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La tutela costituzionale degli usi civici tra regime civilistico speciale e valenza paesistico-ambientale (a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 2020)

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Rivista N°: 4/2020 DATA PUBBLICAZIONE: 06/10/2020 AUTORE: Guido Saleppichi*

LA TUTELA COSTITUZIONALE DEGLI USI CIVICI TRA REGIME CIVILISTICO SPECIALE E VALENZA PAESISTICO-AMBIENTALE (A PARTIRE DALLA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 71 DEL 2020)

Sommario: 1. Premessa: la sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 2020. - 2. Profili storico-giuridici delle forme collettive di appropriazione territoriale. - 3. Sulla rilevanza paesistico-ambientale degli assetti fondiari collettivi. - 4. L’oggetto infungibile della tutela paesaggistico-ambientale: il regime giuridico degli assetti fondiari collettivi. - 5. Le «deroghe ai principi generali di indisponibilità». - 5.1. Le ipotesi di trasformazioni di demanio in allodio. - 5.2. Le ipotesi di promiscuità. - 5.3. Il mutamento di destinazione. - 5.4. Il piano paesaggistico e gli incrementi del patrimonio civico. - 6. Conclusioni: regime giuridico degli assetti collettivi, riserva legislativa statale in tema di ordinamento civile e disciplina delle funzioni amministrative regionali.

1. Premessa: la sentenza della Corte costituzionale n. 71 del 2020

Con sentenza n. 71 del 2020 la Corte costituzionale ha dichiarato fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Roma, sezione specializzata degli usi civici, aventi ad oggetto l’art. 53 della legge regionale Calabria 29 dicembre 2010, n. 34, «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e procedurale (Collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2011). Articolo 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002», con riferimento agli articoli 3, 9, 42 e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.

La norma regionale prevedeva la cessazione dei diritti di uso civico, quando questi insistessero sulle aree e sui nuclei di sviluppo industriale individuati dai relativi piani regolatori, ai sensi dell’art. 20 della legge regionale Calabria n. 38 del 2001 («Nuovo regime giuridico dei Consorzi per le Aree, i Nuclei e le Zone di Sviluppo Industriale»). La Corte ne ha ritenuto l’illegittimità per violazione degli artt. 9 e 117, 2° co., lett. l), della Costituzione.

* Dottore magistrale in giurisprudenza presso l’Università degli Studi Roma Tre.

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La decisione è coerente con la giurisprudenza costituzionale dell’ultimo trentennio, pure ampiamente richiamata in motivazione; ciò nondimeno essa merita una particolare menzione per il peso specifico dei suoi contenuti, che si presentano quale autorevole momento di sintesi sistematica tra gli istituti previsti dalla normativa generale (l. n. 1766/1926 e regolamento attuativo, r.d. n. 332/1928), il riconoscimento del valore ambientale e paesaggistico delle gestioni collettive e la recente legge n. 168/2017, recante «Norme in materia di domini collettivi».

La ricostruzione di questi rapporti è operazione pregiudiziale alla soluzione di ogni questione interpretativa posta dall’intersezione tra potere legislativo statale ed attribuzioni regionali. Nella sentenza n. 71/2020, la Corte costituzionale vi provvede seguendo una scansione argomentativa sviluppata attorno a quattro nuclei concettuali: (a) «rapporto tra tutela paesistico ambientale e garanzie di natura civilistica a favore delle collettività titolari dei beni civici»; (b) «regime e limiti della sclassificazione e dei mutamenti di destinazione»; (c) «rapporti tra soggetti titolari della pianificazione paesistico ambientale e soggetti titolari di quella urbanistica»; (d) «caratteri delle tutele in questione in relazione alla natura mutevole e dinamica dei canoni di gestione del territorio».

2. Profili storico-giuridici delle forme collettive di appropriazione territoriale

La giurisprudenza e la dottrina si sono variamente interrogate sulla genesi storica e dogmatica della proprietà collettiva nell’esperienza giuridica continentale, ovvero se questa sia sorta all’ombra delle istituzioni del diritto romano, delle consuetudini germaniche, oppure se l’origine vada fissata nella feudalità.

La sistematica riproduzione del fenomeno in differenti contesti sociali ha indotto i giuristi, fin dal Seicento, ad individuarvi il fondamento di un primitivo collettivismo agrario1,

affermando principi in seguito ripresi nelle massime giurisprudenziali2, che lo includono tra i

diritti soggettivi innati (iura connata) degli abitanti delle terre del feudo alla vita ed alla nutrizione del corpo, ne inermemvitamducant.

La critica storica ha contribuito a sfatare il mito giusnaturalista, evidenziando, invece, l’esistenza di veri e propri sistemi economici alternativi, spesso in conflitto con l’esclusivismo proprietario, dai quali era proposta una diversa struttura del processo di antropizzazione

1 Tra i giuristi meridionali è opportuno richiamare un passo frequentemente citato di Francesco D’Andrea: «Jusistud, quoduniuscujusqueUniversitatisCivibuscompetit, ut agro publicoutantur, sitpropriumeiusde-mUniversitatis ex jure naturali, adeo ut nec per regem ei tollipossit» (passo riportato in F.MARADEI, Praticaeob-servationesciviles, criminales et mixtae, Napoli, 1722, pag. 26). Per la trattatistica nello Stato Pontificio, si veda G. B.DE LUCA, Theatrumveritatis, et iustitiaesive decisivi discursus … in forensibuscontroversiis, canonicis, et civili-bus ..., liber IV, pars I, De Servituticivili-buspraedialicivili-bus …, Roma, 1669, disc. XXXVII, pagg. 98-99: «[haec] consuetu-dovidetur fere universalis per Europam, ipsijurinaturaeseu naturali rationiinnixa, et quodammodo necessaria, ne cives, et incolaeinermemvitamducant».

2 Laddove si afferma essere questi diritti «inerenti alla esistenza degli abitanti del feudo, ne inermemvi-tamducant» (Corte d’appello di Roma, sentenza 27 agosto 1891, Comune di Rocca nel Vecce c. Costaguti, in Temi rom., 1891, 514).

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della terra e del suo sfruttamento economico3. Non quindi un ordine naturale derivante da

principi trascendenti ed assoluti, bensì un assetto derivante da precise esigenze economico-sociali, storicamente verificabili.

Superata l’impostazione unificatrice, di matrice giusnaturalistica e poi fatta propria dalla concezione etica dello Stato4, è stato quindi recuperato il multiforme pluralismo

ordinamentale degli assetti collettivi, ontologicamente legato alle peculiarità dei singoli contesti territoriali. Rimane tuttavia il ricorrente dato storico-etnologico per il quale alla base delle utilizzazioni promiscue sta una collettività insediata su di un territorio ed organizzatavisi, laddove è stato notato che «ogni occupazione di terra crea sempre, all’interno, una sorta di superproprietà della Comunità nel suo insieme, anche se la ripartizione successiva non si arresta alla semplice proprietà comunitaria e riconosce la proprietà privata»5.

L’esame di queste organizzazioni - in cui ha fonte il diritto - implica la necessità di continue ricerche per qualificare le stesse e i rapporti giuridici con la terra, con evidenti risvolti sul piano processuale del diritto delle prove, ove trovano applicazione massime di giudizio (presunzioni relative) elaborate dai demanialisti meridionali, ma in seguito estese dalla giurisprudenza a tutto il territorio nazionale.

La presunzione di demanialità assume che la fonte dei demani collettivi vada ravvisata «nell’originario possesso di popolazioni prima della costituzione di proprietà privata ed anteriormente alla stessa formazione del Comune come ente esponenziale, diverso dall’universitascivium (diversificazione, com’è noto, avvenuta in genere dopo la Rivoluzione francese in quasi tutta Italia, ad eccezione talvolta di grandi Comuni)»6 e, pertanto, «tutti i

beni che figurano ad esso appartenenti sono da presumersi come di appartenenza, in realtà, della Universitascivium, e cioè di demanio universale»7.

3 Si veda, in proposito, M.CAFFIERO, L’erba dei poveri. Comunità rurale e soppressione degli usi collettivi nel Lazio (secoli XVIII-XIX), Roma, 1983.

4 Secondo Santi Romano «[è] infatti proprio di tale concezione naturalistica raffigurare il diritto come l’attuazione concreta, che dovrebbe essere unica e uniforme, di un principio trascendente ed assoluto, della giu-stizia astratta ed eterna, e, in conseguenza, di negare il carattere di diritto a tutti gli ordinamenti sociali che non si possono considerare almeno come tentativi, sia pure imperfetti, di tale attuazione, o che, peggio ancora, si affer-mano ribelli a quell’idea di giustizia. La dottrina che vede nello stato l’unico organo, come si suol dire, o l’unico produttore del diritto, si fonda evidentemente su così fatte vedute completate con l’altra - più recente in certi suoi sviluppi - che raffigura nello Stato l’ente etico per eccellenza. Soltanto la fusione di queste due teoriche potrà dar corpo a quella moderna della quale parliamo, divenuta predominante nei principii del Secolo XVIII, e che continua ad essere affermata, anche da chi ne respinge i suoi fondamenti teorici» (S. ROMANO, L’Ordinamento giuridico, II ed., Firenze, 1946, pag. 109).

5 C.SCHMITT, Il nomos della terra, 1950, trad. it. di E. Castrucci, Milano, 1991, pag. 24. 6 Commissario Usi Civici Lazio, sent. 4 febbraio 1983, n. 3, in Giur. agr. it., 1984, p. 232.

7 Cass., sent. 16 luglio 1958, n. 2598, Soc. Sperlonga c. Tuccinardi, in Rep. Fo. it., 1958, n.10, 11; da ult. Cass., ord. 18 settembre 2019, n. 23323, CED Cassazione, 2019: «In tema di usi civici, ove sia dimostrato che una terra fa parte di un demanio universale, la demanialità della stessa si presume, a meno che non sussista un preciso titolo da cui risulti, per quella determinata terra, la trasformazione del demanio in allodio, con onere della prova a carico del privato che eccepisce la natura allodiale». Cfr. in dottrina G. CERVATI, Prova dei c.d. de-mani di usi civici, in Riv. Giur. Umbro-abruzzese, 1960, pagg. 197 ss.. Il termine “Comune”, usato sotto il dominio di Federico II, venne sostituito da universitas all’epoca di Carlo I d’Angiò (da universi cives, «unione di tutti i citta-dini»). L’universitas è, quindi, «uno specifico ente collettivo, la universitascivium o universitas loci, che si autogo-verna entro certi ambiti e con determinati poteri tradizionali, in dipendenza da un’autorità superiore di varia natura (regia, feudale, cittadina) con la quale contratta in occasioni ordinarie o straordinarie (dedizioni, rese, passaggi di signoria o di dinastia) sia la propria costituzione (e la riforma della stessa), sia le modalità, talvolta anche la

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con-Un esempio ancora più evidente è racchiuso nel principio ubifeudaibidemania8,

corrispondente alla VI massima della Commissione feudale9, per cui «Tutt’i feudi (tranne le

difese costituite secondo le leggi del Regno) son soggetti agli usi civici»: la dimostrazione della natura feudale del territorio abitato è già prova degli usi originari. La Cassazione ha chiarito essere questa regola «pienamente corrispondente alla realtà storica del sistema agrario feudale, che ha avuto per secoli vigore in Italia, ed in virtù del quale se i diritti civici della popolazione preesistente trovavano da un lato la loro ragione economica sociale nelle insopprimibili esigenze di vita della popolazione stessa, dall’altro rispondevano altresì all’esigenza, da parte del feudatario, che il feudo non restasse abbandonato ed incolto»10.

3. Sulla rilevanza paesistico-ambientale degli assetti fondiari collettivi

Questa tradizionale impostazione della materia è riscontrabile anche nella legge n. 1766 del 1927, la quale ha in larga parte recepito le costruzioni dogmatiche e gli istituti delle legislazioni preunitarie, ispirandosi soprattutto a quelle provenienti dal Meridione; ciò nondimeno, l’interpretazione del corpo normativo e la sua applicazione sono state in parte influenzate da contingenti fattori culturali, specialmente in relazione alla concezione e al ruolo socio-economico riconosciuto all’agricoltura, la quale è stata per lungo tempo trattata unicamente in relazione alla sua vocazione produttiva.

Certo è che, nella prospettiva assunta dal legislatore del 1927, il sintagma “usi civici” è stato usato come«“espressione di comodo” [...] che comprende istituti e varie discipline

sistenza, delle proprie contribuzioni in denaro e in servizi»; così F.SENATORE, Gli archivi delle Universitates meri-dionali: il caso di Capua ed alcune considerazioni generali, in Archivi e comunità tra medioevo ed età moderna, a cura di Attilio BartoliLangeli, Andrea Giorgi e Stefano Moscadelli, Roma, 2009, pag. 447.

8 Sull’argomento, si veda lo studio di F.LILLO, Il principio ubifeudaibidemania, in Sanzioni amministrative in materia di usi civici, a cura di Alessandra Cagnazzo, Stefano Toschei e Massimo Tucci, Torino, 2013, pagg. 169 ss..

9 La Commissione feudale fu organo giurisdizionale del Regno di Napoli, istituita da Giuseppe Bonaparte con decreto dell’11 dicembre 1807 per giudicare «tutte le cause introdotte avanti il 2 agosto 1806 fra le Università e i Baroni» (art. 1) ed operò fino al 31 agosto 1810, periodo nel quale emise oltre tremila sentenze. Con rescritto del 20 settembre 1815 vennero raccolti i principi attorno ai quali la Commissione giudicò le cause a lei assegnate, ordinandoli in sedici proposizioni (massime).

10Cass., sent. 14 ottobre 1953, n 3345, Comune Cellere c. Bevilacqua, in Foro It., 1954, pagg. 1111 ss. E’ qui utile riportare un passo della requisitoria del procuratore generale Mario Berri (pubblicata in nota alla sen-tenza): «Nel Medioevo [...], l’individuo singolo, perché inerme, non aveva valore alcuno di fronte alle continue minacce di squadre di ventura, residui dei barbari invasori, e di bande brigantesche, viventi di rapine. Per questo i paesi si arrampicavano sulla vetta delle colline attorno a un castello, si cingevano di mura, si affidavano a un feu-datario, che garantiva la difesa dai nemici esterni e il pacifico svolgersi della vita, che assicurava l’annona, che si occupava di trovare asilo per tutti in caso di evacuazione dal centro abitato per ragioni belliche. In cambio il feu-datario vantava un diritto preminente sulle terre concessegli, ma appunto perché i suoi diritti erano in funzione dell’interesse generale, venivano riconosciuti gli usi civici di pascolo, di legnatico, di erbatico, ecc. a favore di tutti i componenti la collettività, in modo che ad ognuno fosse possibile la vita. [...] In questa situazione economica si inquadra la massima ubifeuda, che vuol significare, nei paesi preabitati, la necessità pel feudatario di rispettare i diritti preesistenti delle popolazioni nelle terre pubbliche, diverse cioè dalle appadronate dei cittadini, terre che coll’infeudazione, comunque conseguita, vanno al feudatario, restando salvi i diritti della popolazione che, ove così non fosse, spopolerebbe il feudo».

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dell’intero territorio [nazionale]»11, solo per indicare un insieme di diritti ed istituti da

sottoporre al procedimento di sistemazione.

In questa prospettiva, è accaduto che la legge del 1927 sia stata ridotta all’applicazione di un paradigma liquidatorio – certamente non in grado di descrivere compiutamente l’intenzione del legislatore12 – nell’ambito del quale accertare l’esistenza di

“usi civici” (nel senso più ampio del termine) era operazione esclusivamente finalizzata ad uniformare i diversi regimi consuetudinari (la cd. “sistemazione” delle terre), passando attraverso il momento della loro assegnazione a due categorie e, quindi, alle concessioni (“quotizzazioni”) destinate a diventare piccole proprietà fondiarie (per i «terreni convenientemente utilizzabili per la coltura agraria» di cui alla cat. b), ovvero alla gestione secondo la legislazione in materia di boschi e di terreni montani (per i «terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente» di cui alla cat. a).

A partire dagli anni Settanta è stato riconosciuto, accanto al profilo sopra evocato dell’agricoltura-produzione, quello concorrente dell’agricoltura-protezione, con il quale si è inteso mettere in evidenza l’altro aspetto qualificante della materia, consistente nella attitudine, riconosciuta alle zone rurali, a garantire riserve di protezione ambientale in grado di mantenere in equilibrio il rapporto tra aree urbanizzate ed aree verdi13.

Ciò ha comportato anche la rivisitazione in chiave paesistico-ambientale dei valori espressi dagli assetti fondiari collettivi – la cui rilevanza è stata normativizzata dalla legge Galasso (ora art. 142, lett. h, del d.lgs. n. 142/2004) – con la crisi del “paradigma liquidatorio” e la riconsiderazione degli istituti conservativi orientati alla gestione pianificata, restituendo centralità allo specifico valore delle particolari forme di rapporto simbiotico tra comunità e territorio abitato14, nell’unicità dell’ordine sociale espresso da ciascun altro modo di possedere15.

La Corte costituzionale opportunamente dà conto di questa evoluzione dell’ordinamento, la quale «ha fatto sì che la tutela paesistico-ambientale abbia incorporato sia il regime giuridico degli stessi, sia i beni in quanto gestiti in conformità a siffatto regime»16.

11 Cfr. Corte cost., sent. n. 142 del 1972, così come testualmente richiamata e citata nella sentenza in commento.

12 Basti pensare alla gestione a mezzo di delegato tecnico, prevista, anche per i terreni della categoria b, prima della ripartizione, dall’art. 15 della l. n. 1766/1927, oppure alla possibilità di acquistare nuovi terreni per aumentare il patrimonio civico (di cui si dirà più ampiamente) prevista dall’art. 22 della medesima legge.

13Sulla distinzione tra agricoltura-produzione e agricoltura protezione, si veda M. S.GIANNINI, Un giudizio sul decreto n. 11, in Il trasferimento dell’agricoltura alle regioni. Agricoltura e regioni, Bologna, 1972.

14 E’ stato osservato che, a differenza delle altre categorie di beni paesaggistici protetti ex lege, gli usi civici devono essere tutelati «come intervento antropico» (F.MARINELLI, Gli usi civici, Milano, 2013, pag. 259).

15 Notava Carlo Cattaneo che «questi non sono abusi, non sono privilegi, non sono usurpazioni: è un al-tro modo di possedere, un’altra legislazione, un alal-tro ordine sociale, che, inosservato, discese da remotissimi secoli sino a noi» (C. CATTANEO, Su la bonificazione del Piano di Magadino, in Scritti economici, a cura di A. Ber-tolino, Firenze 1956, III, pagg. 187 ss.). Sull’argomento, si veda il fondamentale studio di P.GROSSI, Un altro modo di possedere, in Per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano, 1977.

16 Il giudice nomofilattico ha riconosciuto una «tendenziale mutazione funzionale, all’uso civico essendo cioè riconosciuta una nuova caratterizzazione della sua natura di bene collettivo, in quanto utile anche [...] alla conservazione del bene ambiente e per di più per ciò stesso non soltanto a favore dei singoli appartenenti alla

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Tale affermazione implica una concezione omnicomprensiva e dinamica del paesaggio, quale «territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro implicazioni» (art. 131, D.Lgs. n. 42/2004), ove sta il riconoscimento della sua naturaleartificialità, già affermata dal Leopardi in un lucido brano delle sue Operette morali17, prima che dai Romantici tedeschi e da Benedetto Croce nella

presentazione al Senato della legge sulle bellezze naturali18.

Anche la Corte di cassazione, interrogandosi sul fondamento della tutela paesistico ambientale degli usi civici, ha osservato che «[la] ratio della esistenza del vincolo generalizzato risiede, proprio in virtù di questa caratteristica storica che li contraddistingue – retaggio e testimonianza attuale di un’epoca passata -, nel fatto che essi rivestono una particolare importanza nella formazione del bene ambientale, inteso questo non solo nei suoi aspetti estetici e di salubrità ma quale naturale palinsesto materiale – rappresentativo anche delle stratificazioni socio-culturali che in un determinato ambiente territoriale si sono succedute nel tempo ed hanno lasciato una significativa traccia di sé nella Bildungsumwelt – che ne giustifica una specifica e rafforzata tutela da parte dell’ordinamento»19.

Si crea così un legame biunivoco tra regime giuridico dei diritti collettivi ed esigenze della tutela paesaggistica - queste ultime rientranti tra le competenze statali - laddove l’uno diviene consustanziale all’altro.

La rinnovata prospettiva di tutela e l’esigenza di mantenimento dell’unitario regime collettivo hanno comportato anche il superamento di alcuni istituti tipici della legge n. 1766 del 1927, segnatamente del momento procedimentale di assegnazione ad una delle due categorie, di cui si è detto, che era funzionale ad una gestione differenziata dei beni: gestione in conformità ai piani di sviluppo forestale, per i beni di categoria a, ripartizione in quote tra gli utenti dietro pagamento di un canone, per i beni di categoria b.

Seguendo il ragionamento della Corte costituzionale, questa gestione differenziata non appare coerente con le mutate esigenze agricole, né con il vincolo paesistico-ambientale, specialmente per lo scopo perseguito con le quotizzazioni di terre coltivabili (categoria b), che erano destinate, dopo l’accertamento delle migliorie colturali ed il

collettività dei fruitori del bene nel singolo contesto territoriale collegato alle possibilità di concreto utilizzo dell'im-mobile, ma evidentemente alla generalità dei consociati» (Cass., sent. 28 settembre 2011, n. 19792, in www.demaniocivico.it).

17 «Ora in queste cose, una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi è piut-tosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avreb-bero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili, eziandio non considerando le città, e gli altri luoghi dove gli uomini si riducono a stare insieme; è cosa artificiata, e diversa molto da quella che sarebbe in natura» (G.LEOPARDI, Elogio degli uccelli, in Operette Morali, Milano, 1827, pag. 217). Per la dottrina giuridica, su tutti si segnala M. S.GIANNINI, Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, pag. 15, il quale ha evidenziato la convergenza di una pluralità di aspetti attorno all’ambiente, tutti concorrenti a rafforzare il legame tra questo, l’idea di paesaggio e la tutela di valori culturali.

18 B.CROCE, Senato del Regno. Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interes-se storico. Diinteres-segno di legge preinteres-sentato dal Ministro dell’Istruzione Pubblica Croce nella tornata dal 25 interes-settembre 1920 - n. 204 della XXV legislatura, in Camera dei Deputati. Segretariato generale, Ricerca sui beni culturali, Roma, 1975, I, pagg. 27 ss..

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pagamento di un capitale di affrancazione del canone originariamente imposto, a divenire piccole proprietà fondiarie.

Invece, ha assunto centralità il metodo della gestione pianificata, adottato dal legislatore del 1927 per i soli terreni boschivi e pascolivi (categoria a) e ora da ritenersi esteso all’intero patrimonio dei beni civici proprio in virtù dell’uniforme tutela paesistico-ambientale, che riceve compiuta realizzazione nei piani paesaggistici previsti dall’art. 143 del d.lgs. n. 42 del 2004, dove, sulla base di propedeutiche verifiche demaniali, il contestuale coinvolgimento dello Stato è anche in grado di legittimare decisioni incidenti sul regime giuridico dei beni, costituendo il presupposto per l’applicazione delle «ipotesi di variazione del patrimonio civico», di cui si dirà.

Quel che qui, però, preme sottolineare è come l’intervento statale in procedimenti amministrativi sia funzionale a preservare l’intangibilità del vincolo paesaggistico, che, come detto, ha ad oggetto proprio il regime giuridico degli assetti fondiari collettivi.

Infatti, fin dalla sentenza n. 210 del 2014, la Corte costituzionale ha squalificato ogni modello procedimentale che, pur consentendo, quale potenziale effetto, la «sclassificazione» dei beni collettivi, al contempo non prevedesse la partecipazione nella decisione dell’Autorità preposta alla tutela dell’interesse paesaggistico. In tale occasione è stato respinto l’argomento difensivo, addotto dalla difesa regionale, col quale si richiamavano i persistenti poteri statali di intervento successivo, osservandosi che «l’eventuale apposizione di un diverso vincolo non è in grado di assicurare una tutela equivalente, poiché in questo caso il mantenimento delle caratteristiche morfologiche ambientali richiede non una disciplina meramente “passiva”, fondata su limiti e divieti, ma un intervento attivo, e cioè la cura assidua della conservazione dei caratteri che rendono il bene di interesse ambientale. Tale cura, qui affidata alla collettività invece che alle istituzioni [...], si concreta in particolari modalità di uso e di godimento, che garantiscono insieme la fruizione e la conservazione del bene» (sent. n. 210 del 2014).

Ora la sentenza n. 71 del 2020 specifica ulteriormente la ratio ed il contenuto dell’intervento attivo, contestualizzandolo nella prospettiva ordinamentale europea con un pregevole richiamo alla Convenzione europea del paesaggio «secondo cui il concetto di tutela collega indissolubilmente la gestione del territorio all’apporto delle popolazioni».

L’intensità e la qualità della tutela – che ha portato la giurisprudenza commissariale ad ipotizzare, per gli assetti collettivi, la categoria dei “super beni ambientali”20 – costituisce il

canone interpretativo alla luce del quale ricostruire i tratti essenziali del regime giuridico di queste situazioni che avvolgono i beni come uno statuto protettivo e che, propriamente, costituisce l’oggetto infungibile della tutela paesaggistica.

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4. L’oggetto infungibile della tutela paesaggistico-ambientale: il regime giuridico degli assetti fondiari collettivi

La legge n. 168/2017 ha consolidato, sul piano normativo, la prospettiva pluralistica, fondata nell’art. 2 della Costituzione, che già da tempo dottrina e giurisprudenza avevano fatto propria, ed ha riconosciuto agli assetti fondiari collettivi la qualità di «ordinamento giuridico primario delle comunità originarie», nell’accezione di «proiezione socio-politico-giuridica di una comunità che esprime in essa la propria complessità sociale e, di conseguenza, anche la propria complessità giuridica»21.

Peraltro, le particolari disposizioni della nuova legge devono confrontarsi e coordinarsi con quelle della legge n. 1766 del 1927 – alla quale la Corte costituzionale ha riconosciuto un ambito oggettivo più ampio, assegnandole il ruolo preminente di norma interposta nel giudizio di legittimità costituzionale22 – nonché con le preminenti ragioni poste

a fondamento della tutela paesaggistica che, come detto, attribuiscono specifica rilevanza alla dimensione storica del regime giuridico proprio di ciascun assetto collettivo. La Corte ha chiarito essere questo il perimetro entro il quale la disciplina può dirsi rispettosa del dettato costituzionale, richiamando anche la sua precedente giurisprudenza, la quale aveva specificato quali siano gli elementi ricorrenti del regime giuridico sottoposto a tutela paesaggistica.

E’ quindi opportuno richiamare i tratti essenziali del regime giuridico tutelato, il quale costituisce ad un tempo confine invalicabile per il legislatore e per l’amministrazione indefettibile regola che dall’interno conforma l’autonomia collettiva.

Gli assetti collettivi sono connotati dal «regime della loro appartenenza a determinati soggetti pubblici [...], caratterizzati da natura associativa e da gestione di domini collettivi e dall’amministrazione di terre demaniali di uso civico [...] con attività rivolta alla cura di interessi generali senza connotati imprenditoriali ed in stretto collegamento, nella maggior parte dei casi, con le strutture municipali, e con la frequente coesistenza, quantomeno nell’origine in talune regioni, con vincoli di uso civico; ovvero regime della particolarità della disciplina pubblicistica (aree gravate da usi civici), caratterizzata da appartenenza a comunità di utenti (demani collettivi, comunali o universali) o da usi che si esercitano su terre aliene da parte di comunità di utenti» (Corte cost., ordinanza n. 316 del 1998), con la conseguenza che, anche la «facoltà [...] di assumere personalità giuridica di diritto privato» - osserva la Corte costituzionale nella sentenza n. 71 del 2020 - «può essere costituzionalmente legittima solo nel perimetro fissato dal particolare regime giuridico dell’assetto fondiario, dall’uso paesisticamente coerente dello stesso e dall’impossibilità di escludere da tale particolare societas il godimento del bene collettivo spettante a ciascun membro della collettività».

21 Così P.GROSSI, Pluralità delle fonti del diritto e attuazione della Costituzione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2020, pp. 763 ss., ove è espresso il richiamo al principio della pluralità dell’ordinamento giuridico affermato da Santi Romano.

22 Cfr. G.DI GENIO, Gli usi civici nella legge n. 168 del 2017 sui domini collettivi: sintonie e distonie attra-verso la giurisprudenza costituzionale e il dibattito in sede costituente, in federalismi.it, 18, 2018.

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Questa «facoltà» in ordine alla forma organizzativa deve, infatti, essere considerata mero criterio di trattamento di un concetto23 - quello di comunità - ontologicamente legato

all’originaria apprensione della terra, che ne legittima la titolarità sulla base di rapporti pubblicistici di cittadinanza e incolato, in antitesi a meccanismi privatistici di acquisto e successione nelle situazioni giuridiche, propri degli organismi associativi privati24.

D’altro canto, nell’assunta accezione storico-relativistica di comunità anche lo status

civitatisva letto secondo il canone evolutivo del particolarismo giuridico italiano, che ha visto,

accanto a comunità identificate attraverso il solo elemento della residenza anagrafica o della appartenenza a un censo (soprattutto nel Mezzogiorno e nell’ex Stato pontificio), altre strutturate attorno a vincoli agnatizi (come le regole dell’arco alpino).

Il criterio di trattamento della forma organizzativa privatistica – rispetto al quale si esprime il principio autonomistico riconosciuto dall’art. 1, co. 2, l. n. 168/2017 – non può provocare quella «artificiosa uniformità» – già stigmatizzata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 87 del 1963 – tra situazioni tutelate in ragione della loro particolarità storica e territoriale; pertanto, esso è valido nei limiti in cui non incida il regime giuridico paesisticamente protetto e, quindi, se, da un lato, consente di mutare la struttura, anche con rilevanti ripercussioni (si pensi alle possibili implicazioni di carattere fiscale o nella disciplina dei rapporti di lavoro), tuttavia non può spingersi fino deformare il concetto di comunità titolare delle situazioni giuridiche25.

Da questo concetto positivo di comunità e dal connaturato regime giuridico dell’assetto fondiario si ricavano i corollari di inclusività e di incommerciabilità dei beni collettivi.

Il carattere inclusivo degli assetti fondiari collettivi, espresso nell’art. 26 della l. n. 1766/1927, in autentica antitesi allo iusexcludendialios della proprietà privata, si ricollega al «principio che chi soffre i pesi della cittadinanza debba goderne pure i vantaggi ed alla [...] considerazione che la proprietà collettiva in qualunque periodo la si voglia considerare [...]

23 Nota in proposito Cerulli Irelli che «l’assunzione della personalità giuridica da parte della forma orga-nizzativa della comunità d’abitanti, per disposizione di legge, certamente non trasforma il diritto collettivo della comunità stessa in diritto individuale della persona giuridica [...], ma costituisce un mero schema tecnico per l’imputazione dei poteri e delle facoltà di amministrazione e di gestione della proprietà comune che spettano alla forma organizzativa nell’ambito dello schema logico che s’è indicato e che presuppone l’appartenenza del domi-nio alla collettività» (V. CERULLI IRELLI, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova, 1983, pag. 306). Sulla differen-za tra le nozioni di concetto e criterio di trattamento, si veda E. BETTI, Teoria generale del negozio giuridico, Na-poli, rist. 2002, pag. 73 in nota.

24 Ciò vale anche per quelle comunità dell’arco alpino - le regole - identificate sulla base di vincoli agna-tizi (e, in qualche caso, uterini), che legano il diritto all’esercizio degli usi con il mantenimento della residenza. L’antitesi tra Comunità e Società è stata particolarmente approfondita dalla sociologia tedesca; cfr. F.TONNIES, Comunità e società, trad. it. a cura di Maurizio Ricciardi, Bari, 2011.

25 Con riferimento al concetto di comunità nella proprietà collettiva, si veda altresì il fondamentale studio di V.CERULLI IRELLI, op. cit., il quale ha notato che (pag. 302, nota 112) «[l]a comunità d’abitanti diventa concetto positivo perché il diritto positivo ne riconosce l’esistenza e contempla forme organizzative e procedimentali attra-verso le quali essa possa esercitare i propri diritti nell’ordinamento positivo, diritti che le vengono espressamente riconosciuti. Quindi sono le forme organizzative della comunità d’abitanti - il comune, l’amministrazione separata, l’associazione agraria - che vengono create dal diritto positivo ma non la comunità d’abitanti come tale che pree-siste all’intervento del legislatore positivo. Si potrebbe dire che la comunità d’abitanti è rapportabile piuttosto al concetto di persona fisica che a quello di persona giuridica».

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ebbe in origine carattere universale nel senso che avevano diritto a goderne tutti i cives»26 e,

tornando nell’orbita argomentativa della sentenza n. 71 del 2020, ciò comporta «[l’]impossibilità di escludere da tale particolare societas il godimento del bene collettivo spettante a ciascun membro della collettività».

L’apertura degli usi a tutti i componenti della collettività acquista effettività con il riconoscimento, sul piano processuale, della legittimazione ad agire al singolo, in proprio e come cittadino, anche in opposizione all’ente esponenziale, promuovendo le azioni il cui esito positivo possa giovare a tutta la comunità.

Al regime giuridico degli assetti collettivi ed al concetto di comunità deve riconnettersi anche l’applicazione del principio democratico – richiamato in più occasioni dalla giurisprudenza costituzionale27 – che regola il funzionamento dell’organizzazione nel

momento preliminare di assunzione delle decisioni, nella loro attuazione ed in sede di rendicontazione e controllo del corretto adempimento della funzione gestoria.

L’art. 3, comma 3, della legge n. 168 del 2017 ha ribadito l’indivisibilità, indisponibilità, imprescrittibilità per tutti i diritti collettivi – già ricavabile indirettamente dagli artt. 9 e 12, co. 2, l. n. 1766/1927 – con una disposizione che consolida un risalente iusreceptum. Di esso non è possibile tuttavia generalizzare il fondamento, trattandosi invece di una costante da studiare prendendo le mosse da ricerche locali, anche se un comune filo rosso – secondo risalente opinione già tramandata dai giuristi medievali – potrebbe essere individuato nel carattere dinamico della comunità, proiettata nella prospettiva intergenerazionale (art. 1, co. 1, lett. c, l. n. 168/2017), sicché il regime di imprescrittibilità deriverebbe dalla considerazione che il diritto collettivo «duret in aeternum, donecuniversitasipsadurat»28, con la precisazione

che esso non viene meno neanche in caso di abbandono in massa del territorio, «importando ciò unicamente la sospensione dell’esercizio degli usi: questi passano nella nuova popolazione sopravvenuta, ovvero nel caso di trasmigrazione o fusione della popolazione in altra o con altra comunità, si trasferiscono in detta ultima comunità»29.

E’ importante ricostruire questo fondamento della indisponibilità per comprenderne a pieno le conseguenze, ancor più rigorose di quelle previste per il demanio pubblico, non potendosi nemmeno astrattamente ipotizzare l’interpretazione di comportamenti in senso tacito o concludente al fine di ricavare una volontà comunitaria contraria con quella di

26 Corte app. Roma, sent. 18 maggio 1931, in Riv. demani, 1931, pag. 752. 27 Cfr. le sentenze n. 345 del 1997 e n. 310 del 2006.

28 Così A. D’ISERNIA nelle Constitutiones Regni utriusqueSiciliae, in l. cum per partesApuliae, de animali-bus in pascuisassignandis,const. 1, tit. 55, lib. III, pag. 271. Il principio riceveva esplicito riconoscimento normati-vo nel capitolo angioino Item boves e nelle prammatiche De salario e De baronibus. Nello Stato Pontificio, pur non essendo espresso al livello di fonti scritte, detto regime di incommerciabilità era pacificamente ritenuto vigen-te e comunemenvigen-te applicato. Anche qui, l’essenza della incommerciabilità ed imprescrittibilità era rintracciato nel carattere intergenerazionale dei diritti e nella natura dinamica del concetto di comunità: si veda, al riguardo, la decretale pontificia del 4 dicembre 1852 sui domini collettivi di Nettuno, nella quale era espressamente disposto che i diritti spettassero ai Nettunensi ed agli Anziati presenti e futuri, con divieto di dividere i beni.

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conservare la destinazione collettiva, la quale, se orientata in tal senso, doveva risultare espressa in pubblica assemblea, con il consenso di tutti i cittadini (nemine discrepante)30.

Negli ordinamenti preunitari, tale intensità della tutela era giustificata con la necessità di garantire le comunità dagli abusi, ovunque assai diffusi. Oggi è bene richiamarla per ricostruire la portata di un principio generale.

5. Le «deroghe ai principi generali di indisponibilità»

Ciò nondimeno, il principio non può degenerare in feticcio dell’interprete, e la Corte costituzionale non manca di esaminare le «deroghe ai principi generali di indisponibilità» fissate dalla l. n. 1766 del 1927 e dal regolamento attuativo (r.d. n. 332 del 1928), che completano e adeguano il regime sopra descritto con la pianificazione paesaggistica e con la natura dinamica degli assetti collettivi, al di fuori di ambiti di tutela meramente conservativi.

Sotto questo profilo la decisione in commento segue un percorso tripartito, lungo il quale le «ipotesi di variazione del patrimonio civico» vengono ordinate in categorie omogenee: «le prime comportano la trasformazione del demanio in allodio, come l’alienazione e la legittimazione; le seconde, come lo scorporo, lo scioglimento delle promiscuità e la stessa conciliazione, regolano la separazione delle utilità a vocazione pubblicistica da quelle da assegnare all’ordinario regime privatistico; la terza preserva la vocazione pubblicistica del bene in un diverso assetto funzionale, attraverso il mutamento di destinazione».

Quel che maggiormente rileva è che questa ricognizione tassonomica diventa l’occasione per redigere una sorta di guida per lo Stato, le Regioni e le comunità esponenziali dei beni di uso civico in relazione al mutato assetto costituzionale, a quello della tutela paesistico-ambientale e all’evoluzione scientifica delle tecniche agro-silvo-pastorali. Come vedremo più nello specifico, tale nuovo contesto viene a modificare anche alcune espressioni tralaticie della giurisprudenza le quali, non di rado, hanno posto la tematica degli usi civici in una prospettiva negativa, di un nodo gordiano inespugnabile per qualsiasi prospettiva dinamica della gestione del territorio e dei traffici giuridici.

Per quel che riguarda l’inquadramento costituzionale, le deroghe ai principi generali di indisponibilità vengono non più collegate all’esercizio di una discrezionalità “libera” degli enti preposti alla tutela e alla gestione degli usi, bensì a una discrezionalità limitatissima, più tecnica che amministrativa, tutta incardinata sul rigoroso accertamento dei requisiti giuridici di fatto e di contesto che il legislatore statale pone alla base delle suddette deroghe.

30 L’espressione nemine discrepante ricorre nelle deliberazioni delle assemblee collettive, ad indicare il consenso di tutti i condomini. Nel Regno di Napoli queste decisioni dovevano ricevere l’approvazione della Regia Camera della Sommaria. La prammatica De Baronibus vietava di costituire difese all’interno dei demani «sine expressoconsensuvassallorum et viciniorumcommunionum forte, aut jusaliquod in territoriis, seunemoribusipsiha-bentium, et de licentia nostra aut nostri gemneralisViceregis; et si quae forte factaesunt, volumus per Officiale-snostrosSummariae, partibusauditis, provideri de justitia».

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Insomma non più l’amplissima discrezionalità, nella quale si era evoluto dopo l’entrata in vigore della Costituzione l’antico inquadramento di questi possedimenti nella categoria dei

recepta ex gratiaprincipis, ma un accertamento, soprattutto tecnico, circa l’inutilità –

nell’ottica della tutela e della pianificazione ambientale – dell’eventuale reintegra del bene. Per quel che concerne la tutela paesistico-ambientale e l’evoluzione scientifica della tutela agro-silvo-pastorale, la sentenza n. 71 del 2020 crea uno spartiacque definitivo tra il mantenimento della materia pubblica dei beni civici e la loro soggezione a una coerente pianificazione paesistico-ambientale. In ciò corregge alcune espressioni enfatiche della legge n. 168 del 2017 circa la gestione societaria dei beni civici – che non è obbligatoria,bensì facoltativa – ma, soprattutto, ribadisce la “natura pubblica” dei beni civici, ormai intangibile proprio per l’acquisizione di beni soggetti alla tutela paesistico-ambientale.

5.1. Le ipotesi di trasformazioni di demanio in allodio

L’alienazione – prevista dall’art. 12, l. n. 1766 del 1927 e dall’art. 39, r.d. n. 332/1928 – era destinata a giocare un ruolo marginale già nel regime liquidatorio. Essa riguardava i soli beni assegnati alla categoria a («terreni convenientemente utilizzabili come bosco o come pascolo permanente») che, all’esito della pianificazione forestale, «per le loro esigue estensioni non si prestano a qualsiasi forma di utilizzazione prevista dalla legge [n. 1766 del 1927]».

La Corte costituzionale richiama l’istituto – ora applicabile ai beni ricompresi nell’ordinamento collettivo a prescindere dall’assegnazione a categoria – enfatizzandone lo stretto legame con il momento amministrativo della pianificazione agro-silvo-pastorale, durante il quale, nel contraddittorio delle amministrazioni preposte alla gestione e valorizzazione del territorio, le collettività e i privati interessati potranno richiedere la sclassificazione per la successiva alienazione del bene.

Si afferma abitualmente che con il provvedimento di sclassificazione i beni «passano dal demanio all’allodio»31, vale a dire cessa il vincolo di destinazione, ma dopo la pronuncia

della Corte n. 71 del 2020 si può dire che questa trasformazione sia propedeutica a un indefettibile e quasi contestuale passaggio di proprietà32.Ciò comporta – come la

giurisprudenza ha da tempo chiarito – che la sclassificazione debba essere necessariamente preventiva, non suscettibile di convalida33, e che essa possa essere rilasciata solo per la

forma tipica di trasferimento della vendita, con il prezzo da pagarsi contestualmente ed in unica soluzione.

Di regola, il ricavato dovrà essere investito in titoli del debito pubblico, ma su questa norma (art. 24, l. n. 1766 del 1927) si appalesa l’impatto dell’evoluzione del sistema di tutela

31 L’espressione ormai è divenuta di uso comune, ad indicare la “liberazione” dal vincolo di destinazione collettiva. In realtà nel diritto intermedio il termine “allodio” denotava la terra posseduta liberamente, senza vincoli od obbligazioni, in opposizione al Feudo, che era la terra concessa da un superiore, dalla quale scaturiva il rap-porto di vassallaggio.

32 Sul punto M. L.ACCIARI, Autorizzazione a vendere beni civici,in Giur. agr. it., I, 1987, pagg. 53 ss.. 33 In tal senso Cass. 12 dicembre 1953, n. 3690, in Giur. compl. Cass. civ., 1953, VI, 561, con nota di G. CERVATI, A proposito dei demani di uso civico e della loro incommerciabilità.

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dei beni civici poiché – fermo restando che beneficiaria sarà sempre la comunità alienante – il ricavato potrà essere impiegato anche per acquisire nuovi beni, anche da risanare, destinati a reintegrare il patrimonio collettivo. Infatti, questo vincolo deve essere oggi interpretato, secondo il percorso argomentativo seguito dalla Corte costituzionale, coerentemente con «la necessità di valorizzare gli interessi pubblici e delle collettività locali con interventi articolati, tra i quali [...] l’acquisizione e il recupero di terre degradate» (sent. n. 71 del 2020).

La legittimazione differisce dall’alienazione per la struttura concessoria della fattispecie normativa34 e per il titolo di acquisto della proprietà privata, che in questo caso

avviene a titolo originario.

Se la dottrina del secolo scorso l’ha definita «una specie di espropriazione di beni pubblici nel privato interesse a favore di chi ne è possessore illegittimo»35, nel vigente

ordinamento repubblicano l’istituto appare ispirato a rendere certe e stabili alcune situazioni fattualmente consolidate, la cui sistemazione non contrasta con la pianificazione paesistico ambientale.

L’art. 9 della l. n. 1766 del 1927 disciplina tre requisiti che, unitamente all’istanza dell’interessato, fondano l’esercizio del potere: possesso ultradecennale, non interruzione del demanio, esecuzione di migliorie sostanziali e permanenti. La giurisprudenza ha circoscritto l’ambito di rilevanza delle migliorie alle «opere preordinate alla coltivazione o comunque allo sfruttamento agricolo o zootecnico del suolo ed alla soddisfazione dell'interesse agrario della collettività»36.

Secondo la Consulta, i descritti requisiti non sono suscettibili di ampliamento cosicché l’accertamento della loro sussistenza è inquadrabile in un’attività prevalentemente tecnica, essendo limitata la discrezionalità amministrativa alla verifica di compatibilità della pianificazione paesistico–ambientale.

Il possesso dell’occupatore potrà essere legittimato solo nel contraddittorio procedimentale con la collettività interessata. Sotto il profilo sostanziale, l’interesse di quest’ultima alla conservazione del patrimonio collettivo, in quanto coincidente con il primario interesse pubblico paesaggistico, dovrà essere tendenzialmente prevalente rispetto all’interesse privato dell’occupatore37.

34 Questa è l’opinione prevalsa in dottrina (cfr. A. M.SANDULLI, Atti di prerogativa sovrana ed usi civici, in Giur. compl. compl. Cass. civ., 1956, II, 506) contro la tesi di coloro (S. ROMANO, Approvazione sovrana di alcuni atti concernenti il riordinamento degli usi civici, in Riv. demani, 1925, pagg. 76 ss.) per i quali il potere di legittima-zione sarebbe rientrato tra le prerogative sovrane (rescripta ex gratiaprincipis).

35 G. CERVATI, Appunti circa la legittimazione delle terre d’uso civico, in Studi in memoria di Guido Zano-bini, Milano, 1965, pagg. 690 ss..

36 Così, tra le altre, Cons. St. VI, sent. 14 ottobre 1998, n. 1379, e sent. 5 maggio 1997, n. 291.

37 Cfr. Corte cost., sent. n. 103 del 2017 e sent. n. 113 del 2018, per le quali «[i]l riconoscimento norma-tivo della valenza ambientale dei beni civici ha determinato, da un lato, l’introduzione di vincoli diversi e più pene-tranti e, dall’altro, la sopravvivenza del principio tradizionale, secondo cui eventuali mutamenti di destinazione – salvo i casi eccezionali di legittimazione delle occupazioni e di alienazione dei beni silvo-pastorali – devono esse-re compatibili con l’inteesse-resse generale della comunità che ne è titolaesse-re».

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Mentre il regime dei beni civici pertiene all’ordinamento civile, materia di competenza esclusiva dello Stato, la titolarità dei procedimenti amministrativi finalizzati alla eventuale sclassificazione è condivisa tra Stato, Regioni e comunità locali.

La sentenza n. 71 del 2020chiarisce che l’impulso a tali procedimenti può essere rimesso anche ai privati interessati. Le scansioni procedimentali dovranno essere rapide e trasparenti in ragione della tutela dei traffici giuridici. Sotto questo profilo la Consulta emette un monito indiretto contro la lunghezza dei procedimenti e l’inerzia degli apparati burocratici, presso i quali pratiche anche semplici giacciono a tempo indeterminato38.

Questo invito alla speditezza e alla trasparenza costituisce anche una sorta di driver per il legislatore per assicurare efficacia all’azione amministrativa e per prevenire il rischio che il pretesto delle lungaggini consentano sanatorie di abusi non consentite dalla tutela paesistico-ambientale.

Scompaiono così – attraverso la coerente interpretazione della Consulta in riferimento alla Costituzione repubblicana – gli originari tratti genetici del potere di legittimazione39, che trova ora fondamento nel principio di legalità ed ha definitivamente

assunto natura amministrativa.40.

Assai peculiari sono gli effetti della legittimazione, che, oltre a costituire la proprietà privata, prevedono l’imposizione «sul fondo occupato ed a favore del Comune o dell’associazione [di] un canone di natura enfiteutica, il cui capitale corrisponda al valore del fondo stesso, diminuito di quello delle migliorie, aumentato di almeno 10 annualità di interessi» (art. 10, co. 1, l. n. 1766/1927). Dalla «natura enfiteutica» del canone è in passato sorta la questione «se l’occupante acquisti sul fondo un diritto reale pieno, assimilabile al diritto di proprietà, ovvero un diritto di godimento perpetuo a carattere reale, assimilabile all’enfiteusi»41.

In realtà l’espressione usata dal legislatore non qualifica il rapporto, essenzialmente assimilabile ad un censo riservativo, ma reca il trattamento giuridico del canone richiamando l’istituto ad esso più affine ancora vigente; tuttavia la prestazione periodica non ha, come nell’enfiteusi propriamente detta, alcuna funzione ricognitiva del dominio del concedente,

38 Emblematico di questa deriva patologica è il caso trattato da Cons. Stato, sent. 27 agosto 1946, in Fo-ro It., 1947, pagg. 30 ss., con nota di A. M.SANDULLI, Un provvedimento ultrasecolare in materia di usi civici, nel quale giunse al sindacato giurisdizionale un procedimento amministrativo rimasto pendente per più di centoventi-quattro anni. Nella fattispecie, oltre al pregiudizio connaturato alla situazione di incertezza protratta per un così lungo arco temporale, si sono sovrapposte questioni causate dalla successione tra diversi ordinamenti giuridici, a seguito della annessione al Regno di Sardegna dei rimanenti Stati italiani.

39 Da rintracciarsi nei «poteri regi nel campo del diritto privato», vale a dire in quelle particolari prerogati-ve sovrane di derogare ed eccepire a previsioni legislatiprerogati-ve mediante provprerogati-vedimenti singolari e concreti.Cfr. G.ZANOBINI, I poteri regi nel campo del diritto privato, Torino, 1917, pag. 71: «se si tratta di atti rivolti a rendere, sia pure in un caso solo, inefficace un precetto di legge, non possono non essere essi stessi degli atti aventi forza di legge, delle vere e proprie leggi».

40 Cassazione sentenza 5 novembre 2013, n. 24757. 41 Cons. Stato, parere 21 ottobre 1953, n. 852.

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costituendo, invece, retribuzione e riconoscimento dell’antico dominio collettivo irrevocabilmente estinto42.

Come detto, tanto l’alienazione di beni civici, così come la legittimazione dei possessi abusivi, sono istituti destinati a giocare un ruolo del tutto eccezionale nel sistema di gestione collettiva: l’avvio dei procedimenti rimane condizionato all’iniziativa della parte privata, titolare dell’interesse pretensivo, e, dopo aver accertato in modo rigoroso la contemporanea sussistenza di tutti i presupposti43.

5.2. Le ipotesi di promiscuità

Proseguendo con la classificazione adottata dalla Corte costituzionale nella sentenza in commento, l’altra categoria di strumenti idonei a variare il patrimonio civico è quella destinata a sciogliere quel particolare condominio di tipo germanico, a mani giunte o per facoltà (diverso dal condominio romanistico per quote, come si vedrà)44, costituito tra la

collettività ed il privato proprietario, che si realizza negli usi su terre aliene.

Di questi strumenti, una risalente giurisprudenza della Corte costituzionale ha qualificato la natura amministrativa, richiamando ante litteram la categoria degli accordi di diritto pubblico45.

L’affrancazione degli usi e la conciliazione divergono per la via, unilaterale o consensuale, attraverso la quale lo scioglimento viene perseguito, mentre in entrambi i casi il

42 Questa spiegazione è la più coerente rispetto al regime degli effetti della legittimazione, che «attribui-sce all’occupatore la piena proprietà della terra, con il peso del canone enfiteutico» (Cass., SS.UU., sent. 7 feb-braio 1991, n. 1275). Ciò, infatti, è tipico del censo riservativo, ma non dell’enfiteusi, «avvenendo nell’un caso il pieno trasporto della proprietà nell’investito, non così nel secondo» (Cass. Roma, sent. 17 febbraio 1877, in La legge, 1877, pagg. 228 ss.). Per una completa ricostruzione della natura e dei rapporti tra le posizioni soggettive che scaturiscono dal procedimento di legittimazione, cfr. A.CAROSI, Diritti e obbligazioni nascenti dal procedimen-to di legittimazione ex artt. 9 ss. legge 16 giugno 1927, n. 1766, in Nuovo dir. agr., 1987, pagg. 47 ss..

43 La giurisprudenza amministrativa – Cons. Stato, sent. 30 ottobre 1985, n. 574, in Cons. Stato, 1985, I, 1233 – ha precisato che «la considerazione delle esigenze di pubblico interesse [...] va fatta nel senso della valu-tazione di quelle che ad essa ostino (dato il carattere discrezionale del provvedimento) piuttosto che nel senso della valutazione di quelle che la giustifichino». Ma anche questa massima deve essere ora riletta alla luce della sentenza n. 71 del 2020.

44 «La liquidazione degli usi civici su terre private costituisce scioglimento di un condominio per facoltà e, pertanto, il giudizio di liquidazione possiede natura di giudizio divisorio» (Commiss. usi civici Roma, sent. 9 mar-zo 1983, Soc. Henraux c. Com. Stazzema, in Rep. Foro. it., 1984, n. 20-39, e pubbl. in Riv. dir. agr., 1984, II, 46, con nota di L.RAMELLI DI CELLE). In dottrina, cfr. V.CERULLI IRELLI, op. cit., pag. 227: «Il principio che spiega e giu-stifica le forme di liquidazione degli usi civici di cui alla legge del 1927, sia attraverso divisione per quote (art. 5 ss.) sia attraverso compenso in canone (art. 7 ss.) sta in ciò, che la legge ha considerato gli usi civici su terre aliene (rispetto alla comunità), su terre in dominio privato, come diritti di natura condominiale. Ciò va inteso nel senso che la loro realità non è rapportabile a quella che si estrinseca nei diritti reali contemplati nell’elencazione codicistica, ma ridonda in partecipazione al dominio».

45 Corte cost., sent. n. 67/1957: «E’ perciò coerente alle norme anzidette ritenere che nell’ambito del di-ritto amministrativo rientrino, non soltanto il procedimento di liquidazione devoluto al Commissario, ma altresì le conciliazioni che, ai sensi del terzo comma dell’art. 29, possono essere promosse in ogni fase del giudizio in sede contenziosa, sia per iniziativa del Commissario, sia per richiesta delle parti. Se ne ha conferma nell’ultimo comma dello stesso art. 29, che, per tutte le conciliazioni relative alle materie contemplate nella legge, richiede l’approvazione del Commissario e quella del Ministero competente, la quale tiene luogo dell’approvazione della Giunta provinciale amministrativa. Si ha quindi la prova che alle conciliazioni stesse si applica, ai fini del controllo da parte del potere esecutivo lo stesso trattamento cui sono sottoposti gli atti amministrativi».

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risultato tenderà ad una liquidazione in natura (cd. «scorporo») o, in via sostitutiva, alla attribuzione di un canone in denaro.

La liquidazione mediante scorporo prevede la suddivisione del fondo in due quote, una da assegnarsi alla collettività e l’altra, libera dagli usi, al proprietario.

Per i terreni che abbiano ricevuto dal proprietario migliorie sostanziali e permanenti, oppure qualora le caratteristiche del terreno non permettano alcuna divisione, la legge del 1927 ha previsto l’assegnazione per intero al privato, mentre il diritto della collettività è convertito in un canone annuo, sempre «di natura enfiteutica», nel senso precedentemente chiarito, in misura corrispondente al valore dei diritti (art. 7, l. n. 1766 del 1927)46.

Nel caso in cui si giunga, quindi, a liquidare per equivalente pecuniario le facoltà dominicali (gli usi) esercitate dalla collettività, l’indennità sarà commisurata alla natura e contenuto degli usi collettivi. Per contro, essa non potrà ricomprendere utilità diverse dal diritto particolare esercitato, dovendosi, altrimenti, ammettere l’esistenza di effetti ablativi

sine causa nei confronti del proprietario.

In questi termini, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 71 del 2020, ha anche elegantemente sciolto il dubbio sull’applicabilità dell’art. 934 cod. civ. alle opere realizzate dal privato su terre gravate da uso civico- ovvero se esse fossero acquistate per accessione da tutta la collettività - chiarendo come il rapporto tra privato proprietario e collettività esercente gli usi non possa ricondursi alla disciplina del condominio romanistico per quote, proprio per non essere la collettività titolare degli usi contitolare di tutte le facoltà ricomprese nella proprietà, segnatamente dello iusaedificandi, ma solo degli usi concretamente esercitati.

Con ciò, quindi, il principio espresso dalla Corte costituzionale non si pone in contrasto con la giurisprudenza della Corte di cassazione (sezioni unite, sentenza 16 febbraio 2018, n. 287347) in tema di acquisto della proprietà del bene costruito sul suolo

comune perché, in quel caso, il meccanismo logico presuppone la comproprietà formata secondo quote ideali del bene, ciascuna idonea ad esprimere tutte le facoltà incluse nella definizione di proprietà privata, mentre negli usi civici su beni altrui il dominio sul fondo è diviso secondo le diverse utilità spettanti, rispettivamente, alla collettività e al proprietario.

Seguendo questo percorso argomentativo, la Corte costituzionale ha evidentemente richiamato la struttura del condominio per facoltà, a mani giunte (o di diritto germanico), che consiste in «una proprietà collettiva, divisa tra una corporazione ed i singoli che vi

46 Cfr. V. CERULLIIRELLI, op. cit., pag. 239. L’Autore osserva che «la quota spettante alla popolazione (in terreno o in canone) si configura come corrispettivo dei diritti d’uso sul fondo che ad essa appartenevano: e quin-di come un’entità (naturale ovvero monetaria), corrispondente al loro valore». Solo per le province dell’ex Stato Pontificio è prevista la cd. liquidazione o affrancazione invertita, con attribuzione del terreno alla popolazione e diritto al canone in capo al privato (su questo tema, cfr. A.LORIZIO, L’affrancazione o liquidazione invertita delle servitù civiche nelle provincie ex pontificie. I poteri dei comuni nella gestione dei demani civici, in Giust. civ., 2013, pagg. 111 ss.).

47 «La costruzione eseguita dal comproprietario sul suolo comune diviene per accessione, ai sensi dell’art. 934 cod. civ., di proprietà comune agli altri comproprietari del suolo, salvo contrario accordo, traslativo della proprietà del suolo o costitutivo di un diritto reale su di esso, che deve rivestire la forma scritta ad substan-tiam».

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appartengono, o, in un rapporto più complesso, divisa anche tra un privato ed i singoli appartenenti ad una corporazione o comunità»48.

Oltre al rigore metodologico del ragionamento proposto, il chiarimento contenuto nella sentenza n. 71 del 2020 ha il pregio, apprezzabile sul piano squisitamente pratico, di offrire una corretta sistemazione tante situazioni di bagatellari che, nondimeno, si trovano oscillanti tra una condizione di paralisi totale – non rispettosa delle prerogative dominicali, comunque spettanti al privato proprietario – e soluzioni, talvolta adottate dai legislatori regionali, vittime di vere e proprie regulatorycapture da parte di gruppi di pressione, che prendono a pretesto contesti di minimo impatto per proporre sanatorie legislative o amministrative di ben altra dimensione e gravemente difformi dai canoni costituzionali.

5.3. Il mutamento di destinazione

Nel decalogo stilato dalla Corte costituzionale, il mutamento di destinazione d’uso è l’istituto che, mantenendo il bene nella titolarità collettiva, consente di intervenire sul profilo funzionale, adeguando le forme di gestione e godimento alle esigenze della comunità titolare. Esso rientra a pieno titolo nel regime giuridico degli assetti collettivi, dovendosi considerare che, già nel diritto anteriore, non erano insolite le chiusure a difesa dei demani universali fatte dai Comuni a scopo di pubblico interesse (o difese demaniali, da non confondere con le difese propriamente dette), per sottrarre temporaneamente le terre all’uso collettivo e ricavarne un reddito da destinare a beneficio di tutta la popolazione49, le quali non

incidevano sulla natura dei beni50.

La formulazione dell’art. 41, r.d. n. 332/1928, conferma che la nuova destinazione possa essere autorizzata «quando essa rappresenti un reale beneficio per la generalità degli abitanti» con «la clausola del ritorno delle terre, in quanto possibile, all’antica destinazione quando venisse a cessare lo scopo per il quale l’autorizzazione era stata accordata», prevedendo anche alcune ipotesi di destinazione («la istituzione di campi sperimentali, vivai e simili», art. 41 cit.) meramente esemplificative, che, come chiarito dalla giurisprudenza51,

non esauriscono i possibili impieghi dei beni collettivi52.

48 F.FILOMUS GUELFI, Diritti reali, Roma, 1902, pag. 135. Per una completa ricostruzione del dibattito at-torno alla figura del condominiumiuris germanici, cfr. P.GROSSI, Un altro modo di possedere, cit., pagg. 379 ss..

49 Si vedano, al riguardo, le osservazioni di G. CERVATI, Osservazioni sull’attualità di una legge (Terre ci-viche e diritti delle popolazioni), in Nuovo dir. agr., 1974, pagg. 10 ss.: «negli stessi secoli in cui l’economia dei nostri centri rurali era connessa con l’esercizio dei diritti civici, questi mutarono configurazione a seconda dei vari momenti storici (caratteristiche le modifiche per esigenze di mercato e la chiusura dei demani per trarne redditi mercé le c.d. difese demaniali) e delle stesse possibilità di sfruttamento del suolo (ad es. la distruzione di un bo-sco faceva sostituire al legnatico il pabo-scolo o la semina)».

50G. CERVATI, Aspetti della legislazione vigente circa usi civici e terre di uso civico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1967, pagg. 8 ss.. In giurisprudenza, cfr. Cass., sent. 30 marzo 1951, in Giur. compl. cass. civ., I, pag. 1 ss..

51 Si veda, in particolare, il parere del C.G.A. per la Regione Siciliana del 18 luglio 1950, riportato ne Il Consiglio di stato nel quadriennio 1947-50: relazione al presidente del Consiglio dei ministri, Roma, pagg. 238 ss. 1952: «La condizione di legge è chiaramente formulata: reale beneficio per la generalità degli abitanti, senza di-scriminazione alcuna secondo la natura del beneficio, come facilmente avrebbe potuto essere introdotta, se fosse stata intenzione del legislatore di riferirsi ai soli benefici di diretto interesse agricolo. Gli esempi non sono che esempi: hanno la funzione di chiarire, in quanto opportuno, la portata propria della norma, non di determinare ex

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Se già nelle precedenti sentenze n. 103/2017 e n. 113/2018 la Corte costituzionale ne aveva sottolineato la centralità, qualificandolo come «linea di congiunzione tra le norme risalenti e quelle più recenti, che hanno incluso gli usi civici nella materia paesaggistica ed ambientale», nella sentenza n. 71/2020 il mutamento di destinazione è indicato quale evidenza empirica della natura dinamica degli assetti collettivi che, nella prospettiva di una tutela paesaggistica «attiva», richiede l’adozione di metodi di programmazione emancipati da scopi meramente conservativi, richiedendo, invece, «un regime di gestione che ne preservi il carattere ecologico e la disciplina giuridica in coerenza con l’evoluzione dell’economia agricola e di quella ambientale».

se tale portata, introducendo per virtù propria estensioni e restrizioni estranee alla parte propriamente normativa della disposizione, se espressa in termini tali - com’è nel caso in esame - da non ingenerare alcun dubbio circa la sua portata». Più di recente, l’impostazione è stata confermata dalla Cassazione, nella sentenza 30 gennaio 2001, n. 1307: «Il citato art. 41 del Regolamento per l’esecuzione della legge n. 1766 del 1927, infatti, non con-tiene alcuna espressione dalla quale si possa desumere la volontà del suo autore (l’allora Ministro dell'Economia Nazionale, giusta il disposto dell'art. 43 della legge) di esigere che il pur consentito mutamento di destinazione delle terre assoggettate ad usi civici fosse mantenuto nell'ambito agricolo, boschivo o pascolativo. Una limitazione del genere non può certamente desumersi dalla frase “quali l'istituzione di campi sperimentali, vivai e simili” che segue immediatamente alla prescrizione della necessità che la diversa destinazione rappresenti “un reale benefi-cio per la generalità degli abitanti”, non essendovi nessuna ragione per attribuire alla frase in parola un valore che non sia quello meramente descrittivo ed esemplificativo reso palese dalla sua formulazione letterale, nè avendo giustificazione razionale l'ipotesi che detto beneficio, pur nella realtà socio - economica esistente all'epoca, sia stato ravvisato unicamente in una persistente utilizzazione agro - silvo - pastorale, con esclusione di ogni altro impiego atto a soddisfare, secondo la discrezionale valutazione dell'autorità amministrativa preposta, diversi e magari più pressanti interessi della collettività locale, come, ad esempio, quello ad avere una scuola, un ospedale o un moderno impianto di smaltimento dei rifiuti. Non può dimenticarsi, d'altra parte, che i regolamenti per l'ese-cuzione o per l'applicazione di una legge, costituiscono fonti di normazione secondaria e che, quindi, eventuali dubbi circa il significato e la portata delle relative norme non possono che essere risolti alla luce della fonte prima-ria da cui esse traggono la ragione della loro esistenza».

52 Diverso problema è stabilire le modalità di realizzazione della nuova destinazione, qualora essa com-porti la sottrazione del bene dall’uso collettivo, come accade nel caso in cui ne sia prevista la gestione economica (ad es. la realizzazione di un villaggio turistico). In tali ipotesi, la giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sent. 26 marzo 2013, n. 1698) assimila il rapporto tra la collettività ed il terzo concessionario ad una vera e propria concessione di beni pubblici, richiedendo che «le relative dinamiche procedimentali di gestione [...] debbano comunque avve-nire nel rispetto dei cardini della pubblicità, imparzialità», vale a dire ai principi del diritto eurounitario (cfr. art. 12, dir. 2006/123/CE, cd. Bolkestein, recepita in Italia con D.Lgs. n. 59/2010). Per contro, la disciplina pubblicistica non incide sui particolari regimi di gestione, espressivi dell’autonomia propria dell’ordinamento collettivo,nei quali si estrinseca il godimento diretto da parte degli utenti. In questi casi, infatti, l’atto di assegnazione «non è – come l’atto di concessione di bene pubblico – costitutivo di alcun diritto, in quanto l’Utente, in quanto membro della co-munità locale, ha perciò solo diritto all’assegnazione di una quota di terreno» (cfr. TAR Lazio, Roma, sent. 6 otto-bre 2015, n. 11495). Questa distinzione, peraltro, rischia di rimanere oscura qualora non si tenga nel debito conto la struttura del rapporto tra utente ed ente gestore, caratterizzata da un «collegamento organico che non consen-te un distacco concettuale della persona giuridica dalle persone dei parconsen-tecipi» (così P.GROSSI, Un altro modo di possedere, cit., pag. 389). Sempre in dottrina, si veda altresì V.CERULLI IRELLI, op. cit., pag. 306 (a cui la pronun-cia del TAR Lazio pare essersi espressamente ispirata): «l’assunzione della personalità giuridica da parte della forma organizzativa della comunità d’abitanti [Università Agraria, Comune o associazione agraria comunque de-nominata, n.d.r.], per disposizione di legge, certamente non trasforma il diritto collettivo della comunità stessa in diritto individuale della persona giuridica (…), ma costituisce un mero schema tecnico per l’imputazione dei poteri e delle facoltà di amministrazione e di gestione della proprietà comune che spettano alla forma organizzativa nell’ambito dello schema logico che s’è indicato e che presuppone l’appartenenza del dominio alla collettività».

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