CAPITOLO I
AMMINISTRATORI INDIPENDENTI
1. PROFILI EVOLUTIVI ... 4
1.1 LA CORPORATE GOVERNANCE DOPO I CRACK FINANZIARI ... 4
1.2 LE PUBLIC COMPANIES, SEPARAZIONE TRA PROPRIETA’ E CONTROLLO: PROBLEMI DI AGENCY ... 5
1.2.1 (SEGUE) SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE ... 8
CAPITOLO II
NOZIONE E DISCIPLINA DEGLI AMMINISTRATORI
INDIPENDENTI
2. GLI AMMINISTRATORI INDIPENDENTI, TRA FONTI PUBBLICHE E PRIVATE ... 132.1 I DUE GRADI DELL’INDIPENDENZA ... 13
2.2 L’AMBITO DI APPLICAZIONE DEL REQUISITO DELL’INDIPENDENZA . 15 2.3 DEFINIZIONE DEL REQUISITO DELL’INDIPENDENZA ... 32
2.2.1 LA DIREZIONE DELL’INDIPENDENZA ... 32
2.2.2 (SEGUE) AMMINISTRATORI INDIPENDENTI, AMMINISTRATORI DI MINORANZA: MODELLI COINCIDENTI, ALTERNATIVI O COMPLEMENTARI? ... 41
2.2.3 IL CONTENUTO DELL’INDIPENDENZA ... 45
2.4 I PROFILI APPLICATIVI DELL’ISTITUTO ... 62
CAPITOLO III
AMMINISTRATORI INDIPENDENTI
3. LA MISSIONE DELL’AMMINISTRATORE INDIPENDENTE ... 75 3.1 I POTERI GESTORI ... 75 3.2 LE SPEFICHE COMPETENZE DELL’AMMINISTRATORE INDIPENDENTE
SECONDO LA LEGGE E IL CODICE DI AUTODISCIPLINA ... 89 3.3 I DOVERI QUALIFICATI DEGLI AMMINISTRATORI INDIPENDENTI ... 93
3.2.1 L’ASSIMETRIA TRA IL RUOLO E GLI STRUMENTI D’INTERVENTO DELL’AMMINISTRATORE INDIPENDENTE (SEGUE) ... 96
CAPITOLO IV
LA RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI INDIPENDENTI
VERSO LA SOCIETÀ
4. NUOVI PROFILI DEL CRITERIO DI DILIGENZA E DEL PRINICIPIO DELLA SOLIDARIETA’ ... 100 4.1 LA RESPONSABILITA’ PER FASCE ... 100
CAPITOLO V
AMMINISTRATORI INDIPENDENTI: MITO O REALTÀ?
CAPITOLO I
AMMINISTRATORI INDIPENDENTI
1.
PROFILI EVOLUTIVI
1.1 LA CORPORATE GOVERNANCE DOPO I CRACK FINANZIARI
Il caso Enron ha posto in evidenza una serie di problematiche aventi una rilevanza politica internazionale. Il crack dell’Enron ha ulteriormente dimostrato come un buon governo societario sia essenziale per il corretto funzionamento dei mercati finanziari e per la qualità dell’informativa finanziaria. Dagli Stati Uniti, la tematica della corporate governance, del potere e del controllo nelle società per azioni, si è diffusa anche nel continente europeo1. Il dibattito internazionale dell’ultimo ventennio si è così concentrato sull’opportunità di agire sulle regole di corporate governance allo scopo di minimizzare i comportamenti opportunistici degli amministratori ed impedire loro di agire in contrasto con l’interesse sociale2. Le reazioni normative ai recenti dissesti finanziari (dapprima negli Stati Uniti e poi sul continente europeo, caso Parmalat) hanno fatto sì che i modelli di corporate governance convergessero verso un unico paradigma dominante3. La convergenza riconoscibile negli interventi di riforma attuati
1 Per una disamina degli aspetti di diritto societario comparato, v. “Nuovi modelli di corporate
governance”, P.PANICO, 2004, p. 11s.
2 Critico sul punto è G.ROSSI, , secondo cui la corporate governance appartiene alla nuova “mitologia
societaria, ci sarebbe un eccesso di fede sulla capacità delle nuove regole e strutture di disinfettare le società per azioni”, in “Le regole di corporate governance sono in grado di incidere sul comportamento degli amministratori?”, Riv. Società, 2001, p. 7s.
3
Di diverso avviso è G.ROSSI (nt 1), secondo cui “né la concorrenza internazionale fra ordinamenti, né la
globalizzazione economica sono in grado di far convergere le forme e le funzioni svolte dalle regole di corporate governance verso un modello comune e universalmente valido. Inoltre qualora vi fosse una pur parziale convergenza tra le regole di corporate governance adottate nei diversi ordinamenti, esse avrebbero un’influenza molto limitata sulle strutture societarie”.
in numerosi Paesi occidentali è diretta verso il modello di governo societario incentrato sull’ottica dell’impresa come valore per i suoi azionisti, o shareholders value4
.
E’ possibile intravedere alcune linee strategiche comuni nell’opera di ripensamento dei sistemi di corporate governance:
- Il rafforzamento della posizione degli azionisti di minoranza ( modalità più agevoli di partecipazione all’assemblea, eliminazione dei limiti alla promozione di azioni legali contro gli amministratori, miglioramento delle condizioni di informazioni).
- Innalzamento degli standard di diligenza, responsabilità ed indipendenza degli amministratori.
- Potenziamento dei controlli interni, sia quelli di merito sulla gestione che quelli di legalità sostanziale, riservando quelli tecnici contabili a revisori esterni.
- Necessità di procedere per gradi all’attuazione di queste linee, privilegiando forme di autoregolamentazione piuttosto che norme imperative5.
Tali linee di tendenza sono conformi a quanto ora previsto dal Testo Unico dei mercati finanziari per le società italiane con titoli quotati.
1.2 LE PUBLIC COMPANIES, SEPARAZIONE TRA PROPRIETA’ E
CONTROLLO: PROBLEMI DI AGENCY
4
In base a tale teoria, la società dovrebbe selezionare quelle opportunità di investimento che ne aumentano il valore di mercato di lungo periodo. G.FERRARRINI, in “Valore per gli azionisti e governo
societario”,2002, evidenzia come tale filosofia, sviluppatasi nel contesto societario statunitense, abbia
ormai trovato riconoscimento e tutela nel governo delle società quotate italiane. 5
In tal senso si esprime M.DRAGHI, “ Il Testo Unico della finanza nel panorama dei sistemi di corporate
governance”, in Il controllo delle imprese italiane la necessità di una riforma/diretto da S.DE ANGELI,
2000 ,Milano. Cfr. D.REGOLI, “Amministratori indipendenti”, in Il Nuovo Diritto delle Società: Liber Amicorum di G.F.Campobasso/diretto da P.Abbadessa.
Per comprendere la portata e le implicazioni del processo di convergenza tra sistemi di corporate governance attualmente in atto su scala globale, è utile soffermarsi brevemente sull’esperienza inglese. Il Regno Unito è infatti punto di riferimento per questo processo sotto almeno due punti di vista. In primo luogo, i principi di corporate governance contenuti nelle misure di riforma attuate nei vari Paesi, derivano in larga parte dalle riflessioni codificate nei rapporti di autodisciplina ( codes of best practice) elaborati a Londra a partire dal 19926. In secondo luogo, il modello di corporate governance incentrato sul valore dell’investimento per gli azionisti è il risultato della particolare forma societaria prevalente nel Regno unito e negli Stati Uniti, ossia la società quotata in borsa ad azionariato diffuso e caratterizzata dalla separazione tra proprietà e controllo7. Con l’ampliamento della compagine azionaria , per effetto delle offerte pubbliche di azioni in borsa, i proprietari delle corporations, gli azionisti, si trovano ad avere sempre meno opportunità di controllare l’operato dei manager. Questo sistema ha presentato notevoli vantaggi, in quanto ha reso disponibili risorse finanziarie che hanno consentito alle imprese di attuare programmi di espansione o di acquisizione. La selezione di manager di professione ha rappresentato un cambiamento epocale nelle tecniche di gestione ed un conseguente guadagno in termini di efficienza rispetto alla caratteristica impresa di piccole dimensioni a conduzione familiare. Tale modello presenta tuttavia anche degli elementi di svantaggio. Quest’ultimi sono stati per la prima
6 Cadbury Code, Greenbury Committee report, Hampel Committee. 7
Cosiddetta BERLE-MEANS corporation. Il tema del managerialismo emerge per la prima volta dagli studi di Berle e Means, che spiegano come la diffusione della proprietà nelle grandi corporazioni statunitensi, realizzata attraverso l’azionariato diffuso, abbia condotto alla separazione tra proprietà e controllo.
volta identificati e definiti negli anni 70 con la nozione di problemi di agency8. I manager, in quanto “mandatari” degli azionisti, dovrebbero operare nell’interesse di quest’ultimi in vista di massimizzare il valore della loro partecipazione. Ma spesso i manager possono indulgere in comportamenti orientati al proprio interesse personale, in conflitto o a danno di quello degli azionisti. Buona parte dei provvedimenti di corporate governance elaborati nel contesto anglo-americano sono tesi a dare soluzione a questo problema di agency tra manager e azionisti9. Un caso emblematico è quello degli amministratori indipendenti10. Per creare sistemi di controllo in seno al consiglio di amministrazione ed evitare che vengano assunte decisioni non conformi al principio dello shareholder’s value, tutti i codici di best practice raccomandano l’inserimento di amministratori indipendenti in consiglio. Gli amministratori indipendenti sono divenuti nel diritto societario anglo-sassone elemento necessario per garantire la buona governance . Nell’ottica di un rafforzamento del sistema dei controlli interni, questa strada è stata seguita anche nel nostro ordinamento, prima a livello di autoregolamentazione e poi a livello normativo11. Il codice di Autodisciplina delle società quotate di Borsa Italiana, fin dall’originaria versione del 1999, ha raccomandato la presenza di amministratori indipendenti nei consigli di amministrazione delle società
8
In tal senso si esprimono M.BELCREDI E L.CAPRIO, “Struttura del CdA ed efficienza della corporate
governance”, in AGE, 1/2003, p. 62, <<Le relazioni tra gestore delle attività aziendali (manager) e finanziatori è generalmente inquadrata nella teoria dell’agenzia (JENSEN, MECKLING, 1976), che ha il pregio di cogliere il possibile disallineamento di interessi tra agente-gestore e finanziatore, ciascuno interessato alla massimizzazione della propria personale utilità attesa>>.
9
Per un approfondimento sull’esperienza inglese, v. P.PANICO, “Nuovi modelli di corporate governance”, 2000. P.17s.
10
Per un esame del ruolo svolto dagli amministratori indipendenti nel modello societario anglosassone, v. R.LENER, “Amministratori indipendenti nella riforma del diritto societario”, in Profili e problemi dell’amministrazione nella riforma delle società, a cura di G.SCOGNAMIGLIO, 2003, p 125ss.
11
In tal senso D.REGOLI, “Gli amministratori indipendenti tra fonti private e pubbliche e statuali”, in Riv. Delle Società, 2008/2.
quotate. Con la riforma del diritto delle società (d.lgs. 6/2003) e poi con la legge sulla tutela del risparmio (L. 262/2005) i riferimenti a questa categoria di amministratori hanno trovato spazio anche a livello di fonti primarie, al punto che il problema degli amministratori indipendenti è divenuto uno dei più discussi nodi della corporate governance italiana.
1.2.1 (SEGUE) SPUNTI PER UNA RIFLESSIONE
Un aspetto da valutare con attenzione è che la public company è la forma predominante nel Regno Unito ma non lo è in Italia. Nel nostro caso la maggioranza delle società, comprese quelle quotate in borsa, dispone di un azionista di maggioranza e di controllo, il cui ruolo è determinante in sede di selezione ed eventuale revoca del management. Nei sistemi a proprietà concentrata il grado di autonomia del management è ridotto, in quanto il socio di controllo esercita una funzione forte di sorveglianza e di condizionamento sulle scelte gestionali. Di conseguenza, il problema di agency non è tanto tra azionisti e manager, ma sussiste semmai tra la coalizione management- azionisti di controllo, da un lato, e i piccoli azionisti- investitori dall’altro .
L’introduzione del concetto di amministratore indipendente nella legislazione societaria nazionale, con una disciplina che non ha radici nella nostra tradizione normativa, solleva di conseguenza numerose difficoltà interpretative e pratiche12.
12 In tal senso si esprime P.MONTALENTI, “Corporate Governance, Consiglio di Amministrazione, Sistemi
di Controllo Interno”, in Riv. delle Società, 2002, 805s., << le soluzioni di corporate governance elaborate nei sistemi a proprietà diffusa non possono essere automaticamente trapiantate in ordinamenti caratterizzati da una più forte concentrazione azionaria”(..). E ancora critico sul tema è G.ROSSI (nt 1),
che adotta la teoria della path dependence, e osserva come <<Gli assetti proprietari, le regole di governo
societario e l’ambiente economico in generale, in un dato momento, dipendono dal loro passato; riflettono, cioè, la struttura economica di partenza come dimostrano le profonde differenze esistenti tra il capitalismo statunitense e quello europeo”(..), tale teoria è fondamentale per comprendere la persistenza importanza delle differenze esistenti tra strutture societarie aperte e chiuse>>.
Primo interrogativo cruciale che si pone per l’interprete è: << indipendente da chi? Indipendente dal solo gruppo di controllo di cui i manager sono espressione o indipendente da tutti gli azionisti?>>.13
Tale questione è pregiudiziale ad un ulteriore dubbio interpretativo. Se si considera che nel nostro sistema societario la questione più critica è rappresentata dalla tensione dialettica tra azionisti di controllo e piccoli azionisti, e che nelle società quotate la minoranza -che per lo più coincide con la maggioranza rappresentativa del capitale sociale- è inidonea, a causa della sua disorganizzazione, ad incidere sulla composizione degli organi di amministrazione e a procedere a scelte gestionali, diventa arduo individuare quali siano i soggetti che il controllo degli indipendenti dovrebbe tutelare. Dai dati normativi e regolamentari non è agevole cogliere se gli amministratori indipendenti debbano tutelare unicamente le esigenze degli stakeholders esterni, agevolare lo sviluppo in borsa dell’investimento azionario o se piuttosto debbano essere raffigurati come amministratori di minoranza. Ciò pone per l’interprete anche dubbi di natura identificativa, ponendosi il problema della loro coincidenza o della loro distinzione con le figure degli amministratori di minoranza14 -cioè designati da azionisti estranei al gruppo di comando- e l’ulteriore problema di determinare quale sia l’interesse sociale che debba essere perseguito dagli indipendenti.
Terzo spunto di riflessione nasce dalle novità introdotte dal d.lgs 6/2003. Il legislatore ha introdotto due ulteriori modelli di amministrazione-controllo, in aggiunta al sistema trialistico tradizionale, assemblea, consiglio di amministrazione, collegio sindacale. Il modello dualistico di derivazione germanica, caratterizzato dalla compresenza di un
13 Sul tema v. F.LUZZI, in Riv. Delle Società, 2008/1, p. 204ss. 14
L’argomento è stato approfondito da M.BELCREDI, “Amministratori indipendenti, amministratori di minoranza, e dintorni”, in Riv. Delle Società, 2005.
consiglio di sorveglianza e un consiglio di gestione e il modello monistico di chiara ispirazione anglosassone, consistente in un sistema nel quale il consiglio di amministrazione costituisce al suo interno il comitato per il controllo sulla gestione . Le nuove disposizioni richiedono, nel sistema monistico che almeno un terzo dei componenti del consiglio di amministrazione sia in possesso di determinati requisiti di indipendenza (art 2409-septiesdecies, comma 2°c.c) e riservano ai soli amministratori indipendenti, in presenza di alcune condizioni, la nomina per comitato per il controllo sulla gestione (art 2409-octiesdecies, comma 2 cod.civ.). A queste disposizioni si aggiungono quelle introdotte dalla legge 262/2005 sulla tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari. Con riferimento alle società quotate, tale disciplina, rende obbligatoria la nomina di almeno un amministratore indipendente per le società con modello di amministrazione tradizionale, ovvero nel caso di società soggette al sistema dualistico, qualora il consiglio di gestione sia composto da più di quattro membri ( artt 147 ter e 147 quater tuf).
Ciò comporta che la disciplina dell’indipendenza debba essere valutata e ricostruita attentamente alla luce delle caratteristiche peculiari di ciascun modello organizzativo. Nel modello tradizionale si rischia di creare aree di sovrapposizioni e di assistere ad un annacquamento di ruoli e di funzioni, data la presenza forte di un collegio sindacale al quale è già attribuita la vigilanza sulla gestione e sul rispetto dei principi di buona amministrazione. L’interprete dovrà chiarire se, e soprattutto in quali termini, è possibile tracciare una linea di confine tra il controllo esercitato dagli amministratori non esecutivi e il controllo devoluto ai sindaci. In relazione al modello monistico non si può non rilevare che gli amministratori indipendenti che siedono nel comitato di controllo sulla gestione si troverebbero a deliberare in consiglio operazioni delle quali
rispondono anche come controllori, stigmatizzandone l’evidente e palese conflitto di interessi. Per quanto concerne il sistema dualistico, il potere di revoca ad nutum esercitabile dai membri del consiglio di sorveglianza nei confronti dei gestori fa sì che il problema dell’indipendenza si ponga soprattutto in relazione al consiglio di sorveglianza15.
La legislazione italiana ha quindi dimostrato di considerare positivamente, ai fini del miglioramento del sistema di corporate governance, l’istituto dell’amministratore indipendente. Ma, l’esperienza italiana degli amministratori indipendenti , a quasi dieci anni dalla loro introduzione, è ancora poco definita. Dato pacifico è che il legislatore ha inteso connotare la figura dell’amministratore indipendente di una “propria missione e identità sociologica”, ma tale enunciazione di principio non è supportata da una quadro normativo organico. Si tratta allora di verificare se dal coacervo delle norme, dei principi di diritto societario e dei codici di autodisciplina attualmente vigenti, sia possibile enucleare uno statuto speciale degli amministratori indipendenti, una disciplina giuridica propria e differenziata quanto a requisiti soggettivi, funzioni, e doveri. E di conseguenza stabilire se si possa parlare di una responsabilità giuridica speciale degli indipendenti, o se piuttosto si tratti unicamente di una responsabilità oltre il legale, ossia ricostruibile sul piano etico-sociale.
Se si vuole dare un senso e un sicuro contenuto precettivo alla figura dell’amministratore indipendente, è necessario definire con nettezza e rigore le regole di condotta e fissare un insieme di principi applicabili a qualsiasi amministratore che si
15
I profili critici che l’introduzione degli amministratori indipendenti solleva in ciascun modello di amministrazione-controllo, sono stati messi in luce da S.MICOSSI, nell’ambito dell’assemblea annuale di Nedcommunity, Milano, 21 aprile 2010. In relazione al modello monistico, v. sul tema F.GHEZZI e M.MAGGIOLINO, in Commentario Marchetti-Bianchi/ a cura di F. Ghezzi, 2005, p.323 s.
qualifichi come indipendente. Altrimenti si rischia di introdurre garanzie solo formali e incoraggiare le società a coltivare “vizi privati e pubbliche virtù”16
.
16
CAPITOLO II
NOZIONE E DISCPLINA DEGLI AMMINISTRATORI
INDIPENDENTI
2.
GLI AMMINISTRATORI INDIPENDENTI, TRA FONTI
PUBBLICHE E PRIVATE
2.1 I DUE GRADI DELL’INDIPENDENZA
Nell’intento di ricostruire lo statuto giuridico dell’amministratore indipendente, e di individuare i tratti caratteristici di una vera e propria figura professionale, occorre muovere dalle molteplici disposizioni che oggi lo prevedono, talvolta con norme imperative, in altri casi con norme meramente dispositive.
L’esperienza normativa degli amministratori indipendenti è stata multiforme, ed è emblematica di quel fenomeno, particolarmente frequente nell’ultimo decennio, del recepimento da parte di fonti pubbliche di istituti nati dall’autoregolamentazione17
. Più di quanto è accaduto per altri istituti del diritto societario, si è assistiti ad un “imponente transito di regole, dapprima dalla migliore pratica commerciale alle raccomandazioni
17 Il tema del rapporto tra regolamentazione e autoregolamentazione è stato affrontato da D.CORAPI, “Il
nuovo codice di autodisciplina delle società quotate e le novità legislative in materia di autoregolamentazione”, in Riv. Diritto commerciale 2007. L’ A. evidenzia che le società quotate hanno
espresso la più significativa esperienza di autoregolamentazione, e che uno degli istituti in cui maggiormente si è avvertita l’influenza dei codici di autodisciplina sulla legge è proprio quello degli amministratori indipendenti. Cfr. D.REGOLI, “Amministratori indipendenti tra fonti private e pubbliche e
statutali”, in Riv. delle Società, 2008/2. L’A. osserva che, <<nel corso dell’ultimo decennio i codici di autodisciplina hanno rappresentato un utile terreno di sperimentazione di norme di corporate governance, divenendo, in materia di società quotate, la fonte di disciplina per eccellenza. La regolamentazione statutale, da un lato, fa proprie alcune regole testate positivamente dall’autoregolamentazione, e, dall’altro, contribuisce ad accrescere l’efficacia e la forza delle regole di fonte privata>>.
autoregolamentari, e poi dai codici di autoregolamentazione18 alla legge”19. La disciplina degli amministratori indipendenti è per cui il risultato di una tecnica normativa “mista”, in quanto è frutto di una combinazione di norme ad hoc di fonte legale, norme di fonte secondaria (normativa di rango amministrativo), norme di fonte privata (affidate a codici di autodisciplina e in misura minore agli statuti sociali) e infine norme di sistema (cioè norme di fonte primaria, utilizzabili per completare il funzionamento dell’istituto)20
. Ne risulta un quadro normativo complesso, di non facile lettura, nel quale sono ravvisabili due diverse graduazioni di indipendenza, legale e autoregolamentare21. Da un’analisi dei due livelli di indipendenza emerge innanzitutto che gli stessi divergono in relazione a due profili fondamentali: composizione del CdA e contenuto del requisito di indipendenza, al punto che sembrano quasi suggerire l’esistenza di diversi tipi di amministratore indipendente a seconda del tipo societario in cui sono chiamati ad operare, e a seconda della definizione di indipendenza di volta in volta applicabile. Altro dato evidenziabile è che la fonte privata (statuto-codice di autodisciplina) regola aspetti sui quali il legislatore non è intervenuto, in particolare i profili applicativi dell’istituto. Da una parte, si pone quindi la necessità di superare le disomogeneità e tentare, attraverso un’opera di coordinamento, di ricavarne una
18
Ai fini della presente trattazione il più significativo è il codice di autodisciplina delle società quotate, c.d. Codice Preda. Il codice è stato redatto dal comitato per la corporate governance delle società quotate, istituito presso la Borsa Italiana s.p.a., composto da esperti, da rappresentati delle maggiori società quotate e degli investitori istituzionali. Il nome con cui è comunemente conosciuto deriva da colui che ha presieduto il comitato.
19
D.CORAPI (nt 17), p.151.
20 In tal senso si esprime D.REGOLI, “Amministratori indipendenti tra fonti private e pubbliche e statuali”, in Riv. Delle Società, 2008/2, p.389.
21 N.SALANITRO’, “Nozione e disciplina degli amministratori indipendenti”, in Amministrazione e controllo nel diritto delle società: Liber Amicorum/ diretto da A.Piras. L’ A. parla di tre gradi di indipendenza, indipendenza legale, indipendenza statutaria e l’indipendenza prescritta per gli amministratori di società quotate.
disciplina unitaria. Dall’altra, le fonti private saranno utili ad integrare quelle lacune legislative, alle quali peraltro, sono addebitabili gran parte delle discussioni sull’argomento.
2.2 L’AMBITO DI APPLICAZIONE DEL REQUISITO
DELL’INDIPENDENZA
I due livelli di indipendenza incidono diversamente sulla composizione del consiglio di amministrazione. Il legislatore ha scelto di prescrivere l’indipendenza legale per le sole società quotate e per le società non quotate che optano per il sistema di amministrazione monistico. Per tutte le altre società azionarie ha rimesso all’autonomia statutaria la scelta di dotarsi o meno di amministratori indipendenti.
Partendo dal primo grado dell’indipendenza, ossia quello legale, le fonti pubbliche che impongono l’obbligo di dotarsi di amministratori indipendenti sono il codice civile (post riforma societaria del 2003) e il T.U.F (in seguito agli interventi della legge 262/2005 e del d.lgs. correttivo 303/2006). Il T.U.F, per le società quotate, richiede un diverso quorum di amministratori indipendenti, a seconda del sistema di amministrazione prescelto. Per tutte le società, anche quelle non quotate, che adottano il sistema di amministrazione monistico, il legislatore è andato oltre il recepimento dell’istituto, prescrivendo un requisito di rappresentatività numerico: ex art 2409-septiesdecies (richiamato dall’art 147 ter T.U.F.) “almeno un terzo degli amministratori deve essere in possesso dei requisiti di indipendenza”, e a ciò si aggiunge il disposto dell’art 2409-octiesdecies cod.civ., il quale richiede che “tutti i componenti del comitato per il controllo sulla gestione devono possedere i requisiti di indipendenza”. Inoltre, nelle sole
società quotate, è stabilito che l’amministratore espresso dalla lista di minoranza che abbia ottenuto il maggior numero di voti, deve essere in possesso del requisito dell’indipendenza.
Per le società quotate che optano per il sistema dualistico il legislatore àncora la presenza degli indipendenti alle dimensioni del consiglio, limitandosi a rendere obbligatoria la nomina di almeno un amministratore indipendente “qualora il consiglio sia composto da più di quattro membri” (art 147-quater tuf). Nel caso di società soggette al sistema trialistico, il legislatore con il d.lgs. 303/2006 ha modificato il comma 3 dell’art 147-ter, introducendo una soluzione intermedia, in quanto “almeno un componente del consiglio di amministrazione deve essere indipendente”(quindi a prescindere dalle dimensioni del consiglio), “ovvero due se il consiglio di amministrazione sia composto da più di sette membri”.
Per le società non quotate, che adottano il sistema di amministrazione trialistico o dualistico, la disciplina in tema di amministratori indipendenti, si ricava dall’art 2387cod.civ., ai sensi del quale “lo statuto può subordinare l’assunzione della carica di amministratore al possesso di speciali requisiti di indipendenza”. La noma, dettata per il consiglio di amministrazione del sistema tradizionale, si applica, in quanto compatibile, anche al consiglio di gestione operante nell’ambito del sistema dualistico (in forza del richiamo contenuto nell’art 2409-undecies cod.civ.). A ciò si aggiunge la possibilità di riconoscere, sempre in via statutaria, ai portatori di strumenti finanziari (ex art 2346 com. 6, e 2349 com. 2) la facoltà di nominare un componente indipendente (art 2351 com. 6).
Il legislatore, inoltre, attribuisce ad ogni società la possibilità di richiamare, statutariamente, le clausole contenute in codici di comportamento redatti da associazioni
di categoria o da società di gestione di mercati regolamentati (ex artt 2387, 2409-septiesdecies c.c., art 147-ter T.U.F.). Il riferimento è innanzitutto al codice Preda che, con una disposizione solo in apparenza più laconica, si spinge oltre, raccomandando che “un numero adeguato di amministratori sia indipendente”. La valutazione di adeguatezza dovrà essere condotta alla luce di parametri ulteriori, quali le dimensioni dell’emittente, il grado di apertura al mercato, e il settore economico di appartenenza. Ricostruito il primo profilo dello statuto giuridico degli amministratori indipendenti, ossia chiarito l’ambito di applicazione del requisito dell’indipendenza, bisogna risalire alle ragioni che hanno indotto il legislatore a richiedere la presenza obbligatoria degli indipendenti solo nelle società quotate, nonché identificare la ratio che è sottesa all’ulteriore differenziazione operata fra società che adottano il sistema monistico e società con sistema trialistico o dualistico. Si tratta di due interrogativi importanti, che è necessario chiarire, in quanto potranno essere d’aiuto nel ricostruire due dei profili più controversi dello statuto giuridico degli amministratori indipendenti, ossia quali sono i soggetti che il legislatore ha inteso tutelare e quali le funzioni di questa nuova figura di amministratori. Data l’assenza di un quadro normativo organico, se si intende trarre dai frammenti di disciplina rinvenibili nelle diversi fonti un insieme di regole coerenti, applicabili a tutti gli amministratori che si qualifichino come tali, è necessario procedere mediante un’interpretazione teleologica e sistematica delle norme, cercando di individuare quali sono stati complessivamente gli obiettivi avuti di mira dal legislatore. La scelta di prevedere per le società non quotate una mera opzione e per le società quotate un vero e proprio obbligo è perfettamente in linea con quelli che sono i presupposti della nuova disciplina delle società di capitali. Seguendo una tendenza comune ad altri Paesi, il legislatore del 2003 ha inteso ridurre il peso delle norme
inderogabili, ampliando la libertà imprenditoriale anche in punto di organizzazione. Pertanto, tutte le volte in cui si pongono esigenze di tutela dei terzi, le norme imperative ridiventano necessarie22. Nelle società quotate, quindi, il legislatore interviene (sancendo l’obbligo di dotarsi di amministratori indipendenti) per riequilibrare la disciplina a tutela degli investitori, in quanto è in tali società che solitamente la maggioranza è costituita da azionisti (risparmiatori o investitori) estranei al gruppo di comando e non in grado di incidere sulla composizione degli organi di amministrazione e di controllo. A mio avviso, le intenzioni del legislatore emergono con particolare chiarezza e plausibilità solo in relazione alle società chiuse, dove le esigenze di tutela degli investitori e degli stessi soci di minoranza assumono connotati diversi23. Meno chiare, invece, qualora si consideri il terzo sottotipo di società per azioni introdotto con la riforma del 2003, ossia le società che ancorché non quotate in mercati regolamentati,
22
Questo aspetto era già evidenziato nei precedenti progetti di riforma. Si veda a tal proposito l’art 4 comma 2, lett.b, della Relazione al progetto di legge n. 7123, elaborato dalla Commissione Mirone e presentato nel corso della XIII Legislatura il 20 giugno 2000. Nella relazione si sottolinea che l’impostazione della riforma delle società di capitali è quella di <<ridurre il peso delle norme inderogabili,
al fine di accrescere gli spazi di autonomia e libertà imprenditoriale, non solo nell’azione, ma anche dell’organizzazione. Norme inderogabili vanno comunque previste per garantire alcune tutele fondamentali, con tasso di imperatività crescente man mano che l’attività di impresa si muove verso forme più complesse e aperte, in cui si avverte maggiormente l’esigenza di tutela di terzi>>.
Per un approfondimento sul principio dell’autonomia statutaria nella nuova disciplina delle società di capitali v. E.IRUJO, Configurazione statutaria nel diritto delle società di capitali, in Giur.comm, 1999. Cfr. F.SALINAS, in Il Nuovo Diritto delle Società: Commentario diretto da G.COTTINO, G.BONFANTE, O. CAGNASSO, P.MONTALENTI, p.1206.
23
In tal senso si esprime G.F.CAMPOBASSO, “ Le società per azioni”, in Diritto Commerciale, vol. II, diritto delle società, p. 144., <<Nelle società a ristretta base azionaria, l’omogeneità, la stabilità della
compagine azionaria e la partecipazione attiva dei soci alle assemblee assicurano l’effettiva operatività del principe cardine cui il legislatore affida il corretto funzionamento delle società per azioni. Chi ha più conferito e più rischia ha più potere, ma proprio perché più rischia è pensabile che il potere sia esercitato in modo più oculato. Si tratta, talvolta, di vere e proprie società a carattere familiare>>. Sul tema v.
anche P.MAZZOLA e D.MONTEMERLO, “Amministratori indipendenti nelle Imprese Familiari”, in Relazione Nedcommunity, nella quale si osserva che nel caso delle società familiari non quotate non sempre i fabbisogni di governance sono soddisfatti agendo sugli organi di governo. Spesso per dar voce ai soci non gestori si risponde ricorrendo a consulenti anziché rafforzando il CdA.
abbiano azioni diffuse tra il pubblico in misura rilevante24 (secondo i parametri fissati dalla Consob25), in quanto, in tali società è altamente probabile che si possano riprodurre situazioni di controllo azionario maggiormente simili a quelle delle società quotate. La scelta di assoggettare queste ultime alla disciplina dettata dall’art 2387cod.civ., anziché a quella dettata dal T.U.F. per le società quotate, appare sempre più ingiustificata e fuorviante qualora si consideri che la disposizione contenuta nella norma in questione, si risolva sostanzialmente in una sollecitazione, in un’aspettativa da parte del legislatore a che anche le società non quotate stabiliscano standard più elevati relativamente ai requisiti soggettivi degli amministratori. E’ difficile immaginare che i soci che hanno il controllo della società rinuncino ad avere la massima discrezionalità nella formazione dell’organo amministrativo, auto ponendosi dei freni statutari, soprattutto quando la mancata previsione del requisito dell’indipendenza non determini, nei fatti, conseguenze negative di rilievo. Nelle società non quotate, la norma in questione, proprio per la sua facoltatività, potrebbe acquistare un senso, e quindi rappresentare un effettivo e reale incentivo ad inserire questa nuova figura di amministratori nei rispettivi CdA , solo se in futuro gli altri soggetti che operano nel
24 Le disposizioni contenute negli artt 147-ter, quater e quinquies non si applicano alle società non quotate con azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante, in quanto l’art 116 tuf elenca specificatamente le norme che trovano applicazione anche nei confronti di quest’ultime. Ex art 116 tuf <<agli emittenti strumenti finanziari che, ancorché non quotati in mercati regolamentati italiani, siano
diffusi tra il pubblico in misura rilevante, si applicano le disposizioni della parte IV, titolo III, capo II, sezione VI, ad eccezione degli articoli 157 e 158”. Nonché l’art 148-bis , stabilisce espressamente <<che la disciplina sui limiti al cumulo degli incarichi si applica anche per le società emittenti strumenti finanziari diffusi fra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'articolo 116>>. Chiaro sul punto è
A.BLANDINI, “Società quotate e società diffuse”, in Trattato di diritto civile del consiglio nazionale del notariato.
25
G.F.CAMPOBASSO (nt 23) p.150, nt 10 : “Per il regolamento Consob, sono emittenti con azioni diffuse
fra il pubblico in misura rilevante, le società che presentano cumulativamente i seguenti requisiti: a) Non piccole dimensioni (sono escluse quelle che rientrano nei parametri fissati dall’art 2435-bis la
per redazione del bilancio in forma abbreviata)
b) Una frazione rilevante del capitale deve essere dispersa tra un elevato numero di soci di minoranza
mercato dovessero privilegiare, nei loro rapporti, le società che presentino amministratori dotati di tale particolare qualità26. Allo stato dei fatti, solo formalmente il legislatore è riuscito ad attenuare il c.d. scalino normativo rispetto alla disciplina delle società quotate (venutosi a creare con l’introduzione del T.U.F), in quanto nella prassi l’aspettativa è stata disattesa27
.
Il problema di fondo è che l’intera disciplina degli amministratori indipendenti si basa su un’erronea valutazione compiuta dal legislatore del 2003 e riconfermata con la legge sulla tutela del risparmio, da cui derivano numerose incertezze interpretative e, imperfezioni nel funzionamento dell’istituto. L’impressione dell’interprete è che il legislatore abbia utilizzato la figura degli amministratori indipendenti, non per far fronte a quelle specifiche esigenze che ne hanno suggerito la presenza secondo i codici di comportamento (illustrate nel precedente capitolo), ma piuttosto per correggere le disfunzioni e le disparità venutesi a creare nel sistema dei controlli interni in seguito all’introduzione, frettolosa e non accurata, dei due nuovi sistemi di amministrazione-controllo. Ciò che appare è che l’istituto degli amministratori indipendenti abbia rappresentato l’occasione per estendere, o meglio per adattare, la disciplina del collegio
26 In tal senso si esprime M.SANDULLI, In “Riforma delle Società”, vol. I, a cura di M.SANDULLI e V.SANTORO, che osserva come <<l’art 2387c.c., potrebbe acquistare un valore, nei fatti, più cogente,
solo se in futuro le banche e gli altri intermediari finanziari, le società di revisione, gli investitori dovessero privilegiare, nei loro rapporti, le società che presentino amministratori dotati di questa particolare qualità>> In “Riforma delle Società”, vol. I, a cura di M.SANDULLI e V.SANTORO.
27 Tale tesi è supportata dai dati che emergono dalla prassi societaria. Premesso che non è agevole reperire informazioni sulla composizione del CdA delle società non quotate, ed è questa un’altra imperfezione del sistema, in quanto se la presenza degli amministratori indipendenti, quanto meno nelle società con azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante, dovrebbe rappresentare anche un incentivo per gli investitori esterni, allora bisognerà estendere anche a quest’ultime l’obbligo ex art 124 T.U.F. e garantire la massima trasparenza e informazione sulla struttura societaria. L’ultimo dato reperito risale al 2007, ed è interessante notare che l’incidenza media degli amministratori indipendenti nel CdA delle società non quotate è stata pari solo all’11% contro un 42% delle società quotate. L’analisi si fonda sui dati tratti dalla Relazione sulla Corporate Governance delle società quotate, pubblicata periodicamente da Borsa italiana S.p.a e Assonime.
sindacale al modello monistico di amministrazione. Solo in tale ordine di idee si può spiegare la diversa disciplina dettata, sia dal tuf che dal codice civile, per le società con sistema monistico da una parte, e per le società che adottano il sistema trialistico o dualistico, dall’altra; l’obbligatorietà o la facoltatività della regolamentazione, la previsione di quorum diversi di amministratori indipendenti, derivano dalla diversa articolazione e dal diverso peso dei controlli interni nei tre sistemi di amministrazione. Posto che non è questa la sede per approfondire le divergenze sussistenti tra i tre modelli di amministrazione e per valutare l’impianto della riforma del 2003, tale parentesi è necessaria per cercare di ripercorrere l’iter logico seguito dal legislatore quando ha delineato l’ambito di applicazione del requisito dell’indipendenza. Se la figura degli amministratori indipendenti assume espressamente giuridico rilievo solo nel sistema monistico, è perché in tale modello le funzioni di controllo, diversamente da quanto accade per il modello tradizionale e dualistico, non vengono svolte da soggetti esterni, ma dagli stessi membri del consiglio di amministrazione, ossia dal comitato per il controllo sulla gestione. Si tratta forse di una delle maggiori novità e al contempo uno dei maggiori paradossi introdotti con la riforma del 2003, in quanto il legislatore è stato altamente “rivoluzionario” nelle premesse ma non nelle conclusioni. Il legislatore, allo scopo di offrire alle società una struttura di governance più elastica e semplificata, ha prima eliminato la figura del collegio sindacale, agevolando cosi lo scambio di informazioni (in quanto gestori e controllori siedono tutti nello stesso organo) e di conseguenza ottenendo anche un risparmio di tempi; per poi “sindacalizzare l’audit commettee”28, modificandone la natura, e alterando la stessa morfologia del sistema
28 Cit. M.BELCREDI, L.CAPRIO, “Struttura del CdA e Corporate Governance”, in AGE, 1/2003, p. 78. Cfr. F.GHEZZI, “Sistemi alternativi di amministrazione e controllo”, in Commentario alla Riforma delle società: diretto da P.MARCHETTI, L.BIANCHI/ a cura di F.GHEZZI, 2005.
monistico, che da tipico modello unitario diviene nei fatti un modello duale. Attraverso il “consueto e deprecabile filtro della compatibilità”29 le norme del codice civile che fanno riferimento ai sindaci trovano applicazione ai componenti del comitato per il controllo sulla gestione. Il comitato formalmente non è un collegio sindacale ma le sue funzioni e competenze sono modellate sulla disciplina dell’organo deputato al controllo nel sistema tradizionale. In tale ottica si può spiegare la previsione contenuta nell’art 2409-octiesdecies, che impone i requisiti di indipendenza stabiliti per i sindaci per tutti i componenti del comitato per il controllo sulla gestione. Tale disposizione, pur sollevando numerosi problemi interpretativi, che verranno affrontati nel successivo paragrafo, è chiara nei fini: introdurre un correttivo in un modello in cui potrebbero facilmente verificarsi commistioni tra gestori e controllori, e delineare così una funzione di controllo separata dalla gestione “laddove essa mancava”30
. In apparenza meno chiare sono le ragioni in virtù delle quali il legislatore ha richiesto il requisito dell’indipendenza per almeno un terzo dei membri del CdA solo nel sistema monistico, considerando che la fisionomia, i compiti e l’articolazione del consiglio di amministrazione non sembrano mutare nei tre sistemi31. La soluzione a tale quesito va ricercata, ancora una volta, nella diversa struttura del sistema dei controlli interni, e nelle preoccupazioni che il modello monistico ha sollevato circa l’effettivo funzionamento e l’effettiva efficacia delle funzioni di controllo. E’ vero che il
29
Così si esprime R. LENER, “Gli amministratori indipendenti”, in Profili e problemi dell’amministrazione nella riforma delle società, a cura di G.SCOGNAMIGLIO, 2003, p.121.
30
Cit. S.FORTUNATO, “I controlli nella riforma delle società”, in Riv. Soc., 2003, p.891. 31
In tal senso si esprime anche G.BALP, “Sistemi alternativi di amministrazione e controllo”, in Commentario alla riforma delle società, diretto da P.MARCHETTI, L.BIANCHI/ diretto da F.GHEZZI, 2005, p. 6, secondo cui <<il regime della funzione amministrativa sembrerebbe trasversale a tutti e tre i
modelli di governo societario, con l’unica differenza che il modello dualistico e monistico non ammettono un organo di gestione unipersonale>>.
legislatore ha in pratica previsto un appiattimento del comitato per il controllo sulla gestione sul collegio sindacale, ma è altrettanto vero che i poteri e i doveri di controllo dei membri di tale comitato sono inferiori rispetto a quelli del collegio sindacale32. La presenza obbligatoria in CdA di almeno un terzo di amministratori indipendenti, è innanzitutto funzionale all’elezione dei membri del comitato per il controllo e, dovrebbe poi compensare proprio le più blande e meno rigorose funzioni attribuite all’organo deputato al controllo interno. Tralasciando per il momento i problemi applicativi e le confusioni che una simile soluzione solleva in ordine all’individuazione delle funzioni degli amministratori indipendenti, è opinabile già la scelta di dettare una diversa disciplina a seconda del modello di amministrazione-controllo prescelto. È vero che nel sistema monistico la previsione di una percentuale minima di amministratori indipendenti è quasi imposta, in quanto funzionale all’elezione dei membri del comitato per il controllo; tuttavia, in tal modo si rischia di perdere di vista la funzione peculiare e il ruolo fondamentale, che, quanto meno su un piano teorico, sono attribuiti alla figura in questione. Se gli amministratori indipendenti sono stati introdotti per garantire ai soci e al mercato una maggiore affidabilità nei soggetti chiamati a gestire la governance; se il legislatore ha inteso connotare gli stessi di una propria e specifica funzione di controllo, che dovrebbe aggiungersi a quelle già svolte a vario titolo, dai diversi organi deputati al controllo in ciascun modello33, allora il carattere imperativo della
32Per ciò che interessa ai fini della presente trattazione, manca sia la previsione di uno specifico e autonomo dovere di vigilare sull’osservanza della legge e dello statuto, che l’estensione del potere di promuovere l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori. Sul tema v. F.GHEZZI, (nt. 28), p.249ss.; cfr. G.D.MOSCO, “Rafforzamento dei controlli interni e indebolimenti sistematici degli organi di
sorveglianza”, in AGE-1/2006; C.MOSCA, “I principi di funzionamento del sistema monistico. i poteri del comitato di controllo”, in Il Nuovo Diritto delle Società: Liber amicorum G.F.CAMPOBASSO/diretto da
P.ABBADESSA e G.B.PORTALE, 2007. 33
regolamentazione, la previsione di determinati requisiti numerici, dovrebbero dipendere dal grado di apertura al mercato della società e dalle dimensioni dell’emittente e non invece dal tipo di sistema adottato o dalle dimensioni del consiglio di amministrazione, dato tra l’altro facilmente raggirabile. Il legislatore, oltre ad aver reso la relativa disciplina estremamente variabile e confusionaria, ha introdotto una disparità di regolazione. Pur volendo condividerne l’impostazione di fondo, ossia l’idea di correggere, tramite la figura degli amministratori indipendenti, le possibili deviazioni che, in termini di controllo, potrebbero verificarsi nel sistema monistico, non si potrebbe comunque tacere sul fatto che allora un ragionamento analogo avrebbe dovuto essere applicato anche al sistema dualistico. Intento a rafforzare il sistema dei controlli solo all’interno del modello monistico, il legislatore ha compiuto gravi irregolarità e leggerezze nel sistema dualistico. Ad un esame attento e contestuale delle norme, ci accorgiamo, che allo stato attuale della normativa, nel modello di derivazione germanica sono presenti importanti disfunzioni e contraddizioni, in termini di controllo, di tutela delle minoranze e di conseguenza in tema di amministratori indipendenti. Dalla disciplina introdotta con la riforma del 2003 emerge con particolare chiarezza, che il modello dualistico è il “sistema nel quale più si realizza la dissociazione tra proprietà (dei soci) e gestione”34
, e che è il modello organizzativo pensato dal legislatore per le società quotate ad azionariato diffuso35, nonché per le società non quotate che fanno appello al mercato del capitale di rischio, caratterizzate da una “composizione della compagine azionaria altamente diversificata nell'entità e nelle finalità di investimento
34 Così la Relazione al d.lgs. 6/2003. 35
dei singoli azionisti”36. E’ facilmente intuibile la contraddizione che si cela dietro le scelte operate dal legislatore della riforma: la figura degli amministratori indipendenti si afferma nella prassi, soprattutto internazionale, per far fronte a quei problemi di agency (illustrati nel precedente capitolo) tra manager e azionisti, conseguenza proprio della dissociazione tra proprietà e gestione, e il nostro legislatore rende marginale il ruolo degli indipendenti, e la relativa disciplina facilmente eludibile, proprio nel sistema di amministrazione in cui è maggiormente probabile che possano realizzarsi tali condizioni. Il legislatore, rimettendo all’autonomia statutaria la scelta di dotarsi o meno di amministratori indipendenti, e ancorando, nelle società quotate, la presenza degli indipendenti unicamente alle dimensioni del consiglio, ha implicitamente ammesso di ritenere sufficienti le funzioni di controllo svolte dal consiglio di sorveglianza, e la ragione di tale affidamento è evidente: al pari del collegio sindacale è un organo esterno al consiglio di amministrazione, e per ragioni forse legate alla nostra tradizione, questo dato strutturale, in sé, già offre idonee garanzie di un’effettiva separazione fra gestione e controllo. Sembra, però, che il legislatore abbia trascurato due aspetti tutt’altro che secondari: le peculiarità del consiglio di sorveglianza e le diverse relazioni che nel sistema dualistico intercorrono tra gli organi sociali. Il consiglio di sorveglianza è un organo “intermedio”, in quanto gli sono attribuite sia le funzioni di controllo proprie del collegio sindacale, sia alcune “funzioni di indirizzo della gestione”37
che nel sistema
36 Così si esprimono M.PIETRO e G.FOTI, in Riv. dei dottori commercialisti, 2013, fasc.3, p.581. Dello stesso avviso anche G.BALP (nt) 31, p. 10, secondo cui <<la forma dualistica può ragionevolmente
ritenersi compatibile soprattutto con le esigenze di società quotate o comunque aperte>>.
37
G.F.CAMPOBASSO, (nt) 23, parla specificatamente di funzioni di indirizzo della gestione e non di funzioni gestorie. In tal senso si esprime anche F.BONELLI, “L’amministrazione delle s.pa. nella riforma”, in Le grandi opzioni della riforma del diritto e del processo societario, a cura di G.CIAN, 2004, p.186, per il quale le <<funzioni sottratte all’assemblea e attribuite al consiglio di sorveglianza possono anche
chiamarsi, se si vuole, funzioni gestorie, ma si tratta di funzioni che si differenziano nettamente dalla gestione e amministrazione dell’impresa, che spetta solo al consiglio, senza determinare confusione di
tradizionale sono proprie dell’assemblea; in particolare, i componenti del consiglio di gestione sono nominati e soprattutto revocati, non dall’assemblea di tutti i soci, ma dal consiglio di sorveglianza38. Nel sistema dualistico, quindi, la presenza del consiglio di sorveglianza riduce notevolmente l’influenza dell’assemblea ordinaria39, “dando luogo
ad un significativo arretramento del peso dei soci nell’organizzazione corporativa”40
. Se poi si passano a considerare i requisiti richiesti dal codice civile, per i componenti del consiglio di sorveglianza delle società non quotate, e valutiamo tali requisiti alla luce della disciplina degli amministratori indipendenti (dettata per il modello in questione) i problemi, in termini di tutela delle minoranze e dei terzi, si moltiplicano. L’art 2409-duodecies richiama solo le cause di ineleggibilità previste dall’art 2399 comma 1 lett.a, e in parte quelle previste dalla lett.c; non si richiede né l’assenza di legami familiari con gli amministratori, né si fa riferimento “ad altri rapporti di natura patrimoniale che ne compromettono l’indipendenza”. Leggendo in combinato disposto gli art 2409-duodecies e art 2409-undecies (che richiama l’art 2387c.c.) non si può non notare la grave anomalia che tali norme sembrerebbero legittimare nelle società non quotate (mi riferisco alle società che fanno comunque appello al mercato del capitale di rischio) che optino per il sistema dualistico. Potrà accadere che i soci di controllo eleggano quali membri del consiglio di sorveglianza soggetti legati agli amministratori, da vincoli di
ruoli e senza creazione di un organo con funzioni ibride, contemporaneamente di controllo e di gestione>>.
38 È il consiglio di sorveglianza a fissare il compenso dei componenti del consiglio di gestione, salvo che lo statuto non abbia attribuito tale competenza all’assemblea; approva il bilancio d’esercizio e consolidato (art. 2364-bis) e, qualora lo statuto lo preveda, autorizza le operazioni strategiche, i piani industriali e finanziari predisposti dal consiglio di gestione (art. 2409-terdecies, comma 1, lett. f-bis). 39
In ipotesi di adozione del sistema dualistico, le competenze dell’assemblea sono state definite con disposizione ad hoc, art. 2364 bis.
40
parentela o da rapporto di coniugio, soggetti a cui spetterà controllare proprio l’operato degli amministratori41; o, situazione ancor più delicata, che siano gli stessi soci di controllo42 ad essere nominati membri del consiglio di sorveglianza, e a dover esercitare il controllo sull’amministrazione, a poter revocare gli amministratori in qualunque tempo , anche se nominati nell’atto costitutivo. Il quadro si complica se si considerano due ulteriori elementi. In primis, nelle società non quotate, non si applica la disposizione contenuta nell’art 148, comma 4-bis tuf, che prevede che almeno un componente del consiglio di sorveglianza debba essere eletto dalla minoranza con il sistema del voto di lista. In secondo luogo, il legislatore del 2003, allontanandosi dal modello d’origine, non ha aperto al sistema della codeterminazione43
, non prevedendo nel consiglio di sorveglianza, la presenza di componenti la cui nomina è riservata ai dipendenti, che avrebbero comunque assicurato un controllo indiretto sulle decisioni amministrative. Questi aspetti della disciplina del sistema dualistico non vengono evidenziati, con l’intento di contestare o condividere le scelte compiute dal legislatore del 2003 in punto di sistemi alternativi di amministrazione-controllo , ma perché “entrare” in ciascun sistema, coglierne il contenuto essenziale e capirne il
41 Di diverso avviso P.MAGNANI, “Commento all’art 2409-duodecies”, (nt 28), p.125. Secondo l’autore l’assenza della richiamata causa di incompatibilità non rappresenta un’anomalia, ma <<deriverebbe
proprio dal modo in cui nel nostro ordinamento è stato pensato il modello dualistico, che corrisponde all’idea di veder scelto questo modello dalle società a base familiare. Consentendo a soggetti legati da rapporti di parentela con i gestori di sedere nel consiglio di sorveglianza si potrebbe, venir incontro alle esigenze della società a proprietà familiare di far assumere ad alcuni membri della famiglia funzioni di indirizzo e controllo>>. Dello stesso parere anche F.GHEZZI, La Riforma, pp.15-16.
42
Scenario reso possibile dal mancato richiamo ad “altri rapporti di natura patrimoniale che ne
compromettano l’indipendenza”.
43
Come specifica F.GHEZZI, “Commento sub art. 2380”, << il sistema dell’art 2409-octies esclude in
radice la possibilità di realizzare meccanismi di codeterminazione assimilabili a quelli propri del modello tedesco, stante il fatto che l’art. 2409-duodecies, comma 10, lett.c, individua nel rapporto di lavoro con la società una causa di incompatibilità con la carica di consigliere di sorveglianza>>. Cfr. G.BALP (nt) 31,
p. 30, osserva che <<l’argomento affonda le radici in un retroterra storico, culturale e politico che
funzionamento, è un passaggio necessario per poter valutare la validità delle scelte effettuate dal legislatore in tema di amministratori indipendenti. Un sistema come quello dualistico, che contempla un organo di controllo con funzioni addirittura rinforzate rispetto a quelle del collegio sindacale, ma nel quale l’indipendenza dei controllori dagli amministratori viene garantita in modo parziale e insufficiente, e non viene assicurata ai soci di minoranza la nomina di un membro del consiglio di sorveglianza, avrebbe, ancor di più, dovuto suggerire la stessa soluzione adottata per il sistema monistico dall’art 2409-septiesdecies. Alla stessa conclusione, ritengo, si debba giungere anche in relazione alle società quotate che optino per il sistema dualistico. E’ vero che in tali società l’art 148 comma 4-bis TUF, ha rafforzato l’indipendenza dell’organo di controllo dagli amministratori, in quanto ha esteso ai componenti del consiglio di sorveglianza i requisiti di indipendenza stabiliti dal tuf per i sindaci, ma non possiamo adagiarci solo su tale dato letterale. Le norme devono essere inserite nel contesto e solo in tal modo si potrà valutare se quelle soluzioni pensate dal legislatore per il sistema tradizionale, sono idonee a garantire un efficace sistema di controllo anche in un sistema diverso, qual è, nel caso di specie, il sistema dualistico. Nelle società quotate organizzate secondo il sistema dualistico, a differenza di quanto accade nel sistema tradizionale, non è imposta in cda la partecipazione di esponenti della minoranza44, né è garantita la presenza di almeno un amministratore indipendente; e
44 In tal senso si esprime L.SCHIUMA, “I poteri del consiglio di sorveglianza e del consiglio di gestione”, in Il Nuovo Diritto delle Società: Liber Amicorum, G.F.CAMPOBASSO/diretto da P.ABBADESSA e G.B.PORTALE, 2007, P. 703. L ’autrice osserva che <<l’opposta soluzione non sarebbe argomentabile, in
via interpretativa facendo applicazione dell’art. 2380, comma 3 o della norma di chiusura dell’art. 223-septies, comma 2, visto che il consiglio di sorveglianza è un diaframma necessario, laddove l’elezione di esponenti della minoranza azionaria nel consiglio di gestione presuppone che anche l’elezione dei componenti di tale ufficio provenga dall’assemblea (rispetto alla quale sono pensabili una maggioranza e una minoranza azionaria), cosa tipicamente esclusa invece nel sistema dualistico dalla circostanza che tale competenza è inderogabilmente affidata al consiglio si sorveglianza>>. Di diverso avviso F.BONELLI,
ancora, mentre nel sistema tradizionale i sindaci possono essere revocati dall’assemblea solo in presenza di una giusta causa, al contrario nel sistema dualistico, all’assemblea è riconosciuto un potere di revoca ad nutum nei confronti dei componenti del consiglio di sorveglianza45. Potrà anche apparire che tali considerazioni non abbiano alcuna attinenza con l’argomento oggetto della presente trattazione, ma se si ragiona in questi termini, si rischia di incorrere nello stesso errore commesso dal legislatore, che ha isolato la figura degli amministratori indipendenti, limitandosi a disciplinarne gli aspetti statici, ossia dove e in quale percentuale devono essere presenti, lasciando poi all’interprete l’arduo compito di individuarne i profili dinamici. Sottolineare, che nel sistema dualistico, l’assemblea dei soci può revocare, anche in assenza di giusta causa i consiglieri di sorveglianza, significa spostare l’attenzione sul fatto che nel sistema dualistico è presente un doppio e diverso problema di indipendenza: l’indipendenza del consiglio di sorveglianza dall’assemblea dei soci, e l’indipendenza, non dei controllori dagli amministratori, ma dei controllati dai controllori46. Un sistema così delineato si presta a facili abusi da parte degli azionisti di maggioranza, in quanto più il consiglio di sorveglianza è dipendente dall’assemblea, tanto più l’assemblea, per il tramite del consiglio di sorveglianza, potrà condizionare il consiglio di gestione. Gli azionisti di maggioranza sono posti nelle condizioni non solo di esercitare un controllo ancora più stringente sulla gestione della società, di quanto non sia consentito dal sistema
apposite clausole statutarie o patti parasociali, che le diverse componenti del consiglio di sorveglianza siano rappresentate nel consiglio di gestione>>. Cfr M.VENTORUZZO “La composizione del consiglio di amministrazione delle società quotate dopo il d.lgs. n. 303 del 2006:prime osservazioni”, in Riv. delle
Società, 2007/1, p. 207.
45 Secondo L.SCHIUMA (nt. 44), p. 707, <<la revocabilità ad nutum dei componenti del consiglio di
sorveglianza, ha avuto l’effetto di attenuare, anziché rafforzare, l’indipendenza dei consiglieri di sorveglianza, esposti agli umori dell’assemblea come qualunque amministratore>>.
46 In tal senso si esprime L.SCHIUMA, (nt 28), p. 709, che osserva come <<la minaccia della revoca come
l’aspirazione alla rielezione o ad un più elevato compenso potrebbero infatti indurre gli amministratori a compiacere il consiglio di sorveglianza>>.
tradizionale; ma di esercitarlo in modo più “subdolo” rispetto al controllo potenzialmente esercitabile nel sistema monistico. Con l’introduzione di una serie di correttivi, il legislatore ha reso il sistema monistico (come osservato in precedenza), un modello formalmente unitario, ma nei fatti duale. Qui, al contrario, si rischia di consentire la creazione di una struttura dualistica nella forma, ma monocratica nella sostanza, “incentrata su un organo ,nominato dall’azionista di comando, che cumulando in sé i poteri del collegio sindacale e dell’assemblea, si pone come unico interlocutore e giudice di fatto insindacabile dell’operato del management”47
. Nel primo capitolo era stato evidenziato, che, nella realtà societaria italiana, i problemi di agency intercorrono, prevalentemente, non tra manager e azionisti, ma tra la coalizione management- azionisti di controllo da un lato, e i piccoli azionisti-investitori dall’altro. Dal sistema dualistico, emerge, con una certa prepotenza, proprio questa relazione potenzialmente pericolosa, che ne esce per di più rinforzata, considerato che alla catena si unisce un ulteriore anello: azionisti di controllo-controllori-management. Si intuisce allora, perché, nelle società quotate organizzate secondo il sistema dualistico, il legislatore avrebbe dovuto estendere la stessa regolamentazione dettata dall’art 2409-septiesdecies per il sistema monistico. La previsione contenuta nell’art 147-quater rischia di essere inutile, in quanto le società quotate che si doteranno del sistema dualistico avranno sempre cura di prevedere una composizione del consiglio limitata a tre componenti; d’altronde la stessa prassi ha dimostrato che il contributo degli indipendenti è più incisivo proprio nei consigli di piccole dimensioni. La figura degli amministratori indipendenti, nel sistema dualistico, potrebbe rappresentare un adeguato contrappeso, nonché il giusto compromesso tra le due intenzioni, diametralmente opposte e non
47
Cit. G.OLIVIERI, “Costi e benefici dei nuovi modelli di amministrazione e controllo”, in Profili e problemi dell’amministrazione nella riforma delle società, a cura di G.SCOGNAMIGLIO, 2003, p.69.
facilmente conciliabili, perseguite dal legislatore con l’introduzione del sistema in questione. Nelle intenzioni originarie, evidenziate nella Relazione al d.lgs. 6/2003, tale modello organizzativo era stato pensato per le società ad azionariato diffuso e prive di uno stabile nucleo di azionisti imprenditori. In corso d’opera, il legislatore ha cercato di renderlo fruibile anche da parte delle società a base familiare, e a ciò si deve, ad esempio, il mancato richiamo dei requisiti di indipendenza stabiliti dal comma 1 lett.b dell’art 239948
. Ne è derivato un “congegno camaleontico”49, adottato da imprese di opposte dimensione, sia grandi società quotate50, di cui una ad azionariato diffuso51, che società non quotate di dimensioni piccole-medie52.
Per concludere su questo primo aspetto dello statuto giuridico dell’amministratore indipendente, ad avviso di chi scrive, è necessario che il legislatore intervenga nuovamente sulla materia, graduando la presenza degli amministratori indipendenti a
48 C.RUGGIERO, in “Corporate governance: i nuovi profili di amministrazione e controllo”, consultabile su
www.odctorreannunziata.it, osserva che <<secondo molte associazioni industriali, il modello dualistico è
particolarmente adatto per la gestione della delicata fase di transizione generazionale delle imprese a ristretta compagine azionaria, prevalentemente familiare. In pratica, per favorire questo processo si ipotizzava uno schema sulla base del quale i capofamiglia che avessero voluto o dovuto abbandonare la gestione dell’attività dell’impresa familiare, sfruttando la morfologia del modello dualistico avrebbero potuto sedere nel consiglio di sorveglianza, e da qui monitorare le performance di figlie e nipoti. Tant’è che quasi tutte le principali associazioni imprenditoriali, si erano scagliate contro la norma che regolava i requisiti di indipendenza dei componenti del consiglio di sorveglianza. la disposizione contestata è quella contenuta nell’art 2399, cod. civ. lett.b), in precedenza richiamata dalla disciplina sul consiglio di sorveglianza. la norma è stata modificata a seguito delle osservazioni di Confindustria e altre associazioni industriali>>
49 Cit. L.SCHIUMA (nt 28), p. 687. 50
Attualmente è adottato da sei società quotate, tre di esse sono banche (Intesa Sanpaolo Spa, UBI Banca Scpa e Banca Popolare di Milano Scarl); le rimanenti tre appartengono ai settori rispettivamente dei servizi finanziari (Mid Industry Capital SpA), delle public utilities (A2A SpA) e calcistico (S.S. Lazio SpA).
51
Il riferimento è a Intesa Sanpaolo SpA, il cui 67% del capitale azionario è distribuito sul mercato. Viene comunque esercitato un controllo di fatto, in quanto tra i maggiori azionisti è stato stipulato un patto di sindacato.
52
Si tratta di società caratterizzate dalla presenza dominante del primo azionista, titolare di azioni dal 23% al 99%, con una media del 53%.
seconda del grado di apertura al mercato della società. Una possibile alternativa sarebbe quella di estendere alle società che ancorché non quotate in mercati regolamentati abbiano azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante, la stessa soluzione introdotta con il decreto correttivo 303/2006 per le società quotate organizzate secondo il sistema tradizionale; ossia garantire la presenza obbligatoria di almeno un amministratore indipendente a prescindere dalle dimensioni del consiglio, e aumentarne la percentuale man mano che il numero dei componenti del consiglio aumenti. Nonché, applicare a tutte le società quotate, a prescindere dal sistema adottato, la stessa disciplina dettata per il sistema monistico dall’art 2409-septiesdecies, e garantire così un giusto mix tra amministratori esecutivi e amministratori non esecutivi e indipendenti.
2.3 DEFINIZIONE DEL REQUISITO DELL’INDIPENDENZA
2.3.1 LA DIREZIONE DELL’INDIPENDENZA
La definizione del requisito dell’indipendenza costituisce uno dei profili più critici dello statuto giuridico dell’amministratore indipendente. Le difficoltà che si incontrano nel dare un sicuro contenuto precettivo all’indipendenza, derivano dai molteplici interrogativi lasciati insoluti dal legislatore. Le lacune legislative impongono all’interprete di invertire la logica direzione del discorso, ossia anziché trarre dalle premesse le conclusioni, risalire alle premesse tramite le conclusioni. Il legislatore si è limitato a dare riconoscimento legale all’istituto, ad individuarne l’ambito di applicazione, e a definire l’indipendenza tramite un rinvio generico alla disciplina pensata e dettata per l’indipendenza di una figura diversa, ossia quella dei sindaci. L’iter seguito dal legislatore appare del tutto incongruente, in quanto il requisito