle esperienze di attaccamento. La corteccia prefrontale mediale agisce all’interno del sistema limbico (assieme all’amigdala, al giro del cingolo e all’insula), che rappresenta il substrato neurobiologico delle emozioni, e si trova in una zona di convergenza tra strutture cerebrali corticali e sottocorticali [Matarazzo e Zammuner 2009]. A livello della corteccia prefrontale le informazioni provenienti dall’ambiente esterno sono integrate con quelle dell’ambiente interno (percezioni somatiche, stati tensionali). Questa integrazione permette lo stabilirsi di una connessione tra ambiente esterno ed emozioni e rappresenta il substrato per la rappresentazione interiorizzata di una relazione

oggettuale, basata su una rappresentazione di Sé, una rappresentazione dell’oggetto e la loro connessione con

stati affettivi. Questa attività dell’area orbitofrontale, è stata considerata alla base dello sviluppo dei modelli operativi interni di attaccamento [Schore 2001; 2013].

La corteccia prefrontale non sembra attiva alla nascita. Nel corso del primo anno di vita, però, sotto l’influenza delle esperienze di attaccamento, si verifica una progressiva maturazione di tutto il sistema limbico, comprese le aree prefrontali mediali [Schore 2000]. Le esperienze di attaccamento, quindi, contribuiscono a plasmare le strutture cerebrali alla base del comportamento sociale e della regolazione emotiva, influendo direttamente sulla maturazione dei sistemi relativi alle capacità mentalizzanti e alla gestione dello stress. Come anticipato da Bowlby nei suoi studi sugli effetti della deprivazione materna e sui bambini istituzionalizzati e ospedalizzati, la ricerca neuroscientifica contemporanea ha confermato l’importanza del legame precoce del neonato con il proprio caregiver, in quanto dalla qualità e dalla continuità di questa relazione deriva la maturazione delle aree cerebrali che influenzeranno le successive capacità di regolare le emozioni e di gestire le relazioni sociali, comprese quelle di attaccamento. L’amigdala e la corteccia prefrontale mediale, comunque, mantengono nel tempo un’elevata plasticità, pertanto le esperienze di attaccamento possono influenzare la capacità cerebrale di regolare le emozioni per tutta la vita.

Oltre alla corteccia prefrontale mediale, alle altre strutture corticali mediane (CMS) e all’amigdala, altre aree cerebrali che contribuiscono ai processi di mentalizzazione sono: 1) la corteccia ippocampale: anch’essa importante per la memoria autobiografica e per la regolazione delle emozioni e dello stress (è stata evidenziata un’inibizione del suo funzionamento o un’atrofia nei soggetti che hanno subito abusi o maltrattamenti e in pazienti affetti da disturbi borderline di personalità) [Teicher et al. 2003]; 2) il lobo temporale, che permette il riconoscimento delle espressioni facciali; 3) la corteccia cingolata anteriore, che svolge una funzione nella mentalizzazione del Sé in un contesto di attivazione emozionale [Damasio 1999]; 4) l’insula, che collega il tronco encefalico con la neocorteccia e agisce come una sorta di “corteccia interocettiva”, integrando le informazioni derivanti dall’attività fisiologica somatica con i segnali corticali superiori di tipo emozionale, comportamentale e motivazionale (crf. cap. Porcelli).

Infine, per la rappresentazione degli stati mentali degli altri, cioè la componente empatica della

mentalizzazione, sembra svolgere un ruolo importante il sistema dei neuroni specchio (mirror neuron system) che nell’essere umano sarebbe responsabile non solo della capacità di comprendere e ripetere i comportamenti degli altri, ma anche di anticiparne le intenzioni (inserendo le azioni in un contesto e attribuendo loro un

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significato) e condividerne gli stati mentali grazie all’attivazione degli stessi circuiti neuronali [Gallese 2003. Allen e Fonagy [2006] hanno ipotizzato che le strutture neurobiologiche coinvolte nei processi di

mentalizzazione potrebbero essere organizzate su un sistema a due livelli: uno corticale prefrontale,

responsabile delle rappresentazioni più esplicite e dichiarative, e quello dei neuroni specchio, che permette una mentalizzazione più immediata e diretta che è alla base dell’empatia

Quando non si mentalizza

Cosa accade quando aumenta la tensione emotiva e non si è in grado di mentalizzare? Come abbiamo visto, possono attivarsi reazioni difensive più veloci, automatiche e immediate, come quelle geneticamente determinate di tipo attacco/fuga o conservazione/ritiro (immobilizzazione). Altre reazioni comuni sono gli acting out comportamentali conseguenti al mancato controllo degli impulsi (atti aggressivi, attacchi di panico, fughe, agitazione psicomotoria, disperazione) o la manifestazione di sindromi dissociative (amnesie, fughe, disturbo dissociativo dell’identità o personalità multiple, disturbo di depersonalizzazione) atte a proteggere dalle conseguenze traumatiche della tensione mentale.

La mancanza di una adeguata mentalizzazione, inoltre, comporta un problema di integrazione psicosomatica. Le reazioni corporee che caratterizzano le emozioni, infatti, non sono sottoposte a regolazione e non sono integrate con la vita psichica, in quanto le emozioni non sono elaborate dalla neocorteccia e non assumono, quindi, un significato psicologico di sentimenti. In questi casi può manifestarsi una separazione

intellettualizzata dell’attività mentale dalle esperienze corporee e un carente riconoscimento ed espressione delle emozioni simili alle condizioni descritte da Winnicott come “falso Sé”, da Pierre Marty come “pensiero operatorio” (pensée opératoire) e da Peter Sifneos e John Nemiah come “alessitimia”. Ne consegue la tendenza a manifestare alterazioni del comportamento di malattia quali lamentele somatiche, preoccupazioni

ipocondriache, disturbi di somatizzazione e sindromi mediche funzionali, oltre che una maggiore suscettibilità alle malattie e agli effetti somatici dello stress (Baldoni 2010)

Una scarsa o inibita capacità di mentalizzare, impedendo la rappresentazione e il controllo delle emozioni sul piano psicologico, può portare a percepire gli stati tensionali relativi all’attivazione dei sistemi emozionali in modo prevalentemente somatico e indurre a comportamenti più o meno efficaci ed adattivi nel tentativo di regolarli (intensificandoli o inibendoli).

La tendenza a utilizzare regolatori esterni delle emozioni e dei loro correlati fisiologici si manifesta

comunemente anche nell’essere umano e non assume necessariamente un significato patologico. Basti pensare al bambino che si succhia il pollice o che abbraccia un pupazzo quando va a letto. Nella prima infanzia queste attività aiutano a regolare gli stati emotivi disturbanti (ad esempio la separazione dalla madre) e allo stesso tempo contribuiscono allo sviluppo di una rappresentazione autonoma del proprio Sé .

Anche gli adulti utilizzano condotte per calmarsi, eccitarsi o pensare ad altro, senza ricorrere ai processi psicologici necessari per l’elaborazione simbolica e cognitiva. Nei momenti di nervosismo si morde una matita o ci si mangia le unghie, si beve caffè per essere più concentrati, una camomilla o una tisana per calmarsi, si fa un bagno caldo o ci si sottopone a un massaggio per rilassarsi, si fa esercizio fisico per sfogare la tensione, si prega per rasserenarsi, si legge un libro o si ascolta musica per distrarsi, si guarda un film giallo per eccitarsi, ci si masturba o si fa sesso per ridurre l’eccitazione.

La carenza di capacità riflessive, però, porta alcune persone a utilizzare in modo compulsivo, intensivo e continuativo comportamenti sempre più estremi nel tentativo di regolare e controllare le emozioni che non possono essere sufficientemente mentalizzate. Le attività che assumono più frequentemente questo significato sono: fumare, bere alcolici, assumere farmaci o droghe, mangiare eccessivamente (come nella bulimia) o troppo poco (come nelle anoressie restrittive), attuare comportamenti pericolosi (guida spericolata), dedicarsi ad attività fisiche, sportive o sessuali intensive ed estreme, allo shopping compulsivo, al gioco d’azzardo (anche tramite le slot machine o il computer), all’utilizzo eccessivo di videogiochi e di internet (frequentazione compulsiva di chat, blog o siti pornografici, internet addiction disorder), a comportamenti antisociali

distruttivi, violenti e gratuiti (come il bullismo o il vandalismo), ricorrere in modo inappropriato alla chirurgia estetica o a tatuaggi, piercing e cicatrici ad uso decorativo, oppure procurarsi volontariamente lesioni corporee (tagli, graffi, morsi, ematomi, automutilazioni) (Pani e Sciuto 2014).

Riferimenti

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