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Il giudizio di imputabilita' tra diritto e psichiatria forense: prospettive di cambiamento

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

Il giudizio di imputabilità tra diritto e psichiatria

forense: prospettive di cambiamento

Il Relatore:

Chiar.ma Prof.ssa Emma

Venafro

Il Candidato:

Carolina Volpe

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I

Indice

pag. Introduzione V CAPITOLO I

L’imputabilità

1. Cenni storici 1 1.1 Il Codice Zanardelli 4 1.2 Il Codice Rocco 9

2. Il dibattito dottrinale sulla posizione sistematica

dell’imputabilità 14

2.1 Imputabilità e reato 14

2.2 Imputabilità e “capacità penale” 16

2.3 Imputabilità e colpevolezza 18

2.4 Imputabilità e coscienza e volontà della condotta 21

3. Nozione di imputabilità 22

4. Cause di esclusione e diminuzione dell’imputabilità 28

4.1 Il vizio totale di mente 31

4.2 Il vizio parziale di mente 37

4.3 L’ubriachezza e l’uso di sostanze stupefacenti 39 4.3.1 L’ubriachezza c.d. accidentale 39 4.3.2 L’ubriachezza volontaria o colposa 41

4.3.3 L’ubriachezza preordinata 45

(3)

II

4.3.5 La cronica intossicazione da alcool o da sostanze

stupefacenti 47

4.4 Il sordomutismo 48

4.5 La minore età 51

4.6 Actio libera in causa 56

CAPITOLO II

L’infermità di mente

1. L’evoluzione del concetto di infermità nella psichiatria 60 1.1 Il modello medico o biologico-organicista 63

1.2 Il modello psicologico 66

1.3 Il modello sociologico 70

1.4 Il modello “bio-psico-sociale” 72

2. L’evoluzione giurisprudenziale del concetto di infermità 74 3. Il chiarimento del contrasto giurisprudenziale: la sentenza

Raso 76

3.1 I disturbi di personalità 84

3.2 Gli stati emotivi e passionali 107 4. Il paradigma neuroscientifico 112 4.1 La genetica comportamentale 119 4.2 Il contributo delle neuroscienze all’interno del

processo 122

CAPITOLO III

Diritto e psichiatria all’interno del processo

1. Il necessario ricorso agli esperti nell’accertamento del

vizio di mente 128

2. I limiti della perizia psichiatrica 134 3. I suggerimenti delle Corti americane 142

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III

3.1 Gli strumenti di indagine attualmente dotati di

maggiore validità scientifica 149

4. Il ruolo del perito e quello del giudice nel giudizio di imputabilità 152

5. Il caso di Stefania Albertani 159

5.1 La vicenda giudiziaria 159

5.2 I criteri di decisione adottati nella sentenza 162

5.2.1 Le perizie sulla capacità di intendere e di volere 162

5.2.2 Il ruolo delle neuroscienze 164

CAPITOLO IV

Il trattamento dell’infermo di mente autore del reato

1. La pericolosità sociale 171

1.1 Gli ostacoli nell’accertamento della pericolosità sociale 178

1.2 La necessità di una ridefinizione della pericolosità sociale 189

1.3 La via alternativa del superamento della pericolosità sociale 192

2. Gli ospedali psichiatrici giudiziari 195

2.1 Il ruolo della Corte Costituzionale nel superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari: la sentenza n. 253 del 2003 199

2.2 Il ruolo del legislatore nel superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari: la legge n. 9 del 17 febbraio 2012 205

3. Il (definitivo?) superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari: la legge n. 81 del 30 maggio 2014 212

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IV

3.2 Gli aspetti problematici della legge 220 3.3 Le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di

Sicurezza (REMS) 224

3.4 Osservazioni conclusive 228

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V

Introduzione

I rapporti tra imputabilità e neuroscienze rappresentano il tema principale svolto nel presente elaborato, il quale si suddivide in quattro capitoli.

Lo scopo primario è quello di illustrare il dibattito sorto in seno al concetto di imputabilità, affrontato al giorno d’oggi sia in dottrina, sia nelle aule di tribunale. In particolare, si è cercato di comprendere la natura e le prospettive della discussione concernente il delicato rapporto tra la capacità di intendere e di volere e l’avvento delle neuroscienze nel processo penale.

L’imputabilità è una fra le categorie giuridiche più complesse e controverse del diritto penale ed è delineata dal legislatore all’articolo 85 c.p., il quale richiede che il soggetto, affinché sia imputabile, abbia, al momento della commissione del fatto, la capacità di intendere e di volere.

Il primo capitolo è dedicato all’analisi del concetto di imputabilità. Il tema è stato affrontato, in primo luogo, in una prospettiva storica: partendo dal Codice Zanardelli, fino ad arrivare al Codice Rocco; in secondo luogo, è stato preso in considerazione il dibattito dottrinale in merito alla posizione sistematica dell’imputabilità, soffermando l’attenzione sul principio di colpevolezza di cui all’articolo 27 della Costituzione, presidio garantistico fondamentale che pone al riparo l’individuo dal rischio di dover rispondere di un fatto di cui non è concretamente in grado di cogliere il disvalore penale o anche solo sociale; una notevole attenzione è stata inoltre posta alla nozione di imputabilità e alla collocazione sistematica di tale concetto nel codice penale; infine, sono state analizzate le cause di esclusione e diminuzione della stessa, con particolare riguardo al vizio di mente, nelle sue duplici forme, totale e parziale.

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VI

L’imputabilità costituisce il perno attorno al quale ruotano le “esigenze socialdifensive e generalpreventive da un lato, ed istanze individualgarantistiche, dall’altro”1

. Le cause che comportano tale esonero di responsabilità sono solo alcune, tassativamente previste, tra cui spicca il suddetto vizio di mente. In realtà, a ben vedere, in merito alla tassatività delle cause di esclusione o limitazione dell’imputabilità, in dottrina si ravvisano due diversi orientamenti. Vi è, da un lato, chi sostiene che la legge abbia previsto espressamente e tassativamente i singoli casi di esclusione dell’imputabilità, per cui il giudice, accertata la non sussistenza di queste ipotesi, non deve far altro che applicare la pena, senza preoccuparsi di accertare la mancanza o la presenza nel soggetto della capacità di intendere e di volere. Per coloro che, al contrario, ritengono possibile un’applicazione analogica di tali norme, le conclusioni sono opposte: se, infatti, l’articolo 85 c.p. richiede che il soggetto, affinché possa essere punibile, sia imputabile, ogni causa di esclusione dell’imputabilità, anche se non contemplata dal codice penale, è incompatibile con la punibilità. Secondo tale impostazione, ai fini dell’applicazione della pena, non rileva l’assenza delle ipotesi di non imputabilità previste dalla legge, bensì la presenza della capacità di intendere e di volere, che svolge una funzione discriminatrice tra le conseguenze giuridiche del reato.

Il secondo capitolo dell’elaborato è dedicato all’infermità mentale, punto cardine della ricostruzione del vizio totale di mente quale causa di esclusione dell’imputabilità. Si tratta di un istituto decisamente problematico, sia per quanto riguarda l’individuazione di criteri generali realmente validi nel regolare la materia, sia per quanto riguarda la dimensione del suo concreto accertamento nella realtà fenomenica; la causa principale è indubbiamente l’intreccio che tale istituto determina tra scienza giuridica e scienze sociali, tra

1

Manna A., L’imputabilità tra prevenzione generale e principio di colpevolezza, in Leg. pen., 2006, cit., p. 220.

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VII

diritto e psichiatria, mondi contrapposti che, per volontà del legislatore, debbono sforzarsi di raggiungere un punto di equilibrio. Se si dà per scontato che l’imputabilità è un concetto allo stesso tempo empirico e normativo, non sarà difficile comprendere come inevitabilmente il diritto penale sia costretto a rivolgersi al mondo scientifico per poter assolvere alla sua funzione nell’ordinamento. Tale rapporto tra scienza e diritto, tuttavia, se un tempo non destava alcun tipo di preoccupazione ma, al contrario, era fonte di rassicurazione e certezza dato che la scienza era considerata certa ed infallibile e, pertanto, il giudice si affidava quasi ciecamente alle risultanze scientifiche, recentemente è fonte di nervosismo e interrogativi. Il punto di partenza è la considerazione che la scienza non è più improntata a quella sacrale obiettività che le si accreditava nell’Ottocento. Lontani sono, infatti, i tempi in cui veniva riconosciuta alla scienza una infallibilità e validità assoluta e il mondo del diritto – nello specifico, il concetto di imputabilità – non può che risentirne.

Il giudice ad oggi non può affidarsi ciecamente alle risultanze scientifiche, ma ha il delicato compito di vagliarle attentamente. In particolare, il suo incarico appare ancora più complesso nel momento in cui entrano nel processo nuove tipologie di strumenti ed accertamenti che non dispongono di pacifica attendibilità all’interno dello stesso mondo scientifico da cui provengono.

La mancata certezza nella risposta epistemologica si riverbera sia sul legislatore sia sulla giurisprudenza, la quale ha cercato di dirimere tale controversia mediante la nota Sentenza Raso.

È in questo panorama che si inseriscono le neuroscienze, le quali si occupano di studiare il sistema nervoso, analizzare la comprensione del pensiero umano, le emozioni ed i comportamenti attraverso cui si manifesta o meno lo stesso, utilizzando strumenti altamente scientifici, atti ad esaminare molecole, cellule e reti nervose. Tali

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VIII

innovazioni scientifiche permettono di conoscere a fondo le modalità di funzionamento del cervello e spesso portano a conclusioni, talora ritenute sconcertanti, che mettono in rilievo correlazioni tra il comportamento dell’imputato e i suoi geni. Le tecniche neuroscientifiche, pertanto, spiegano come funziona, si sviluppa e degenera il sistema nervoso.

L’avvento di queste nuove tecnologie nel giudizio sulla capacità di intendere e di volere, in un momento storico in cui il diritto non può più fidarsi ciecamente della scienza perché oramai ritenuta anch’essa fallibile, crea diverse reazioni nel mondo giuridico. Come sempre accade, una parte dei tecnici del diritto accolgono positivamente una novità scientifica e le potenzialità che la stessa riserba, altra parte, contrariamente, la qualifica come “cattiva scienza” e ne chiede l’allontanamento dal mondo del diritto penale. Affermare che l’imputato ha commesso una certa azione criminosa, perché influenzato dal suo corredo genetico o perché, dai risultati di alcuni specifici test, è emerso che il suo potere di inibizione è deficitario, ha scosso il mondo dei giuristi: l’uomo sarebbe dominato dal suo cervello e, pertanto, non sarebbe più un essere libero di scegliere e autodeterminarsi.

Il dibattito sulle neuroscienze ha, infatti, un’origine ben precisa: la responsabilità penale. Il paradigma su cui si fonda la responsabilità penale è dato dalla verifica del libero arbitrio, della colpevolezza e dell’imputabilità del soggetto agente. Se io sono libero, posso agire; se agisco, ci saranno delle conseguenze di cui avrò consapevolezza, di cui sarò responsabile.

Le neuroscienze possono, indubbiamente, coadiuvare la dottrina e la giurisprudenza a capire quanto l’individuo sia veramente libero e responsabile delle proprie azioni o piuttosto determinato nel suo agire.

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IX

Se il soggetto non è libero nel suo agire, è responsabile da un punto di vista penale? Uno studioso di diritto porrebbe il suo interrogativo in questi termini, mentre, al contrario, i neuroscienziati pongono la questione diversamente: se l’aggressività è riconducibile a precisi circuiti nervosi, è possibile che un’alterazione congenita, morfologica o funzionale degli stessi possa portare ad un comportamento abnorme che sfugga al controllo intenzionale dell’individuo, pur non essendo riconducibile a nessuna patologia accertata? È possibile parlare di libero arbitrio se la genetica molecolare ha individuato con certezza un certo allele, che aumenta in maniera significativa la spinta verso situazioni “estreme”, dunque fuori dalla legalità? Proprio questo modo di collegare il libero arbitrio e la propria autodeterminazione alle risultanze scientifiche neurologiche spaventa i giuristi. Spesso, infatti, si interpretano le risultanze delle analisi e dei test neuroscientifici come una forzata intrusione della scienza nelle categorie del diritto penale. Per questo motivo, in ambito forense gli accertamenti neuropsicologici sono sovente oggetto di opposti pregiudizi: da un lato, se ne afferma l’inutilità di principio, sostenendo che il colloquio e l’osservazione clinica (metodo tradizionale) sono più che sufficienti a fornire tutti gli elementi utili per la decisione, dall’altro, si tende ad immaginare l’indagine neuropsicologica come una via d’accesso privilegiata all’altrimenti insondabile profondità della mente umana.

Il fulcro del dibattito, pertanto, si incardina proprio nell’interpretazione che si fornisce alle risultanze neuroscientifiche. Due diverse visioni si palesano: quella di coloro che intravedono nelle neuroscienze il tentativo di minare le basi del diritto penale, proponendo test scientifici i cui risultati offrono una visione dell’uomo non più come essere libero, ma determinato e “manovrato” dal suo cervello e quella che intravede nelle potenzialità delle neuroscienze un valido strumento da affiancare alle tecniche

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X

tradizionali, finalizzato a coadiuvare il giudice nel formulare il ragionamento giuridico.

Come spesso accade, la novità suscita clamore, ma prima di affondare giudizi severi e sconcertanti è opportuno approfondire il tema oggetto di studio con attenzione e oggettività.

Il mondo del diritto è solitamente cauto e spesso scettico nei confronti del nuovo: la giurisprudenza evolve prudentemente e la scienza tende ad entrare nel processo a piccoli passi.

In realtà, se si approfondisce l’analisi dei risultati offerti dalle neuroscienze, non si può non rilevare come esse rappresentino un’importantissima risorsa da cui il diritto penale potrebbe e dovrebbe attingere. Per comprendere le potenzialità che esse riservano, tuttavia, è opportuno abbandonare preconcetti e paure legati alla falsa concezioni che le neuroscienze intendano dimostrare esclusivamente che l’uomo non è un essere libero, perché dominato e controllato dalla conformazione del suo cervello.

Analogamente, tuttavia, si contesta anche la posizione di coloro che vedono nelle neuroscienze una vera e propria rivoluzione che porterà all’adozione di un nuovo paradigma destinato a dar spazio ad una nuova comunità scientifica che non sarà più in grado di comunicare con la precedente.

L’atteggiamento più corretto si ritiene essere quello che, da un lato, valuta e giudica oggettivamente il concreto apporto delle nuove tecniche di neuroimaging al processo penale e, dall’altro, sempre oggettivamente, coglie i limiti e le lacune dei metodi e degli strumenti oggi generalmente utilizzati a fronte della complessità richiesta nella valutazione dell’imputabilità.

Oltre ai profili puramente sostanziali, vengono presi in considerazione, all’interno del terzo capitolo, anche i riflessi che l’istituto del vizio di mente produce sul piano procedurale, con specifico riferimento alla complessa realtà dell’accertamento peritale

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XI

e alle dinamiche del rapporto tra giudice e perito all’interno del processo.

Le neuroscienze e la genetica comportamentale sono concreti e positivi strumenti che possono arricchire il processo penale nell’ambito della valutazione dell’imputabilità. Questo, tuttavia, non deve comportare una modifica del ruolo del giudice all’interno del processo: egli non sarà un sostituto dello scienziato e nemmeno un mero recettore passivo, bensì un fruitore critico che controlla e verifica l’attendibilità della prova sottoposta al suo vaglio. Il vero ruolo di queste tecniche, infatti, è quello di affiancarsi agli strumenti tradizionali per offrire al giudice un quadro più dettagliato sulla situazione mentale dell’imputato. Trattasi, invero, di accertamenti probabilistici, i quali, per quanto sofisticati possano essere, presentano sempre dei margini di incertezza, perciò accoglierli acriticamente, rinunciando ad eseguire ulteriori riscontri e valutazioni, sarebbe un grave errore metodologico. Le immagini cerebrali, inoltre, tanto quanto le mappature genetiche, nulla riferiscono sul nesso eziologico fra il disturbo mentale e la condotta del soggetto che ne risulti affetto, lasciando sempre al giudice tale delicata verifica, decisiva per il giudizio di imputabilità.

Il capitolo in esame si conclude con un esempio pratico concernente, da un lato, l’utilizzo delle perizie psichiatriche e, dall’altro, l’apporto delle neuroscienze all’interno delle aule di tribunale. Si tratta del caso di Stefania Albertani, emblematico esempio della difficoltà di comprendere con certezza i meccanismi dell’agire umano e della conseguente complessità di giungere ad una diagnosi certa di sanità o infermità mentale. La sentenza in esame segna un’importante apertura al contributo delle nuove tecniche di indagine offerte dalle neuroscienze alla valutazione della capacità di intendere e di volere dell’imputato in un processo penale, indagini che sono state disposte a completamento delle perizie psichiatriche e neuropsicologiche

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XII

tradizionali. Tale pronuncia, pertanto, dimostra come sia possibile fruire dei risultati delle neuroscienze all’interno di un’aula di tribunale senza per questo mettere in discussione il principio del libero arbitrio dell’uomo o la sua capacità di autodeterminazione. Il quarto ed ultimo capitolo, infine, si occupa dei profili sanzionatori e, nello specifico, del trattamento del reo infermo di mente e socialmente pericoloso. Particolare attenzione è stata rivolta all’istituto dell’ospedale psichiatrico giudiziario, più comunemente noto come O.P.G., soffermandoci sugli sforzi fatti dalla Corte Costituzionale e dal nostro legislatore per arrivare ad un suo accantonamento, il quale, sebbene impervio e costellato di criticità, permetterà di garantire, finalmente, una maggiore tutela nei confronti delle persone affette da disagio psichico. Non scompare, ovviamente, l’esigenza di salvaguardia della collettività, la quale potrebbe essere danneggiata da chi manifesta una chiara e grave pericolosità sociale, ma si vuole rispondere meglio all’esigenza, altrettanto importante, di garantire ai reclusi una vita dignitosa. Sono state, pertanto, ripercorse le tappe fondamentali che hanno condotto al tanto auspicato superamento di tali strutture. La prima è il decreto legge n. 211 del 22 dicembre 2011, convertito nella legge n. 9 del 17 febbraio 2012: essa ha disposto la chiusura degli O.P.G., senza tuttavia fornire le sufficienti istruzioni a tal fine. Ecco allora che, tra inefficiente organizzazione e cronici ritardi è stato necessario posticipare il termine inizialmente previsto. A due anni di distanza, il decreto legge n. 52 del 31 marzo 2014, convertito nella legge n. 81 del 30 maggio 2014, ha finalmente stabilito il definitivo abbandono di tale istituzione, introducendo rilevanti novità e prevedendo la creazione di nuovi luoghi di cura, le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (REMS).

La riforma introdotta dalla legge 81/2014 mira a ristabilire l’equilibrio fra detenzione e cura. Ciò non soltanto in nome delle

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XIII

condizioni pessime, degradanti e inaccettabili che imperavano negli ospedali psichiatrici giudiziari, ma anche al fine di rispettare i diritti fondamentali che devono essere garantiti ad ogni soggetto, indipendentemente dal fatto che sia recluso o meno in un istituto penitenziario. La dignità della persona è un bene a cui non si può rinunciare, nemmeno all’interno degli ospedali psichiatrici giudiziari, pertanto, le REMS devono rispettare determinate garanzie nei confronti dei soggetti affetti da disturbi psichici, avendo come obiettivo il loro reinserimento all’interno della società attraverso cure e percorsi riabilitativi. Le misure precauzionali ordinate dai magistrati devono certo mirare a ridimensionare la pericolosità sociale, ma senza dimenticare mai il fondamentale diritto alla dignità di cui è portatore il detenuto, che comporta l’obbligo, a carico delle competenti autorità nazionali, di fornirgli in qualsiasi circostanza tutti i mezzi utili alla realizzazione del diritto stesso.

Questo è il fine ultimo, il principio chiave alla base delle novità introdotte dalla legge 81/2014.

Il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e il passaggio a tali nuove strutture regionali, tuttavia, pur segnando un significativo passo in avanti nel faticoso processo di abbandono dell’intollerabile logica manicomiale, hanno evidenziato alcuni profili di criticità, che sono stati opportunamente analizzati all’interno dell’elaborato. Tra i più rilevanti si segnalano quelli riguardanti il peculiare ruolo attribuito, all’interno delle nuove strutture, agli operatori psichiatrici, chiamati principalmente a compiti di organizzazione e gestione della sicurezza interna, anziché di cura e protezione dei pazienti internati. Delineando a carico dei medici atipici compiti custodiali, è agevole prevedere che per assolverli tanto la terapia quanto le modalità gestionali saranno, se non addirittura principalmente finalizzate, quantomeno sensibilmente condizionate dalla preoccupazione del contenimento e che, nel complesso bilanciamento che la misura di

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XIV

sicurezza sarà chiamata ad assolvere, le istanze di custodia prevarranno su quelle più strettamente terapeutiche. Ciò, inevitabilmente, si ripercuote sui prioritari compiti terapeutici della classe medica, ampliando il perimetro applicativo della responsabilità penale dello psichiatra, fondata sulla violazione di un obbligo di custodia piuttosto che di cura. Se questo è il contesto, va da sé che lo psichiatra si preoccuperà di adempiere, in via prioritaria, compiti di custodia e controllo, a discapito dei doveri di protezione e di cura del paziente internato e delle stesse finalità sancite dalla legge n. 81 del 2014, ossia la partecipazione attiva nel percorso terapeutico del paziente, la sua responsabilizzazione e il lavoro, in chiave di risocializzazione, sulle sue competenze relazionali.

Concludendo, la scienza penalistica dovrebbe rivendicare l’importanza della salvaguardia e della cura del paziente psichiatrico, anche se autore di reato, nella fase esecutiva di una misura di sicurezza.

Soltanto la proficua collaborazione e il concreto impegno, pertanto, permetteranno di compiere passi in avanti nella strada che la legge 81/2014 ha aperto.

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1 CAPITOLO I

L’imputabilità

1. Cenni storici

Il principio secondo cui chi sia “folle”, “alienato”, “malato di mente”, “affetto da disturbo” o “sofferente psichico” in modo da vedere compromesse le sue capacità, debba essere considerato meno o per niente responsabile dei propri atti è un principio di antica data e di quasi universale accettazione.

Nel Diritto romano, invero, in aderenza alla dottrina ippocratica, i “furiosi” e i “fatui” che si fossero resi responsabili di reati andavano esenti da punizioni. La “fatuitas” era pressoché assimilabile al difetto di intelligenza; nel “furor” si ricomprendevano tutte le forme di follia. Già allora si conosceva la possibilità di un “lucido intervallo”, talché se il delitto era commesso il tale periodo, non vi era scriminante.

Nella legislazione giustinianea vediamo arricchirsi il vocabolario “nosografico” con le categorie di “dementia”, “insania”, “fatuitas”, “mania”, “amentia”: tutte situazioni che comportano l’impunità per l’eventuale delitto, fatto salvo il caso di lucido intervallo. Anche gli intensi gradi delle passioni erano considerati atti ad escludere la responsabilità.

Il successivo periodo, in cui era in vigore il diritto penale germanico, è l’unico che fa eccezione alla regola generale: tale diritto, infatti, si curava esclusivamente dell’elemento oggettivo del danno, tralasciando l’elemento soggettivo, e considerava responsabili anche i malati di mente.

La Chiesa, al contrario, si curerà sempre dell’elemento soggettivo del reato: il diritto penale canonico escludeva l’imputabilità per coloro a

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cui facessero difetto il discernimento e la volontà libera, ossia i dementi e i furiosi, comprendendo anche le situazioni di furore improvviso e transitorio. In tale periodo si assimilavano alle malattie mentali anche la febbre violenta, il sonno, il sonnambulismo, l’ira subitanea, il dolore intenso, in quanto suscettibili di incidere sulla consapevolezza e sulla libertà dell’azione. Per gli stessi motivi si escludeva l’imputabilità anche nell’ipotesi di ubriachezza.

Tali disposizioni, tuttavia, non riguardarono il periodo dell’Inquisizione, in cui prevalsero considerazioni di politica criminale: non importava che i folli fossero o meno responsabili, in quanto la malattia mentale era considerata effetto di stregoneria o di influenza diabolica ed era punita con la messa la rogo.

Il principio dell’irresponsabilità del folle tornerà in auge nel diritto laico successivamente all’anno Mille, ancora rifacendosi al vizio dell’intelletto o della volontà.

Si era iniziato, intanto, a consultare i medici: Johann Weyer, nel VI secolo, è considerato il primo psichiatra medico-legale; Paolo Zacchia, medico pontificio, è reputato il fondatore della psicopatologia forense italiana con le sue Questiones medico-legales della prima metà del XVII secolo. Egli descrive i malati con delirio parziale e distingue tra forme di origine organica, di origine psichica e di natura reattiva. In un documento russo del 1760 si legge che un truffatore venne visitato da tre medici che ne riconobbero l’infermità mentale (“è malinconico per natura, ed il suo caso rientra nella malattia della ipocondria”): al posto della pena fu inviato in un monastero. In realtà bisognerà aspettare a lungo prima che i medici vengano accolti senza o con poco sospetto nei tribunali, come testimonierà la storia dei rapporti tra psichiatria e giustizia, illustrata da Focault per la Francia e da Fornari e Rosso per il nostro Paese. È doveroso richiamare il Codice napoleonico del 1810, il quale costituisce un riferimento obbligato per l’intera storia del diritto,

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posto che informerà tutta la codificazione europea del XIX secolo, anche per le norme relative all’imputabilità. Il suo articolo 64 recitava: “Non esiste né crimine né delitto allorché l’imputato si trovava in stato di demenza al momento dell’azione, ovvero vi fu costretto da una forza alla quale non poté resistere”. Nei lavori preparatori si chiarisce che “è demente colui che soffre una privazione di ragione; che non conosce la verità; che ignora se ciò che fa sia bene o male; e che non può affatto adempiere i doveri più ordinari della vita civile. Un uomo posto in questo stato è un corpo che ha soltanto figura e ombra di uomo; il suo reato è tutto fisico, poiché moralmente non esiste nulla”. La Dottrina francese dell’epoca chiarisce altresì che la demenza comprende la follia furiosa, l’idiozia o l’imbecillità, la monomania o l’allucinazione.

In Italia, sia nei codici emanati sotto l’influsso napoleonico che in quelli pre-unitari, rimasero non solo il principio generale, ma anche le espressioni usate dal codice napoleonico o dai lavori preparatori: troviamo così esclusa la responsabilità quando “l’autore è totalmente privo della ragione”, troviamo il riferimento alla “forza irresistibile” – talvolta aggettivata come “esterna” – alla “demenza”, al “furore”, al “morboso furore”, all’“imbecillità” e alla “pazzia”. Il Codice penale per gli Stati di Parma e Piacenza contempla anche un’ulteriore ipotesi: “allorché la pazzia, l’imbecillità, il furore o la forza non fossero giusta il retto e fondato giudizio dei Tribunali a quel grado da rendere non imputabile affatto l’azione, potrà questa tuttavia essere punita, secondo le circostanze de’ casi, colla prigionia o colla custodia in casa di correzione”: si tratta, in embrione, del “vizio parziale di mente”.

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1.1 Il Codice Zanardelli

L’elemento dell’imputabilità trova espresso riconoscimento solo con il progetto del codice penale presentato alla Camera nel 1887 dal guardasigilli Zanardelli.

Il codice penale del 1889, con il quale si rispondeva alla necessità di una legislazione penale unica per tutta l’Italia, contiene molteplici innovazioni che lo fecero apprezzare non solo nel nostro paese, ma anche all’estero.

Secondo il Ghisalberti il nuovo codice penale era “veramente moderno nella sua struttura e nelle sue norme e non solo per la soppressione della pena di morte, ma anche, e forse soprattutto, per le soluzioni che prospettava ai più discussi problemi del diritto penale”2

. E tra questi vi era, senza dubbio, la questione dell’imputabilità, da sempre al centro di dibattiti dottrinali e unanimemente considerata uno dei nodi principali del diritto penale. Per quanto concerne la questione del fondamento dell’imputabilità penale, la prima parte dell’articolo 46 – nella stesura progettuale3

– sembra ispirata alla tesi che fa consistere il cardine dell’imputabilità nella volontarietà del fatto, indipendentemente dal libero arbitrio. Tale tesi fa proprie le conclusioni di quella posizione dottrinale intermedia tra i deterministi e gli indeterministi: in certi casi si ammetteva che nell’azione od omissione, sebbene sia opera di un uomo, non può concorrere la volontà. In virtù di questo, il legislatore ritenne necessario stabilire le circostanze in presenza delle quali potesse e dovesse risultare esclusa o diminuita l’imputabilità

2

Ghisalberti Carlo, La codificazione del diritto in Italia 1865/1942, Editore Laterza, Bari, 1985, p. 171.

3 Art. 46 del progetto del codice penale: “Nessuno può essere punito se non per

un’azione od omissione volontaria.

Nei delitti, nessuno può essere punito per un fatto, ove dimostri che non lo ha voluto come conseguenza della sua azione od omissione, tranne che la legge non lo ponga altrimenti a suo carico.

Nelle contravvenzioni non è ammessa la ricerca del fine che si è proposto chi le ha commesse”.

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dell’autore materiale del fatto, senza lasciare che la determinazione delle stesse fosse rimessa alla dottrina.

Sotto il profilo della struttura, la formula accolta dal progetto definitivo del codice penale4 risulta essere il frutto di una scelta a favore del sistema analitico, che il ministro Zanardelli difendeva, sostenendo che “il pregio di una legge non è quello di avere una veste scientifica, sebbene di nulla disporre che sia contrario alla scienza, e di coordinare le proprie disposizioni ai postulati di questa, purché ciò sia fatto nel modo più pratico e più intelligibile”5

. Si preferiva, cioè, dare una definizione, seppur minima, dei disturbi psichici in grado di escludere l’imputabilità, piuttosto che ricorrere ad una formula generale “intesa a fissare solo sinteticamente gli estremi della morale imputabilità, senza indicare specificatamente alcuna delle cause concrete che ne inducono l’esclusione o la diminuiscono”6

. I motivi di una simile scelta devono essere ravvisati nella considerazione che, sebbene una maggiore genericità ha l’indubbio vantaggio di evitare incomplete specificazioni, il metodo analitico consente di allontanare “il pericolo che le disposizioni della legge siano estese oltre i giusti confini e che sia attribuito un effetto dirimente alle umane passioni, le quali […] sono sempre un coefficiente inevitabile delle umane determinazioni”7

. Il metodo analitico, da un lato, garantirebbe un’applicazione delle norme più trasparente e certa, anche qualora l’evoluzione della scienza non fosse lineare e univoca, dall’altro, sarebbe maggiormente idoneo a delimitare gli spazi di operatività della disciplina della non imputabilità per vizio di mente.

4

Art. 45 del codice penale nella versione definitiva: “Nessuno può essere punito per un delitto, se non abbia voluto il fatto che lo costituisce, tranne che la legge lo ponga altrimenti a suo carico, come conseguenza della sua azione od omissione. Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od omissione, ancorché non si dimostri che egli abbia voluto un fatto contrario alla legge”.

5 Relazione Ministeriale sul libro primo del progetto di codice penale, cit., XLIV. 6 Bertolino M., L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Giuffrè,

Milano, 1990, p. 365.

7

(21)

6

Sulla base di considerazioni simili, l’articolo 47 del progetto dello Zanardelli8 prevedeva nozioni sintetiche ma specifiche, quali quelle di “stato di deficienza o di morbosa alterazione di mente”. La Commissione di revisione, tuttavia, preferì utilizzare la formula ancora più sintetica di “infermità di mente”, la quale fu poi accolta all’interno del codice9

, perché si ritenne che nel concetto di deficienza poteva venire erroneamente ricondotto “anche lo stato di sonno, che, in quanto mancanza di volontà degli atti compiuti da chi è addormentato, andava ricondotto all’articolo precedente relativo all’elemento soggettivo del reato”10. Nel testo originario dell’articolo

47, inoltre, era stato specificato che tale anomalia dovesse dipendere “da uno stato psichico tale da togliere la coscienza dei propri atti o la possibilità di operare altrimenti”11

, ossia tale da eliminare la capacità di intendere e di volere, non essendo ogni turbamento idoneo ad escludere l’imputabilità. Anche questa espressione, tuttavia, fu modificata, sostituendo nel testo definitivo le parole “possibilità di operare altrimenti” con quelle ritenute più efficaci di “libertà dei propri atti”.

In merito al trattamento dei soggetti ritenuti non imputabili, la formula originaria del progetto Zanardelli12 prevedeva il ricovero del soggetto in manicomio criminale o comune, su ordine del giudice. Tale formula non fu accolta da nessuna delle Commissioni parlamentari, per il timore che si attribuisse al magistrato un arbitrio troppo ampio, e venne sostituita con altra che prevedeva la consegna

8 Art. 47, comma 1, del progetto del codice penale: “Non è imputabile colui che,

nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di deficienza o di morbosa alterazione di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti”.

9 Art. 46, comma 1, del codice penale nella versione definitiva: “Non è imputabile

colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di infermità di mente da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti”.

10

Verbali della Commissione, Roma, 1889.

11 Relazione Ministeriale, cit., XLVI.

12 Art. 47, comma 2, del progetto del codice penale: “Il giudice può tuttavia

ordinare che sia ricoverato in un manicomio criminale o comune, per rimanervi sino a che l’Autorità competente lo giudichi necessario”.

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7

dell’imputato assolto, ritenuto pericoloso, all’Autorità amministrativa. Il risultato fu l’attribuzione al giudice solo della possibilità di ordinare la consegna del soggetto all’autorità competente, nel caso in cui la sua liberazione fosse ritenuta pericolosa13. Questo generico affidamento all’autorità competente – che si traduce, di fatto, nel ricovero in manicomio comune – sollevò il disappunto dei positivisti, fermi sostenitori dell’idea che solo i manicomi criminali potessero costituire una soluzione efficace al problema. La scelta del legislatore, tuttavia, faceva parte del più ampio progetto di “realizzazione del modello di diritto penale teorizzato dalla Scuola classica”14

, di cui il Codice Zanardelli costituisce appunto il risultato.

Il Codice Zanardelli rappresenta, infatti, la realizzazione del modello di diritto penale elaborato dalla Scuola classica15 che, muovendosi

13 Art. 46, comma 2, del codice penale nella versione definitiva: “Il giudice,

nondimeno, ove stimi pericolosa la liberazione dell’imputato prosciolto, ne ordina la consegna all’Autorità competente per i provvedimenti di legge”.

14 Dolcini E., voce Codice penale, in Digesto delle discipline penalistiche, Torino,

1989, p. 276.

15 La Scuola classica rappresenta l’interpretazione della criminalità e della giustizia

penale sviluppatesi nel diciottesimo secolo; tra gli autori più noti si ricordano Cesare Beccaria e Jeremy Bentham. La Scuola classica contribuì ad una concezione umanistica del sistema legale e della giustizia penale: lo scopo principale della legge era quello di fungere da deterrente al comportamento criminale. Questa impostazione presupponeva che gli esseri umani fossero razionali e liberi nell’agire. Ogni individuo avrebbe dovuto essere in grado di ponderare il piacere da trarre da un comportamento illegale, rapportandolo con la punizione decretata dalla legge ed in seguito decidere di agire. Secondo Bentham, la punizione costituisce un male in sé, essa va applicata soltanto per poter evitare un male più grande, divenendo la deterrenza l’unica grande giustificazione della punizione. In particolare, la Scuola classica distingueva due tipi di deterrenza: una di carattere specifico (applicata all’individuo che avesse commesso un reato: l’idea era quella di infliggere un dolore sufficiente a controbilanciare il piacere ottenuto dalla commissione del reato) ed una di carattere generale (che doveva servire a scoraggiare i potenziali rei, mostrando loro che un individuo punito non trae guadagno dal suo reato).

È possibile riassumere i concetti fondamentali della Scuola classica: ogni individuo è libero di prendere decisioni e di compiere le proprie scelte in modo razionale; un crimine è un atto contro il contratto sociale, ossia un’offesa morale contro la società; ogni persona è giustificata nella misura in cui serva a preservare il contratto sociale e, di conseguenza, lo scopo della pena consiste nel prevenire violazioni future, scoraggiando comportamenti socialmente pericolosi; sono giustificate solo quelle pene la cui quantità controbilanci i vantaggi ottenuti commettendo un reato.

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8

dal postulato del libero arbitrio (uomo assolutamente libero nella scelta delle proprie azioni), pone a fondamento del diritto penale la responsabilità morale del soggetto e la concezione etico-retributiva della pena. Qualora l’individuo fosse privo di ogni libertà di scelta e non avesse la possibilità di agire altrimenti, nessun rimprovero potrebbe essergli mosso allorché violi la legge.

Tre decenni dopo l’entrata in vigore del primo codice penale italiano, le spinte della Suola positiva16 indussero il guardasigilli Mortara ad affidare ad Enrico Ferri, il massimo esponente di tale indirizzo criminologico, il compito di aggiornare la legislazione penale. Nel 1921 nasceva il Progetto Ferri che si poneva in decisa antitesi rispetto al codice Zanardelli, espressione della rivale Scuola classica. Così ne parla Ghisalberti: “Rovesciando infatti la logica ispiratrice di ogni legislazione penale codificata tendente a considerare il reato invece del reo e la repressione retributiva piuttosto che in forma preventiva, il progetto […] era essenzialmente costruito sulla personalità e sulla pericolosità del delinquente, ritenendo il delitto un

16 La Scuola positiva si sviluppa a partire dal diciannovesimo secolo e gli inizi del

positivismo vengono fatti risalire ai lavori di tre studiosi italiani: Cesare Lombroso, Enrico Ferri e Raffaele Garofalo. A differenza degli esponenti della Scuola

Classica, che cercavano di rendere più rispettoso della dignità umana il sistema in cui vivevano, i positivisti avevano come scopo quello di ordinare e spiegare scientificamente il mondo attorno a loro. Mentre i classicisti ritenevano che gli esseri umani possedessero una mente razionale, che li poneva in grado di scegliere liberamente tra il bene ed il male, i positivisti sostenevano che il comportamento umano fosse determinato da tratti biologici, psicologici e sociali. Il pensiero criminologico positivista era interessato al comportamento criminale in sé, piuttosto che ad aspetti legali come i diritti, la prevenzione del crimine, la cura e la riabilitazione dei rei. I positivisti assunsero quindi una posizione deterministica verso il comportamento, scartando la concezione classica degli esseri umani come persone razionali e libere di scegliere. In questa prospettiva, il valore deterrente della pena apparve privo di senso. Se il comportamento di un individuo non era basato su decisioni razionali, come poteva funzionare il sistema di deterrenza individuale? Bisognava trovare i fattori che stavano alla base del comportamento criminale, per rimuoverli o curarli. Era inoltre necessario saper prevedere quali individui avessero maggiori probabilità di divenire criminali, in modo da prevenire la loro azione prima che danneggiassero se stessi e la società.

Secondo i positivisti, l’unica spiegazione della criminalità era di tipo sociale: il delitto non era espressione di una libera scelta del soggetto, ma manifestazione necessitata di determinale cause. Alla base dl diritto penale non vi era più la responsabilità etica, ma la pericolosità sociale del soggetto e la concezione difensiva della sanzione penale.

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9

elemento di valutazione di queste e non anche il dato oggettivamente più rilevante”17

.

Coerentemente con i postulati della Scuola positiva, il progetto Ferri poneva inoltre come fondamento del diritto penale il principio della responsabilità sociale al posto del principio della responsabilità morale del delinquente, con la conseguente negazione del criterio dell’imputabilità e l’esaltazione di quello della pericolosità. La colpevolezza non poteva essere ricondotta alle “consuete norme astratte di responsabilità morale”, ma piuttosto “ispirarsi sempre al criterio fondamentale della responsabilità del delinquente, più o meno pericoloso, più o meno correggibile”18

.

Le numerose critiche suscitate sia a livello dottrinale che politico, tuttavia, portarono all’abbandono del progetto Ferri.

1.2 Il Codice Rocco

Con l’avvento del regime fascista l’idea di un nuovo codice penale si fece sempre più viva, sia per la necessità di un ammodernamento della legislazione, sia per la pressione esercitata da certi ambienti in favore di norme penali più rispondenti alla concezione politico-ideologica del fascismo. Con la Legge del 24 dicembre 1925 n. 2260 veniva delegato il governo ad emanare un nuovo codice e nominato dal Ministro Alfredo Rocco un comitato di esperti per la redazione del progetto preliminare. Venuto alla luce nel 1930, in pieno regime fascista, il codice penale Rocco riflette la concezione autoritaria dello Stato. Espressione diretta di questa concezione autoritaria è la regolamentazione delle conseguenze penali, caratterizzata da una severità che in Europa non ha eguali. Questo rigorismo sanzionatorio si manifesta sia con l’introduzione della pena di morte, sia con l’ampliamento della pena dell’ergastolo e con l’inasprimento delle

17

Ghisalberti C., La codificazione del diritto in Italia 1865/1942, cit., pp. 220-221.

18

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10

pene principali e delle pene accessorie. Lo stesso sistema del doppio binario, che prevede l’applicazione delle misure di sicurezza in aggiunta o in sostituzione della pena, era espressione della severità del codice e costituiva un ulteriore strumento repressivo di difesa dell’ordine giuridico, dal momento che le misure di sicurezza, indeterminate nella durata e retroattive, potevano essere utilizzate al di fuori delle garanzie che offriva la pena. Ma l’impronta autoritaria è presente anche in altri settori, come in quello della personalità, dove “la logica autoritaria del legislatore del ’30 ha vanificato le innovatrici aperture verso la personalità del delinquente, operate dal diritto sostanziale […] sotto la spinta del positivismo penale, sia attraverso la configurazione della pericolosità sociale presunta […] sia vietando […] al giudice di avvalersi dei mezzi scientificamente più appropriati per l’esame della pericolosità e più in generale della personalità del soggetto”19

.

Per quanto riguarda più specificatamente il tema dell’imputabilità, il codice del 1930 sembra voler prendere le distanze dalle classiche enunciazioni del libero arbitrio, per accogliere invece le posizioni del c.d. “determinismo psicologico”, fondato sulla capacità del soggetto di essere determinato nella propria volontà da motivi consci20. Arturo Rocco nelle sue dichiarazioni precisa che ai fini dell’accertamento dell’imputabilità è sufficiente che l’azione sia volontaria, che colui che l’ha posta in essere abbia l’attitudine psicologica di volere. Questo perché non è possibile concepire una volontà senza causa e senza motivi. La volontà umana, come tutti gli altri fenomeni, non

19 Mantovani F., Diritto penale, cit., p.31

20 Nella Relazione al Re, in Gazzetta Ufficiale 26 ottobre 1930, il libero arbitrio

viene definito una “questione filosofica insoluta e forse insolubile, che deve rimanere del tutto estranea al diritto penale, in quanto la soluzione di essa non è affatto necessaria per la giustificazione razionale e per l’applicazione della legge penale”. E poco prima si era detto che “la verità è che il volere dell’uomo subisce anch’esso la legge di causalità, al pari di ogni altro fenomeno, ma questa causalità non è fisica o materiale, e neppure fisiologica: è invece, in conformità della natura psicologica del fenomeno ch’essa è chiamata a regolare, una causalità meramente psicologica, cioè un determinismo, non solo fisico o meccanico o fisiologico, ma meramente psicologico”.

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11

può sottrarsi alla legge di causalità: ne deriva che esistono cause psicologiche, ossia motivi coscienti, che determinano la volontà umana. Sulla base di tali osservazioni, possiamo dire che il nuovo codice pone come fondamento dell’imputabilità la libertà di determinarsi del soggetto agente, anche se accolta in termini diversi da quelli propriamente filosofici.

Il legislatore del 1930, quindi, ufficialmente sembra non aderire né alle posizioni della Scuola classica né alle conclusioni dei positivisti. E questo è spiegato chiaramente nella Relazione al Re, laddove si dice che: “il nuovo codice non ha creduto di dover aderire in toto ai postulati di una piuttosto che di un’altra scuola criminologica […] il nuovo codice penale ha ritenuto migliore avviso non giurare in modo esclusivo nel verbo di una o di altra scuola scientifica. Esso ha ritenuto opportuno prendere da ciascuna scuola soltanto ciò che in esse vi è di buono e di vero, poco curandosi di creare un sistema legislativo logicamente dedotto, fino alle estreme conseguenze, da un principio teorico unilaterale, e molto preoccupandosi, invece, di foggiare un sistema che tutte le scuole componesse nell’unità di un più alto organismo atto a soddisfare i reali bisogni e le effettive esigenze di vita della società e dello Stato”21

.

Da un lato, infatti, il legislatore si allontana dai postulati della Scuola classica, considerando anche il fatto del non imputabile come reato, se rispondente ad un modello criminoso; dall’altro, respinge l’impostazione positivista, prevedendo per i soggetti incapaci di intendere e di volere per motivi a loro non rimproverabili una sanzione speciale con finalità terapeutiche e di prevenzione speciale. Concludendo, possiamo dire che l’intenzione del legislatore è quella di colpire con la pena il soggetto che, al momento della commissione del fatto, non era affetto da incapacità di determinarsi per motivi a lui non rimproverabili e di agire in via di prevenzione speciale nei

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12

confronti di chi invece era affetto da tale incapacità. Quindi, se nella sostanza è presente il principio di stampo classico di sanzionare penalmente solo l’autore del reato che abbia agito liberamente, è altrettanto vero che il codice del 1930 ha ricondotto sotto la competenza penale anche l’illecito commesso dal soggetto privo di tale libertà, predisponendo allo scopo un diverso trattamento sanzionatorio.

Per quanto riguarda la disciplina sostanziale, il Codice Zanardelli non conteneva una definizione esplicita di imputabilità e, dopo avere stabilito all’articolo 46 che nessuno poteva essere punito per un delitto, se non lo aveva voluto come conseguenza della sua azione od omissione, nel successivo articolo 47 si limitava a richiedere, ai fini della punibilità, che il soggetto, al momento del fatto, non fosse in uno “stato di infermità di mente” tale “da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti”. Al contrario, il Codice Rocco introduce una definizione generale del soggetto imputabile, distinguendo l’imputabilità dalle altre componenti soggettive del reato. L’introduzione di questa definizione generale rispondeva alla necessità di una revisione del titolo quarto del primo libro, relativo alle cause di esclusione e diminuzione dell’imputabilità. Così, pur riconoscendo che la capacità di intendere è un presupposto della volontà nel fatto commesso, per l’esigenza di ordinare istituti che il codice previgente aveva previsto in modo disorganico, si preferì sistemare le norme fondamentali sull’imputabilità nel capo autonomo dedicato alle cause di esclusione o diminuzione della stessa.

In questo modo si confermava l’orientamento, già proprio del Codice Zanardelli, a favore di una “responsabilità penale delle azioni umane, che noi chiamiamo reati, […] saldamente affidata al principio

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13

dell’imputabilità psichica e morale dell’uomo, fondato a sua volta sulla normale capacità di intendere e di volere”22

.

22

(29)

14

2. Il dibattito dottrinale sulla posizione sistematica dell’imputabilità

2.1 Imputabilità e reato

L’interessante dibattito dottrinale in tema di imputabilità nasce dal problema sollevato all’inizio del ‘900 dal Grispigni, che si domandava se l’illecito commesso dal non imputabile fosse configurabile come reato o meno23.

La dottrina dominante sosteneva che l’atto dannoso compiuto dall’infermo di mente fosse giuridicamente indifferente. Grispigni si pone in aperta polemica con tale impostazione alla cui base vi sarebbe, secondo il giurista, “una confusione dei rapporti tra diritto e morale”24

, che induce a considerare gli atti del non imputabile non suscettibili di valutazione giuridica in quanto non suscettibili di valutazione morale. Grispigni analizza e sottopone ad una accurata critica i due argomenti che la dottrina predominante all’epoca portava a sostegno della tesi secondo cui il pazzo è incapace di compiere qualsiasi atto avente valore giuridico. Secondo la prima argomentazione il diritto non dovrebbe valutare l’atto dell’infermo, in quanto sarebbe privo delle tre caratteristiche ritenute essenziali affinché l’azione possa considerarsi giuridicamente rilevante: la volontà, la coscienza e la libertà. Per Grispigni, invece, l’unico elemento indispensabile è quello della volontà: la volontarietà dell’atto è necessaria, tuttavia non si richiede anche che la volontà sia

23

Grispigni Filippo, Il delitto del non imputabile nel concorso di più persone in uno stesso reato, 1911, p. 1: “Se un pazzo, un ubriaco, un fanciullo feriscono o uccidono una persona, incendiano una casa, stuprano una donna ognuno deve convenire che – dal punto di vista della realtà psicologica e sociale – esistono vari delitti ed altrettanti delinquenti. Invece, dinanzi agli stessi fatti, il diritto – sia come norma statuale sia come dottrina – proclama: giuridicamente in questi casi non esistono né delitti né delinquenti”.

24

Grispigni F., La responsabilità giuridica dei c.d. non imputabili, SEL, Milano, 1920, p. 6.

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15

cosciente e libera, cioè normale, perciò anche l’atto dell’incapace deve essere valutato dal diritto e dichiarato lecito o illecito a seconda che sia conforme o meno alla norma.

Il secondo argomento a sostegno della non configurabilità del reato del non imputabile è quello per cui gli incapaci, non essendo in grado di conformare la propria volontà a quanto richiesto dal comando giuridico, non potrebbero essere validi destinatari della norma. In merito a questa argomentazione, Grispigni si chiede “come si può sostenere che i precetti giuridici non valgono di fronte agli incapaci, quando […] la norma penale vale perfino contro chi ne ignora l’esistenza?”25

. Il comando giuridico è infatti obbligatorio in via assoluta e le condizioni psichiche del soggetto rileveranno solo al momento di determinare le conseguenze giuridiche del fatto.

Secondo la conclusione del Grispigni “la norma giuridica ha un valore assoluto, e cioè tanto di fronte ai sani come agli infermi di mente, e tanto di fronte agli adulti come di fronte ai minori. E non è vero affatto che l’azione dell’incapace sia al di fuori della valutazione giuridica; ma la medesima può essere dichiarata lecita o illecita, secondo che sia conforme o non alla norma”26.

I sostenitori delle idee grispignane considerano l’imputabilità una qualificazione giuridica soggettiva, perciò riguardante la tematica del reo e non del reato. Ne deriva che il rapporto tra reato e imputabilità è di assoluta indipendenza, potendo sussistere il primo anche in assenza della seconda. Al fatto commesso dal non imputabile, così come a quello commesso dal soggetto imputabile, conseguono effetti giuridici penali, caratterizzati solo dalla diversa finalità special-preventiva. Perciò, l’eventuale presenza di situazioni di incapacità naturalistica rilevante o di pericolosità sociale saranno oggetto di accertamento, in vista della misura di sicurezza, solo dopo

25

Grispigni F., La responsabilità giuridica dei c.d. non imputabili, cit., p. 15.

26

(31)

16

l’accertamento dell’avvenuta commissione di un fatto previsto dalla legge come reato.

2.2 Imputabilità e “capacità penale”

Diversamente dalla capacità giuridica di diritto civile, quella di diritto penale non è un concetto definito dal legislatore e questo ha postato alcuni a considerare tale nozione una elaborazione meramente dottrinale27. All’interno della dottrina dominante, tuttavia, si è giunti a conclusioni molto diverse tra loro. C’è chi fa coincidere le nozioni di capacità di agire e capacità giuridica, facendole confluire nel concetto unitario di capacità di diritto penale. Altri, invece, ritengono che le due nozioni siano autonome, in quanto la capacità di agire rappresenta l’attitudine a porre in essere una condotta penalmente rilevante, mentre la capacità giuridica è la capacità dell’individuo ad essere soggetto di imputazione dell’illecito penale e della relativa sanzione. Tra questi, alcuni pensano che ad ogni persona fisica debba essere riconosciuta la capacità di agire, ricomprendendovi anche i non imputabili e i c.d. immuni, i quali, però, sarebbero privi della capacità giuridica di diritto penale. Altri ritengono che solo chi è in grado di compiere un’azione penalmente rilevante abbia capacità di agire (escludendola, così, ad esempio, nei neonati), mentre i non imputabili sarebbero privi della capacità

27 Antolisei sostiene che parte della dottrina, ritenendo che non tutti gli uomini

possono essere soggetti attivi del diritto, avrebbe elaborato la nozione di capacità penale (intesa come l’insieme delle condizioni per cui un uomo può considerarsi soggetto di diritto penale), escludendone la sussistenza sia nelle persone che godono delle immunità, sia nei soggetti non imputabili. Per Antolisei tale nozione “non ha ragione di essere”. E, per quanto riguarda chi fruisce di un’immunità, l’inapplicabilità della sanzione costituisce solo un trattamento particolare, ma non significa una non assoggettabilità alle leggi; i non imputabili, se non sono soggetti alla pena, sono passibili di misure di sicurezza, quindi non sono fuori

dall’ordinamento penale (Francesco Antolisei, Manuale di diritto penale parte generale, Giuffrè, Milano, 2003).

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17

giuridica, dal momento che non possono essere soggetti di imputazione di un illecito penale e della relativa sanzione.

Per quanto riguarda più specificatamente il rapporto tra imputabilità e capacità penale, alcuni autorevoli giuristi28 tendono a far coincidere la nozione di imputabilità con quella di capacità di diritto penale, annullando così l’autonomia della seconda, la quale non sarebbe altro che un nuovo nome per l’antica nozione dell’imputabilità. Tale identificazione, tuttavia, non può essere accettata: tutti, anche un infermo di mente, sono in grado di commettere un fatto previsto dalla legge come reato e sono quindi soggetti attivi del rapporto. È opportuno quindi distinguere tra capacità penale e imputabilità: la prima si identifica con la capacità di essere soggetto di diritto penale e, quindi, soggetto al diritto penale, ed è propria di tutti gli individui, prescindendo dall’età, da fattori psico-fisici o dall’immunità; diversamente, l’imputabilità, ossia la capacità alla pena, è un concetto sul quale incidono tali aspetti fisiologici e psicologici. Altri, pur non arrivando all’identificazione delle due nozioni, ritengono la capacità di intendere e di volere elemento necessario della capacità penale, per cui la mancanza della prima escluderebbe l’esistenza della seconda, di modo che i soggetti non imputabili sarebbero penalmente incapaci. La capacità giuridica, dunque, sarebbe il presupposto per il sorgere di una situazione giuridica in capo ad un determinato soggetto. Secondo Moro, infatti, “dall’incontro immancabile tra la norma astratta, che disciplina […] una determinata situazione, con un soggetto empirico”29

, sorgerebbe in testa a questo la qualificazione di giuridicamente capace. Questo punto di incontro è caratterizzato dalla convergenza di una norma che prevede astrattamente un dato comportamento e di un soggetto in possesso di certi requisiti, come la capacità di intendere e di volere e

28 Ad esempio Bettiol, per il quale “capacità è sinonimo di imputabilità” (Giuseppe

Bettiol e Luciano Pettoello Mantovani, Diritto penale, Cedam, Padova, 1986, p. 455).

29

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18

l’assenza di situazioni di immunità. Nel pensiero di Moro, quindi, la capacità altro non è che una “figura di qualificazione giuridica che rende possibile l’attivarsi della norma astratta verso concrete soggettivazioni”30

.

Secondo Marini, infine, dato che la capacità penale fa parte della teoria generale del diritto, la questione va risolta chiedendosi se al fatto commesso dal non imputabile siano ricollegate o meno conseguenze giuridiche penali. Se la risposta è positiva – e la dottrina è ormai concorde nell’attribuire alle misure di sicurezza natura di sanzioni penali, anche se con finalità e contenuti diversi – l’identificazione dell’imputabilità con la capacità penale non ha senso: le misure di sicurezza si applicano al soggetto che ha commesso il fatto previsto dalla legge come reato, previo accertamento della sua avvenuta realizzazione. Va altresì negata la considerazione della prima quale presupposto della seconda, per cui, la presenza o l’assenza dell’imputabilità è del tutto irrilevante ai fini dell’accertamento della capacità di diritto penale.

2.3 Imputabilità e colpevolezza

I rapporti tra imputabilità e colpevolezza sono da sempre stati oggetto dell’attenzione della dottrina, dibattuta se considerare o meno la prima presupposto o requisito della seconda.

Con il termine “colpevolezza” viene indicato l’elemento soggettivo del reato. Il reato è costituito, infatti, da un aspetto oggettivo e da un aspetto psicologico (la colpevolezza), entrambi essenziali. Questo significa che, affinché il fatto possa essere considerato reato, non basta che il soggetto lo abbia materialmente posto in essere, ma occorre anche che gli appartenga psicologicamente.

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19

Il concetto di colpevolezza si è sviluppato attraverso due concezioni. Nella seconda metà del XIX secolo dominava la concezione psicologica, secondo la quale la colpevolezza consisteva in un nesso psichico tra l’agente e il fatto. Tale nesso serviva a stabilire l’an della responsabilità, ma non essendo graduabile, non consentiva la valutazione del quantum della stessa.

Agli inizi del ‘900 venne elaborata la concezione normativa della colpevolezza. Tale orientamento ha avuto origine in Germania dal teorico e giurista Reinhard Frank e concepisce la colpevolezza come un concetto normativo che esprime il giudizio di rimproverabilità per l’atteggiamento antidoveroso della volontà rispetto alla norma d’obbligo. In altre parole, la colpevolezza è la contraddittorietà tra la volontà dell’individuo nel caso concreto e la volontà della norma. L’innovazione rivoluzionaria è rappresentata dall’introduzione del parametro della riprovevolezza intesa come “situazione soggettiva che condiziona l’applicabilità di sanzioni destinate a quanti il sistema ritiene meritevoli di punizione”31

. Il giudizio di riprovevolezza non viene più elaborato con riferimento alla sola personalità del reo, ma si tiene conto anche del suo rapporto con l’ambiente e del contesto sociale in cui vive. La colpevolezza arriva, quindi, a ricomprendere anche il grado di contrarietà della specifica condotta, tenendo conto della situazione personale e sociale dell’agente. La rimproverabilità sarà, pertanto, più elevata quanto più sarebbe stato esigibile un comportamento conforme alla norma da parte de soggetto e sarà minore quanto meno poteva in concreto richiedersi a quest’ultimo di rispettare la regola di condotta.

Un’ulteriore importante novità che viene introdotta è la graduabilità della colpevolezza, che diventa possibile grazie ad un oggettivo punto di riferimento, ossia la riprovevolezza del comportamento rispetto a quanto prescrive il dato normativo. Il dolo e la colpa si

31

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20

ricongiungono sul piano normativo: l’elemento comune diventa “la circostanza che il soggetto ha agito […] in modo difforme da come l’ordinamento voleva che agisse”32

.

Con l’affermarsi della concezione normativa, l’imputabilità viene ad essere vista come presupposto della colpevolezza33. Per cui l’imputabilità prima ancora di essere capacità alla pena sarebbe capacità alla colpevolezza, non essendoci colpevolezza senza imputabilità e pena senza colpevolezza. Come rileva Antolisei, “ne consegue che il non imputabile non commetterebbe un reato non punibile, ma un fatto tipico non colpevole”34. Tale opinione si basa anche sulla radicata convinzione che il giudizio sulla colpevolezza implica un rimprovero morale al soggetto e, di conseguenza, per poter muovere un rimprovero ad una volontà, è necessario che questa si sia formata in un soggetto capace di intendere e di volere35. In particolare, si sostiene che la colpevolezza implica necessariamente la maturità e normalità psichica, dal momento che per agire con dolo è necessario conoscere la realtà, rendersi conto dell’azione che si compie e delle conseguenze che essa comporta e per agire con colpa occorre essere capaci di agire diligentemente e prudentemente, anche se poi ci si comporta diversamente. In questo modo, di fronte ad una presunta incapacità del soggetto, prima ancora di chiedersi se egli possa agire con dolo o con colpa, occorrerà chiedersi se egli sia idoneo a percepire il disvalore dell’azione o, per usare le parole della Corte Costituzionale, se abbia “la possibilità di rendersi conto di commettere un fatto penalmente illecito”36.

La più moderna dottrina e giurisprudenza si schiera a favore di tale indirizzo, in base al quale l’imputabilità non è più considerata solo

32 Collica M.T., Vizio di mente: nozione, accertamento e prospettive, cit., p. 17. 33 In tal senso Bertolino M., L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, p.

527; Fiandaca, Musco, Diritto penale parte generale, p. 291; Mantovani, Diritto penale, p. 306.

34 Antolisei F., Manuale di diritto penale parte generale, cit., p. 320. 35

Mantovani, Diritto penale, Cedam, Padova, 2007.

36

(36)

21

come capacità di intendere e di volere, ma come “capacità di pena, in quanto capacità di colpevolezza”37

.

2.4 Imputabilità e coscienza e volontà della condotta

Essendo un presupposto della colpevolezza, l’imputabilità è distinta in modo netto dalla coscienza e volontà della condotta di cui all’articolo 42, comma 1, del codice penale38

. La coscienza e volontà, infatti, riferita alla singola azione od omissione, esprime il “coefficiente di umanità” che consente di considerare l’azione o l’omissione come propria di un soggetto, a lui attribuibile e in questo senso sua; l’imputabilità, invece, riferita al soggetto, è la condizione di questo che consente di connotare l’azione o l’omissione come sua, già a lui attribuibile, come azione od omissione colpevole. Detto in altro modo: la coscienza e volontà attiene al fatto (tipico), l’imputabilità è capacità di colpevolezza del soggetto ed è pertanto da valutare dopo il fatto.

Ne deriva che soltanto in presenza di un’azione o omissione cosciente e volontaria vi sarà da verificare se, al momento del fatto, vi fosse o meno l’imputabilità di chi l’ha compiuto.

37

Bertolino M., Empiria e normatività nel giudizio di imputabilità per infermità di mente, in Leg pen., 2006, p. 215.

38

Art. 42, comma 1, c.p.: “Nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato, se non l’ha commessa con coscienza e volontà”.

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