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Cibo ed Energia. I consumi energetici del sistema alimentare dei paesi industrializzati.

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA

FACOLTA’ DI ECONOMIA.

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN SVILUPPO E GESTIONE SOSTENIBILE DEL TERRITORIO.

CIBO ED ENERGIA

.

I consumi energetici del sistema alimentare nei paesi industrializzati.

RELATORE

Prof. Tommaso LUZZATI

Candidato

Sara PEDRINI

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INDICE

Introduzione ... 1

1

La catena alimentare nei paesi ricchi

1.1 I consumi energetici e il cibo nei paesi industrializzati. ... 3

1.2 La catena alimentare: la produzione di cibo. ... 7

1.2.1 Trend dei consumi diretti e indiretti di energia nell’agricoltura. ... 10

1.2.2 La produzione agricola corrente e i consumi energetici: esempi di produzioni di colture. ... 15

1.2.3 I consumi energetici nella produzione di carne, pollame e prodotti caseari. ... 17

1.3 La catena alimentare: trasformazione, confezionamento e conservazione. ... 20

1.4 La catena alimentare: il trasporto. ... 24

1.4.1 Un caso di studio: le mele nel Regno Unito. ... 25

1.5 La catena alimentare: cottura industriale e domestica. ... 28

1.6 La catena alimentare: le abitudini e le scelte dei consumatori e il loro impatto energetico. ... 30

2

Alternative a confronto

2.1 Sistema alimentare locale o convenzionale? Consumi energetici a confronto. ... 33

2.2 Sistema biologico e convenzionale a confronto ... 40

2.2.1 La fase di produzione ... 42

2.2.2 Le fasi successive alla raccolta. ... 45

2.2.3 Panoramica sull’impatto energetico dei sistemi di produzione biologica. ... 45

2.2.4 Il sistema biologico tra potenzialità e limiti... 50

2.3 Diete a confronto ed efficienza energetica. ... 52

2.4 Analisi temporale dei consumi energetici dell’intero sistema alimentare. ... 57

3

Verso il cambiamento

3.1 Ridurre i consumi di energia ... 63

3.2 De-globalizzare il sistema alimentare moderno ... 69

3.3 La combinazione tra produzione biologica e sistemi locali ... 71

3.4 Alcuni esempi di realtà locali ... 73

3.4.1 I mercati contadini (farmers’ markets). ... 73

3.4.2 Vegetable Box Scheme (Sistemi delle cassette di verdure e delle consegne a domicilio). ... 74

3.4.3 Comunità a supporto dell’agricoltura, CSA ... 74

3.4.4 Agricoltura urbana e peri-urbana. ... 75

4

Discussione e conclusioni ... 77

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Riassunto

In questo lavoro sono presentati e analizzati i consumi energetici del sistema alimentare moderno con l’obiettivo di valutarne l’efficienza energetica. Vengono inoltre messi a confronto vari modelli di produzione, di distribuzione e di consumo. Dall’esame critico della letteratura scientifica si può concludere come siano necessari radicali cambiamenti verso modelli più sostenibili, da incoraggiare tramite interventi sia sull’offerta che sulla domanda.

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INTRODUZIONE

Dal secolo scorso abbiamo assistito a un notevole cambiamento del sistema alimentare; divenuto sempre più dipendente dai combustibili fossili, nei paesi industrializzati consuma oggi tra il 16% e il 19% del totale dell’energia utilizzata. Come vedremo, questo dato dipende non solo dalle fasi di trasformazione o di distribuzione, ma anche da quelle produttive: l’agricoltura, per millenni produttrice netta di energia, ne è oggi vorace consumatrice. Nonostante questo sia solo uno dei tanti segnali che suggeriscono una scarsa sostenibilità del sistema alimentare odierno. La valutazione energetica è di primaria importanza: solo grazie all’avvento dei combustibili fossili sono divenute possibili quelle pratiche (elevata meccanizzazione e grande uso della chimica per i fertilizzanti e i pesticidi) che hanno a loro volta condotto all’impoverimento e all’erosione dei suoli, alla perdita di biodiversità, all’inquinamento delle acque e dell’aria.

Il presente lavoro ha dunque lo scopo di prendere in esame il sistema alimentare, in tutte le sue fasi, sotto il profilo energetico. Prodotti locali, pratiche agricole più tradizionali, un minor consumo di carne o altre forme di consumi consapevoli,… portano effettivamente a riduzioni di consumo di energia? Quando e a quali condizioni? E’ possibile una transizione verso un sistema alimentare meno energivoro?

Domande di questo tipo sono recenti, tuttavia la letteratura scientifica, soprattutto negli anni 70, ha dedicato molta energia alla comprensione dei consumi energetici, specie di quelli agricoli. Emergeva, proprio in quegli anni, il fatto che il sistema agricolo trasformasse “petrolio in cibo” (Odum, 1971; Naylor, 1996), mentre oggi gli studiosi sono più concentrati sull’analisi delle altre fasi e delle possibili strade per una maggiore efficienza. Come primo passo (primo capitolo) sarà necessario inquadrare le varie fasi in cui si articola il sistema alimentare, analizzandone i consumi energetici e i principali fattori che li determinano. Si dovranno quindi esaminare le evidenze che la letteratura porta sulla produzione, sulla trasformazione industriale, sul trasporto e sulle fasi svolte da ogni famiglia, in particolare, la conservazione e la cottura dei cibi. Nel secondo capitolo saranno presi in esame, sempre in termini energetici, alcuni dei metodi di produzione, distribuzione e consumo più diffusi. In particolare sarà interessante andare ad analizzare i sistemi biologi e i sistemi locali, mettendoli entrambi a confronto col sistema convenzionale o, meglio, globale. Oltre a ciò, sarà interessante capire quali sono le

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abitudini alimentari prevalenti (diete vegetariane, diete onnivore, prodotti freschi, prodotti congelati, prodotti fuori stagione, ecc.) e individuarne l’ incidenza sui consumi energetici. Partendo da questi confronti, nel terzo capitolo, si potranno individuare alcune leve per il cambiamento del sistema alimentare verso una maggiore sostenibilità, intesa, in primis, come maggiore efficienza energetica. In un primo momento verranno indicati alcuni interventi per la riduzione dei consumi energetici, sia sul lato della domanda che sul lato dell’offerta. In seguito si cercherà di capire se la sola riduzione della distanza, o meglio una “de-globalizzazione” del sistema alimentare, sia sufficiente per ridurne i consumi energetici e migliorarne l’efficienza.

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1 LA CATENA ALIMENTARE NEI PAESI RICCHI

1.1 I consumi energetici e il cibo nei paesi industrializzati.

L’evoluzione delle società umane è stata caratterizzata dall’utilizzo di un numero crescente di fonti energetiche. Soprattutto con la Rivoluzione Industriale, tuttavia, si è avuto anche un aumento molto consistente della disponibilità di energia totale: alle fonti tradizionali dell’antichità (forza animale, vento, acqua, biomasse), si sono via via aggiunti i combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale) e l’energia nucleare. Proprio l’utilizzo delle fonti fossili ha segnato una forte discontinuità, dando avvio ad una rapida crescita economica che ha consentito, tra l’altro, di alimentare un crescente numero di persone e sviluppare la qualità della vita in molti modi, inclusa la riduzione di malattie e della fame nel mondo.

Come per la distribuzione della ricchezza tra paesi, anche i consumi energetici riflettono una forte ineguaglianza, con il 70% dell’energia usata da coloro che vivono nei paesi ricchi, meno di 2 miliardi di persone. Come evidenziato in tabella 1.1, gli Stati Uniti, con circa il 4,5% della popolazione mondiale, consumano circa il 22% di tutta l’energia fossile disponibile, per un ammontare pari a 106 EJ. In altri termini, ogni persona consuma circa 9500 litri di petrolio equivalente l’anno, oltre 12 volte maggiore di quello di un cinese medio (Pimentel, 2009a).

Tabella 1: Uso annuale di energia fossile e solare nel mondo e negli U.S. Dati espressi in ExaJoule (EJ). Dati tratti da Pimentel, 2009a

COMBUSTIBILE U.S WORLD

PETROLIO GAS NATURALE CARBONE NUCLEARE BIOMASSA IDROELETTRICA GEOTERMALE ED EOLICA BIOCOMBUSTIBILI TOTALE. 42,3 24,3 23,5 8,6 3,2 3,6 0.4 0,5 106,4 177,2 108,7 121,3 29,5 31,6 28,5 0,8 0,9 498,7

Un settore che incide in modo significativo sui consumi energetici è quello alimentare, i cui impatti sull’ambiente dell’uomo non derivano soltanto dal consumo delle

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risorse naturale e dai noti fenomeni di inquinamento dell’agricoltura, ma anche dal grande utilizzo di combustibili fossili. Per questo motivo il presente lavoro s’incentra sulla dimensione energetica del sistema alimentare al fine di comprenderne i fabbisogni energetici nelle sue diverse fasi, l’efficienza, le determinanti. Ad esempio, secondo i dati dell’USCB (2007), tratti da un lavoro di Pimentel e altri autori (Pimentel et al, 2009-b), ogni americano consuma circa 975 kg di cibo pari a circa 3800 kcal giornaliere, comprensive del cibo sprecato, contro le circa 2400 kcal di un abitante dei paesi in via di sviluppo. I consumi energetici sono quantificabili in circa 2000 litri all’anno di petrolio equivalente, pari al 19% dei consumi totali di energia del paese. Questo significa che nel sistema alimentare statunitense, sulla base di una dieta tipo, per ogni chilocaloria consumata ne sono necessarie dieci per la sua produzione, a fronte di un rapporto di circa 1 a 1 nei paesi in via di sviluppo (Pimentel et al, 2009-b). Delle varie fasi, si stima che il trasporto da solo consumi quasi il 30% dell’energia impiegata nel complesso (Pimentel et al, 2008).

Anche se sembra ovvio che una valida analisi energetica debba considerare tutte le fasi del sistema alimentare, non è facile farlo, tant’è che molti studi scientifici spesso ne tralasciano alcune, col rischio di raggiungere risultati ingannevoli. Per mostrare preliminarmente l’importanza di un’analisi a “tutto tondo”, è utile fare riferimento alla figura ottenuta rielaborando alcuni dati di uno studio di Rawitscher and Mayer (1981) sui consumi energetici di una serie di prodotti consumati negli Stati Uniti. I prodotti sui quali mi sono concentrata sono tre vegetali - carote, pesche e asparagi, sia freschi sia congelati – per i quali ho preso i valori massimi e minimi di ciascuna fase in termini di MJ/kg. Ho potuto così ottenere i valori minimi e massimi sull’intero ciclo (il minimo è stato calcolato escludendo il trasporto, nell’ipotesi di cibo locale) e farne le medie tra i tre vegetali. La sintesi cui si perviene consente innanzitutto di vedere come il trasporto, già 30 anni fa, avesse un’incidenza molto elevata, pari al 38% sul totale massimo con un consumo energetico di 54,03 MJ/kg. Subito dopo per importanza troviamo la fase di conservazione domestica che ha un’incidenza notevole, rispettivamente il 36% e il 39% dei consumi massimi e minimi; si osservi inoltre che in termini assoluti il campo di variazione è molto elevato, compreso tra 13,02 e 52,20 MJ/kg. Anche per la conservazione industriale vi è una forte differenza (circa il quadruplo) tra consumi massimi e minimi, anche se il peso di questa fase su entrambi i totali risulta poco significativo, rispettivamente 3% e 2%. Anche per la trasformazione i valori massimi sono circa quattro volte quelli minimi, nonostante

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una maggiore incidenza di questa fase (11 % e 13 %). La cottura, invece, ha un campo di variazione modesto (4,47 – 5,13) e incide per il 14% sul totale minimo e solo per il 4% su quello massimo. Infine, l’agricoltura, influisce per il 32% sui valori minimi e solo per l’8% sui massimi, con richieste energetiche pressoché costanti (11,51 - 10,71). Questa breve analisi, suggerisce che le fasi sulle quali è possibile intervenire per una maggiore efficienza energetica sono il trasporto, la conservazione domestica e la trasformazione. Occorre tuttavia considerare che le riflessioni appena avanzate possono essere generalizzate con molta prudenza in quanto riferite solo a tre alimenti e ad alcune modalità. Ad esempio, la fase agricola in questo caso non sembra offrire margini di manovra mentre, come vedremo nel secondo capitolo, pratiche agricole alternative a quella intensiva possono condurre a notevoli risparmi di energia, soprattutto se combinati con altri sistemi come, ad esempio, quelli locali.

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Fig.1.1: Percentuale input energetici di ogni fase per un paniere di tre vegetali. Dati da Rawitscher and Mayer (1981).

I paragrafi successivi, attraverso il contributo di vari studi, cercheranno di analizzare i consumi energetici di tutto il sistema alimentare, considerando separatamente ogni singola fase, ovvero:

la produzione di cibo:

 la trasformazione industriale dei cibi e il loro confezionamento;  il trasporto dei cibi dal luogo di produzione fino alla tavola;  la preparazione e la cottura dei cibi sia industriale sia domestica;

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 il consumo dei cibi, e in particolare l’incidenza delle scelte alimentari sui consumi energetici.

Si consideri che, per consentire il confronto, i dati dei diversi contributi analizzati, espressi in diverse unità di misura, sono stati qui convertiti in MJ (e nei multipli del Joule).

1.2 La catena alimentare: la produzione di cibo.

La prima fase del sistema alimentare è la produzione. Nella seconda metà del secolo scorso lo sviluppo tecnologico ha portato a notevoli cambiamenti sia positivi sia negativi nelle tecniche e nelle performance dell’agricoltura e dell’allevamento: da un lato una maggiore offerta di cibo, dall’altro un maggior degrado ambientale, una maggiore dipendenza dalle fonti fossili e una minore efficienza energetica. Se storicamente il cibo è stato prodotto usando l’energia solare, i fertilizzanti naturali e il lavoro manuale, oggi, l’aumento della popolazione ha portato a un incremento proporzionale dei prodotti alimentari, che a sua volta ha reso necessario utilizzare sistemi e attrezzature industriali invece del lavoro umano e fertilizzanti artificiali al posto del letame. Frasi famose come “gli uomini stanno mangiando patate a base di petrolio” (Naylor, 1996) pongono l’attenzione sulla crescente sostituzione di energia solare con energia proveniente da fonti fossili nell’agricoltura moderna (Khan e Hnjra, 2009).

Pimentel e Giampietro (1993) hanno sottolineato la duplice natura dell’agricoltura: non solo deve essere compatibile con i bisogni della società, ma, al tempo stesso, deve esserlo con l’ecosistema naturale. La rapida crescita della popolazione e lo sviluppo tecnologico delle società, tuttavia, hanno messo in difficoltà i contadini di tutto il mondo che non riescono a mantenere questa dualità poiché devono garantire sia un’alta produttività sia pratiche agricole sostenibili da un punto di vista ambientale. In passato, ma anche oggi nelle zone rurali e nelle società in via di sviluppo, le tecniche di produzione e le strutture socio-economiche erano vincolate dall’ambiente e questo garantiva la sostenibilità degli ecosistemi nel lungo temine. Tuttavia, la qualità della vita era più bassa se confrontata con quella dei moderni sistemi agricoli occidentali: basse aspettative di vita, bassi livelli di educazione e mancanza di servizi sociali. In altre parole, l’agricoltura di sussistenza è diventata economicamente non sostenibile nel momento in cui queste società hanno cominciato a interagire con sistemi socio-economici più sviluppati. La trasformazione avvenuta nelle economie dei paesi sviluppati, grazie all’uso di enormi

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quantità di energia fossile e alla meccanizzazione, ha radicalmente cambiato i sistemi agricoli con l’adozione di tecniche che permettono di raggiungere livelli maggiori di produttività e redditi più competitivi. Nella moderna agricoltura l’energia combustibile ha occupato il posto dell’energia umana, basti pensare che negli Stati Uniti il suo utilizzo è 50 volte più alto di quello dell’agricoltura tradizionale, segno della forte dipendenza da questo tipo di fonte energetica.

Sempre Pimentel e Giampietro (1993) offrono un ulteriore contributo per misurare la dimensione energetica dell’agricoltura, ricorrendo alla distinzione tra energia endosomatica ed energia esosomatica utilizzata da Georgescu Roegen. L’energia endosomatica è quella generata dalla trasformazione metabolica del cibo in energia muscolare del corpo umano. L’energia esosomatica è quella generata dalla trasformazione di energia all’esterno del corpo umano, come nel caso della benzina che brucia in un trattore. Questo tipo di approccio ha permesso agli autori di considerare l’immissione di combustibili fossili da soli e in rapporto agli altri tipi d’input. Il rapporto tra energia eso/endosomatica nelle società preindustriali, che ricavavano energia dal sole, era di circa 4 a 1 così come lo è oggi nei paesi più poveri del Sud del mondo. Il rapporto è invece cresciuto di circa 10 volte nei Paesi sviluppati, fino ad arrivare a valori compresi tra 40 a 1 e 90 a 1 come nel caso degli Stati Uniti. Nei paesi industrializzati, oggi, il 90% dell’energia esosomatica impiegata deriva dai combustibili fossili e il sistema di produzione e distribuzione alimentare ne è diventato, nel tempo, uno dei più grandi consumatori.

Il problema di fornire sufficiente cibo per la popolazione è stato oggetto di numerosi studi e ricerche già dal XVIII secolo. Nel 1798, in un suo trattato intitolato ”Saggio sul principio di popolazione”, Thomas Malthus, celebre pastore anglicano nonché economista, fece una previsione pessimistica: l’umanità era condannata. Egli riteneva che un qualsiasi incremento della disponibilità alimentare avrebbe solo portato a una crescita della popolazione, la quale avrebbe poi superato le risorse alimentari, gettando l’umanità in un periodo di carestie e conflitti fino a che la scarsità non avesse innescato un nuovo aumento della produttività, che a sua volta avrebbe portato a una nuova impennata demografica. L’equilibrio demografico poteva, secondo Malthus, essere ripristinato solo da una carestia di previsioni catastrofiche. Quello che Malthus non fu in grado di prevedere era che la produzione di cibo poteva essere incrementata grazie alle moderne tecnologie e all’utilizzo di grandi quantità di energia. La Rivoluzione Industriale, e nell’agricoltura la cosiddetta

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Rivoluzione Verde, ha mostrato che questo è possibile. Come osservato da Georgescu-Roegen (1975), ”una crescita nella produttività economica implica sempre una crescita nei consumi di energia”. La Rivoluzione industriale, da questo punto di vista, può essere interpretata come un rilevante incremento della capacità umana di controllare i flussi energetici (Conforti e Giampietro, 1997), reso possibile, sia dalla diffusa adozione di energia esosomatica che ha permesso di eliminare i limiti di potenza tipici delle società pre-industriali, sia dagli sviluppi della scienza, ritenuta capace di superare i limiti imposti dalla scarsità delle risorse naturali. Il vero problema di questa crescente dipendenza dai combustibili fossili è legato al fatto che gli attuali tassi di consumo di energia fossile sono più veloci della capacità di queste fonti di riprodursi. Data la scarsità delle fonti fossili, le presenti tecniche agricole non sono energeticamente sostenibili nel lungo periodo poiché riducono la disponibilità di energia delle generazioni future (Conforti, Giampietro, 1997).

Dai primi anni settanta, partendo dalla visione di H.T.Odum dell’agricoltura moderna intesa come farming with petroleum (Odum, 1971), diversi ricercatori hanno cominciato a porre la loro attenzione sull’efficienza energetica dell’agricoltura. Se da un punto di vista economico la moderna agricoltura ha incrementato la produttività in termini di resa per ora di lavoro e per ettaro, da un punto di vista fisico ha ridotto notevolmente la sua efficienza energetica. Martinez Alier (2011) riporta la dichiarazione di Via Campesina secondo la quale “l’agricoltura industriale è una dei maggiori responsabili del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici trasportando cibo in tutto il mondo, adottando forme industriali di produzione (meccanizzazione, intensificazione, monocolture, utilizzo di fertilizzanti chimici, ecc), distruggendo la biodiversità e la sua capacità di catturare carbonio, convertendo terre e foreste in aree non agricole, trasformando l’agricoltura da produttore di energia a consumatore di energia.” (mia traduzione; WRM, 2008, vedere J. M. Alier, 2011 p.146). Non solo, l’agricoltura può anche essere interpretata come una trasformatrice di energia. L’energia che arriva dal sole è integrata dal lavoro dell’uomo, degli animali e dall’energia fossile necessaria per la realizzazione di pesticidi e fertilizzanti, per il funzionamento dei macchinari e per l’irrigazione, ecc.

Il principio di sostenibilità alla base delle società agricole è che l’energia che deriva dall’agricoltura deve essere almeno sufficiente ad alimentare gli agricoltori stessi, le loro famiglie e gli animali. Tuttavia, le società più evolute necessitano di una quantità

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maggiore di energia per soddisfare i loro crescenti bisogni e questo surplus energetico non può essere prodotto dalla sola agricoltura. Quest’aspetto fu già attentamente evidenziato da Podolinsky nel 1880 (vedere J.M.Alier, 2011).

Uno degli indici spesso usato per misurare l’efficienza energetica dell’agricoltura è l’EROI (Energy return on Energy input), dato dal rapporto tra l’energia ottenuta e quella usata come input. Pimentel et al. (1973), Steinhart (1974), Leach (1975) hanno dimostrato che l’agricoltura industriale è meno energeticamente efficiente non solo dell’agricoltura tradizionale svolta in piccole aziende, ma anche di quella tradizionale svolta in proprietà terriere. Il declino dell’EROI è da attribuire in modo prevalente a un incremento di input energetici maggiore di quello riscontrato nei rendimenti.

Martinez Alier (2011) riporta un estratto del rapporto “Effects of industrial agricolture on global warming and the potential of small-scale argroecological techniques to reverse those effects” pubblicato da Vandermeer et al. (2009) che sottolinea come la moderna agricoltura e l’intero sistema alimentare dipendano principalmente da carburanti fossili e come, a causa di questo, entrambi siano produttori di gas ad effetto serra: “…l’energia in agricoltura è stata trasformata da qualcosa che originariamente era il principale prodotto dell’agricoltura in qualcosa che è diventato il principale input dell’agricoltura- un cambiamento da usare sole ed acqua per far crescere arachidi a usare petrolio per produrre burro d’arachidi”. E’ stato stimato che il sistema alimentare industriale consuma 10-15 calorie per produrre una caloria di cibo, un’effettiva inversione di quella che è stata la ragione di sviluppo dell’agricoltura in un primo momento …” ( v. Martinez Alier, 2011, p.149). Vandermeer conclude che la moderna agricoltura industriale e il sistema alimentare sono responsabili in gran parte per il riscaldamento globale del pianeta perché: a) l’agricoltura è altamente energivora; b) una grande parte delle emissioni di metano derivano dall’allevamento di bestiame; c) la maggior parte delle emissioni di protossido di azoto sono prodotte dall’utilizzo di fertilizzanti; d) grandi estensioni di terre nei tropici sono state convertite a piantagioni dedite alla produzione di mangimi per animali, di agro combustibili e di carta.

1.2.1 Trend dei consumi diretti e indiretti di energia nell’agricoltura.

Già nella letteratura degli anni settanta, l’agricoltura e l’intero sistema di produzione del cibo sono stati oggetti di numerosi studi finalizzati a calcolare e analizzare i loro input

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energetici. I risultati ottenuti spesso sono in contrasto tra loro a causa delle differenze nei dati iniziali e nelle metodologie adottate.

Negli anni settanta, negli Stati Uniti e nel Regno Unito l’intero sistema di produzione alimentare consumava circa il 12% del totale di energia e in particolare l’agricoltura si avvaleva del 4,4 %. Negli Stati Uniti, per esempio, di questo ammontare il 44% era consumato direttamente per il funzionamento dei trattori, dei camion e altri macchinari, per l’irrigazione, il riscaldamento, la ventilazione e il condizionamento delle colture, mentre il 56% era consumato per produrre fertilizzanti e altri prodotti di supporto all’attività agricola (Hirst, 1974). Questo dato dimostra come la produzione e l’utilizzo di pesticidi, erbicidi e fertilizzanti abbia sempre avuto un peso notevole nei consumi energetici, tanto che oggi tutti questi prodotti incidono per circa il 70% sui consumi energetici (Khan and Hanjr, 2009.)

Pimentel e altri autori (1973), hanno fornito una misura degli input energetici delle tecniche agricole affermatesi negli Stati Uniti con la Rivoluzione Verde, tenendo anche in considerazione la crisi energetica e gli effetti di questa sulla produzione di cibo in tutte le parti del mondo che hanno adottato o stanno adottando un sistema occidentale. Gli autori per esaminare la relazione esistente tra l’uso di energia e la produzione di colture hanno selezionato il mais come coltura rappresentativa. Analizzando la tabella 1.3 relativa agli input energetici della produzione di mais dal 1945 al 1970, possiamo vedere che la meccanizzazione, passando da 753,62 MJ per acro nel 1945 a 1758,46 MJ per acro nel 1970, ha da un lato aumentato la resa per acro del 240% e, dall’altro, ha diminuito la quota di lavoro umano del 60% con un conseguente aumento dell’uso di combustibili fossili da 2275,11 MJ per acro nel 1945 a 3336,88 MJ per acro nel 1970. Anche gli altri input nella produzione di mais come semi, fertilizzanti, pesticidi e irrigazione mostrano rapidi incrementi nello stesso periodo. Altre voci importanti sono i consumi di elettricità, equivalenti a circa il 2,5% di tutta l’elettricità prodotta, e l’energia usata per il trasporto (da 83,74 MJ per acro a 293,08 MJ per acro). I trend degli input energetici e della resa del grano confermano che la materia prima dell’agricoltura moderna negli Stati Uniti sono i combustibili fossili, mentre il contributo del lavoro umano è relativamente piccolo. Nelle figure 1.2 e 1.3 sono illustrate le variazioni temporali della resa di mais e di energia utilizzata e del rapporto output/input, rispettivamente.

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Tabella 1. 3: Input energetici della produzione di mais (dati in MJ per Acro). Dati da Pimentel et al., 1973. INPUT 1945 1950 1954 1959 1964 1970 Lavoro Macchinari Combustibili Nitrogeno Fosforo Potassio Semi Irrigazione Insetticidi Erbicidi Essicatura Elettricità Trasporto TOTALE RESA MAIS OUTPUT/INPUT 52,33 753,62 2275,11 246,18 44,38 21,77 142,35 79,55 0 0 41,87 133,98 83,74 3874,88 14349 3,70 41,03 1046,7 2578,23 527,54 63,64 43,96 169,15 96,3 4,61 2,51 125,6 226,09 125,6 5050,96 16037,12 3,18 38,94 1256,04 2881,77 949,57 76,2 211,01 79,13 113,04 13,82 4,61 251,21 418,68 188,41 6482,42 17303,21 2,67 31,82 1465,38 3033,34 1441,93 101,74 252,88 152,82 129,79 32,24 4,72 418,68 586,15 251,21 7909,7 22789,59 2,88 25,12 1758,46 3184,9 2039,81 114,72 284,7 127,28 142,35 46,05 17,58 502,42 849,92 293,08 9386,39 28698 3,06 20,52 1753,46 3336,88 3938,94 197,2 284,7 263,77 142,35 46,05 46,05 502,42 1297,91 293,08 12128,32 34184,38 2,82 0 10000 20000 30000 40000 50000 1945 1950 1954 1964 1970 Resa mais Totale

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. 0 0,5 1 1,5 2 2,5 3 3,5 4 1945 1950 1954 1964 1970 OUTPUT/INPUT

Fig. 1.3: Variazione rapporto output/input dal 1945 al 1970

Appare evidente come la Rivoluzione Verde abbia portato allo sviluppo di tecniche agricole che richiedono elevati input energetici, in particolare, i fertilizzanti e i pesticidi. Ovviamente la scarsità energetica e l’incremento dei costi hanno influenzato il successo della Rivoluzione Verde stessa. Per queste ragioni gli autori hanno ritenuto necessario esaminare anche la relazione esistente tra produzione di cibo e domanda di energia a livello mondiale. Negli anni settanta per l’alimentazione di ogni individuo erano necessari, con un’agricoltura moderna, circa 112 galloni di gasolio; l’intera alimentazione della popolazione statunitense per un anno richiedeva perciò circa 488 miliardi di galloni di combustibile. Alla luce delle tecniche di produzione e delle abitudini alimentari, gli autori stimarono che le riserve di petrolio allora note (circa 546 miliardi di barili) sarebbero state sufficienti a sfamare la popolazione mondiale per soli 29 anni. Tuttavia, se tutti fossero stati disposti a consumare solo mais, le riserve di petrolio avrebbero potuto sfamare 10 miliardi di persone per ben 448 anni.

Anche Hirst (1974) e Leach (1975) hanno analizzato i consumi energetici della produzione alimentare rispettivamente negli Stati Uniti e nel Regno Unito. I risultati ottenuti hanno mostrato che, in quegli anni, per l’agricoltura il rapporto tra energia impiegata ed energia ottenuta era circa di 0,30.

In questo contesto, ci sono stati anche studi che hanno evidenziato trend tecnologici che si muovono in direzione opposta verso una minore intensità energetica, intesa come l’energia necessaria per ottenere una certa quantità di prodotto. Un contributo a riguardo ci è fornito da Bonny (1993) il quale ha esaminato i trend energetici dell’intera agricoltura

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francese nel periodo tra il 1959 e il 1989, e della produzione di grano in particolare nel periodo tra il 1955 e il 1969 e nel 1990. La figura 1.4 evidenzia un uso molto più economico dell’energia nell’agricoltura francese a partire dal 1977 (Bonny,1993). Per contro, nella tabella 1.4, i dati ottenuti da Pimentel descrivono un costante aumento dell’intensità energetica dell’agricoltura e una diminuzione dell’efficienza energetica. Apparentemente i dati dei due studi sembrano in contraddizione tra loro: i risultati ottenuti da Bonny (1993) mostrano tra il 1955-60 e nel 1990 un calo del 30% nell’intensità energetica mentre, secondo i dati di Pimentel sulla produzione di mais in USA, l’efficienza energetica nello stesso periodo è diminuita, ovvero l’intensità energetica della produzione di mais è passata da 4,6 GJ/t nel 1945 a 5,9 GJ/t nel 1970. In realtà, in termini assoluti i consumi energetici non sono diminuiti, ma rispetto all’output agricolo, o meglio per tonnellata di grano prodotto, sono in calo a partire dal 1977, anno in cui la crisi dei prezzi del petrolio ha cominciato a farsi sentire.

Anche secondo Cleveland (1995), come vediamo in figura 1.5, negli Stati Uniti l’uso diretto e indiretto di combustibili fossili ed elettricità nell’agricoltura statunitense è cresciuto più di sei volte nel periodo tra il 1910-1978, raggiungendo un picco di 4,4 EJ, equivalente a circa il 5% dell’uso complessivo di energia del paese. Tra il 1978 e il 1990, l’uso totale di energia è diminuito del 33%.

Tabella1. 4: Terra, lavoro, energia per la produzione di mais negli US dal 1945 al 1990. Dati Pimentel &Dazhong, 1990 (vedere Bonny, 1993 p. 62).

1945 1950 1954 1959 1964 1970 1975 1980 1990 Resa t/ha Ettaro di terra/t Ore di lavoro/t Intensità energetica GJ/t Efficienza energetica 2,132 0,47 27 4,69 3,58 2,383 0,42 18 5,40 3,09 2,572 0,39 16 6,28 2,68 3,387 0,30 10 5,73 2,92 4,265 0,23 6 5,48 3,06 5,080 0,20 4 6,19 2,70 5,143 0,19 3,3 6,78 2,48 6,500 0,15 1,8 6,70 2,51 6,500 0,15 1,5 6,78 2,47

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55 80 90 120 110 90 60 95 0 20 40 60 80 100 120 140 1959 1960 1965 1970 1977 1980 1985 1989 Intensità energetica

Fig 1.4: Trend intensità energetica dall’agricoltura francese dal 1959 al 1989. Dati Bonny (1993.)

0 1000 2000 3000 4000 5000 6000 7000 1910 1930 1950 1970 1978 1990 Indiretta Diretta

Fig 1.5: Uso diretto e indiretto di energia negli Stati Uniti tra il 1910- 1990. Fonte Cleveland, 1995.

1.2.2 La produzione agricola corrente e i consumi energetici: esempi di produzioni di colture.

I consumi energetici della produzione di colture sono stati analizzati da vari autori. Un interessante contributo è fornito da Pimentel (2009-a) che ha focalizzato l’attenzione sulla coltivazione di alcuni dei prodotti agricoli che provvedono in larga misura alla fornitura di cibo nel mondo ovvero, il riso, il mais, il grano, la soia, le patate, la manioca, e di altri alimenti come le mele, i pomodori e le arance. Al fine di analizzarne i consumi energetici, l’autore ha messo a confronto la produzione intensiva degli Stati Uniti, come esempio di paese industrializzato, con quella svolta in modo tradizionale e tipica dei paesi

+ 3,8% anno

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del Sud del mondo e in via di sviluppo. In questo paragrafo sono riportati come esempi la produzione di mais, grano e pomodoro.

La produzione di mais, uno dei principali cereali in tutto il mondo, è negli Stati Uniti un tipico esempio di produzione intensiva in quanto, il totale della forza umana è di solo 11,4 ore per ettaro in confronto alle 634 ore per ettaro impiegate nella produzione di mais in Indonesia e India. Negli Stati Uniti, il 25% dell’energia totale è utilizzato nella meccanizzazione per ridurre il lavoro umano e per i fertilizzanti, in particolare quelli azotati ne richiedono il 30 %. Il totale di energia utilizzata nella produzione statunitense di mais è pari a 34331,76 MJ/ha contro i 21268,94 MJ/ha utilizzati in quella tradizionale in Indonesia e India. I maggiori input energetici consentono di ottenere delle rese maggiori: 9400 kg/ha o 142351,2 MJ/ha di energia alimentare in confronto a 1721 kg/ha o 25958,16 MJ/ha. Il rapporto tra energia in entrata ed energia in uscita è per gli Stati Uniti di 1 : 4,11 e di 1 :1,08 per India ed Indonesia.

Nel caso del grano, invece, la produzione intensiva negli Stati Uniti, nonostante richieda più del doppio dell’energia utilizzata in Kenya, rispettivamente 17584,56 MJ/ha e 8134,95 MJ/ha, ha una resa per ettaro inferiore: il rapporto input / output è di 2,57 negli USA e di 3,31 in Kenya.

L’altra coltura presa in esame è il pomodoro, caso di studio anche di altri autori (Hatirli et al, 2006; Carlsson-Kanyama, 1997). Negli Stati Uniti la produzione di pomodori prevede, a differenze di molte altre colture coltivate in modo intensivo, un elevato utilizzo della forza lavoro, con un ammontare pari 184 ore per ettaro. Il totale di energia fossile impiegata è pari a 86248,08 MJ/ha con una resa per ettaro di 80000 kg di prodotto. Il rapporto input/output di 1:0,78 sottolinea la scarsa efficienza energetica della produzione di pomodori negli U.S. Secondo Hatirli e altri (2006), nella produzione in serra di pomodori in Turchia la resa media delle aziende considerate è pari a circa 160000 kg/ha o 127748,6 MJ/ha e i consumi energetici pari a 106716,2 MJ/ha. Sulla base dei dati trovati, gli autori hanno calcolato il rapporto tra output/input pari a 1.2, l’energia specifica, data dal rapporto tra input energetici (MJ/ha) e quantità di prodotto (t/MJ), pari a 12380,3 MJ/t e infine, la produttività energetica ovvero, il rapporto tra quantità di prodotto (kg/ha) e input energetici (MJ/ha), pari a 0,09 MJ/kg.

Infine, per concludere la panoramica dei consumi energetici della produzione agricola, un utile contributo è quello di Woods e altri autori (2010) sull’agricoltura del

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Regno Unito. In base ai dati raccolti, gli input energetici necessari per ottenere le principali colture variano tra 1 e 6 GJ per tonnellata. Come evidenziato dagli autori, i prodotti hanno diverse proprietà e diversi usi e questo rende difficile un confronto sulla base di un unico parametro. Per esempio, come vedremo meglio in seguito, il tipo di sistema agricolo adottato influisce sui consumi energetici della produzione. Un’anticipazione dei risultati che vedremo nel capitolo successivo sono riportati nella tabella 1.5 dalla quale appare che il sistema biologico è in genere energeticamente più efficiente di quello convenzionale.

Tabella 1. 5:Energia primaria nella produzione delle principali colture del Regno Unito, ad eccezione di soia, mais e zucchero di canna. Fonte Williams et al (2006).

ALIMENTI ENERGIA PRIMARIA NON

BIOLOGICA (GJ/T)

ENERGIA PRIMARIA BIOLOGICA (GJ/T)

Pane di grano Colza

Patate coltura principale Patate novelle Patate 2° raccolto Grano per mangimi

Orzo invernale Orzo primaverile

Fagioli Semi di soia (US) Canna da zucchero (BRAZIL)

Mais (US) 2.52 5.32 1.46 1.40 0.79 2.32 2.43 2.27 2.51 3.67 0.21 2.41 2.52 5.32 1.46 1.40 0.79 2.32 2.43 2.27 2.51 3.67 0.21 2.41

In conclusione, i dati in questo paragrafo, anche se difficilmente comparabili tra loro per le diverse metodologie adottate, rilevano la grande dipendenza della produzione agricola corrente dall’uso di combustibili fossili con conseguenti impatti ambientali negativi.

1.2.3 I consumi energetici nella produzione di carne, pollame e prodotti caseari. Nel mondo, è stimato che circa 2 miliardi di persone seguono diete basate sulle proteine animali, mentre circa 4 miliardi si alimentano soprattutto con proteine vegetali. Negli ultimi decenni, tuttavia, il consumo di carne è incrementato in modo consistente oltre le quantità consigliate dai nutrizionisti con effetti negativi, non solo sulla salute degli uomini, ma anche in modo significativo sui consumi energetici del sistema alimentare.

Negli Stati Uniti, ogni anno, circa 45 milioni di tonnellate di proteine vegetali vengono utilizzate per alimentare il bestiame necessario a produrre circa 7,5 milioni di tonnellate di prodotti animali come carne, latte e uova (Pimentel, 2008). I mangimi sono

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composti prevalentemente da cereali (28 milioni di tonnellate) e la rimanente parte da foraggio (17 milioni di tonnellate). Per ogni kilogrammo di prodotto animale di alta qualità, il bestiame è nutrito con circa 6 kilogrammi di proteine vegetali.

Per ottenere diversi prodotti animali sono necessari diversi quantitativi di mangime e foraggio e, di conseguenza, diversi input energetici. Per esempio, dai dati forniti da Pimentel (2008) la produzione di 1 kg di manzo richiede 13 kg di cereali e 30 kg di foraggio con un corrispettivo input di energia fossile di 0,17 MJ per 1 kcal di proteina di manzo; 1 kg di maiale richiede invece 5,9 kg di grano, pari a 0,06 MJ per 1 kcal di carne suina; 1 kg di carne di pollo richiede 2,3 kg di cereali ovvero, 0,02 MJ per 1 kcal; 1 kg di latte prodotto in modo convenzionale richiede, negli Stati Uniti, 0,7 kg di cereali e 1 kg di fieno, equivalente a 0,06 MJ per kcal.

Altro interessante contributo viene da Carlsson Kanyama (2001) che ha stimato il consumo energetico dell’hamburger contenuto nel famoso panino. Nel calcolo l’autore ha assunto che la carne provenga da un bovino nutrito con 2728 kg di mangime prima di raggiungere il peso di 265 kg. Il mangime è composto da orzo, piselli, foraggio e fieno. L’energia necessaria per produrre 1 kg di carne per hamburger varia tra 62 e 116 MJ e per una porzione di 90 g tra 5,6 e 10 MJ. Il totale considera anche le fasi successive alla produzione ma, come possiamo vedere dalla tabella 1.6, la produzione di cereali, essiccamento e la produzione di foraggio sono quelle che incidono maggiormente sui consumi energetici.

Tabella 1. 6: Uso di energia per hamburger (MJ per 90 grammi di carne).

MINIMO, MJ MASSIMO, MJ Produzione di colture, essiccamento,

Produzione di foraggio

3,5 5,0

Stalla, macellazione, taglio 0,23 1,4

Macinazione congelamento 0,12 0,16

Stoccaggio 0,45 2,3

Frittura 0,79 1,0

Trasporto 0,44 0,59

Totale 5,6 10

Un’ulteriore considerazione riguarda il modo con cui viene svolta la produzione di prodotti animali. I sistemi convenzionali possono richiedere anche il doppio dell’energia necessaria in quelli biologici e la differenza è imputabile soprattutto alla produzione

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convenzionale di grano e foraggio che richiede un largo uso di fertilizzanti, pesticidi e macchine agricole.

Woods e altri (2010) hanno stimato che nel Regno Unito (come nel resto del mondo) i consumi energetici per la produzione di carne e derivati animali sono maggiori di quelli necessari per le colture, anche se, come vedremo meglio in seguito, sono possibili alcune eccezioni. Come mostra la tabella 1.7, l’energia diretta impiegata nell’allevamento di animali varia tra l’11% e il 26% del totale, mentre la percentuale maggiore è utilizzata per i mangimi (71%-89%). Relativamente poca energia, invece, è utilizzata per le stalle e per il concime In particolare, per la produzione di uova la percentuale di energia per i concimi ha il segno negativo poiché è più che compensata dall’utilizzo di pollina come fertilizzante. La tabella 1.7 mette in evidenza che, come per le colture, alcuni prodotti animali sono energeticamente più efficienti di altri.

Tabella 1.7: Energia usata nella produzione di prodotti animali in Inghilterra e Galles. Dati da Woods et al, 2010.

PRODOTTO POLLAME CARNE DI MAIALE MANZO CARNE DI AGNELLO LATTE UOVA Unità Energia primaria, GJ Mangime (%) Lettiere e concime (%) Alloggio (%) Energia diretta (%) 1 t 17 71 2 1 25 1t 23 69 1 4 26 1t 30 88 1 0 11 1t 22 88 1 0 11 1 m3 2,7 71 0 3 26 1 t 12 89 -4 3 12

Nelle figure 1.6 e 1.7, tratte da un rapporto di Foster e altri autori (2006) per il DEFRA (Department for Environment, Food and Rural Affairs ), è stato stimato il consumo energetico dell’intero ciclo di vita di un kg di carne di manzo e di maiale. La fase di produzione primaria (rispettivamente 28 MJ/kg e 23.30 MJ/kg) è quella che incide maggiormente sui consumi energetici in entrambi i tipi di carne, seguita dalla trasformazione del prodotto (8,5MJ/kg), nel caso della carne di maiale, mentre la fase del consumo domestico( 9 MJ/kg) ha una notevole incidenza nel caso della carne di manzo.

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Fig1.6: Energia nell’intero ciclo di vita di un kilogrammo di manzo. Dati da varie fonti (vedere Foster e altri,2006)

Fig1.7: Energia nell’intero ciclo di vita della carne di maiale. Dati tratti da Cederberg, 2003 (vedere Foster et al, 2006).

1.3 La catena alimentare: trasformazione, confezionamento e conservazione.

Negli Stati Uniti, la produzione agricola incide per circa il 20% sui consumi energetici totali dell’intero sistema alimentare (Heller and Keoleian, 2002). Questo dato è utile per comprendere che anche le altre fasi sono grandi utilizzatrici di energia e, in particolare, la trasformazione industriale e il confezionamento dei cibi ne richiedono la stessa quantità necessaria per la produzione di colture e di bestiame, ovvero circa 7,4 EJ all’anno ( Leach, 1975; Pimentel et al., 2006).

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Circa l’82% del cibo consumato da un americano subisce un processo di trasformazione (il 55% di frutta e verdura, il 100% delle farine e altri prodotti derivati dai cereali e il 99% dei dolcificanti; v. USDA, 2003). Tra i cibi che richiedono una maggiore quantità di energia per la trasformazione, troviamo i cereali per la colazione e i cibi liofilizzati. Per esempio, per produrre un kg di fiocchi di mais e un kg di pane che hanno lo stesso apporto calorico, ovvero 3600 kcal, sono necessari rispettivamente 66,99 MJ e 2,93 MJ di energia fossile (Heller and Keoleian, 2002; Pimentel et al, 2009b)

I dati della tabella 1.8, tratti da Dutilh e Kramer (2000), mostrano che i diversi tipi di lavorazione dei prodotti come il congelamento, l’essiccamento, la sterilizzazione, lo sbiancamento e la pastorizzazione comportano differenze nei consumi energetici. Per esempio, per inscatolare un kg di mais dolce servono circa 1,32 MJ di energia fossile, per congelarlo circa 4,61 MJ e, infine, se è liofilizzato, sono necessarie 6,7 MJ (Pimentel et al, 2009(b)).

Tabella 1.8: Energia richieste da differenti lavorazioni. Dati Dulith and Kramer (2000).

INPUT ENERGIA (MJ/KG) SBIANCAMENTO/STERILIZZAZIONE/PASTORIZZAZIONE 5 – 10

CONGELAMENTO 5

ESSICCAMENTO 0 – 15

Tuttavia, il peso energetico delle varie fasi del sistema alimentare varia da alimento ad alimento. Osservando alcuni studi condotti sul ketchup, si nota come la fase di trasformazione industriale e di confezionamento siano particolarmente energivore. Secondo Andersson (2000), sul totale di energia necessaria per la produzione di una tonnellata di ketchup che varia tra i 18 e i 32 GJ (il range è dovuto alla conservazione domestica in frigorifero per un mese o per un anno), una quota compresa tra il 22% e il 39% è utilizzata dalla fase di trasformazione e un ammontare che varia tra il 21% e il 36% serve per il confezionamento. Dalle stime di Carlsson Kanyama (1998) sui consumi energetici dell’intero ciclo di vita del ketchup prodotto in Israele e trasportato in Svezia, riassunte nella figura 1.5, l’energia necessaria per un chilogrammo di prodotto è di 24 MJ. Di questo ammontare la fase di trasformazione ne richiede circa 7,1 MJ/kg, ovvero il 28% dei consumi totali, mentre il confezionamento del concentrato di pomodoro necessita di circa 7,8 MJ/kg, pari al 30% e l’imbottigliamento del ketchup circa 6 MJ/kg, pari al 23 % del totale. C’è da notare, tuttavia, che in questi calcoli la conservazione domestica è stata

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considerata solo per un mese e questo spiega la sua scarsa incidenza sul totale dei consumi; infatti, se fosse calcolata per un anno, sarebbero necessari circa 15 MJ/kg e, in termini energetici, diventerebbe più rilevante di tutte le altre fasi.

Figura1.5: Energia usata nell’intero ciclo di vita del ketchup Fonte: Carlsson Kanyama (1998). Per altri prodotti, come la carne di manzo, le fasi di trasformazione e di confezionamento incidono in modo trascurabile sul totale di energia utilizzata e addirittura, in alcuni casi, la trasformazione industriale è energeticamente più efficiente delle preparazioni domestiche come nel caso dei fagioli in scatola che necessitano di 2,41 MJ/kg per essere inscatolati in modo industriale, contro i 3,17 MJ/kg che servono per la stessa lavorazione svolta in casa (Stagl, 2002).

Il confezionamento dei prodotti è un altro punto critico, in termini energetici e d’impatto ambientale, del sistema alimentare. Infatti, i prodotti finiti devono essere confezionati sia per garantire la loro integrità sia per facilitarne il trasporto fino al luogo della vendita e/o del consumo. La maggior parte degli imballaggi per il cibo, oggi, è fatta da materiali plastici che derivano dal petrolio, basti pensare che circa il 4% del petrolio degli Stati Uniti è usato a questo scopo. Tuttavia, la scelta del materiale non è così semplice. I dati della figura 1.8, estratta da uno studio di Pimentel e altri (2009 b) mostrano che, per esempio, una confezione di plastica per frutta e verdura congelata o liofilizzata (1 litro di volume) richiede circa 5,02 MJ/kg, molto meno delle 12,96 MJ/kg necessarie per realizzare una bottiglia di vetro dello stesso volume e delle 17,05 MJ/kg per produrre una scatoletta di alluminio sempre dello stesso volume. Se la scelta del confezionamento fosse

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determinata dal solo consumo energetico, non ci sarebbero dubbi sulla maggior efficienza delle confezioni di plastica. Tuttavia, se consideriamo che circa il 90% delle scatolette di alluminio e il 65% delle scatolette di acciaio può essere riciclato (anche con bassi costi) il conseguente risparmio energetico è elevato.

Fig 1.8: Input energetici per la produzione dei confezionamenti. Dati da: Pimentel et al, 2009b. Anche per la conservazione dei cibi è necessario fare alcune importanti considerazioni. Dopo la lavorazione e il confezionamento, i cibi vengono trasferiti nei punti di raccolta o direttamente nei punti vendita, dove saranno immagazzinati. Per prima cosa, durante il trasporto alcuni prodotti dovranno essere mantenuti al fresco o congelati e questo comporta notevoli consumi energetici e, a tal proposito, è interessante il caso della lattuga: l’energia necessaria alla sua produzione in California è di circa 3,14 MJ/kg di energia ma, se la trasportiamo fino a New York, usando un camion refrigerato, questa sale a 17,33 MJ/kg. (Pimentel et al., 2009b). L’analisi di Carlsson (1997), sempre relativa alla conservazione dei cibi, ha stimato il consumo energetico per la refrigerazione durante il trasporto su nave pari a 0,035 MJ/ t-km e durante il trasporto su strada compreso tra 0,16 e 0,46 MJ/t-km. In secondo luogo, il fabbisogno medio di energia per lo stoccaggio fresco/surgelati varia a seconda del luogo in cui avviene: magazzino, negozio o presso le abitazioni. Nello specifico, il fabbisogno medio di energia per lo stoccaggio nei magazzini è molto basso, ovvero pari a 0,01 MJ kg-1 week-1 , nei negozi varia da 1 a 10 MJ kg-1 week-1, mentre quello domestico varia da 2 a 5 MJ kg-1 week-1. L’ampio range di valori per lo

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stoccaggio in casa e negozio è semplicemente dovuto al tipo e alle dimensioni dei frigoriferi e dei congelatori (Dulith e Kramer, 2000).

1.4 La catena alimentare: il trasporto.

Il trasporto all’interno del sistema alimentare ha assunto oggi dimensioni considerevoli determinando una notevole incidenza energetica della fase distributiva sul totale dei consumi. E’ da evidenziare, innanzitutto, che a seconda del tipo di commercializzazione (molteplici rivenditori, attraverso sistemi di consegna a domicilio, mediante vendita diretta presso le aziende) e della provenienza del prodotto (estera, nazionale, regionale, locale) troviamo la prevalenza di diversi sistemi di trasporto, ciascuno dei quali è caratterizzato da un diverso numero di fasi e da varie modalità di trasporto che, come vedremo, comportano differenti consumi energetici

Un’efficace analisi energetica dei trasporti nel sistema alimentare dovrebbe tenere in considerazione tre elementi fondamentali: importazioni, modalità di trasporto e distanze percorse. Le importazioni, in primo luogo, sono aumentate in modo considerevole per effetto della globalizzazione che ha portato a una delocalizzazione del sistema alimentare. In altre parole la produzione alimentare è diventata indipendente dallo spazio e dal tempo: il cibo che mangiamo può essere prodotto dall’altra parte del mondo e lo troviamo nei nostri negozi in qualsiasi stagione dell’anno. Vari studi rilevano che molti più prodotti alimentari sono trasportati molto più lontano e più spesso di quanto non lo fossero alcuni decenni fa, rendendo l’approvvigionamento di cibo ad alta intensità di trasporto. Per comprendere meglio quest’aspetto, basta pensare che circa il 39% della frutta e il 12% delle verdure consumate da un americano sono importate: un tipico pasto americano ha ingredienti provenienti da cinque differenti paesi (dati dell’USDA, 2003). Anche i dati raccolti da Carlsson-Kanyama nei suoi vari studi, indicano che in Svezia, per esempio, il 40% del cibo consumato è importato.

Il secondo elemento riguarda le modalità di trasporto. Secondo le stime il trasporto via aerea è il meno efficiente con un input energetico pari a 10 MJ Kg-1 1000Km-1, seguito dal trasporto su gomma con un consumo energetico compreso tra 2 e 8 MJ kg-1 1000km-1, a seconda del tipo di mezzo utilizzato, e dal trasporto su rotaia con un consumo pari a 0,8 MJ kg-1 1000km-1 . Infine, la modalità più efficiente risulta essere il trasporto su nave con un consumo energetico di 0,1/0,5 MJ kg-1 1000km-1 (Dutilh and Kramer, 2000).

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Ultimo elemento non meno importante è la distanza che percorrono i cibi tra il luogo di produzione e il luogo di vendita e quella percorsa dai consumatori per effettuare gli acquisti. Alcuni dati possono essere utili per comprendere l’importanza di questo fattore. Tra il 1985 e il 1995, nel Regno Unito, i cibi trasportati su strada hanno percorso distanze maggiori, registrando un incremento del 39% (Wallgren, 2006), mentre negli Stati Uniti, il cibo è trasportato circa il 25% più lontano di quanto non lo fosse venti anni fa, percorrendo mediamente 2400 km prima di essere consumato (Pimentel et al, 2009b). Per quanto riguarda le distanze percorse dalle persone per effettuare gli acquisti, tra il 1985/86 e tra 1996/99 si è verificato un incremento nelle distanze percorse in macchina di circa il 57%, passando da una media di 14 km a 22 km per persona alla settimana. Nello stesso periodo, il numero degli spostamenti in macchina per gli acquisti di alimenti è passato da 1,68 a 2,42 per persona la settimana, e la distanza media percorsa per ogni spostamento è passata da 8,3 km a 9,1 km (Jones,2002). Due tra i fattori che hanno determinato questi aumenti, sono il numero crescente di centri commerciali fuori città e la chiusura di molte piccole botteghe locali.

Alla luce di questi dati, è stato stimato che il trasporto dei prodotti alimentari nel Regno Unito consuma più di 145 milioni di GJ, ovvero circa 2,5 GJ per persona, equivalente all’8% dei consumi nazionali pro capite di energia (Jones, 2002). Negli Stati Uniti, invece, solo per il trasporto pro capite annuale di cibo all’interno del paese è necessaria tre volte più energia di quella usata nel Regno Unito, ovvero circa 8,3 GJ, alla quale vanno aggiunti 25,12 MJ di energia pro capite annua per l’importazione di cibo, sulla base di una distanza stimata pari a 4200 km. Gli elevati costi energetici che sono connessi al trasporto hanno portato allo sviluppo di quelle che oggi sono definite “filiere corte” che, promuovendo il consumo di cibi locali, possono favorire una riduzione dei consumi energetici anche se, come vedremo nel secondo capitolo, non sempre è così.

1.4.1 Un caso di studio: le mele nel Regno Unito.

Tra i vari studi che hanno esaminato i consumi energetici legati ai trasporti locali, nazionali e internazionali di prodotti alimentari, un importante contributo viene fornito da Jones (2002) che confronta i vari modi in cui le mele, nel Regno Unito, possono arrivare dal frutteto alla casa del consumatore. I risultati ottenuti sono interessanti anche perché possono essere estesi ad altri tipi di prodotti freschi.

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Come già detto, la catena di approvvigionamento del cibo si è evoluta in un sistema complicato nel quale ci possono essere diverse scelte per la produzione, distribuzione e vendita di ogni prodotto. In particolare, nel caso di studio scelto, le mele possono essere coltivate dal consumatore stesso nel proprio orto, di provenienza locale (raggio di 40 km), nazionale, o importate; possono essere acquistate al supermercato, dal fruttivendolo, in mercati fuori porta o essere consegnati a domicilio. Analizzando tutte le possibili modalità di approvvigionamento delle mele, l’autore ha studiato i consumi energetici legati al trasporto in base alla distanza totale percorsa dalle mele fino al consumatore, al numero delle varie fasi di trasporto, alla distanza di ognuna, alle modalità di trasporto e alla capacità di carico dei vari mezzi. Jones ha basato lo studio su due località di riferimento, Brixton e Denbigh, che differiscono per diversi aspetti come la densità della popolazione, l’accessibilità ai punti vendita, il trasporto pubblico e le relative infrastrutture. Nel distribuire un kg di mele nelle due località di riferimento, i consumi energetici del trasporto variano da 0 a 10,44 MJ nel caso di Brixton e da 0 a 17,75 MJ nel caso di Denbigh. Il valore minimo si riferisce al caso in cui le mele siano coltivate nell’orto di casa e il valore massimo al caso in cui le mele siano importate dalla Nuove Zelanda, distribuite a più rivenditori, acquistate con un viaggio di 8-20 km in una grande macchina, e i rifiuti trasportati alla discarica. Questo scenario è tutt’altro che improbabile in quanto, per esempio, circa i tre quarti delle mele sono importate e il 77% delle vendite avviene nei supermercati. I risultati mostrano che tanto più il prodotto è vicino ai luoghi di consumo tanto minori sono i consumi energetici legati al trasporto. Inoltre, se l’acquisto è effettuato in auto, i consumi energetici di un kg di mele importate variano da 4,6 -6,5 MJ/Kg nel caso di Denbigh e 3,5-4.5 MJ/kg nel caso di Brixton. L’impatto energetico e ambientale potrebbe essere del tutto evitato se gli acquisti fossero effettuati dai consumatori a piedi o in bicicletta e se il compostaggio dei rifiuti avvenisse in casa.

Dalla tabella 1.10 dove sono messi a confronto i consumi energetici delle mele importate con quelle di produzione nazionale, evidenziando anche il canale di commercializzazione (supermercato o fruttivendolo), emerge che il risparmio energetico può variare da 0.5 a 4.5 MJ/Kg.

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Tabella 10: Consumi energetici delle mele importate e di produzione nazionale. Dati da Jones (2002)

PUNTI VENDITA CONSUMI ENERGATICI (MJ/KG)

Import. UK Rapporto DENBIGH Supermarket min Fruttivendolo min Supermarket media Fruttivendolo media Supermarket Max Fruttivendolo Max 0,805 0,813 2,610 2,601 4,866 4,874 0,123 0,130 0,245 0,253 0,327 0,331 6,5 6,3 10,7 10,3 14,9 14,7 BRIXTON Supermarket min Mercato di strada min

Supermarket media Mercato di strada media

Supermarket Max Mercato di strada Max

0,514 0,559 2,695 2,689 4,597 4,625 0,022 0,065 0,091 0,129 0,222 0,170 23,4 8,6 29,6 20,8 20,7 27,2

La significatività del trasporto nell’intero ciclo di vita di un prodotto fresco può essere determinata mettendo a confronto i consumi energetici della coltivazione e della distribuzione. Stading (personal comunication 1997) ha calcolato che il consumo medio di energia nella produzione commerciale di mele (dove sono usati pesticidi e fertilizzanti) in Francia, Svezia e Nuova Zelanda è di 0,5MJ/kg. Se escludiamo la meccanizzazione e l’utilizzo di fertilizzanti e pesticidi, il consumo diretto di energia nella fase di coltivazione scende a zero. In conformità a questo dato, quando le mele sono di provenienza nazionale, i consumi legati al trasporto sono tra 1,5 e 26 volte più grandi di quelli della coltivazione, quando sono importate, i consumi del trasporto arrivano a superare di 35 volte quelli della coltivazione. Se andiamo a considerare anche i consumi energetici per conservare i cibi durante il trasporto (imballaggio e refrigerazione), è ancora più evidente la diretta relazione tra energia e provenienza dei cibi. Quest’analisi ha evidenziato che, in una prospettiva ambientale ed energetica, la produzione locale e quella domestica risultano essere le opzioni più efficienti. Risultati simili sono stati raggiunti anche in altri studi: Kooijman (vedi Jones, 2002 p 563) ha trovato che i piselli di produzione locale richiedono 9 MJ/kg, mentre se importati l’energia necessaria è pari a 25 MJ/kg; Carlsson- Kanyama (1997) ha comparato i consumi energetici delle carote prodotte in Svezia con quelli delle carote importate, trovando che nel secondo caso l’energia richiesta è il doppio.

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Come sottolinea Jones (2002), la situazione può essere differente se i sistemi di produzione nazionale di cibo richiedano irrigazione, protezione o riscaldamento. In questo caso la produzione può avere consumi energetici molto più significativi, potendo raggiungere valori tali da rendere l’importazione di cibi freschi preferibile alla produzione nazionale. Ad esempio, Carlsson-Kanyama (1997) ha considerato la coltivazione e la distribuzione di pomodori di produzione nazionale e d’importazione fino ai punti vendita in Svezia. La produzione di pomodori in Svezia avviene in serre riscaldate e richiede circa 58,3 MJ/kg di energia, mentre la produzione non protetta di pomodori in Spagna utilizza solo 1,5 MJ/kg. Se a quest’ultimo valore aggiungiamo il consumo energetico necessario per importarli in Svezia dalla Spagna pari a 3,9 MJ/kg nel caso di trasporto con camion, e pari a 2,2 MJ/kg e 50 MJ/kg per importarli dalle Canarie, rispettivamente in nave e in aereo, otteniamo consumi energetici comunque inferiori a quelli della produzione nazionale.

Possiamo quindi concludere che non esiste una soluzione univoca e che, in termini energetici, la distanza non può essere considerata come il solo fattore discriminante. Questo risultato è stato discusso da altri sudi che mettono a confronto i sistemi alimentari locali (Local Food System, LFS) e quelli tradizionali (Mainstream Food System, MFS), come vedremo meglio nel secondo capitolo.

1.5 La catena alimentare: cottura industriale e domestica.

Il cibo, una volta acquistato, può essere consumato all’aperto, nei ristoranti o cucinato in casa. Le modalità di preparazione dei cibi sono una variabile da non sottovalutare nell’analisi energetica dell’intero settore alimentare. Anche i consumi relativi alle diverse modalità di conservazione e cottura sono state spesso oggetto di numerosi studi a partire, per esempio, da Leach (UK production system,1976) e Pimentel (US, 1980).

Interessante è lo studio condotto da Faist et al (2001) che offre una panoramica del sistema di produzione e consumo alimentare in Svizzera. Basandosi su dati forniti da uno dei rivenditori alimentari della regione e relativi all’anno 1996, l’autore considera i prodotti maggiormente consumati da circa 185000 persone o circa 74000 famiglie in un anno all’interno di una regione svizzera. I risultati rilevano che la fase di preparazione e conservazione domestica dei cibi richiede quasi il 30% dell’intera domanda di energia del settore alimentare che corrisponde a circa 2800 TJ all’anno. In particolare, le stime ottenute

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dall’autore indicano che circa 10300 MJ l’anno sono necessari per la cottura e la refrigerazione dei cibi nelle famiglie. Questi valori risultano essere inferiori a quelli ottenuti da altre pubblicazioni (14720 – 15690 MJ/anno) ma solo perché escludono alcuni prodotti come caffè, zucchero, pesce e gelato.

Altro contributo considerato è quello di Carlsson- Kanyama (2001) che nell’analisi energetica dell’intero ciclo di vita di alcuni dei prodotti maggiormente consumati in Svezia, ha considerato anche la cottura dei cibi, dato che, secondo le stime, il 30% - 40% dell’energia totale del sistema alimentare svedese è utilizzato dalle famiglie per il trasporto, la conservazione e la cottura. Carlsson –Kanyama e Faist (2000) riportano, in un altro lavoro, alcuni dati sui consumi energetici (tutti basati sull’elettricità) dei vari tipi di cottura domestica, per esempio:

 Arrostire un pollo congelato in forno 8,5 MJ/kg;  Cottura in microonde di un cavolfiore 0,8 MJ/kg;  Friggere patatine congelate 7,7 MJ/kg;

 Bollitura di fagioli ammollati 5,5 MJ/kg;

 Riscaldare un purè di carote sul fornello 1,6 MJ/kg;  Riscaldare un purè di carote nel microonde 0,34 MJ/kg.

Un altro importante risultato di questo studio è illustrato nella tabella 1.11 dove è confrontata l’energia spesa per la cottura domestica e quella usata nei processi di cottura industriale del cibo. Mentre la cottura industriale del cibo avviene solo in poche migliaia d’industrie in Svezia, quella domestica è svolta, come in tutto il resto del mondo, da milioni di famiglie, quindi, il fabbisogno energetico di questa fase non può essere sottovalutato.

Tabella 11: Confronto fra cottura industriale e cottura domestica e relativi consumi energetici. Dati: Carlsson-Kanyama e Bostrom-Carlsson (2001).

TIPO DI PROCESSO COTTURA INDUSTRIALE (MJ/KG)

COTTURA DOMESTICA (MJ/KG)

Cottura a vapore grano intero /cottura grano intero. 0.8 0.9 – 3.8

Fare spaghetti /cottura spaghetti. 2.2 3.1 – 4.9

Fare pasta fresca /cuocere pasta fresca. 1.1 1.9 – 3.2

Tagliare orzo /cuocere orzo 0.13 0.9 – 4.0

Lucidatura riso / cuocere riso 0.02 0.7 – 3.5

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Infine, dai dati di Dulith and Kramer (2000) sul sistema alimentare risulta che la cottura industriale richiede tra 5 MJ/kg e 10 MJ/kg di energia, la preparazione di cibi nei ristoranti necessita di un ammontare compreso tra 10 MJ/kg e 15 MJ/Kg e la cottura domestica consuma tra 5 MJ e 7 MJ se i cibi sono fatti in casa e tra 1 e 2 MJ se si tratta solo di riscaldare gli alimenti.

1.6 La catena alimentare: le abitudini e le scelte dei consumatori e il loro impatto energetico.

In quest’ultimo paragrafo ho ritenuto importante fare alcune considerazioni sulle abitudini alimentari dei consumatori, i quali, costituendo l’ultimo passaggio del sistema, possono influenzare i consumi energetici tanto quanto le altre fasi.

L’evoluzione dell’uomo, caratterizzata da una richiesta sempre maggiore di energia esosomatica, ha portato a un’intensificazione della produzione di cibo e anche dei consumi, rendendo la relazione tra energia e cibo più complessa e con impatti sull’ambiente e sulla disponibilità di combustibili fossili più significativi. Un americano medio, come detto sopra, consuma circa 3800 kilocalorie il giorno, molto più delle 2000/2500 kilocalorie raccomandate dai nutrizionisti e necessarie per soddisfare il fabbisogno alimentare di ogni individuo. Inoltre, delle 3800 kcal giornaliere solo 2774 sono consumate direttamente, e le altre 1026 sono perse come rifiuti.

Duchin (2005) mostra una panoramica di alcuni studi che si sono posti l’obiettivo di valutare come le scelte alimentari dei consumatori possano incidere sull’efficienza energetica del sistema alimentare. Alcuni autori hanno descritto l’inefficienza energetica e nell’uso delle risorse naturali che sta dietro alla conversione di grano in mangime per animali, quando, invece, potrebbe essere mangiato direttamente. Carlsson–Kaynama (2003) ha valutato i trends nella produzione e nel consumo di cibo in Svezia e ha identificato possibili cambiamenti per rendere più efficiente il sistema alimentare. Altri ancora hanno esaminato le potenzialità dei prodotti biologici, dei prodotti locali, di un ridotto consumo di carne, del consumo di cibi freschi e di cibi che richiedono minori preparazioni. Shanahan e altri autori (2003), infine, hanno esaminato un pasto tipo di una famiglia in Ghana, Russia e Svezia, arrivando alla conclusione che le famiglie svedesi sono molto più dipendenti da cibi di provenienza globale, ragione per cui i consumi energetici pro capite sono maggiori.

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