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FLAVIO ERMINI, Il giardino conteso. L’essere e l’ingannevole apparire, Bergamo, Moretti&Vitali, 2016

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Academic year: 2021

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FILOSOFIA

Rivista fondata nel 1950 da Augusto Guzzo

Direttore scientifi co Vittorio Mathieu Comitato direttivo Andrea Poma, Gianluca Cuozzo, Sara Nosari, Luca Bertolino, Luca Taddio

Comitato scientifi co Evandro Agazzi (Genova)

Enrico Berti (Padova) Remo Bodei (Los Angeles) Antonio Brancaforte (Catania) Girolamo Cotroneo (Messina)

Tullio Gregory (Roma) Giuseppe Riconda (Torino) Emanuele Severino (Venezia)

Carlo Sini (Milano) Gianni Vattimo (Torino)

Direttore responsabile Marco Fracon Comitato di redazione

Sally Paola Anselmo, Antonio Dall’Igna, Damiano Roberi, Ernesto Sferrazza Papa

Redazione

Dipartimento di Filosofi a e Scienze dell’Educazione Università degli Studi di Torino

Via Po, 18 – 10123 Torino e-mail: redazionefi losofi a.dfe@unito.it

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FILOSOFIA

Rivista annuale

Quarta Serie - Anno LXI - 2016

paura

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Per l’acquisto copie (solo della IV serie) contattare l’uffi cio commerciale di MIM Edizioni Srl telefonicamente o al seguente indirizzo e-mail: commerciale@mimesisedizioni.it La rivista è acquistabile anche on-line: http://www.mimesisedizioni.it

MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it mimesis@mimesisedizioni.it ISSN 0015-1823 ISBN 9788857541198 © 2016 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI)

Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Tutti i diritti sono riservati

Registrazione presso il Tribunale di Cuneo, n. d’ordine 54 del 30 agosto 1949

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Sommario

Commemorazione di Marzio Pinottini

p. 9

paura

Nota introduttiva

p. 13

Luciano Gallino

Accumulazione del risparmio e insicurezza socio-economica

p. 17

Gianluca Cuozzo

La faccia del male. Annibale Carracci e l’autoritratto del 1604

p. 29

Antonio Dall’Igna

Abisso e verticalità in William Hope Hodgson

p. 47

Davide Dal Sasso

Paura e sottrazione dal mondo. Una lettura di Persona di Ingmar Bergman

p. 67

Davide Sisto

“Se solo avesse saputo...”: la paura della morte

p. 85

Monica Gorza

Le avventure straordinarie d’Antoine Roquentin. La malinconica paura di J.-P. Sartre

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G. Maria Antonietta Foddai

Euristica della paura e vincolo dell’incertezza. Rifl essioni su Jonas e Hobbes

p. 117

Caterina Maurer

Verso la libertà dello spirito: la paura come motore dialettico nella fi losofi a di Hegel

p. 137

Giuseppe Panella, Maria Antonietta Pranteda

Estetizzazione della paura, sublime naturale e analisi del soggetto in Burke e Kant

p. 153

Marco Menin

“La peur agit donc fortement sur toi?”. La dialettica tra paura e desiderio nella teoria dell’emozione di Sade

p. 169

Miscellanea

Girolamo Cotroneo Gli ‘spazi’ della politica

p. 187

Alberto Musso

La concezione della tecnica nel discorso ambientalista del Club di Roma

p. 203

Andrea Zhok

On Wittgenstein’s Analogy between Philosophy and Psychoanalysis

p. 219

Rassegna di libri

Flavio Ermini, Il giardino conteso. L’essere e l’ingannevole apparire (G. Cuozzo)

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Guglielmo Gallino, Il senso e il nulla. Rispondere al nichilismo (G. Cuozzo - A. Dall’Igna)

p. 245

Arturo Mazzarella, Il male necessario. Etica ed estetica sulla scena contemporanea (A. Dall’Igna)

p. 249

Gianluca Cuozzo, Utopie e realtà. Tra desiderio dell’altrove, ecosofi a e critica del presente (A. Dall’Igna)

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RMINI

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LAVIO

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, , Il giardino conteso. L’essere e l’ingannevole appari-

Il giardino conteso. L’essere e l’ingannevole

appari-re

re, Bergamo, Moretti&Vitali, 2016, 236 pp.

, Bergamo, Moretti&Vitali, 2016, 236 pp.

Con questo libro Flavio Ermini, avvezzo alla digressione fi losofi ca, al mettere in dialogo pensiero poetico e metafi sica (ma vi è un tratto comune, denso eppure eva-nescente; nel sapiente uso della scrittura dell’autore l’uno sembra trapassare insen-sibilmente nell’altro), ci porta con mano al cospetto dei paradossi della visibilità. Là dove l’apparire, fuoriuscendo dall’illimitato in cui nulla è come tale osservabile – Anassimandro docet –, accede al visibile e alla caducità. Effetto grandioso. Un lampo improvviso, in cui la bellezza sfolgorante si accompagna a un senso poten-te di mortalità. “Non è uno spettacolo”, dice l’autore; eppure siamo inebriati da questo insorgere nel mondo (che è pure un sorgere del mondo). Lo sa bene Gre-gor Samsa, il cui risveglio è una lacerazione, vissuta nella forma dell’Ungeheuer: il risveglio alla vita è l’immersione nell’incubo animale, che palpita sotto la dura scorza chitinosa: lo sguardo aurorale sul mondo è accompagnato sin dall’inizio da un senso deformante di morte, di estraneità rispetto all’istante (hic stans), che non permette di stare quieti nel qui ed ora della pura inizialità.

In quell’istante noi, per la prima volta, siamo; posti ex abrupto nell’essere – mes-si di fronte ad un mondo aurorale, che è puro inizio, l’alba dello sguardo che si sorprende del proprio potere –, vediamo il tutto, in ogni suo aspetto, ma in quanto questo tutto è disperso, trasformato nella regione della molteplicità, del discontinuo, del dolore. Lo sguardo si fraziona nella pluralità delle prospettive sul mondo, i pensieri si frantumano inseguendo i singoli enti-pensiero – insomma, qui nasce non soltanto la visione, ma anche il linguaggio, come arte della diacronia, del divenire del senso tra scarti, cesure, rimandi, attese e immancabili frustrazioni. E con il linguaggio nasce anche la poesia – quel sapere originario non semplicemente della mortalità dell’uomo, ma anche del suo destino ultimo, oltre la stessa visibilità, quella regione in cui regna il dolore e il rischio di una caduta rovinosa. A tal propo-sito possiamo descrivere la condizione dell’uomo – bellissime le pagine dell’autore in merito, tali da far dimenticare le considerazioni piuttosto banali che la fi losofi a ha rivolto a questa nozione in senso “antropotecnico” – come quella dell’acrobata: colui che sa, ogni volta, di poter precipitare e morire (p. 22), di essere in fondo un esiliato, di essere lontano dalla patria, dal sacro, sull’orlo del precipizio in cui regna la “distruzione della connessione armonica fra uomo e natura” (p. 23).

Qui si chiarisce anche il senso del titolo, icastico, fortemente evocativo. Giusto a metà strada tra la rievocazione del leggendario paradiso terrestre, da cui siamo stati

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orizzonte il guardo esclude”. Il giardino conteso è “l’energia inesauribile dell’ini-zio primo”, che pulsa nel frammento, nella parzialità frustrata della visione pro-spettica, nella parola sincopata ma vibrante – con la speranza di una restitutio in

integrum, in cui il senso, nella sua integrità (paradosso assoluto, questo) si faccia

visibile, a sprazzi, al di là della coltre luttuosa della caducità. Il giardino rappresen-ta dunque il luogo originario, da cui tutto ha inizio – ma, avendo inizio, con esso l’uomo vede per la prima volta anche il segno imminente della sua fi ne, il frutto del male, da cui il dolore, la fatica e la morte. Per di più esso, come orizzonte pieno dell’essere, immagine pleonastica di una felicità che non ha ancora soggetto che possa goderne, rappresenta il limite assoluto della nostra visione. Il paradiso, visto dall’al di qua, è un concetto limite, è “l’altro luogo” mai effettivamente raggiunto e raggiungibile. Eppure è conteso, è qualcosa di presente al nostro sguardo come possibile télos, tale da porci in una situazione antagonistica gli uni verso gli al-tri: tutti vogliamo abitarvi, poiché tutti sappiamo avervi abitato: un tempo, prima che il tempo stesso avesse inizio. L’hortus ci interpella facendo breccia nel cono d’ombra oscurato dal dolore e dalla disperazione del vivente. La sua immagine, per quanto offuscata e frammentata, è ciò che ci permette di prenderci cura del dolore, nella prospettiva di una futura conoscenza/possesso “del bene congiunto di bellezza e verità” (p. 27). Senza questa presenza occulta regnerebbe sovrana la contraddizione, la morte avrebbe l’ultima parola, il vuoto inghiottirebbe tutto... Ma vi è una “pulsazione nascosta ” (p. 31), che batte e risveglia dal letargo, condu-cendoci verso l’essenza dell’aperto: il presagio dell’originario, che prende forma in quell’immagine del giardino che, con i suoi frutti succosi e il fresco della verzura, è in grado di accogliere il disperso come patria; e che, tuttavia, come siepe, allon-tana, imponendoci un percorso di ritorno/rientro tortuoso, che fa appello al lavo-ro del nostlavo-ro pensielavo-ro, all’affi namento della nostra palavo-rola poetica, alla conquista dello spazio dell’amicizia e dell’ospitalità (dove nostalgia e desiderio di vita futura respirano all’unisono). La patria, allora, non è un’immagine statica, ma – allo stesso tempo concetto limite e immagine suadente e inclusiva – impone un ripensamento, una conversione dello spirito; persino una strategia di oltrepassamento del limite – il giardino include la siepe, eppure, a ben vedere, esso inizia realmente solo al di là di essa. Chi ne è escluso lo sa, perché ai suoi occhi il giardino si trasforma in labirinto, dove la siepe è continuo muro respingente rispetto ad ogni approssimarsi all’albero della vita, elargitore di doni puri, senza soggetto.

Queste suggestioni di Ermini non hanno solo il dono della raffi natezza, bensì esse impattano duramente sulla nostra realtà politica; hanno il dono, sottotraccia, di offrire una spietata analisi del presente. Basti un solo esempio: l’Europa pacifi -cata non è un traguardo scontato per chi non ha patria, per le masse di diseredati che vedono in essa la salvezza, la fi ne della guerra, un lavoro, il terreno fertile in cui crescere i propri fi gli; essa, di fatto, fa capolino a stento – in forma frammentata, fantasmatica, velata nella sua idealità – oltre le varie siepi di fi lo spinato erette dalle Nazioni che la compongono, le quali riscoprono, nella dispersione lacerante del fi nito, la loro inviolabile sovranità. Come a dire: che il frammento abbia l’ultima parola, la morte (anche quella degli affamati) è prevista dal nostro essere al mondo

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intri-Filosofia

Filosofia RASSEGNADILIBRI 243243

co terrifi cante di rovi e di spine capace di tenere lontani chi non ne ha diritto (ma sarebbe meglio dire: chi non ha diritti tout court).

La poesia, sembra dire Ermini, è lo strumento di analisi privilegiato del moto di discesa dell’essere verso il mondo (verso l’apparire), nonché di quello che por-ta nuovamente all’indistinto, dove regna sovrana una verità ineffabile, l’apertura da cui tutto inizia e diviene. La poesia, in senso intrinsecamente neoplatonico, non è dunque solo discursus (un discorrere da, nella lontananza dall’origine), ma anche un esercizio di raccoglimento ‘metafi sico’: un convergere verso lo “spazio antecedente”, essenzialmente prelinguistico. Poiché noi, in “quanto fi gli messi alla porta”, quasi “pietrifi cati sulla soglia”, non esauriamo il nostro compito di mortali in questa dimensione di psicastenia emotiva, in cui le macerie della storia (in ciò vi è un rimando non troppo velato a Benjamin) regnano sovrane. La catastrofe non ci esenta da “quell’andare e costruire che ci porteranno verso l’altrove poetico”; il processo di straniamento dalla natura, allora, è reversibile, l’apocalisse (che l’uomo ha inscenato per portare a termine la propria scomparsa teatrale) può non avere l’ultima parola. Il “meccanismo consumo-spreco che produce cose morte, tante da togliere il respiro alla terra e fa sì che il deserto cresca” (p. 128), è il frutto di una scelta che potrebbe non essere defi nitiva. Tutto dipende da noi, sembra dire Er-mini; dalla parola che scegliamo per dar forma al mondo, in cui ancora risuonano “elementi del sentire originario”. La poesia, in particolare, deve osare farsi pre-sente sulla soglia del caos originario, “di quell’indistinto cui Anassimandro aveva dato il nome di apeiron” (p. 174). Qui, in questo luogo in cui noi veniamo all’e-sistenza per morire, la parola poetica ha la possibilità di ripetere quell’inizio che ci ha estraniati dal tutto. La parola, ripetendo l’estraneità dell’annuncio, riprende tutto – il tutto – da capo; essa, facendo i conti con il fondamento, nel suo dire, dà perenne origine al mondo. E, in questo inizio ritrovato, noi abbiamo la possibilità di accedere alla salvezza; nella consapevolezza che ogni inizio, se è vero, porta con sé l’ineluttabilità della disfatta. Da cui si genera, grazie al dire poetico come origi-naria contra-dizione (p. 215), la giustifi cazione di ogni dolore: “Soltanto all’alba i custodi / sulle macerie del greto riaprono le porte della casa natale / in cui serbano i vecchissimi il diagramma del cielo” (p. 225). E l’avventura dell’apparizione inizia nuovamente...

Riferimenti

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