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Es ist eine Tragoedie es ist eine Komoedie. Tragico e comico nel teatro austriaco.

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Academic year: 2021

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Es ist eine Komödie es ist eine Tragödie.

Tragico e comico nel teatro austriaco

Riccardo Morello

Quando nel 1781 fu aperto il primo dei tre nuovi teatri Viennesi di periferia (Wiener Vorstadtbühnen), il Theater in der Leopoldstadt, il pubblico vide raffigurata sul grande velario la seguente scena che rappresenta in sintesi tutta la storia del teatro comico popolare del Settecento:

A sinistra siede Hanswurst in lutto, piangendo la propria cacciata dal teatro. Al centro della tela le figure della commedia dell’arte Pierrot, Arlecchino e il dottore ballano un girotondo dandosi la mano, ma hanno i piedi incatenati a simboleggiare il fatto che non sono più liberi di muoversi nel teatro tedesco. A destra è raffigurato il Parnaso, con l’ingresso impedito da una sbarra e un guardiano arcigno e pedante che con un bastone nega l’accesso ai personaggi del teatro comico. Intanto Kasperl, accompagnato da Talia, sale in cielo su un carro alato, a dispetto del guardiano, e fa’ il suo ingresso nel Parnaso; cosa che gli viene concessa generosamente da tutti coloro che sono concilianti e amano vivere e lasciar vivere1.

Questa allegoria in effetti simboleggia la storia del dibattito sul comico e sulla commedia a Vienna nel corso del Settecento, la vittoria delle figure comiche del teatro polare, nate tra la fine del Seicento e i primi del Settecento dalla contaminazione tra le maschere della commedia dell’arte italiana e le maschere locali come Hanswurst appunto, contro i loro potenti oppositori, i propugnatori del dramma aulico che, insieme alle istituzioni politiche e burocratiche, avevano cercato in ogni modo di addomesticare il teatro comico farsesco, rendendolo più consono al “tono medio” del teatro borghese. La censura e la proibizione

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Cfr. J. A. Stranitzky, J. F. Kurz, P. Haffner, J. Perinet, A. Bäuerle, Hanswurstiaden,

Ein Jahrhundert Wiener Komödie, hrsg. von J. Sonnleitner, Salzburg, Residenz,

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dell’improvvisazione da un lato e la nascente critica letteraria e teatrale non erano però riuscite a ridurre la popolarità e la diffusione del teatro comico-satirico: dopo Hanswurst, la maschera creata da Anton Stranitzky il primo grande attore-interprete di quel repertorio, altri successori e concorrenti si erano avvicendati sulle scene: Kurz con il suo Bernardon e poi Thaddädl, Kasperl e Staberl, i precursori della figura di Papageno nel Flauto Magico di Mozart.

Joseph Felix Kurz (Vienna 1717-1784) appartiene alla seconda generazione di autori interpreti. Proveniva da una famiglia di attori, Stranitzky era stato suo padrino di battesimo. Kurz creò la figura di Bernardon che ottenne un tale successo di pubblico da farlo identificare col suo personaggio e adottare il nome di Kurz-Bernardon. Era un grande improvvisatore e trasformista delle scene, capace di assumere qualsiasi ruolo e identità. Recitava più ruoli nella stessa commedia, anche en travestie, era in grado di cantare con voce di tenore, basso e controtenore. Un prodigio di bravura ed eccentricità, una vera carica della natura, un assoluto maestro nella parodia e nella satira, il personaggio che più spinse il teatro viennese verso la profanazione e la secolarizzazione delle forme tradizionali del dramma e di una particolarissima mescolanza di humor nero e di comicità sfrenata, quella che avrebbe poi ereditato un secolo dopo Johann Nepomuk Nestroy:

Fahrt ein Madel mit spazieren

Muss man sie und die Räder schmieren Sonsten fahrt man gar nicht weit

Darum bleibt mein Schluss bestellt Eitel ist die ganze Welt2.

Se ti porti a spasso una fanciulla Devi ungere ben bene lei e le ruote, altrimenti non farai molta strada, perciò ascolta la mia conclusione, tutto il mondo è vanità!

Quando iniziò a recitare nel Theater am Kärntnertor, intorno agli anni 40 del Settecento, era ancora forte

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l’influsso della commedia dell’arte italiana. Nel Seicento Vienna aveva assorbito il melodramma in lingua italiana e il teatro barocco e gesuitico in lingua latina. Nel Settecento comincia a incrinarsi la tradizionale struttura dualistica del teatro barocco, con al centro il dramma e a latere l’appendice o l’intermezzo comico. L’improvvisazione guadagna terreno, anche se periodicamente censurata e avversata dalle autorità, e si allarga anche la componente musicale, sotto forma di arie, duetti e concertati, secondo lo schema della francese opéra comique che alternava recitazione e canto. Questo preparerà la strada allo sviluppo del Singspiel e successivamente dell’operetta. Le forme tradizionali del barocco – teatro fiabesco con grande dovizia di macchine sceniche – si associa alla comicità dei personaggi popolari e delle maschere. Le cosiddette Bernardoniaden creano un nuovo mondo magico che è puro teatro di illusione, una dimensione in cui non ci sono né gerarchie né ordini prestabiliti, persino la logica della trama è sovvertita: cielo e terra, dei e umani, morti e vivi, personaggi presenti e passati vengono trascinati in un turbine che rimescola ogni scala di valore, l’universo barocco risulta privato di ogni trascendenza e anarchicamente sconvolto, fatto che naturalmente mette in discussione la struttura gerarchica dell’ancien régime e ridicolizza parodiandola la tradizionale poetica del dramma di corte. La parodia è un concetto basilare di questo teatro che si appoggia a Vienna su una secolare tradizione in questo senso e conta su un pubblico misto, appartenente sia alla classe aristocratica che a quella popolare. Linguisticamente è il dialetto viennese a costituire la sostanza di questa satira capace nello stesso tempo di mimare e mettere in discussione il linguaggio aulico del dramma. I monologhi di Kurz Bernardon risalgono ad una tradizione barocca austriaca, quella dei predicatori come il celebre Abraham A Sancta Clara – il modello del padre cappuccino ritratto da Schiller nel Wallenstein, – col loro eloquio sapido e colorito, pieno di giochi di parole, calembour, allusioni, paradossi, neologismi che obbediscono al principio della contaminazione, del pastiche, secondo una tendenza

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molto affine ai processi destrutturanti dell’avanguardia. Nel corso del Settecento vi furono reiterati tentativi da parte delle autorità e di intellettuali illuministi come Joseph von Sonnenfels di normalizzare e addomesticare gli eccessi satirici e farseschi, la cinica irriverenza del teatro popolare. In Germania il dibattito si concentra sulla necessità di bandire dalle scene le figure comiche di Arlecchino e Hanswurst, accusate di volgarità, e per imporre un “tono medio” alla commedia. Lessing sarà la figura di spicco di questo processo di raffinamento e imborghesimento del teatro comico. La sua Minna von Barnhelm (1767) rappresenta una pietra miliare del nuovo teatro, come da noi in Italia La locandiera di Goldoni. Quando Lessing, nella speranza che Giuseppe II, il grande imperatore illuminista figlio di Maria Teresa, desse vita a Vienna a un nuovo teatro nazionale tedesco, venne in città e assistette alle rappresentazioni dei suoi drammi rimase inorridito. A differenza che nel suo teatro di Amburgo, nell’ambiente protestante e compassato della Germania settentrionale, qui non c’era alcun rispetto per gli autori e per i testi, il teatro era soprattutto mestiere, la gente andava a teatro per applaudire i suoi beniamini, i quali dominavano le scene trasformando addirittura i testi a loro piacimento, con allusioni e battute cercando di carpire l’attenzione e il plauso, senza preoccuparsi di alterare il senso di un passo o di una situazione, il pubblico rideva senza ritegno delle gag e delle trovate degli interpreti anche là dove avrebbe dovuto commuoversi! Tale testimonianza sulla vita e sulla prassi teatrale del tempo avvalora l’ipotesi che essa fosse dominata per l’appunto dal mestiere teatrale.

Una delle caratteristiche fondamentali del Witz, dell’humor viennese, che esso ha in comune tra l’altro con la tradizione ebraica è la mescolanza di comico e tragico. La commedia Die getreue Prinzessin Pumphia (1756) costituisce un’eccezione nella produzione di Kurz-Bernardon. Si tratta di una parodia, la parodia “di una tragedia recitata malissimo da una compagnia iterante di comici tedeschi”, una tragedia “scritta in versi ridicoli” – in realtà in alessandrini, il metro tipico della tragédie

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classique francese ereditato dal Trauerspiel barocco, cosa che naturalmente evoca la presenza di un substrato “alto”. La fonte di Kurz è il dramma Banise di Friedrich Melchior Grimm (1743) pubblicato da Gottsched nella sua raccolta Deutsche Schaubühne e rappresentato a Vienna nel 1751 proprio nel Theater am Kärntnertor. Questo dramma si basava a sua volta su una fonte precedente: il romanzo barocco Die asiatische Banise oder das blutige doch mutige Pegu (Lipsia 1689) di Heinrich Anselm Ziegler, un romanzo assai polare che nel 1750 aveva raggiunto ormai l’ottava edizione. Ancora nel Wilhelm Meister di Goethe compaiono figure i cui nomi sono ispirati a quel romanzo. La parodia di Kurz non solo fu pubblicata interamente – cosa che di solito non avveniva – ma l’autore interprete ritenne di corredarlo di una prefazione, un Avertissement, che contiene una dichiarazione assai interessante di poetica. Kurz utilizza per definire il proprio lavoro la metafora culinaria del “pasticcio” – cosa che evoca per noi il concetto moderno di pastiche – e cerca poi di definire, attraverso figure tratte dalla tradizione classica (Momus, Megera) le caratteristiche del genere “parodia”, da lui chiamato anche “critique”. Attraverso una critica indiretta dei suoi detrattori o recensori Kurz sottolinea soprattutto la compresenza di tragico e comico, secondo il modello delle due maschere plautine che campeggiano nei teatri, l’una ridente, l’altra piangente. Tale compresenza di tragico e comico diviene in qualche modo la caratteristica fondamentale del teatro austriaco nell’Ottocento (Grillparzer e Nestroy) ma anche nel Novecento (Thomas Bernhard). Essa crea quell’interscambiabilità dei registri, alto e basso, cosiddetti valori e reali motivazioni “umane, troppo umane”, l’idea insomma di una assoluta polarità: “Non solo ciò che è superiore nasce, come si può ben immaginare, sempre e soltanto da ciò che inferiore, ma ogni cosa nasce dal proprio opposto: il giorno dalla notte, la debolezza dalla forza, l’orrido dalla bellezza, la felicità

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dall’infelicità. La vittoria non consiste che in continue batoste”3.

In questo Avertissement, che certo è un testo scritto, si celebra tuttavia il primato del teatro come prassi esecutiva, l’assoluta preminenza della scena concretamente agita rispetto all’intangibilità del testo scritto, di fronte al quale Kurz rivendica una pressoché assoluta libertà di azione. La storia del teatro in effetti non è storia di prodotti letterari, ma di eventi scenici, appunto di “esecuzioni” paragonabili a quelle musicali. Nella Prinzessin Pumphia Kurz impiega tutta la sua abilità anche letteraria per confezionare un testo che per qualità non è certo inferiore a quello parodiato. Il pubblico conosceva il dramma di Grimm e quindi coglieva perfettamente la sistematica inversione delle figure e delle situazioni del testo operata da Kurz. Nel dramma di Grimm il tirannico usurpatore Chaumigren opprime il popolo di Pegu e pretende di sposare la principessa Banise, la quale però ha già giurato eterno amore al nobile e buon re Balazin. Il tiranno pone Banise di fronte alla scelta tra piegarsi ai suoi voleri o essere sacrificata sull’altare al dio della guerra Karkowita. Chaumigren viene strozzato nel finale da Balazin insinuatosi nel tempio dove sta per compiersi il sacrificio e Banise ed il suo popolo sono liberi. Nella parodia di Kurz tutto diventa ridicolo : intanto alla giovane e affascinante principessa Banise si sostituisce la corpulenta, attempata Pumphia, consumatrice di grandi boccali di birra, interpretata magistralmente dallo stesso Kurz. I comandanti dell’esercito anziché eroici appaiono codardi e infingardi – secondo il detto di Hanswurst “Besser niederträchtig gelebt, als hoch auffgehangen” (“Meglio vivere indegnamente che finire impiccati in alto”)4. Anche i sovrani anziché guidare i loro eserciti alla

battaglia scappano o si nascondono nell’accampamento, i loro soldati fanno altrettanto, l’eroismo viene vanificato da un sano e plebeo disfattismo, tutte caratteristiche che

3 Cfr. L. Klima, cit. in B. Hrabal, Lezioni di ballo per anziani e progrediti, Torino,

Einaudi, 2018 p. 1.

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ritroveremo più tardi nel teatro austriaco, ad esempio nella scarsa propensione all’eroismo di Papageno. Parola e azione sono perennemente in contrasto e quanto più i personaggi appaiono in alto nella gerarchia sociale tanto più le loro parole appaiono tronfie e ridicole. Tutte le situazioni vengono estremizzate ed esagerate in modo da suscitare l’ilarità del pubblico. Quando la principessa deve essere sacrificata vengono portati in scena gli strumenti necessari per il sacrificio rituale: in Grimm un altare di pietra, un pugnale e un laccio, nella Prinzessin Pumphia invece “ogni sorta di strumenti di offesa come uncini, seghe, coltelli, vasi e grandi terrine”5 come se ci

si apprestasse a scannare un maiale. La parodia trasforma l’originale in modo grottesco. Banise recitava in Grimm un monologo solenne secondo la tradizione stoico cristiana, affermando di accettare il proprio destino e di preferire la morte al disonore. Pumphia chiede da bere, ma non acqua, un enorme boccale di birra che vuota tutto d’un fiato per poi attaccarne subito un secondo. Il suo aspetto rende ridicola la frase “peccato per la giovane donna!”6 che gli astanti

pronunciano. La credibilità drammatica è continuamente messa in discussione, Kurz sottolinea al pubblico il carattere illusionistico, di pura finzione e puro gioco scenico. Pumphia infatti dice “Ich stelle nur der Welt in einem Schau-spiel dar” (“Rappresento solo il mondo in un spettacolo”)7. Altro punto grottesco è la finta

decapitazione del re persiano Ciro. Pumphia poi mette la testa del re in un sacco, una scena già utilizzata da Stranitzky in una sua farsa e che tornerà con effetti esilaranti nella celebre parodia di Giuditta e Oloferne di Hebbel scritta interpretata nell’Ottocento da Johann Nepomuk Nestroy. Nella parodia di Kurz inoltre quasi tutte le comparse, interpretate da giovanissimi attori, combattono e cadono fingendosi morti per poi scappare via dalla scena subito dopo. Persino le scene sottolineano il carattere ludico, di puro divertissement scenico, la

5 Ivi, p. 107. 6 Ivi, p. 123.

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fortezza del primo atto o il tempio del secondo sono volutamente mignon, una sorta di versione infantile, che gli attori trascinano loro stessi sul palcoscenico per poi riportarle via alla fine della scena, contribuendo così a ridicolizzare il tutto: l’apparato barocco in dodicesimo per un teatro illusionistico e grottesco. Anche i numeri musicali sono ironizzati: di un’aria manca del tutto il testo, del resto del tutto superfluo, perché “L’autore due anni fa in una commedia lacrimeggiante ha inteso cantare dalla cosiddetta prima attrice un’aria italiana in cui non si capiva neanche una parola se non ‘tschri tschantschere tschri..’”8, dove naturalmente è il

virtuosismo canoro fine a se stesso dell’opera italiana ad essere ridicolizzato e messo alla berlina.

La commedia di Kurz-Bernardon rappresenta indubbiamente un aspetto estremo del teatro austriaco, quel repertorio comico-popolare, irriducibile al razionalismo illuministico, in fondo strettamente legato allo contaminazioni e di incontri tra culture diverse e spesso opposte tra loro, propenso a includere e inglobare, permeato di una tensione ossimorica verso gli estremi e gli opposti, lo spirito di una delle sue celebri canzoni popolari “o du, mein lieber Augustin”, il canto di un ubriaco che, addormentatosi per strada, si sveglia tra i morti di peste dove i monatti lo hanno gettato scambiandolo per uno di loro. “Alles ist hin” (“tutto è finito”) canta Augustin, primo campione di quel Galgenhumor (umorismo patibolare), umorismo in situazioni estreme, così simile al Witz ebraico, alla irriducibile capacità di ridere anche sull’orlo del precipizio, “Lachend über seine Bestatter” (“ridendo di chi ti sta scavando la fossa”) – come recita il verso di una celebre poesia di Gerhard Fritsch intitolata appunto Österreich9. Se questa è una costante dell’animus

austriaco, anche oltre le distanze epocali, esso costituisce senza dubbio una delle radici di questo

8 Ivi, p. 117.

9 G. Fritsch, Österreich in Lächelnd über seine Bestatter. Österreichisches

Lesebuch von 1900 bis heute, hrsg. von U. Weinzierl, München, Piper, 1989 p.

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binomio comico-tragico che è una delle cifre della sua storia.

Nel corso dell’Ottocento sarà Johann Nepomuk Nestroy (1801-1862) l’ultimo grande attore interprete e autore satirico nella Vienna di Metternich ad incarnare questa tradizione. A lungo dimenticato dopo la morte, Nestroy fu resuscitato ai primi del Novecento da Karl Kraus col saggio Nestroy und die Nachwelt (1912) e poi con le frequenti letture pubbliche dei suoi testi. Nestroy, per Kraus uno dei più grandi satirici di tutti i tempi, l’Aristofane di Vienna, fu autore e interprete di una settantina di commedie tra la fine degli anni 30 e i primi anni 60 dell’Ottocento. Comico geniale, come il nostro Totò dotato di una comicità stralunata, basata sulla parola, capace di stravolgere e far emergere le storture e le falsità che il linguaggio nasconde, aggressivo e corrosivo, con tutta la “cattiveria” e il cinismo del grande satirico:

Was hat die Welt für mich getan? Nichts. Das Nähmliche tue ich für sie.

Cos’ha fatto il mondo per me? Nulla. La stessa cosa faccio io per lui.

Die Menschen muss man hassen, ehe man sie kennt, verachten, wenn man sie kennt.

La gente va odiata prima di conoscerla, disprezzata dopo averla conosciuta.

Über Armut braucht man nicht zu erröten, weit mehr Leute haben Ursachen,über Ihren Reichtum zu erröten.

Non occorre arrossire della povertà, parecchie persone invece avrebbero motivo di arrossire della loro ricchezza.

Das Leben ist kein Glück, denn es ist eine lebenslängliche Strafe, durch das Bewusstsein, dass man sterben muss, ein Todesurteil, von dem wohl der Tag der Vollstreckung nicht angegeben wird, von dem aber auch kein Pardon zu hoffen ist.

La vita non è una gioia, dal momento che è una condanna a vita, per via della consapevolezza che si deve morire, una condanna a morte, di cui certo non si sa il giorno esatto dell’esecuzione, ma dalla quale non ci si può aspettare alcuna grazia.

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Unter allen 365 Anzügen in der Garderobe des Jahres hat der heutige Tag den scheusslichsten angelegt.

Die tutti i suoi 365 abiti appesi nel guardaroba dell’anno, la giornata di oggi ha indossato quello più orribile.

Die Phönizier haben das Geld erfunden, aber warum so wenig? I fenici hanno inventato il denaro : ma perché così poco?

Die Würmer können nicht reden, sonst täten s vielleicht erzählen, wie langweilig den Toten das Totsein vorkommt.

I vermi non possono parlare, altrimenti ci racconterebbero quant’è noioso per i morti l’essere morti.

Täuschung ist die feine, aber starke Kette, die durch alle Glieder der Gesellschaft sich zieht; betrügen oder betrogen werden, das ist die Wahl, und wer glaubt, es gibt ein Drittes, betrügt sich selbst.

Inganno è il sottile, ma robusto filo che si snoda tra tutti i membri della società; ingannare o essere ingannati questa è l’alternativa e chi pensa che esista una terza soluzione, inganna sé stesso10.

Se, come spesso è stato detto, la comicità e di conseguenza il riso scaturiscono dalle imperfezioni umane è evidente che esso ha a che fare strettamente con il fenomeno speculare del tragico: tragedia e commedia sono due modalità diverse di guardare all’esistenza. Benjamin, nel suo celebre saggio su Destino e Carattere sottolinea questo aspetto. Il tragico ha a che fare con la colpa, col destino in quanto nesso colpevole di ciò che vive, mentre la commedia rivolge all’esistenza uno sguardo indulgente che risolleva, una sorta di “tout comprendre c’est tout pardonner”, una reazione vitale alla sofferenza e all’orrore. Di qui il fondo serio e profondamente pessimistico dei grandi comici. Il Witz, il motto di spirito, la battuta liberatoria, sono spesso forme di esorcizzazione del male e della sofferenza, in ciò la tradizione ebraica e mitteleuropea in genere è maestra. Ridendo si ride delle debolezze e delle

10 J. N. Nestroy, Gesammelte Werke in 6 Bänden, hrsg. von O. Rommel, Wien, Scroll, 1962, Bd VI, p. 560sgg.

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storture dei comportamenti umani, attraverso il linguaggio argutamente si critica l’uso del linguaggio stesso. Il linguaggio comico, intriso di composti e neologismi procede per sostituzioni e analogie, “inventa” “crea”. In Nestroy ad esempio c’è una infinita creatività linguistica, una inesauribile molteplicità di giochi semantici e di piani interpretativi. Spesso la comicità diventa proprio riflessione intorno ai meccanismi del linguaggio, il comico adopera il linguaggio ma lo scardina, lo mette in discussione in modo geniale. Come nella caricatura il grande satirico coglie attraverso pochi tratti fisiognomici i volti e le figure umane, esagerandone volutamente alcune caratteristiche e stigmatizzando quindi in modo espressivo le varie tipologie umane e sociali, così anche nel teatro il grande autore comico, esagerando certi tic e stereotipi linguistici, stigmatizza le storture e i comporta menti sociali e individuali, coglie l’umano nelle sue diverse metamorfosi, nelle sue “maschere” acustiche e visive. In Nestroy troviamo tutto il repertorio di ripetizioni compulsive, stereotipi e frasi fatte, espressioni di circostanza svuotate di significato o usate a casaccio, convenevoli inappropriati, formule usate fuori luogo, mescolanze di registri linguistici diversi e accostamenti azzardati che danno luogo a equivoci ed esiti inattesi. Il meccanismo della comunicazione impazzisce e, ben prima del teatro dell’assurdo, è proprio sul terreno del comico che il linguaggio approda ai suoi esiti più estremi e moderni. Allusioni e doppi sensi rendono questo teatro non solo vivace ma dirompente. Ambiguità linguistiche e travestimento del linguaggio sono la chiave di volta della sua critica sociale a trecento sessanta gradi, una messa in discussione anarchico-conservatrice che colpisce non solo la sfera politica ma anche quella privata, aggredendo valori consolidati, sensibilità diffuse, come il sentimento romantico o il patetico, sempre ridicolizzato e portato a conseguenze paradossali. Un testo emblematico la commedia Il Talismano (1840), feroce critica del pregiudizio, o Pian terreno e primo piano, geniale pièce in cui il palcoscenico diviso in due piani mostra – in contemporanea – le vicende di due famiglie,

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una povera che vive al pianterreno e l’altra ricca che sta al piano nobile. Questa simultaneità si ribalta grazie a una provvidenziale vincita alla lotteria che porterà i poveracci al piano nobile – dove si comporteranno da spregevoli arricchiti e parvenu – mentre per un rovescio di borsa i ricchi finiranno al pianterreno dove dimostreranno tutta la loro incapacità di fare i poveri. Nelle pièces di Nestroy, quasi tutte rifacimenti di lavori francesi, inglesi o tedeschi l’autore assume i connotati del raissonneur della tradizione teatrale settecentesca : geniali “a parte”, confidenzialmente rivolti al pubblico, al quale sembrano idealmente strizzare l’occhio, smascherano e smontano situazioni e personaggi volutamente convenzionali; i personaggi interpretati da Nestroy sfoggiano sempre una eloquenza e una dialettica brillante, finalizzata a far carriera in modo spregiudicato, con una faccia tosta degna dell’Arlecchino della tradizione settecentesca. Nei geniali e originalissimi couplets delle parti cantate, caratterizzati da arditi giochi di parole e calembour frizzanti, si sprigiona un gusto quasi virtuosistico , che potrebbe ricordare quello dell’opera buffa italiana, per esempio rossini e i suoi incredibili sillabati. Talvolta si sfiora il nonsense e la trovata linguistica fine a sé stessa, ma anche i personaggi più banali si elevano addirittura ad una grandezza metafisica, nel momento in cui non solo incarnano vizi e difetti dell’umanità ma ne teorizzano la grandezza. È il caso del tabaccaio Tratschmiedl dell’atto unico Tritsch Tratsch il quale non solo è una incredibile linguaccia e un calunniatore, ma teorizza la grandezza della sua “arte” la capacità di “fare di una mosca un elefante” ,di ingrandire e diffondere, e quindi di influenzare i destini umani. Oppure il portinaio intrigante che raccomanda il suo allievo di essere sempre umile con chi è arrogante e arrogante con gli umili. Le commedie di Nestroy in effetti sono un campionario di tutte le bassezze e meschinerie umane, di tutti i vizi, spesso impuniti, e di tutte le virtù, purtroppo raramente ripagate. Un pessimismo cosmico aleggia nella sua varia umanità: “Ho sempre pensato male di tutti, compreso di me stesso e raramente mi sono sbagliato” e,

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intraducibile, “taliman, talisweib”. Con Nestroy la tradizione popolare si avvicina al teatro moderno, dopo di lui sarà lo spirito graffiante della prima operetta viennese e poi il grande cabaret satirico del primo Novecento. Negli ultimi anni della sua carriera sarà proprio lui a portare a Vienna l’operetta francese di Offenbach, interpretando Orfeo e Vent du soir, due personaggi offenbachiani, in versione tedesca, sentendosi pienamente a suo agio nello spirito dissacrante e boulevardier di Meilhac e Halevy, i geniali librettisti del compositore ebreo-tedesco che aveva fatto fortuna a Parigi, diventando l’idolo del secondo Impero. Per illustrare ancora meglio questa singolare mescolanza di comico e tragico basta richiamarsi al massimo drammaturgo austriaco dell’Ottocento: Franz Grillparzer (1791-1872). Autore di una sola importante commedia Weh dem, der lügt (Guai a chi mente! 1837) – che riflette sul tema della verità e menzogna in relazione al nostro uso del linguaggio, anticipando per molti aspetti tematiche che saranno proprie del teatro novecentesco (Hofmannsthal) – Grillparzer ha disseminato in tutte le sue opere drammatiche momenti non irrilevanti di comicità. Nel dramma della maturità Ein Bruderzwist in Habsburg (Dissidio di fratelli in casa Asburgo) la figura dell’imperatore Rodolfo II mostra tutte le contraddizioni del temperamento saturnino e malinconico, le

problematiche della condizione senile e

dell’invecchiamento, quella compresenza tra vegliardo borbottante e veggente, comico e tragico, ridicolo e sublime, grandezza e rimbambimento senile, forza e fragilità che segnano i gesti e le parole di questo monarca tristemente invecchiato, condannato all’immobilismo dalla consapevolezza della negatività di ogni agire storico. Grillparzer conferisce all’imperatore una straordinaria vis comico-drammatica, la sua stessa apparizione a corte, ostinatamente chiuso nel silenzio, esprimendosi al massimo mediante monosillabi o gesti eloquenti, battendo a terra stizzosamente e ritmicamente il proprio bastone di gottoso, salvo poi lanciarsi in debordanti monologhi sui massimi sistemi ci appare oggi come una geniale anticipazione dei numerosi vecchioni

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logorroici e megalomani che popolano il teatro di Thomas Bernhard. Sempre in bilico tra saggezza e follia, profondità e banalità, queste presenze lemuriche che popolano il teatro gettano sprazzi di luce, livida e inquietante, nelle tenebre del mondo. Nel grande monologo di Rodolfo, in risposta al nipote Ferdinando, implacabile e machiavellico strumento della Nemesi storica, l’Ordo imperiale viene riproposto e nello stesso tempo svuotato di senso. Geniale poi appare il precipitare del vecchio in un borbottio senza senso che trapassa nell’assopimento e nel torpore, a significare non solo il declino del potere – e la pericolosa vacanza che ne seguirà, fatale per la guerra dei trent’anni – ma anche l’oggettiva fragilità della condizione umana.

Nel Treuer Diener seines Herrn (Fedele servitore del suo padrone) si afferma a tratti un registro che potremmo definire comico-patetico, legato al personaggio anacronistico di Bancban, al suo attaccamento al dovere che lo spinge a comportamenti noiosi e pedanteschi, al limite del grottesco. Persino in Libussa, dramma dominato dalla malinconia, emergono tratti farseschi, ad esempio la scena della cacciata delle sorelle di Libussa dal castello avito e dal bosco, in cui esse appaiono come due zitelle inacidite, o nella Jüdin von Toledo la figura di Isacco, padre di Rachele, ridicolizzato per la sua avidità e avarizia, in particolare nella scena dell’anello - quando Rachele finge di gettare via per capriccio il prezioso gioiello prendendosi gioco di lui e il padre si lancia in una affannosa quanto inutile ricerca. Anche nella scena dei postulanti – Isacco riceve bustarelle in cambio dell’interessamento presso il re in risoluzione di varie questioni – assistiamo all’intrusione del comico nel tragico. Persino nel tragicissimo finale il riemergere di Isacco dopo lo sconquasso dovuto all’irruzione dei congiurati non è del tutto esente da una sua pur sarcastica comicità. In Esther rientra in questa tipologia “mista” tutta la satira dei cortigiani e della burocrazia, soprattutto il dialogo tra Haman e Bigtan del primo atto, con lo scambio delle credenziali incentrato su un gioco di equivoci e fraintendimenti che rimanda ad una dimensione comico surreale, utilizzata poi da

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Grillparzer nella farsa Das Prius oder die Bekehrung. Ein rührendes Drama für Beamte (Il fascicolo ossia la conversione. Dramma sentimentale per impiegati) scritto nel 1821 e contenente una gustosa autoironica rappresentazione del mondo impiegatizio. Il protagonista – sorta di Fantozzi ante litteram – è un praticante di cancelleria dal nome Fixlmüllner – lo pseudonimo scelto dall’autore nei suoi diari, per la sua difficile pronuncia fatto oggetto di motteggi e giochi di parole autoironici, emblema della profonda inadeguatezza e del disagio esistenziale di chi lo porta. Fixlmüllner è un perdente, un timido e impacciatissimo impiegato, affetto tra l’altro da un difetto di pronuncia ereditato dalla madre che egli cerca di combattere, come Demostene, cacciandosi in bocca dei sassolini. Gli altri personaggi della farsa sono il segretario capo Wilhelm Esel (sic), il registratore Ka. Della cui figlia Kathinka (Concettina) – palese il riferimento alla eterna fidanzata Kathi Fröhlich – Adam Fixlmüllner è perdutamente innamorato, ma della quale naturalmente non può chiedere la mano essendo un modesto praticante di cancelleria.. La scena si svolge nel babilonico archivio dove il protagonista è alla ricerca di un importantissimo fascicolo richiesto dalla direzione (e risalente al 1642!). Arrampicandosi su ripidissime scale Fixlmüllner cerca di accontentare le richieste di cui è tempestato, confondendosi e dimostrando la totale imperizia nel far fronte al lavoro. Egli appare maldestro e distratto, incline ad una patologica propensione all’autocommiserazione a causa della cronica sfortuna che lo perseguita. La distrazione in realtà è dovuta all’amore per Kathinka, alla quale indirizza versi appassionati scritti per lo più nei ritagli di tempo durante le ore di ufficio, ad es. una poesia dal titolo Trost gegen die elterliche Tyrannei (Consolazione per la tirannide genitoriale). La farsa rivela il talento comico satirico di Grillparzer, sia sul piano del realismo borghese – ad esempio la figura della madre – sia sul versante più surreale. Ad esempio la figura del presidente che anticipa per certi versi la letteratura ceca (Čapek, Hašek) o russa (L’ispettore generale Gogol) nella loro tendenza al grottesco , alla caricatura satirica della sfera

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autoritaria del potere, per metterne il evidenza l’anacronismo, la cronica corruzione, la tronfia supponenza. All’ottusità del potere e alla grettezza borghese si oppone una pallida, pseudoromantica ribellione: kitsch e sublime si sfiorano con la massima disinvoltura. Per le riunioni settimanali della Ludlamshöhle, accolita di letterati beoni e buontemponi, Grillparzer scrisse nel 1826 una breve satira ispirata alla Zauberflöte mozartiana che è un attacco all’ideologia oscurantista della restaurazione. Gli anni sono trascorsi e i personaggi dell’opera vivono ormai nella prosa della vita borghese. I grandi ideali di fratellanza universale non si sono realizzati, i malvagi trionfano e i buoni stentano a sbarcare il lunario. Sarastro in abiti borghesi in un piccolo appartamento poveramente arredato accenna l’incipit della sua sublime aria (“In diesen heil’gen Hallen…”) ma poi lamenta di essere in miseria, ridotto a guadagnarsi da vivere come segretario di cancelleria con uno stipendio di 300 fiorini al mese. Vive come pensionante in casa di Pamina che gli porta un piatto di minestra e un tozzo di pane. Monostatos ha chiuso il tempio della saggezza e la Regina della Notte detiene il potere, mentre il povero Tamino è costretto anche lui a lavorare come copista negli uffici della cancelleria. L’ironia dell’autore non risparmia nulla e nessuno: la luce solare di Sarastro è diventata un dispositivo per l’accensione delle pipe, Monostatos è stato nominato direttore dell’impianto ed infine nobilitato, Papageno ha saputo sfruttare la situazione diventando “fornitore di corte di uccelli”, i tre fanciulli sono stati mandati come apprendisti presso un falegname che, conformemente alla mentalità imperante farà di loro ”membri utili della società”, all’araldo è stato intimato di tacere, gli è permesso pensare, ma non deve esprimere pubblicamente il frutto delle proprie riflessioni, la vecchia infine vende santini agli angoli delle strade. Come si vede la denuncia del pervertimento degli ideali dell’illuminismo giuseppino non potrebbe essere più chiara. E su questa nota satirica, che rimanda a certi aspetti del teatro austriaco moderno e

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contemporaneo da Qualtinger a Thomas Bernhard a Efriede Jelinek chiudiamo il nostro panorama.

Riferimenti bibliografici

Fritsch G., Österreich in Lächelnd über seine Bestatter. Österreichisches Lesebuch von 1900 bis heute, hrsg. von U. Weinzierl, München, Piper, 1989

Klima L., cit. in Hrabal B., Lezioni di ballo per anziani e progrediti, Torino, Einaudi, 2018.

Nestroy J. N., Gesammelte Werke in 6 Bänden, hrsg. von O. Rommel, Wien, Scroll, 1962, Bd. VI.

Stranitzky J. A., Kurz J. F., Haffner P., Perinet J., Bäuerle A., Hanswurstiaden, Ein Jahrhundert Wiener Komödie, hrsg. von J. Sonnleitner, Salzburg, Residenz, 1996.

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