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Dante, Remigio de’ Girolami, il sistema angioino: teologia e politica

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Academic year: 2021

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di Francesco Bruni

In his 1304 treatise, Remigio de’ Girolami voices the ruin of the bonum commune in Florence not only according to the customs of Scholastic discourse but also by violating them, in search of uniquely dramatic rhetorical effects. However, Dante never openly mentions or attacks Re-migio, even though he was a supporter of the Angevin system of power in Italy that Dante re-peatedly criticizes, possibly because he acknowledges the honesty of Remigio’s intentions. This article draws a comparison between Dante’s vision and the cultural, political, and propagandis-tic conception promoted by the Angevins, from the divergences in the interpretation of Aquinas’ doctrine of Justice to the ones regarding the notion of nobility. Dante expressely chooses his meeting with the Angevin Charles Martel (Pd. VIII) to set human free will in opposition to the Angevin vision of virtue as a good inherited from generation to generation: Charles is a virtuous man not because of, but despite being born into a family which denies the authority of Empire, which is to say the only guarantor of the bonum commune.

Middle Ages; 13th-14th Centuries; Dominican Order; Florence; Naples; Dante Alighieri, Remigio de’ Girolami; Capetian House of Anjou; Common Good; Nobility.

1. “De bono comuni”: un trattato scolastico di Remigio de’ Girolami

Uno tra i molti particolari che esprimono nel loro insieme gli effetti del Buon Governo, e lo scambio virtuoso tra città e campagna, affrescati da Am-brogio Lorenzetti (1338-39) nel Palazzo pubblico di Siena, raffigura cinque muratori che completano la costruzione di un edificio: una manifestazione di attività edilizia che esprime la ricchezza e la crescita di Siena, ed è un aspetto dell’articolata vitalità cittadina, con la sua stratificazione di lavoratori ma-nuali, di mercanti nelle loro botteghe, di cavalieri, di giovani donne festose. I

Abbreviazioni: DEI = C. Battisti, G. Alessio, Dizionario etimologico italiano, Firenze 1965, 5 voll.; TLL = Thesaurus linguae latinae, Wiesbaden 1979-.

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princìpi astratti, di natura religiosa e filosofica, che rendono possibile lo svi-luppo felice della comunità, sono visualizzati sulla parete del Buon Governo, che Chiara Frugoni riassume in questi termini:

in alto, Sapientia regge una grande bilancia, sotto l’imponente figura della Giustizia, cogli occhi rivolti a lei, ne tiene in equilibrio i piatti (su questi, due angeli amministra-no la giustizia distributiva e commutativa) e fa scendere due corde che la Concordia, subito sotto, stringe ed unisce. La fune è raccolta da ventiquattro personaggi [tanti erano i membri del governo che aveva preceduto i Nove e aveva commissionato l’af-fresco] che se la passano l’un l’altro fino ad essere saldamente tenuta nella destra del grande personaggio del Ben Comune [sormontato da lettere iniziali che, sciolte, si leg-gono Commune Senarum Civitas Virginis], seduto in trono, vestito dei colori di Siena (bianco e nero), col simbolo della città ai piedi (la lupa che allatta i gemelli): lo sovra-stano le tre virtù teologali, Fides, Charitas e Spes, mentre gli sono accanto le quattro virtù cardinali, oltre a Pax e Magnanimitas. Ai piedi del Ben Comune, una piccola folla di soldati, fanti e militari a cavallo, quelli a destra più armati e minacciosi, che tengono a bada una fila di prigionieri incatenati, mentre due signori si sottomettono offrendo i loro castelli1.

Benché gli affreschi del Lorenzetti rappresentino la felicità collettiva della città, l’evocazione dei valori cittadini non può fare a meno del loro rovescio, che è ovviamente il Cattivo Governo, rappresentato da un personaggio dai tratti diabolici: la forza della giustizia cede all’arbitrio della violenza, la sicu-rezza personale e i beni sono compromessi, la natura inselvatichita cancella la campagna lavorata dall’uomo. Quando gli affreschi furono commissionati, l’alternativa tra i valori e i disvalori astratti cui corrispondono due situazioni sociali antitetiche era già chiara, e non molti anni dopo una rivolta cittadina abbatté i Nove (1355). Neppure in seguito il comune sarebbe riuscito a integra-re in un insieme dinamico le rivalità incomponibili che ne segnano la storia: nonostante la fioritura di una società operosa, capace di successi commerciali e di alte espressioni intellettuali e artistiche, la giustizia e la concordia cui in-vita l’affresco del Buon Governo è un ideale contraddetto dall’agitata vicenda politica di Siena e di altri comuni toscani, tra i quali è Firenze.

Più di trent’anni prima che Lorenzetti raffigurasse in Siena se non la città reale almeno il suo dover essere, personificando l’idea del Bene Comune, al De bono comuni intitola un suo trattato il domenicano fiorentino Remigio de’ Girolami (nel 1267-68 prende la licenza in artes a Parigi, muore tra il 25 marzo 1329 e il 24 marzo dell’anno seguente)2, per dimostrare che il bene

comune è superiore al bene dell’individuo (privatus). In quest’opera Remigio

1 Ho citato da Frugoni, Una lontana città, p. 136, alla quale rimando anche per rappresenta-zioni coeve di analogo contenuto. Dell’ampia bibliografia sul Lorenzetti ricordo, ai fini di questo lavoro, particolarmente per le premesse dottrinali, il classico Rubinstein, Political Ideas in Sie-nese Art e Le allegorie di Ambrogio Lorenzetti. Tra i lavori più recenti: Dessì, Il bene comune e Pasquini, La rappresentazione del bene comune.

2 Introduce a Remigio la voce di Gentili, Girolami, Remigio de’; fondamentale è Panella, Nuova cronologia remigiana. Si veda anche i contributi di questo volume: Delphine Carron, Influen-ces et interactions entre Santa Maria Novella et la commune de Florence, Ruedi Imbach, Une métaphysique thomiste florentine ; Anna Pegoretti, Lo “studium” e la biblioteca di Santa Maria Novella, §1 ; Roberto Lambertini, L’usura tra Santa Croce et Santa Maria Novella.

esplicita filosoficamente i presupposti da cui mosse più tardi il committente dell’affresco del Lorenzetti, e sostiene la sua tesi con argomenti ed esempi tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento e dalla storia romana. Benché già definito da Platone, al medioevo scolastico il concetto di bene comune viene da Aristotele, e aristoteliche e sacre sono le fonti di cui si serve Remigio.

Ottenuta la licenza in artes, Remigio entra nel convento domenicano di Saint-Jacques, e a Parigi frequenta il corso di teologia, dove tra gli altri inse-gna Tommaso d’Aquino. A Parigi legge le Sententiae di Pietro Lombardo nel 1297-983. Tornato a Firenze nel 1300, nel 1304 riceve a Perugia, dove la Curia

risiedette per qualche tempo, la licentia docendi dal papa Benedetto XI. A Firenze Remigio insegnò nello Studio di Santa Maria Novella e ricoprì anche un ruolo pubblico perché fu più volte incaricato di salutare, per conto delle au-torità laiche del comune, personaggi importanti che dovevano essere accolti solennemente. Nei periodi di assenza da Firenze, perché impegnato a Perugia o altrove, fu supplito dal confratello Giordano da Pisa, all’incirca suo coeta-neo (Pisa 1260 ca.-1310), anche lui frequentatore dell’università parigina, di orientamento aristotelico e tomistico molto simile a quello di Remigio, e gran-de predicatore (restano oltre 700 reportationes gran-dei suoi sermoni in volgare)4.

Remigio e Giordano appartengono alla generazione domenicana successiva a quella di Tommaso d’Aquino, risentono fortemente del suo pensiero, conosco-no bene la filosofia di Aristotele che s’insegnava nelle Università e nelle prin-cipali scuole conventuali, diffondono convintamente un messaggio cristiano fondato su una solida base razionale. Giordano da Pisa, in particolare, mani-festa un autentico entusiasmo per il progresso delle scienze, ed è pienamente convinto del rapporto fecondo che la religione intrattiene con l’incremento del sapere teorico e pratico5.

Di Remigio de’ Girolami interessa in questa sede soprattutto il De bono comuni (insieme con il De bono pacis e alcuni altri scritti collegati all’argo-mento). Il De bono comuni cade in un momento cruciale della storia fiorenti-na: la sua composizione è immediatamente posteriore all’ingresso in Firenze di Carlo di Valois (1° novembre 1301) e al rientro, pochi giorni dopo (5 novem-bre), dei Guelfi Neri capeggiati da Corso Donati e alle loro violenze a danno dei Bianchi6. A Remigio de’ Girolami tocca il compito del discorso di benvenuto. 3 Duba, Schabel, Remigio, Auriol, Scotus, pp. 143-159.

4 La vita (e la cultura) di Giordano da Pisa s’intreccia con quella di Remigio; si veda Delcorno, Giordano da Pisa e la voce dello stesso autore per il Dizionario Biografico degli Italiani. 5 Nella cultura toscana l’ondata tomistica e i suoi presupposti aristotelici si riflettono anche nella pittura della prima metà del secolo: agli affreschi del Lorenzetti si possono aggiungere il Trionfo di san Tommaso attribuito a Francesco Traini (Pisa, chiesa di Santa Caterina) e gli affreschi di Andrea di Buonaiuto nella sala del capitolo (poi Cappellone degli Spagnoli) di Santa Maria Novella a Firenze. Intorno alla metà del XIV secolo in Domenico Cavalca e Jacopo Passa-vanti la propensione filosofica cede ad altre dimensioni spirituali: su questa parabola in Toscana rimando al mio capitolo sull’ordine domenicano in Bàrberi Squarotti, Bruni, Dotti, Dalle origini al Trecento, pp. 57-119.

6 Panella, Dal bene comune (d’ora in poi Panella), pp. 34-35, con l’edizione e commento del De bono comuni, del De bono pacis e dei Sermones de pace. Un’edizione alquanto ridotta, ma dotata

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princìpi astratti, di natura religiosa e filosofica, che rendono possibile lo svi-luppo felice della comunità, sono visualizzati sulla parete del Buon Governo, che Chiara Frugoni riassume in questi termini:

in alto, Sapientia regge una grande bilancia, sotto l’imponente figura della Giustizia, cogli occhi rivolti a lei, ne tiene in equilibrio i piatti (su questi, due angeli amministra-no la giustizia distributiva e commutativa) e fa scendere due corde che la Concordia, subito sotto, stringe ed unisce. La fune è raccolta da ventiquattro personaggi [tanti erano i membri del governo che aveva preceduto i Nove e aveva commissionato l’af-fresco] che se la passano l’un l’altro fino ad essere saldamente tenuta nella destra del grande personaggio del Ben Comune [sormontato da lettere iniziali che, sciolte, si leg-gono Commune Senarum Civitas Virginis], seduto in trono, vestito dei colori di Siena (bianco e nero), col simbolo della città ai piedi (la lupa che allatta i gemelli): lo sovra-stano le tre virtù teologali, Fides, Charitas e Spes, mentre gli sono accanto le quattro virtù cardinali, oltre a Pax e Magnanimitas. Ai piedi del Ben Comune, una piccola folla di soldati, fanti e militari a cavallo, quelli a destra più armati e minacciosi, che tengono a bada una fila di prigionieri incatenati, mentre due signori si sottomettono offrendo i loro castelli1.

Benché gli affreschi del Lorenzetti rappresentino la felicità collettiva della città, l’evocazione dei valori cittadini non può fare a meno del loro rovescio, che è ovviamente il Cattivo Governo, rappresentato da un personaggio dai tratti diabolici: la forza della giustizia cede all’arbitrio della violenza, la sicu-rezza personale e i beni sono compromessi, la natura inselvatichita cancella la campagna lavorata dall’uomo. Quando gli affreschi furono commissionati, l’alternativa tra i valori e i disvalori astratti cui corrispondono due situazioni sociali antitetiche era già chiara, e non molti anni dopo una rivolta cittadina abbatté i Nove (1355). Neppure in seguito il comune sarebbe riuscito a integra-re in un insieme dinamico le rivalità incomponibili che ne segnano la storia: nonostante la fioritura di una società operosa, capace di successi commerciali e di alte espressioni intellettuali e artistiche, la giustizia e la concordia cui in-vita l’affresco del Buon Governo è un ideale contraddetto dall’agitata vicenda politica di Siena e di altri comuni toscani, tra i quali è Firenze.

Più di trent’anni prima che Lorenzetti raffigurasse in Siena se non la città reale almeno il suo dover essere, personificando l’idea del Bene Comune, al De bono comuni intitola un suo trattato il domenicano fiorentino Remigio de’ Girolami (nel 1267-68 prende la licenza in artes a Parigi, muore tra il 25 marzo 1329 e il 24 marzo dell’anno seguente)2, per dimostrare che il bene

comune è superiore al bene dell’individuo (privatus). In quest’opera Remigio

1 Ho citato da Frugoni, Una lontana città, p. 136, alla quale rimando anche per rappresenta-zioni coeve di analogo contenuto. Dell’ampia bibliografia sul Lorenzetti ricordo, ai fini di questo lavoro, particolarmente per le premesse dottrinali, il classico Rubinstein, Political Ideas in Sie-nese Art e Le allegorie di Ambrogio Lorenzetti. Tra i lavori più recenti: Dessì, Il bene comune e Pasquini, La rappresentazione del bene comune.

2 Introduce a Remigio la voce di Gentili, Girolami, Remigio de’; fondamentale è Panella, Nuova cronologia remigiana. Si veda anche i contributi di questo volume: Delphine Carron, Influen-ces et interactions entre Santa Maria Novella et la commune de Florence, Ruedi Imbach, Une métaphysique thomiste florentine ; Anna Pegoretti, Lo “studium” e la biblioteca di Santa Maria Novella, §1 ; Roberto Lambertini, L’usura tra Santa Croce et Santa Maria Novella.

esplicita filosoficamente i presupposti da cui mosse più tardi il committente dell’affresco del Lorenzetti, e sostiene la sua tesi con argomenti ed esempi tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento e dalla storia romana. Benché già definito da Platone, al medioevo scolastico il concetto di bene comune viene da Aristotele, e aristoteliche e sacre sono le fonti di cui si serve Remigio.

Ottenuta la licenza in artes, Remigio entra nel convento domenicano di Saint-Jacques, e a Parigi frequenta il corso di teologia, dove tra gli altri inse-gna Tommaso d’Aquino. A Parigi legge le Sententiae di Pietro Lombardo nel 1297-983. Tornato a Firenze nel 1300, nel 1304 riceve a Perugia, dove la Curia

risiedette per qualche tempo, la licentia docendi dal papa Benedetto XI. A Firenze Remigio insegnò nello Studio di Santa Maria Novella e ricoprì anche un ruolo pubblico perché fu più volte incaricato di salutare, per conto delle au-torità laiche del comune, personaggi importanti che dovevano essere accolti solennemente. Nei periodi di assenza da Firenze, perché impegnato a Perugia o altrove, fu supplito dal confratello Giordano da Pisa, all’incirca suo coeta-neo (Pisa 1260 ca.-1310), anche lui frequentatore dell’università parigina, di orientamento aristotelico e tomistico molto simile a quello di Remigio, e gran-de predicatore (restano oltre 700 reportationes gran-dei suoi sermoni in volgare)4.

Remigio e Giordano appartengono alla generazione domenicana successiva a quella di Tommaso d’Aquino, risentono fortemente del suo pensiero, conosco-no bene la filosofia di Aristotele che s’insegnava nelle Università e nelle prin-cipali scuole conventuali, diffondono convintamente un messaggio cristiano fondato su una solida base razionale. Giordano da Pisa, in particolare, mani-festa un autentico entusiasmo per il progresso delle scienze, ed è pienamente convinto del rapporto fecondo che la religione intrattiene con l’incremento del sapere teorico e pratico5.

Di Remigio de’ Girolami interessa in questa sede soprattutto il De bono comuni (insieme con il De bono pacis e alcuni altri scritti collegati all’argo-mento). Il De bono comuni cade in un momento cruciale della storia fiorenti-na: la sua composizione è immediatamente posteriore all’ingresso in Firenze di Carlo di Valois (1° novembre 1301) e al rientro, pochi giorni dopo (5 novem-bre), dei Guelfi Neri capeggiati da Corso Donati e alle loro violenze a danno dei Bianchi6. A Remigio de’ Girolami tocca il compito del discorso di benvenuto. 3 Duba, Schabel, Remigio, Auriol, Scotus, pp. 143-159.

4 La vita (e la cultura) di Giordano da Pisa s’intreccia con quella di Remigio; si veda Delcorno, Giordano da Pisa e la voce dello stesso autore per il Dizionario Biografico degli Italiani. 5 Nella cultura toscana l’ondata tomistica e i suoi presupposti aristotelici si riflettono anche nella pittura della prima metà del secolo: agli affreschi del Lorenzetti si possono aggiungere il Trionfo di san Tommaso attribuito a Francesco Traini (Pisa, chiesa di Santa Caterina) e gli affreschi di Andrea di Buonaiuto nella sala del capitolo (poi Cappellone degli Spagnoli) di Santa Maria Novella a Firenze. Intorno alla metà del XIV secolo in Domenico Cavalca e Jacopo Passa-vanti la propensione filosofica cede ad altre dimensioni spirituali: su questa parabola in Toscana rimando al mio capitolo sull’ordine domenicano in Bàrberi Squarotti, Bruni, Dotti, Dalle origini al Trecento, pp. 57-119.

6 Panella, Dal bene comune (d’ora in poi Panella), pp. 34-35, con l’edizione e commento del De bono comuni, del De bono pacis e dei Sermones de pace. Un’edizione alquanto ridotta, ma dotata

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Nell’opera di Tommaso d’Aquino le occorrenze di bonum commune sono 368 (di cui 39 nella sequenza commune bonum)7, e tuttavia il De bono

comu-ni di Remigio svolge l’argomento in modo originale: sulla base concettuale, aristotelica e teologica, di Tommaso, Remigio innesta una descrizione detta-gliata della situazione di Firenze e un’intelligente proposta di soluzione poli-tica della crisi cittadina, calando in tal modo la teoria del bene comune nella realtà contemporanea di Firenze, e trasformando il “bene comune” nel “bene del Comune” (fiorentino), per ripetere un’incisiva formulazione del miglior conoscitore dell’opera di Remigio de’ Girolami8. Il bene comune a cui mira

Remigio nel suo trattato è quello della città. Ciò non comporta, naturalmente, che altri e più ampi orizzonti non gli siano accessibili, ma semplicemente che egli introduce la nozione di bene comune durante una congiuntura politica particolarmente difficile della vita fiorentina.

Prendiamo le mosse da un luogo dell’opera nel quale si legge che «totum plus habet de entitate quam pars. Totum enim ut totum est existens actu, pars vero ut pars non habet esse nisi in potentia, secundum Philosophum in VII Phi-sicorum». Altro è la parte compresa nel tutto, altro la parte separata dal tutto:

Pars [...] extra totum existens non est pars sicut prius dicebatur dum esset in toto. Manus enim abscisa non est manus nisi equivoce, puta sicut lapidea aut depicta, sicut patet per Philosophum et in II De anima et in VII Methaphisice et in I Politice; non enim habet operationes manus, puta sentire tangibilia, cibum ori porrigere, scalpere et huiusmodi9.

Equivoce è parola del linguaggio aristotelico medievale che si sostituisce l’omonimia di Aristotele, all’inizio delle sue Categorie:

Si dicono omonime le realtà che hanno in comune solo il nome, mentre la definizione dell’essenza corrispondente al nome è diversa; così, ad esempio, animale è sia l’essere umano sia il disegno; questi, infatti, hanno in comune solo il nome, mentre la defi-nizione dell’essenza corrispondente al nome è diversa. Volendo, infatti, esporre che cos’è l’essere animale per ciascuno dei due, si attribuirà a ciascuno una definizione propria10.

Firenze non risponde affatto ai requisiti di una città dove il bene comune rende armoniosa la vita collettiva; al contrario, rischia di essere una città di pietra, come Remigio ribadisce subito dopo:

esse partis dependet ab esse totius et non e converso, sicut posterius dependet a priori et non e converso; unde Philosophus in I Politice «Prius itaque civitas quam domus et di traduzione italiana, è stata pubblicata dallo stesso studioso più recentemente: Remigio de’ Giro-lami, Dal bene comune (2014). Di Panella è la cura del ricchissimo sito dedicato a Remigio de’ Gi-rolami: <http://www.e-theca.net/emiliopanella/remigio3/2000.htm> [consultato in aprile 2018]. 7 Si veda l’Index Thomisticus, consultabile in rete: <http://www.corpusthomisticum.org/it/ index.age> [consultato in aprile 2018].

8 Panella, p. 24.

9 Remigio de’ Girolami, De bono comuni, IX, in Panella, p. 170, cui rinvio anche per il com-mento.

10 Aristotele, Categorie 1a1.

unusquisque nostrum est; totum enim prius necessarium est esse parte. Interempto enim toto nec erit pes neque manus nisi equivoce, velut si quis dicat lapideam: cor-rupta enim erit talis. Omnia enim opere diffinita sunt et virtute; quare non iam talia existentia non dicendum eadem esse sed equivoca, quia scilicet carent operatione et virtute per quam diffiniuntur, sicut diffinitio pedis est quod est membrum organicum habens virtutem ad ambulandum. Unde destructa civitate remanet civis lapideus aut depictus, quia scilicet caret virtute et operatione quam prius habebat, puta miles in militaribus, mercator in mercationibus, artifex in artificialibus, officialis in officiali-bus, pater familias in familiariofficiali-bus, et universaliter liber in operibus liberis, puta ire ad podere suum, facere ambasciatas, habere dominia aliarum civitatum. Ut qui erat civis florentinus, per destructionem Florentie iam non sit florentinus dicendus sed potius flerentinus. Et si non est civis non est homo, quia homo est naturaliter animal civile, secundum Philosophum in VIII Ethicorum et in I Politice11.

Affiora un procedimento espressivo che si manifesta più vistosamente in due capitoli che si esamineranno nel prossimo paragrafo. Intanto, va os-servato che l’equivoco e l’esempio aristotelico sulla manus...lapidea aut de-picta è riformulato da Remigio nei termini, per lui urgentissimi, del civis... lapideus aut depictus. La transizione dalla manus al civis si deve all’argo-mento fondamentale del trattato e si giova forse della mediazione del latino, che distingue civitas da urbs, come ricorda Uguccione da Pisa: «est civitas hominum multitudo societatis vinculo adunata ad eodem iure vivendum; et civitas non saxa sed habitationes vocantur, sed urbs ipsa menia sunt» (Derivationes, E 85 27).

2. Prosa scolastica ed emergenze di espressivismo latino-fiorentino nel “De bono comuni”

Mi soffermo ora su due capitoli del De bono comuni nei quali il latino scolastico di Remigio cede a un espressivismo linguistico che spezza i confi-ni della rigorosa formalità scolastica dando luogo a un singolarissimo (e, se si può dire, fiorentinissimo) pastiche latino-volgare nel quale si intrecciano razionalità ed emotività dello scrittore, che intende esprimere anche in tal modo la drammatica situazione di Firenze, i pericoli che mettono a rischio la sopravvivenza della città, a causa delle violenze dei Guelfi Neri.

I due capitoli misurano la condizione di Firenze sul metro di due dei tre tipi di amicizia distinti da Aristotele nell’VIII libro dell’Etica Nicomachea, quelli fondati sul piacere e sull’utile (il terzo tipo si basa sulla virtù). L’amicizia fondata sulla bellezza corporea attecchisce soprattutto tra i giovani, sensibili all’attrazione fisica; quella sull’utile tra gli anziani. Queste amicizie sono en-trambe transitorie perché «gli amici non rimangono uguali a se stessi; infatti, qualora essi non risultino più reciprocamente piacevoli o utili, smettono di amarli»12. Non è però questo l’aspetto che interessa Remigio, bensì il legame 11 Remigio de’ Girolami, De bono comuni, IX, in Panella, pp. 138-139 (corsivi miei).

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Nell’opera di Tommaso d’Aquino le occorrenze di bonum commune sono 368 (di cui 39 nella sequenza commune bonum)7, e tuttavia il De bono

comu-ni di Remigio svolge l’argomento in modo originale: sulla base concettuale, aristotelica e teologica, di Tommaso, Remigio innesta una descrizione detta-gliata della situazione di Firenze e un’intelligente proposta di soluzione poli-tica della crisi cittadina, calando in tal modo la teoria del bene comune nella realtà contemporanea di Firenze, e trasformando il “bene comune” nel “bene del Comune” (fiorentino), per ripetere un’incisiva formulazione del miglior conoscitore dell’opera di Remigio de’ Girolami8. Il bene comune a cui mira

Remigio nel suo trattato è quello della città. Ciò non comporta, naturalmente, che altri e più ampi orizzonti non gli siano accessibili, ma semplicemente che egli introduce la nozione di bene comune durante una congiuntura politica particolarmente difficile della vita fiorentina.

Prendiamo le mosse da un luogo dell’opera nel quale si legge che «totum plus habet de entitate quam pars. Totum enim ut totum est existens actu, pars vero ut pars non habet esse nisi in potentia, secundum Philosophum in VII Phi-sicorum». Altro è la parte compresa nel tutto, altro la parte separata dal tutto:

Pars [...] extra totum existens non est pars sicut prius dicebatur dum esset in toto. Manus enim abscisa non est manus nisi equivoce, puta sicut lapidea aut depicta, sicut patet per Philosophum et in II De anima et in VII Methaphisice et in I Politice; non enim habet operationes manus, puta sentire tangibilia, cibum ori porrigere, scalpere et huiusmodi9.

Equivoce è parola del linguaggio aristotelico medievale che si sostituisce l’omonimia di Aristotele, all’inizio delle sue Categorie:

Si dicono omonime le realtà che hanno in comune solo il nome, mentre la definizione dell’essenza corrispondente al nome è diversa; così, ad esempio, animale è sia l’essere umano sia il disegno; questi, infatti, hanno in comune solo il nome, mentre la defi-nizione dell’essenza corrispondente al nome è diversa. Volendo, infatti, esporre che cos’è l’essere animale per ciascuno dei due, si attribuirà a ciascuno una definizione propria10.

Firenze non risponde affatto ai requisiti di una città dove il bene comune rende armoniosa la vita collettiva; al contrario, rischia di essere una città di pietra, come Remigio ribadisce subito dopo:

esse partis dependet ab esse totius et non e converso, sicut posterius dependet a priori et non e converso; unde Philosophus in I Politice «Prius itaque civitas quam domus et di traduzione italiana, è stata pubblicata dallo stesso studioso più recentemente: Remigio de’ Giro-lami, Dal bene comune (2014). Di Panella è la cura del ricchissimo sito dedicato a Remigio de’ Gi-rolami: <http://www.e-theca.net/emiliopanella/remigio3/2000.htm> [consultato in aprile 2018]. 7 Si veda l’Index Thomisticus, consultabile in rete: <http://www.corpusthomisticum.org/it/ index.age> [consultato in aprile 2018].

8 Panella, p. 24.

9 Remigio de’ Girolami, De bono comuni, IX, in Panella, p. 170, cui rinvio anche per il com-mento.

10 Aristotele, Categorie 1a1.

unusquisque nostrum est; totum enim prius necessarium est esse parte. Interempto enim toto nec erit pes neque manus nisi equivoce, velut si quis dicat lapideam: cor-rupta enim erit talis. Omnia enim opere diffinita sunt et virtute; quare non iam talia existentia non dicendum eadem esse sed equivoca, quia scilicet carent operatione et virtute per quam diffiniuntur, sicut diffinitio pedis est quod est membrum organicum habens virtutem ad ambulandum. Unde destructa civitate remanet civis lapideus aut depictus, quia scilicet caret virtute et operatione quam prius habebat, puta miles in militaribus, mercator in mercationibus, artifex in artificialibus, officialis in officiali-bus, pater familias in familiariofficiali-bus, et universaliter liber in operibus liberis, puta ire ad podere suum, facere ambasciatas, habere dominia aliarum civitatum. Ut qui erat civis florentinus, per destructionem Florentie iam non sit florentinus dicendus sed potius flerentinus. Et si non est civis non est homo, quia homo est naturaliter animal civile, secundum Philosophum in VIII Ethicorum et in I Politice11.

Affiora un procedimento espressivo che si manifesta più vistosamente in due capitoli che si esamineranno nel prossimo paragrafo. Intanto, va os-servato che l’equivoco e l’esempio aristotelico sulla manus...lapidea aut de-picta è riformulato da Remigio nei termini, per lui urgentissimi, del civis... lapideus aut depictus. La transizione dalla manus al civis si deve all’argo-mento fondamentale del trattato e si giova forse della mediazione del latino, che distingue civitas da urbs, come ricorda Uguccione da Pisa: «est civitas hominum multitudo societatis vinculo adunata ad eodem iure vivendum; et civitas non saxa sed habitationes vocantur, sed urbs ipsa menia sunt» (Derivationes, E 85 27).

2. Prosa scolastica ed emergenze di espressivismo latino-fiorentino nel “De bono comuni”

Mi soffermo ora su due capitoli del De bono comuni nei quali il latino scolastico di Remigio cede a un espressivismo linguistico che spezza i confi-ni della rigorosa formalità scolastica dando luogo a un singolarissimo (e, se si può dire, fiorentinissimo) pastiche latino-volgare nel quale si intrecciano razionalità ed emotività dello scrittore, che intende esprimere anche in tal modo la drammatica situazione di Firenze, i pericoli che mettono a rischio la sopravvivenza della città, a causa delle violenze dei Guelfi Neri.

I due capitoli misurano la condizione di Firenze sul metro di due dei tre tipi di amicizia distinti da Aristotele nell’VIII libro dell’Etica Nicomachea, quelli fondati sul piacere e sull’utile (il terzo tipo si basa sulla virtù). L’amicizia fondata sulla bellezza corporea attecchisce soprattutto tra i giovani, sensibili all’attrazione fisica; quella sull’utile tra gli anziani. Queste amicizie sono en-trambe transitorie perché «gli amici non rimangono uguali a se stessi; infatti, qualora essi non risultino più reciprocamente piacevoli o utili, smettono di amarli»12. Non è però questo l’aspetto che interessa Remigio, bensì il legame 11 Remigio de’ Girolami, De bono comuni, IX, in Panella, pp. 138-139 (corsivi miei).

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del cittadino in rapporto alla bellezza e all’utilità della città di cui fa parte. Una Firenze nella quale non prevale il bene comune non può essere bella e attraente (oggi diremmo, forse, vivibile) per i suoi abitanti, intesi come un corpo sociale regolato da leggi.

Come i giovani sono attratti dalla sensualità e dalla bellezza fisica, così il cittadino ama la città per la sua bellezza; ma Firenze è bruttata da una rovina morale che ha conseguenze anche materiali. Il luogo è tratto dal capitolo 13, nel quale la superiorità del bene comune è dimostrata «ex parte corporalis de-lectabilitatis». Nel finale Remigio sperimenta una particolarissima modalità espressiva, eccezionale nella prosa scolastica:

Qualem [...] delectationem poterit habere civis florentinus videns statum civitatis sue tristabilem et summo plenum merore? Nam platee sunt explatiate idest evacuate, domus exdomificate, casata sunt cassata, parentele sunt exparentate, solatia sunt insollita, ludi videntur lusi idest perditi, dignitates videntur indignate idest potestarie et capitanerie que egrediebantur de civitate, officia videntur affacturata idest fasci-nata, scilicet prioratus, ambascerie et huiusmodi, poderia videntur expoderata quia arbores evulse, vinee precise, palatia destructa, et non est iam podere, idest posse, ut in eis habitetur vel eatur ad ea, nisi cum timore et tremore13.

Non meno transitoria, secondo Aristotele, è l’amicizia fondata sull’utile, dalla quale si lasciano prendere gli anziani. Idem probatur ex parte tempora-lis utilitatis è il titolo del capitolo 14: ma quale utile possono ricavare i citta-dini da una città malridotta? Non è garantita la divisione del lavoro, senza la quale una comunità non sussiste:

homines naturaliter congregantur et faciunt civitatem vel aliud comune propter utili-tatem propriam ad subveniendum defectibus vite humane quibus unus subvenire non potest, ut alter suppleat ubi alter deficit, quia unus facit calciamenta, alius domos, alius vestimenta, alius colit terram, alius facit arma, et sic de ceteris quibus indiget humana vita [...]14.

La prosa di Remigio s’impenna di nuovo nella seconda parte del capitolo:

Qualem enim utilitatem potest modo habere civis florentinus? Sotietates enim sunt dissotiate, fundacha – ut ita dicam – sunt exfundata, apoteche sunt abortate idest otiose et apostemate, artes sunt artheticate, mercationes facte sunt marcide, medici-ne sunt facte mendice, leges sunt ligate, curie decurtate, opera exoperata, laboreria sunt libera idest defecerunt, vicini sunt exvicinati, concordes sunt excordati, amici sunt inimicati, omnes fides sunt exfidate, corda sunt accorata et facta crudelia, vo-luntates sunt facte venenate, concivantes sunt exconcivati, ut ex destructione civitatis iam unus civis nec sibi nec alteri civi possit esse utilis sed dampnosus15.

Nel più tardo De bono pacis tornano per contenuto e per lessico i due ca-pitoli del De bono comuni, senza però le trasgressioni linguistiche citate ora:

13 De bono comuni, XIV, in Panella, Dal bene comune, pp. 147-148 (corsivi miei). 14 Ibid., p. 149.

15 Ibid. (corsivi miei).

Unde destructa civitate, quod quidem fit per civium dissensionem quia civitas dicitur quasi civium unitas, ut dicit Hysidorus libro XV, remanet civis lapideus aut depictus, quia scilicet caret operatione et virtute quam prius habebat, puta miles in militaribus, mercator in mercationibus, artifex in artificialibus artis sue, officialis in officialibus, pater familias in familiaribus, et universaliter liber in operibus liberis, puta ire ad podere suum, facere ambasciatas, habere dominia aliarum civitatum et huiusmodi16.

3. Sulle circostanze del “De bono comuni” (e del “De bono pacis”)

Remigio de’ Girolami ha una chiara visione storica delle tre svolte che segnano la vita del comune fiorentino negli ultimi decenni del XIII secolo e nei primi anni del XIV: scrive infatti nel suo trattato Speculum che «num-quam tanta disiunctio seu contrarietas voluntatum fuit inter ghibellinos et guelfos vel inter plebem et ingenuos quanta nunc existere videtur inter albos et nigros»17. La prima svolta riguarda le alterne vicende delle lotte fiorentine

tra guelfi e ghibellini conclusesi con la definitiva cacciata dei ghibellini (basti rinviare all’incontro-scontro tra Dante e Farinata nel canto X dell’Inferno18);

la seconda i contrasti tra i magnati (gli ingenui) e i popolani (la plebs), che approda alla soluzione degli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bel-la (1293); Bel-la terza menziona esplicitamente i guelfi bianchi e i guelfi neri. Si trattava di vicende ben vive nella coscienza cittadina, e anche nella memo-ria familiare dei Girolami, che nella seconda metà del XIII secolo avevano compiuto una forte ascesa economica, guadagnando posizioni importanti soprattutto nell’Arte della Lana, e di conseguenza avevano conquistato una presenza cospicua nell’ufficio del priorato. Il loro ruolo cala a partire dal 1293, in seguito agli Ordinamenti di giustizia; successivamente aderiscono ai guelfi bianchi e a Vieri dei Cerchi19.

Remigio scrive nel momento in cui l’ostilità «inter albos et nigros», tra i Bianchi e i Neri, si è appena risolta in modo violento: il De bono comuni deve essere stato composto, infatti, a ridosso delle violenze dei Neri tornati a Fi-renze. Come si sa, la loro prevalenza era stata consentita dal favore di Carlo di Valois (fratello del re di Francia Filippo IV il Bello) che, venuto in Italia per contribuire alla riconquista della Sicilia ribellatasi alla dominazione an-gioina, permise ai Neri di rientrare in città e di compiere le loro vendette sui Bianchi. Nel suo attraversamento dell’Italia alla volta del Meridione, Carlo di Valois aveva ricevuto da Bonifacio VIII vari incarichi, tra cui quello di

ripor-16 De bono pacis, III, in Panella, pp. 174-175 (con i rinvii del commento).

17 Panella, Dal bene comune, p. 36. Il trattato è edito e studiato nel sito dedicato da Panella a Remigio de’ Girolami: <http://www.e-theca.net/emiliopanella/remigio/index.htm> [consulta-to in aprile 2018].

18 Va inoltre ricordata l’effimera pace del cardinal Latino (1280) che pacificò i Guelfi di Firenze e richiamò in città vari Ghibellini, anche perché ai riti di pacificazione partecipò Girolamo Gi-rolami, fratello di fra Remigio.

19 Sulla storia della famiglia si veda Panella, Dal bene comune, pp. 42-91, e sul fratello di Remi-gio si veda Ragone, Girolami, Girolamo.

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del cittadino in rapporto alla bellezza e all’utilità della città di cui fa parte. Una Firenze nella quale non prevale il bene comune non può essere bella e attraente (oggi diremmo, forse, vivibile) per i suoi abitanti, intesi come un corpo sociale regolato da leggi.

Come i giovani sono attratti dalla sensualità e dalla bellezza fisica, così il cittadino ama la città per la sua bellezza; ma Firenze è bruttata da una rovina morale che ha conseguenze anche materiali. Il luogo è tratto dal capitolo 13, nel quale la superiorità del bene comune è dimostrata «ex parte corporalis de-lectabilitatis». Nel finale Remigio sperimenta una particolarissima modalità espressiva, eccezionale nella prosa scolastica:

Qualem [...] delectationem poterit habere civis florentinus videns statum civitatis sue tristabilem et summo plenum merore? Nam platee sunt explatiate idest evacuate, domus exdomificate, casata sunt cassata, parentele sunt exparentate, solatia sunt insollita, ludi videntur lusi idest perditi, dignitates videntur indignate idest potestarie et capitanerie que egrediebantur de civitate, officia videntur affacturata idest fasci-nata, scilicet prioratus, ambascerie et huiusmodi, poderia videntur expoderata quia arbores evulse, vinee precise, palatia destructa, et non est iam podere, idest posse, ut in eis habitetur vel eatur ad ea, nisi cum timore et tremore13.

Non meno transitoria, secondo Aristotele, è l’amicizia fondata sull’utile, dalla quale si lasciano prendere gli anziani. Idem probatur ex parte tempora-lis utilitatis è il titolo del capitolo 14: ma quale utile possono ricavare i citta-dini da una città malridotta? Non è garantita la divisione del lavoro, senza la quale una comunità non sussiste:

homines naturaliter congregantur et faciunt civitatem vel aliud comune propter utili-tatem propriam ad subveniendum defectibus vite humane quibus unus subvenire non potest, ut alter suppleat ubi alter deficit, quia unus facit calciamenta, alius domos, alius vestimenta, alius colit terram, alius facit arma, et sic de ceteris quibus indiget humana vita [...]14.

La prosa di Remigio s’impenna di nuovo nella seconda parte del capitolo:

Qualem enim utilitatem potest modo habere civis florentinus? Sotietates enim sunt dissotiate, fundacha – ut ita dicam – sunt exfundata, apoteche sunt abortate idest otiose et apostemate, artes sunt artheticate, mercationes facte sunt marcide, medici-ne sunt facte mendice, leges sunt ligate, curie decurtate, opera exoperata, laboreria sunt libera idest defecerunt, vicini sunt exvicinati, concordes sunt excordati, amici sunt inimicati, omnes fides sunt exfidate, corda sunt accorata et facta crudelia, vo-luntates sunt facte venenate, concivantes sunt exconcivati, ut ex destructione civitatis iam unus civis nec sibi nec alteri civi possit esse utilis sed dampnosus15.

Nel più tardo De bono pacis tornano per contenuto e per lessico i due ca-pitoli del De bono comuni, senza però le trasgressioni linguistiche citate ora:

13 De bono comuni, XIV, in Panella, Dal bene comune, pp. 147-148 (corsivi miei). 14 Ibid., p. 149.

15 Ibid. (corsivi miei).

Unde destructa civitate, quod quidem fit per civium dissensionem quia civitas dicitur quasi civium unitas, ut dicit Hysidorus libro XV, remanet civis lapideus aut depictus, quia scilicet caret operatione et virtute quam prius habebat, puta miles in militaribus, mercator in mercationibus, artifex in artificialibus artis sue, officialis in officialibus, pater familias in familiaribus, et universaliter liber in operibus liberis, puta ire ad podere suum, facere ambasciatas, habere dominia aliarum civitatum et huiusmodi16.

3. Sulle circostanze del “De bono comuni” (e del “De bono pacis”)

Remigio de’ Girolami ha una chiara visione storica delle tre svolte che segnano la vita del comune fiorentino negli ultimi decenni del XIII secolo e nei primi anni del XIV: scrive infatti nel suo trattato Speculum che «num-quam tanta disiunctio seu contrarietas voluntatum fuit inter ghibellinos et guelfos vel inter plebem et ingenuos quanta nunc existere videtur inter albos et nigros»17. La prima svolta riguarda le alterne vicende delle lotte fiorentine

tra guelfi e ghibellini conclusesi con la definitiva cacciata dei ghibellini (basti rinviare all’incontro-scontro tra Dante e Farinata nel canto X dell’Inferno18);

la seconda i contrasti tra i magnati (gli ingenui) e i popolani (la plebs), che approda alla soluzione degli Ordinamenti di giustizia di Giano della Bel-la (1293); Bel-la terza menziona esplicitamente i guelfi bianchi e i guelfi neri. Si trattava di vicende ben vive nella coscienza cittadina, e anche nella memo-ria familiare dei Girolami, che nella seconda metà del XIII secolo avevano compiuto una forte ascesa economica, guadagnando posizioni importanti soprattutto nell’Arte della Lana, e di conseguenza avevano conquistato una presenza cospicua nell’ufficio del priorato. Il loro ruolo cala a partire dal 1293, in seguito agli Ordinamenti di giustizia; successivamente aderiscono ai guelfi bianchi e a Vieri dei Cerchi19.

Remigio scrive nel momento in cui l’ostilità «inter albos et nigros», tra i Bianchi e i Neri, si è appena risolta in modo violento: il De bono comuni deve essere stato composto, infatti, a ridosso delle violenze dei Neri tornati a Fi-renze. Come si sa, la loro prevalenza era stata consentita dal favore di Carlo di Valois (fratello del re di Francia Filippo IV il Bello) che, venuto in Italia per contribuire alla riconquista della Sicilia ribellatasi alla dominazione an-gioina, permise ai Neri di rientrare in città e di compiere le loro vendette sui Bianchi. Nel suo attraversamento dell’Italia alla volta del Meridione, Carlo di Valois aveva ricevuto da Bonifacio VIII vari incarichi, tra cui quello di

ripor-16 De bono pacis, III, in Panella, pp. 174-175 (con i rinvii del commento).

17 Panella, Dal bene comune, p. 36. Il trattato è edito e studiato nel sito dedicato da Panella a Remigio de’ Girolami: <http://www.e-theca.net/emiliopanella/remigio/index.htm> [consulta-to in aprile 2018].

18 Va inoltre ricordata l’effimera pace del cardinal Latino (1280) che pacificò i Guelfi di Firenze e richiamò in città vari Ghibellini, anche perché ai riti di pacificazione partecipò Girolamo Gi-rolami, fratello di fra Remigio.

19 Sulla storia della famiglia si veda Panella, Dal bene comune, pp. 42-91, e sul fratello di Remi-gio si veda Ragone, Girolami, Girolamo.

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tare la pace in Firenze, travagliata dalle rivalità tra guelfi bianchi e guelfi neri. Carlo di Valois entrò in città il 1° dicembre 1301 e ne ripartì il 12 febbraio 1302. Il suo ingresso fu salutato da un discorso ufficiale di Remigio de’ Girolami, di cui rimane una traccia, insieme con analoghe sintesi di altri discorsi del domenicano20. Il convento di Santa Maria Novella, infatti, era la sede che le

autorità laiche della città incaricavano, quando ancora non erano stati eret-ti gli edifici pubblici, di accogliere ufficialmente i personaggi importaneret-ti che giungevano in città21.

Nel suo discorso Remigio riserva, come è ovvio, molte lodi all’ospite, po-tente come individuo e, in crescendo, per la stirpe reale e per il favore del papa (valore superiore ai primi due); si dice certo che Carlo guida la spedizione a malincuore, per obbedire al sommo pontefice e badare all’utile altrui più che al proprio; gli augura infine di conquistare il regno. Sugli affari interni di Firenze e la missione di Carlo nella sua città, Remigio tace prudentemente. Durante i due mesi abbondanti della permanenza di Carlo di Valois in città, i Neri ebbero mano libera e poterono vendicarsi dei loro nemici, trucidarli o giustiziarli o esiliarli, e impadronirsi dei loro beni. Il De bono pacis si colloca cronologicamente intorno al 1304, ed è in sintonia con i tentativi di Benedetto XII (domenicano) e del suo inviato, il cardinale Niccolò da Prato (domenica-no anche lui), di restaurare la giustizia. Aspettava(domenica-no speranzosi, fuori delle mura cittadine, i Bianchi, ai quali Dante, che era tra loro, prestò inutilmente la penna per dichiarare che i fuoriusciti speravano di rientrare pacificamente in città (è la prima delle epistole dantesche).

Il concetto del bene comune, difeso vigorosamente e, come si è visto, ap-passionatamente nel De bono comuni, acquista in concretezza e in applicabilità politica nel De bono pacis, di poco posteriore al trattato precedente, databile dopo il fallimento della mediazione del cardinale da Prato. Remigio ribadisce il concetto del bene comune, premessa indispensabile perché si affermi il valore supremo della vita associata, che è la pace, e formula una proposta concreta, consistente nel consentire il rientro ai fuoriusciti i quali, da parte loro, dovreb-bero rinunciare a essere reintegrati nei beni confiscati. La clausola, che doveva facilitare la pacificazione, si estendeva ai beni ecclesiastici. Remigio era un re-ligioso, e anche in quanto membro della famiglia Girolami aveva da perdere, dal momento che i suoi tre nipoti, figli del fratello, Mompuccio, Chiaro e Giro-lamo, erano stati mandati al confino (e a Girolamo confiscati i beni). Solo una rinuncia avrebbe potuto facilitare la pacificazione; ma neppure questa propo-sta, tanto fondata idealmente quanto praticabile politicamente, ebbe esito, e le discordie e le guerre civili continuarono, a Firenze e altrove (e anche i Girolami si sarebbero divisi in Bianchi e Neri: come Remigio aveva denunciato, a pro-posito di altri casati, nel De bono comuni). Si deve riconoscere che, nel caso di

20 Il discorso per Carlo di Valois si legge, insieme con un’analisi del contenuto, in Panella, Dal bene comune, pp. 39-42. Importante il resoconto di Giovanni Villani, testimone oculare (Nuova cronica, IX.49; II, pp. 75-81); molto diversa la versione di Compagni, Cronica, II.13, p. 64. 21 Arnaldi, La maledizione, pp. 55-56.

Remigio, il bene comune non era un’idea avanzata, come tante altre volte nella storia, per nascondere interessi molto meno nobili.

4. Angioini e Aragonesi nel tempo di Dante: conflitto di espansionismi nel Mediterraneo occidentale e affinità spiritualistico-pauperistiche

Della monarchia francese Dante, come è noto, fu critico severissimo: nel canto XX del Purgatorio, attingendo a tradizioni spesso prive di fondamento storico, a Ugo Capeto e ai suoi successori attribuisce ogni vizio, personale e politico22; ed è eloquente il suo silenzio su Luigi IX, proclamato santo nel

1297 da Bonifacio VIII. Il fatto è che nella Francia Dante ravvisa l’ostacolo più potente all’affermazione del potere imperiale, l’unico che possa pacificare le divisioni e le guerre della società universale. Questa posizione antifrancese colloca Dante in una posizione radicalmente diversa da quella del comune di Firenze, che con la Francia aveva stretto da tempo forti legami commerciali, finanziari e politici, che dureranno fino alle guerre d’Italia avviate da Carlo VIII nel 1494. Nonostante le campagne italiane di Carlo VIII e di Luigi XII, infatti, ancora per Machiavelli, e anche per Guicciardini, la Francia resterà il punto essenziale di riferimento della politica estera di Firenze, e solo il con-gresso di Bologna tra Carlo V e Clemente VII (1530) determinerà un cambia-mento strutturale nella posizione politica di Firenze (a partire da Cosimo I dei Medici), come degli altri stati della penisola23.

L’opposizione di Dante alla Francia si estende al prolungamento italiano della casa di Francia in Italia, dunque agli Angioini del regno di Sicilia (che conservarono il titolo pur avendo perso dopo pochi anni il dominio sull’iso-la). La critica di Dante si concentra su Roberto d’Angiò, colpevole tra l’altro di aver ostacolato la consacrazione imperiale di Enrico VII a Roma, incoro-nato in San Giovanni in Laterano e non in San Pietro, presidiata da milizie ostili tra le quali erano quelle di Roberto d’Angiò. Invece Petrarca, una gene-razione dopo, è ammiratore incondizionato di Roberto d’Angiò, sommo re e sommo filosofo, come si legge nella rubrica della lettera IV 2 dei Familiarium rerum libri, a Dionigi di Borgo San Sepolcro24. Da Roberto d’Angiò Petrarca 22 Dante non inventa ma si fonda su tradizioni inattendibili che circolavano nel suo tempo (Ar-naldi, La maledizione, pp. 188-192).

23 Se la cultura fiorentina del XVI secolo rifiuta convintamente l’autenticità dantesca del De vulgari eloquentia, a causa del giudizio negativo sulle qualità del fiorentino, inadatto come tutti i volgari italiani alla lirica elevata, ancora più difficile risultò giustificare (e ancor meno accet-tare) le forti critiche della Commedia ai fondamenti stessi della società comunale e in partico-lare di Firenze, dove il potere fu esercitato, in ultima analisi, dagli eredi di coloro che avevano condannato Dante all’esilio, sicché anche la posizione antifrancese di Dante è un argomento sul quale la riappropriazione del grande esule risulta ardua o impossibile nella tradizione culturale cittadina (si veda Bruni, La proiezione dell’attualità politica).

24 Si veda anche Petrarca, Le Familiari IV 3.8, a Roberto d’Angiò, nella quale questi è lodato come philosophorum rex; e la IV 2.7 a Dionigi di Borgo San Sepolcro in cui Petrarca si chiede retoricamente: «Quis in Italia, imo vero quis in Europa clarior Roberto?».

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tare la pace in Firenze, travagliata dalle rivalità tra guelfi bianchi e guelfi neri. Carlo di Valois entrò in città il 1° dicembre 1301 e ne ripartì il 12 febbraio 1302. Il suo ingresso fu salutato da un discorso ufficiale di Remigio de’ Girolami, di cui rimane una traccia, insieme con analoghe sintesi di altri discorsi del domenicano20. Il convento di Santa Maria Novella, infatti, era la sede che le

autorità laiche della città incaricavano, quando ancora non erano stati eret-ti gli edifici pubblici, di accogliere ufficialmente i personaggi importaneret-ti che giungevano in città21.

Nel suo discorso Remigio riserva, come è ovvio, molte lodi all’ospite, po-tente come individuo e, in crescendo, per la stirpe reale e per il favore del papa (valore superiore ai primi due); si dice certo che Carlo guida la spedizione a malincuore, per obbedire al sommo pontefice e badare all’utile altrui più che al proprio; gli augura infine di conquistare il regno. Sugli affari interni di Firenze e la missione di Carlo nella sua città, Remigio tace prudentemente. Durante i due mesi abbondanti della permanenza di Carlo di Valois in città, i Neri ebbero mano libera e poterono vendicarsi dei loro nemici, trucidarli o giustiziarli o esiliarli, e impadronirsi dei loro beni. Il De bono pacis si colloca cronologicamente intorno al 1304, ed è in sintonia con i tentativi di Benedetto XII (domenicano) e del suo inviato, il cardinale Niccolò da Prato (domenica-no anche lui), di restaurare la giustizia. Aspettava(domenica-no speranzosi, fuori delle mura cittadine, i Bianchi, ai quali Dante, che era tra loro, prestò inutilmente la penna per dichiarare che i fuoriusciti speravano di rientrare pacificamente in città (è la prima delle epistole dantesche).

Il concetto del bene comune, difeso vigorosamente e, come si è visto, ap-passionatamente nel De bono comuni, acquista in concretezza e in applicabilità politica nel De bono pacis, di poco posteriore al trattato precedente, databile dopo il fallimento della mediazione del cardinale da Prato. Remigio ribadisce il concetto del bene comune, premessa indispensabile perché si affermi il valore supremo della vita associata, che è la pace, e formula una proposta concreta, consistente nel consentire il rientro ai fuoriusciti i quali, da parte loro, dovreb-bero rinunciare a essere reintegrati nei beni confiscati. La clausola, che doveva facilitare la pacificazione, si estendeva ai beni ecclesiastici. Remigio era un re-ligioso, e anche in quanto membro della famiglia Girolami aveva da perdere, dal momento che i suoi tre nipoti, figli del fratello, Mompuccio, Chiaro e Giro-lamo, erano stati mandati al confino (e a Girolamo confiscati i beni). Solo una rinuncia avrebbe potuto facilitare la pacificazione; ma neppure questa propo-sta, tanto fondata idealmente quanto praticabile politicamente, ebbe esito, e le discordie e le guerre civili continuarono, a Firenze e altrove (e anche i Girolami si sarebbero divisi in Bianchi e Neri: come Remigio aveva denunciato, a pro-posito di altri casati, nel De bono comuni). Si deve riconoscere che, nel caso di

20 Il discorso per Carlo di Valois si legge, insieme con un’analisi del contenuto, in Panella, Dal bene comune, pp. 39-42. Importante il resoconto di Giovanni Villani, testimone oculare (Nuova cronica, IX.49; II, pp. 75-81); molto diversa la versione di Compagni, Cronica, II.13, p. 64. 21 Arnaldi, La maledizione, pp. 55-56.

Remigio, il bene comune non era un’idea avanzata, come tante altre volte nella storia, per nascondere interessi molto meno nobili.

4. Angioini e Aragonesi nel tempo di Dante: conflitto di espansionismi nel Mediterraneo occidentale e affinità spiritualistico-pauperistiche

Della monarchia francese Dante, come è noto, fu critico severissimo: nel canto XX del Purgatorio, attingendo a tradizioni spesso prive di fondamento storico, a Ugo Capeto e ai suoi successori attribuisce ogni vizio, personale e politico22; ed è eloquente il suo silenzio su Luigi IX, proclamato santo nel

1297 da Bonifacio VIII. Il fatto è che nella Francia Dante ravvisa l’ostacolo più potente all’affermazione del potere imperiale, l’unico che possa pacificare le divisioni e le guerre della società universale. Questa posizione antifrancese colloca Dante in una posizione radicalmente diversa da quella del comune di Firenze, che con la Francia aveva stretto da tempo forti legami commerciali, finanziari e politici, che dureranno fino alle guerre d’Italia avviate da Carlo VIII nel 1494. Nonostante le campagne italiane di Carlo VIII e di Luigi XII, infatti, ancora per Machiavelli, e anche per Guicciardini, la Francia resterà il punto essenziale di riferimento della politica estera di Firenze, e solo il con-gresso di Bologna tra Carlo V e Clemente VII (1530) determinerà un cambia-mento strutturale nella posizione politica di Firenze (a partire da Cosimo I dei Medici), come degli altri stati della penisola23.

L’opposizione di Dante alla Francia si estende al prolungamento italiano della casa di Francia in Italia, dunque agli Angioini del regno di Sicilia (che conservarono il titolo pur avendo perso dopo pochi anni il dominio sull’iso-la). La critica di Dante si concentra su Roberto d’Angiò, colpevole tra l’altro di aver ostacolato la consacrazione imperiale di Enrico VII a Roma, incoro-nato in San Giovanni in Laterano e non in San Pietro, presidiata da milizie ostili tra le quali erano quelle di Roberto d’Angiò. Invece Petrarca, una gene-razione dopo, è ammiratore incondizionato di Roberto d’Angiò, sommo re e sommo filosofo, come si legge nella rubrica della lettera IV 2 dei Familiarium rerum libri, a Dionigi di Borgo San Sepolcro24. Da Roberto d’Angiò Petrarca 22 Dante non inventa ma si fonda su tradizioni inattendibili che circolavano nel suo tempo (Ar-naldi, La maledizione, pp. 188-192).

23 Se la cultura fiorentina del XVI secolo rifiuta convintamente l’autenticità dantesca del De vulgari eloquentia, a causa del giudizio negativo sulle qualità del fiorentino, inadatto come tutti i volgari italiani alla lirica elevata, ancora più difficile risultò giustificare (e ancor meno accet-tare) le forti critiche della Commedia ai fondamenti stessi della società comunale e in partico-lare di Firenze, dove il potere fu esercitato, in ultima analisi, dagli eredi di coloro che avevano condannato Dante all’esilio, sicché anche la posizione antifrancese di Dante è un argomento sul quale la riappropriazione del grande esule risulta ardua o impossibile nella tradizione culturale cittadina (si veda Bruni, La proiezione dell’attualità politica).

24 Si veda anche Petrarca, Le Familiari IV 3.8, a Roberto d’Angiò, nella quale questi è lodato come philosophorum rex; e la IV 2.7 a Dionigi di Borgo San Sepolcro in cui Petrarca si chiede retoricamente: «Quis in Italia, imo vero quis in Europa clarior Roberto?».

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fu esaminato nel 1341 in vista della laurea conferitagli a Roma, e del sovrano angioino, morto poco dopo (1343), tesse le lodi lungo tutto l’arco delle Fami-liares (e in altre opere), fino alla lettera poetica a Virgilio, nell’ultimo libro: «Parthenope infelix rapto gemit orba Roberto, / multorumque dies annorum sustulit unus / prospera; nunc dubiis pendet plebs anxia fatis, / innocuamque premunt paucorum crimina turbam» (XXIV 11, vv. 34-37); e più di una volta l’accosta all’imperatore Augusto.

Nel passo della lettera a Virgilio si legge che dopo la morte di Roberto il popolo del Regno vive nell’incertezza: di fatto, premortogli il figlio Carlo, Ro-berto rimase senza figli maschi, e il trono andò alla figlia di Carlo, Giovanna. Per il regno meridionale fu l’inizio di lunghe turbolenze, e Petrarca ebbe modo di accorgersene prontamente quando, nel 1343, fu incaricato di un’ambasce-ria a Napoli dal papa Clemente VI e dal cardinale Giovanni Colonna. Alcune lettere descrivono una città pericolosa e imbarbarita, e suggeriscono una ra-pida decadenza sotto il nuovo governo. In questa sede interessa una lettera al cardinale Colonna nella quale Petrarca si sofferma su un personaggio, ritratto negativamente, molto influente nel consiglio di corte:

horrendum tripes animal [perché cammina appoggiandosi a un bastone], nudis pe-dibus, aperto capite, paupertate superbum, marcidum delitiis, vidi; homunculum vul-sum ac rubicundum, obesis clunibus, inopi vix pallio contectum et bonam corporis partem de industria retegentem; atque, in hoc habitu, non solum tuos sed Romani quoque Pontificis affatus, velut ex alta sanctitatis sue specula, insolentissime contem-nentem. Nec miratus sum; radicatam in auro superbiam secum fert; multum enim, ut omnium fama est, arca eius et toga dissentiunt. Ac ne sacrum nomen ignores, Rober-tus dicitur. In illius Roberti serenissimi nuper regis locum, quod unum decus etatis nostre fuerat, eternum dedecus Robertus iste surrexit (Petrarca, Le Familiari V 3.9).

Il Roberto raffigurato così negativamente è il francescano Roberto da Mi-leto25, che Petrarca mette in rapporto contrastivo con Roberto d’Angiò e ne

ricava un indicatore del passaggio dal monarca perfetto alla nuova, negativa condizione della corte angioina e del regno. Se Petrarca coglie prontamente il deterioramento della corte angioina, è però una forzatura giudicare una no-vità il ruolo importante, o almeno la presenza a corte di Roberto da Mileto: non era un effetto della crisi del Regno dopo la morte di Roberto d’Angiò, ma una presenza più antica, che si doveva proprio a Roberto e alla regina San-cia di Maiorca, sua seconda moglie, entrambi vicini all’ordine francescano, in particolare all’ala degli Spirituali26. Questo orientamento religioso s’intreccia

con la rivalità politico-militare che divide gli Angioini e gli Aragonesi: en-trambe le dinastie sono esposte all’influenza degli ambienti francescani spi-rituali, propiziata anche, come si dirà, dalla politica matrimoniale che le

ap-25 L’identificazione si deve a Forcellini, L’“Horrendum tripes animal”.

26 Anche da questo lavoro, per quanto dedicato agli Spirituali in alcune delle loro articolazioni, risulta che Roberto e Sancha furono larghi di protezione ad altri ordini e personalità del mondo ecclesiastico. Su ciò si veda più ampiamente Paciocco, Angioini e “Spirituali”.

parentava nel tentativo di rappacificarle. In particolare, Roberto da Mileto27

è attestato a Napoli già nel 1329, risulta in contatto con Angelo Clareno, uno degli Spirituali italiani più noti (fraticelli nel volgare italiano del XIV secolo) ed è in rapporto con Filippo di Maiorca, fratello di Sancia28, anche lui vicino

agli Spirituali e loro protettore, al quale si deve l’introduzione di Roberto da Mileto a corte. Filippo aveva tra l’altro rinunciato a una nomina vescovile29.

Dopo la morte di Roberto d’Angiò la posizione di Roberto da Mileto a corte si rafforzò, ma la presenza di questi gruppi religiosi, perseguitati nel tempo di Giovanni XXII, precede di molti anni la fine del suo lungo regno, durante il quale si verificarono, inevitabilmente, sviluppi diversi in rapporto al suo ruolo nelle mutevoli condizioni del dominio meridionale, del quadro italiano, delle relazioni con il Papato e l’Impero (nel tempo della discesa in Italia di Enrico VII, e dopo); furono dinamiche anche l’immagine pubblica della monarchia, e il re seppe sviluppare nuovi orientamenti intellettuali, o meglio integrarli e aggiungerli a quelli della sua formazione, grazie in primo luogo all’incontro con il Petrarca. Quella di re Roberto protettore della cultura e della poesia inaugura una fase nuova della cultura del re e della sua immagine pubblica, rispetto a quella contrassegnata dall’attività di predicatore e di dotto esper-tissimo in filosofia, teologia, diritto, medicina, insomma nelle scienze univer-sitarie indifferenti alla poesia e alla storia.

Scrive Boccaccio, riecheggiando la svolta segnata dall’incontro con Pe-trarca, che solo in tarda età Roberto si accorse del valore della poesia, e scoprì la profondità dottrinale della parola poetica: la lettura allegorica superava la concezione della poesia come produzione di favole arbitrarie e fantasiose, e permetteva di scoprire, sotto la lettera, profondità insospettate. Prima di al-lora, erano apparsi al re molto più sostanziosi gli insegnamenti della teologia o del diritto30.

Conviene partire dal rapporto della casa reale di Francia con la santità, che non si esaurisce con la canonizzazione di Luigi IX, il re santo. Questi era zio di Carlo II d’Angiò, successore di Carlo I d’Angiò sul trono di Sicilia; nel 1269 Carlo II aveva sposato Maria d’Ungheria, figlia del re d’Ungheria Stefano

27 La sua appartenenza al ramo spirituale è rivelata dai tocchi descrittivi di Petrarca riguar-danti, tra l’altro, l’ostentazione della povertà, manifestata dai piedi scalzi e dal corpo a sten-to copersten-to dall’abisten-to. Proprio sull’abisten-to degli Spirituali aveva insististen-to nel 1317 un decresten-to del papa Giovanni XXII, che nell’abbigliamento povero e stracciato individua la manifestazione di una disobbedienza che ha riscontro anche nelle posizioni dottrinali degli Spirituali (Bullarium Franciscanum, pp. 128-130).

28 Léonard, La jeunesse de la Reine Jeanne, I, pp. 210-211. Su Filippo di Maiorca, giunto a Napoli nello stesso 1329 in cui è attestata la presenza a corte di Roberto da Mileto, si veda Vidal, Un ascète de sang royal, e più recentemente Musto, Franciscan Joachimism, in particolare pp. 447-453.

29 Si veda Musto, Queen Sancia of Naples, pp. 195-214.

30 Si veda la nota testimonianza del Boccaccio sulla conversione di Roberto alle lettere nelle Genealogie deorum gentilium, XIV 22.5 (II, p. 1502). Nonostante l’«adtestatio rei auditae», è probabile che Boccaccio dipenda dai Rerum memorandarum libri di Petrarca, I, 37.12, p. 41: si veda la nota 240 di Zaccaria al luogo cit., Giovanni Boccaccio, Genealogie, pp. 1714-1715. Sulla nuova fase di Roberto negli ultimi anni di regno si veda Barbero, Il mito angioino, pp. 150-162.

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fu esaminato nel 1341 in vista della laurea conferitagli a Roma, e del sovrano angioino, morto poco dopo (1343), tesse le lodi lungo tutto l’arco delle Fami-liares (e in altre opere), fino alla lettera poetica a Virgilio, nell’ultimo libro: «Parthenope infelix rapto gemit orba Roberto, / multorumque dies annorum sustulit unus / prospera; nunc dubiis pendet plebs anxia fatis, / innocuamque premunt paucorum crimina turbam» (XXIV 11, vv. 34-37); e più di una volta l’accosta all’imperatore Augusto.

Nel passo della lettera a Virgilio si legge che dopo la morte di Roberto il popolo del Regno vive nell’incertezza: di fatto, premortogli il figlio Carlo, Ro-berto rimase senza figli maschi, e il trono andò alla figlia di Carlo, Giovanna. Per il regno meridionale fu l’inizio di lunghe turbolenze, e Petrarca ebbe modo di accorgersene prontamente quando, nel 1343, fu incaricato di un’ambasce-ria a Napoli dal papa Clemente VI e dal cardinale Giovanni Colonna. Alcune lettere descrivono una città pericolosa e imbarbarita, e suggeriscono una ra-pida decadenza sotto il nuovo governo. In questa sede interessa una lettera al cardinale Colonna nella quale Petrarca si sofferma su un personaggio, ritratto negativamente, molto influente nel consiglio di corte:

horrendum tripes animal [perché cammina appoggiandosi a un bastone], nudis pe-dibus, aperto capite, paupertate superbum, marcidum delitiis, vidi; homunculum vul-sum ac rubicundum, obesis clunibus, inopi vix pallio contectum et bonam corporis partem de industria retegentem; atque, in hoc habitu, non solum tuos sed Romani quoque Pontificis affatus, velut ex alta sanctitatis sue specula, insolentissime contem-nentem. Nec miratus sum; radicatam in auro superbiam secum fert; multum enim, ut omnium fama est, arca eius et toga dissentiunt. Ac ne sacrum nomen ignores, Rober-tus dicitur. In illius Roberti serenissimi nuper regis locum, quod unum decus etatis nostre fuerat, eternum dedecus Robertus iste surrexit (Petrarca, Le Familiari V 3.9).

Il Roberto raffigurato così negativamente è il francescano Roberto da Mi-leto25, che Petrarca mette in rapporto contrastivo con Roberto d’Angiò e ne

ricava un indicatore del passaggio dal monarca perfetto alla nuova, negativa condizione della corte angioina e del regno. Se Petrarca coglie prontamente il deterioramento della corte angioina, è però una forzatura giudicare una no-vità il ruolo importante, o almeno la presenza a corte di Roberto da Mileto: non era un effetto della crisi del Regno dopo la morte di Roberto d’Angiò, ma una presenza più antica, che si doveva proprio a Roberto e alla regina San-cia di Maiorca, sua seconda moglie, entrambi vicini all’ordine francescano, in particolare all’ala degli Spirituali26. Questo orientamento religioso s’intreccia

con la rivalità politico-militare che divide gli Angioini e gli Aragonesi: en-trambe le dinastie sono esposte all’influenza degli ambienti francescani spi-rituali, propiziata anche, come si dirà, dalla politica matrimoniale che le

ap-25 L’identificazione si deve a Forcellini, L’“Horrendum tripes animal”.

26 Anche da questo lavoro, per quanto dedicato agli Spirituali in alcune delle loro articolazioni, risulta che Roberto e Sancha furono larghi di protezione ad altri ordini e personalità del mondo ecclesiastico. Su ciò si veda più ampiamente Paciocco, Angioini e “Spirituali”.

parentava nel tentativo di rappacificarle. In particolare, Roberto da Mileto27

è attestato a Napoli già nel 1329, risulta in contatto con Angelo Clareno, uno degli Spirituali italiani più noti (fraticelli nel volgare italiano del XIV secolo) ed è in rapporto con Filippo di Maiorca, fratello di Sancia28, anche lui vicino

agli Spirituali e loro protettore, al quale si deve l’introduzione di Roberto da Mileto a corte. Filippo aveva tra l’altro rinunciato a una nomina vescovile29.

Dopo la morte di Roberto d’Angiò la posizione di Roberto da Mileto a corte si rafforzò, ma la presenza di questi gruppi religiosi, perseguitati nel tempo di Giovanni XXII, precede di molti anni la fine del suo lungo regno, durante il quale si verificarono, inevitabilmente, sviluppi diversi in rapporto al suo ruolo nelle mutevoli condizioni del dominio meridionale, del quadro italiano, delle relazioni con il Papato e l’Impero (nel tempo della discesa in Italia di Enrico VII, e dopo); furono dinamiche anche l’immagine pubblica della monarchia, e il re seppe sviluppare nuovi orientamenti intellettuali, o meglio integrarli e aggiungerli a quelli della sua formazione, grazie in primo luogo all’incontro con il Petrarca. Quella di re Roberto protettore della cultura e della poesia inaugura una fase nuova della cultura del re e della sua immagine pubblica, rispetto a quella contrassegnata dall’attività di predicatore e di dotto esper-tissimo in filosofia, teologia, diritto, medicina, insomma nelle scienze univer-sitarie indifferenti alla poesia e alla storia.

Scrive Boccaccio, riecheggiando la svolta segnata dall’incontro con Pe-trarca, che solo in tarda età Roberto si accorse del valore della poesia, e scoprì la profondità dottrinale della parola poetica: la lettura allegorica superava la concezione della poesia come produzione di favole arbitrarie e fantasiose, e permetteva di scoprire, sotto la lettera, profondità insospettate. Prima di al-lora, erano apparsi al re molto più sostanziosi gli insegnamenti della teologia o del diritto30.

Conviene partire dal rapporto della casa reale di Francia con la santità, che non si esaurisce con la canonizzazione di Luigi IX, il re santo. Questi era zio di Carlo II d’Angiò, successore di Carlo I d’Angiò sul trono di Sicilia; nel 1269 Carlo II aveva sposato Maria d’Ungheria, figlia del re d’Ungheria Stefano

27 La sua appartenenza al ramo spirituale è rivelata dai tocchi descrittivi di Petrarca riguar-danti, tra l’altro, l’ostentazione della povertà, manifestata dai piedi scalzi e dal corpo a sten-to copersten-to dall’abisten-to. Proprio sull’abisten-to degli Spirituali aveva insististen-to nel 1317 un decresten-to del papa Giovanni XXII, che nell’abbigliamento povero e stracciato individua la manifestazione di una disobbedienza che ha riscontro anche nelle posizioni dottrinali degli Spirituali (Bullarium Franciscanum, pp. 128-130).

28 Léonard, La jeunesse de la Reine Jeanne, I, pp. 210-211. Su Filippo di Maiorca, giunto a Napoli nello stesso 1329 in cui è attestata la presenza a corte di Roberto da Mileto, si veda Vidal, Un ascète de sang royal, e più recentemente Musto, Franciscan Joachimism, in particolare pp. 447-453.

29 Si veda Musto, Queen Sancia of Naples, pp. 195-214.

30 Si veda la nota testimonianza del Boccaccio sulla conversione di Roberto alle lettere nelle Genealogie deorum gentilium, XIV 22.5 (II, p. 1502). Nonostante l’«adtestatio rei auditae», è probabile che Boccaccio dipenda dai Rerum memorandarum libri di Petrarca, I, 37.12, p. 41: si veda la nota 240 di Zaccaria al luogo cit., Giovanni Boccaccio, Genealogie, pp. 1714-1715. Sulla nuova fase di Roberto negli ultimi anni di regno si veda Barbero, Il mito angioino, pp. 150-162.

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