Miriam Davide
Recenti ricerche storiche e documentarie su Trieste nel tardo medioevo*
[A stampa in “Quaderni Giuliani di Storia”, XXVI/1 (gennaio-giugno 2005) © dell’autrice – Distribuito in formato digitale da “Reti Medievali”]
Dopo il celebre libro di Ernesto Sestan del 19471, si devono attendere gli anni Settanta per una
ripresa di una certa consistenza degli studi su Trieste e sull’area giuliana, una realtà d’Italia rimasta ai margini di un rinnovamento storiografico nella medievistica italiana che era in buona misura incentrato sullo sviluppo delle società cittadine2. Verso la metà degli anni Sessanta era nata
la più giovane delle Deputazioni di storia patria, quella della Venezia Giulia, che a partire dal 1970 diede inizio alla produzione di una collana di fonti e studi con una ripresa delle edizioni di fonti per la storia del comune di Trieste, tra le quali quella curata da Marino Szombathely, e con la pubblicazione degli statuti del vicino comune di Muggia del XIV e XV secolo ad opera di Franco Colombo e Maria Laura Iona3. Sul piano della elaborazione storiografica, peraltro, la produzione di
ambito triestino degli anni Settanta non ebbe un carattere innovativo ma si tradusse sostanzialmente in una serie di riedizioni di opere, anche irrimediabilmente datate. Si trattò infatti del libro di Pietro Kandler incentrato sul ceto dei patrizi cittadini, che risaliva al 1858 e venne riedito nel 1972, mentre due anni dopo fu ristampato il fortunato affresco della Trieste trecentesca di Giuseppe Caprin, un’opera di fine ottocento. Ad altri due anni di distanza, era riedita la Storia di
Trieste di Attilio Tamaro, pubblicata per la prima volta nel 1924 e di taglio decisamente
municipalistico, mentre nel 1977 si scelse di riproporre il libro di grande importanza e di respiro sovracittadino di Fabio Cusin sul confine orientale d’Italia4.
Ad eccezione del libro di Caprin, un’opera di taglio francamente antiquario e accattivante nel suo orientamento verso la vita quotidiana e le curiosità medievali, riprodotto meccanicamente e senza alcun corredo introduttivo, gli altri testi furono tutti arricchiti di un ampio inquadramento culturale e storiografico, affidato ad uno dei maggiori studiosi triestini, Giulio Cervani. L’interesse per la storia di Trieste manifestato in queste circostanze era dunque orientato sulla storiografia e sull’autorappresentazione oltre che sugli inevitabili riferimenti ai quadri generali della storia d’Italia e della formazione di un tormentato territorio di frontiera e della dialettica tra sviluppo municipale e inquadramento imperiale. La stagione di studi kandleriani seguì immediatamente alla celebrazione del primo centenario della morte dell’autore ed ebbe inizio con l’edizione critica della Storia del Consiglio dei patrizi di Trieste e con la prima edizione a stampa del Cartolare di
piani e carte, entrambe curate come abbiamo visto da Giulio Cervani. Il dibattito che seguì a
*Lavoro promosso con l’attribuzione di un contributo di ricerca da parte della Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia.
1 Ernesto SESTAN, Venezia Giulia. Lineamenti di storia etnica e culturale, Roma 1947(Studi e storici e politici, n.9); II ed., Udine1965² (Storia e Storiografia, n.4).
2 Si veda la bella rassegna critica di Pierre TOUBERT, Histoire de l'Italie médiévale (Xe-XIIIe siècles). Publications des années 1955-1964, in "Revue historique", 89 [224] (1965), pp. 411-446, 90 [225] (1966), pp.135-192.
3 Libro delle Riformagioni e Libro dei Consigli (1411-1429), a cura di Marino SZOMBATHELY, Trieste 1970 (Fonti e studi per la storia della Venezia Giulia; Fonti,1); Gli statuti del comune di Muggia del 1420, a cura di Franco COLOMBO, Trieste 1971 (Fonti e studi per la storia della Venezia Giulia; Fonti, 2); Le istituzioni di un comune medievale. Statuti di Muggia del secolo XIV, a cura di Maria Laura IONA, Trieste 1972 (Fonti e studi per la storia della Venezia Giulia; Fonti, 3). Sulla storia di Muggia si veda Franco COLOMBO, Storia di Muggia. Il Comune aquileiese, Introduzione di Giulio Cervini, Trieste 1970.
4 Pietro KANDLER, Storia del consiglio dei patrizi di Trieste dall’anno 1382 all’anno 1809 con documenti, Trieste 1858; nuova edizione, Trieste 1972; Giuseppe CAPRIN, Il trecento a Trieste, Trieste1897; nuova edizione, Trieste1974; Attilio TAMARO, Storia di Trieste, Roma 1924; nuova edizione, Trieste 1976; Fabio CUSIN, Il confine orientale d’Italia nella politica europea del XIV e del XV secolo, Milano 1937; nuova edizione, Trieste 1977. In questo contesto occorre anche ricordare la riedizione dell’importante profilo di storia istriana risalente al 1924-1925 di Giovanni DE VERGOTTINI, Lineamenti storici della costituzione politica dell’Istria durante il Medioevo, riproposto dalla Società Istriana di Archeologia e Storia Patria, Trieste 1974.
queste pubblicazioni fu orientato su un piano interpretativo piuttosto che metodologico, e culminò con la discussione organizzata dalla Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia nel 19755.
Se era dunque assai densa ed importante la riflessione della storiografia su se stessa e sui suoi protagonisti maggiori, rimaneva ancora modesta la prospettiva di uno sviluppo delle ricerche che tenesse conto, da un lato, del progresso degli studi sulla realtà delle città italiane del tardo medioevo, dall’altro lato della situazione delle fonti. Sotto quest’ultimo profilo è significativo che, eccezion fatta per l’interesse agli statuti municipali dei quali si sono ricordate le edizioni, il riferimento fondamentale rimanesse ancora un’opera dello stesso Kandler, il celebre Codice
Diplomatico Istriano. Tra il 1969 e il 1970 si tenevano infatti due tavole rotonde, promosse dalla
Società di Minerva, intese a discutere le prospettive di riedizione che la singolare confezione in fogli e fascicoli sciolti di quella maestosa compilazione imponeva6.
In queste forme di conservativismo di cui abbiamo parlato giocava anche un aspetto al tempo stesso tecnico e di portata generale, cioè la tradizionale propensione verso i diplomi e dunque i codici diplomatici che aveva caratterizzato tutta la produzione settecentesca e ottocentesca nel campo dell’edizione delle fonti. Essa era temperata solo dall’attenzione ad altri due tipi di fonti privilegiate, le narrazioni cronistiche e gli statuti. Del primo genere la Trieste medievale era del tutto priva, mentre gli statuti, che avevano già dato luogo ad un’importante iniziativa del Kandler, avevano fornito materia negli anni trenta all’attività di Marino De Szombathely e negli anni settanta ai lavori citati dello stesso Szombathely, della Iona e del Colombo7.
Per la verità anche attraverso il Codice Diplomatico Istriano del Kandler era possibile aprirsi a tipi diversi di fonti poiché alcuni dei suoi “pezzi” erano tratti dalla serie dei Vicedomini e da quella del
Banchus Maleficiorum, sezioni fra le più ampie dell’antico archivio municipale. Si trattava peraltro
di inserimenti molto marginali, del tutto soverchiati in un’intelaiatura fondata sui documenti di natura diplomatica. Conviene ripetere che il privilegiamento dei diplomi era comune a tutta la produzione erudita italiana ancora negli anni settanta, e che un congresso-peraltro abbastanza innovativo- organizzato nel 1973 dall’Istituto Storico Italiano del Medioevo orientava le sue discussioni sulla classica triade di impostazione tedesca e ottocentesca: fonti narrative, leggi e diplomi. L’unica eccezione significativa era rappresentata da un denso saggio di Marino Berengo sugli atti notarili: un tipo di fonte del quale parleremo sottolineandone la singolare fisionomia nella tradizione triestina8.
Un grande impegno di lavoro erudito sarebbe stato dunque dedicato dalla fine degli anni settanta alla risistemazione della grande fatica di Pietro Kandler. Il gruppo di lavoro che si occupava della riedizione del Codice Diplomatico Istriano e che era composto inizialmente da Renzo Arcon, Fulvio Colombo, Alessandro Pellican, Maurizio Radacich e Tito Ubaldini portò a termine i lavori nel 19869. Contemporaneamente prendeva avvio la pubblicazione di nuove riviste: mentre su un
5 KANDLER, Storia del consiglio dei patrizi di Trieste dall’anno 1382 all’anno 1809 con documenti cit.; Cartolare di piani e carte dove si descrive la storia di Trieste e del suo territorio, a cura di Giulio Cervani, Trieste 1975; Studi Kandleriani, contributi: Fulvio CROSARA, Giorgio NEGRELLI, Salvatore Francesco ROMANO, Elio APIH, Maria Laura IONA, Giulio CERVANI, Roberto PAVANELLO, Fiorello DE FAROLFI, Sauro PESANTE, Trieste 1975 (Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia).
6 Le due tavole rotonde furono tenute nella sala “Silvio Benco” della Biblioteca Civica di Trieste il 7 giugno del 1979 e il 28 febbraio del 1970.
7 Statuti di Trieste del 1421, a cura di Marino DE SZOMBATHELY, Trieste 1936. Per le altre edizioni statutarie cfr. qui sopra la nota 2.
8 ISTITUTO STORICO ITALIANO PER IL MEDIO EVO, Fonti medioevali e problematica storiografica, Atti del Congresso internazionale tenuto in occasione del 90° anniversario della fondazione dell'Istituto Storico Italiano (1883-1973), Roma, 22-27 ottobre 1973, 2 voll., Roma, ISIME, 1976-77; il saggio di Marino BERENGO, Lo studio degli atti notarili dal XIV al XVI secolo, è nel volume I, alle pp.149-172.
9 Il Codice Diplomatico Istriano di Pietro Kandler, a cura del Gruppo Ricerche Storiche-Trieste, in “Archeografo Triestino”, s. IV, 43 (92 della raccolta, 1983), pp.53-186; la ristampa dell’opera di Kandler, costituita da 5 volumi, venne curata da Fulvio COLOMBO, Renzo ARCON e Tito UBALDINI con la prefazione di Livio Paladin e di Carlo Guido Mor nel 1986. La riflessione sulla ricezione e sulla conseguente incidenza degli scritti di Kandler nelle aree geograficamente vicine a Trieste, in particolare nei centri culturali di Lubiana, di Capodistria e Pirano fu stimolata da un convegno internazionale tenutosi a Rovigno il 9 maggio del 1989 (Il Codice Diplomatico istriano e le fonti per la storia di Trieste e dell’Istria dalla divulgazione a stampa alla banca dati); l’incontro avrebbe stimolato dei nuovi interventi orientati ad un riesame delle fonti necessariamente sistematico e volto ad un approccio metodologico
piano regionale “Metodi e ricerche”10 si affiancava, per iniziativa di un gruppo di studiosi non
coordinato a precedenti istituzioni, alle più antiche riviste locali tra le quali vanno soprattutto ricordate le “Memorie Storiche Forogiuliesi”11 , in ambito cittadino si inserivano accanto al vecchio
“Archeografo Triestino”12 i “Quaderni Giuliani di Storia”, iniziativa nuova che emanava però da
una struttura “storica” quale la Deputazione di Storia Patria della Venezia Giulia negli anni settanta. Di interessi per lo più legati alla storia contemporanea, la rivista si dotò peraltro di un prezioso bollettino bibliografico, che includeva una sezione medioevale. E si deve anche a questa felice congiuntura di ripresa di interessi per la storia locale una nuova ricognizione del patrimonio documentario triestino, in particolare di quello di matrice comunale e pubblica. Nel 1982 un piccolo libro13 scritto da cinque giovani studiosi dell’Università di Trieste faceva il punto
sull’articolazione delle fonti prodotte in ambito comunale dai singoli uffici dell’amministrazione cittadina: quelli preposti alla giustizia civile (cancelleria) e penale (Banchus maleficiorum), quelli responsabili delle entrate pubbliche (procuratori generali) e delle pubbliche spese (camerari), il particolare ufficio preposto all’annona (fontico), quello altrettanto speciale degli stimatori e infine i vicedomini presso i quali erano trascritti gli atti stipulati tra i privati. Mancavano nel quadro triestino alcuni tipi di fonti di matrice pubblica importanti e presenti in altre tradizioni archivistiche quali i verbali delle delibere del consiglio cittadino (conservati a Trieste solo dal tardo Quattrocento), mentre nel quadro delle fonti fiscali e finanziarie erano praticamente solo i registri di entrata e uscita a tenere il campo14. Nonostante queste lacune, il panorama delle fonti
municipali triestine le assimilava alle fisionomie di tutte le città comunali italiane e mostrava quanto fosse ingiustificata la disattenzione di cui il capoluogo giuliano aveva sofferto nel panorama storiografico.
Conviene gettare uno sguardo più ravvicinato su queste serie documentarie, e sulla fruizione che ne è stata fatta dagli anni ottanta. La maggior attenzione è stata dedicata alla serie dei Vicedomini e a quelle dei procuratores generales et camerarii. Nell’ordinamento cittadino di Trieste vigeva l’obbligo della trascrizione integrale di tutti gli atti notarili di una certa importanza presso il pubblico ufficio della Vicedomineria i cui registri hanno così assicurato la conservazione di una documentazione continua nel tempo composta da diverse tipologie di contratti: atti di compravendita e donazione, locazioni d’opera e contratti di discepolato, locazioni di immobili, varie obbligazioni, contratti dotali, istituzioni di procuratori e testamenti che costituiscono la piuttosto che interpretativo. Tra gli interventi si segnalano quelli di Francesco ANTONI, Archivi e storia politica a Trieste fra formazione e recupero della memoria storica, in “Quaderni Giuliani di Storia”, 11 (1990), pp.65-77, di Darja MIHELIČ su Il Chartularium piranense di Camillo De Franceschi e il “Codice” di Pietro Kandler, in “Studi Goriziani”, 76 (luglio-dicembre 1992), pp.35-42, e di Janez ÄUMRADA, Gradivo za Zgodovino Slovencev (Le fonti per la Storia degli Sloveni) di Franc Kos e il Codice di Pietro Kandler, ivi, pp.43-51; Antonio TRAMPUS, Le fonti per la storia del litorale austriaco e un recente convegno sul Codice Diplomatico Istriano, ivi, pp.31-33. Nel quadro dell’”eredità” kandleriana occorre anche ricordare il contributo di Franco COLOMBO, Il Codice Diplomatico speciale per Muggia di Pietro Kandler, in “Archeografo Triestino”, s. IV, 49 (97 della raccolta,1989), pp.187-195.
10 La rivista interdisciplinare “Metodi e ricerche” fu fondata per iniziativa del Centro studi regionali per dare spazio, come viene esplicitato nell’introduzione alla rivista stessa, alle varie identità presenti nel Friuli-Venezia Giulia nel 1980: Premessa, “Metodi e ricerche”, 1 (1980), 1, pp.3-4.
11 La rivista “Memorie storiche forogiuliesi”, nacque nel 1905 con il nome di “cividalesi” essendo inizialmente il bollettino del Museo storico di Cividale, per poi diventare nel 1919 organo della Deputazione di storia patria per il Friuli, che era stata fondata qualche anno prima, nel 1911, come Società storica friulana.
12 La rivista “Archeografo Triestino” fu fondata nel 1829 dalla Società della Minerva per ospitare nelle sue pagine documenti e studi di natura storica e artistica su Trieste e l’Istria. Sulla nascita della rivista si veda Domenico ROSSETTI, Introduzione, in “Archeografo Triestino”, 1 (1829), pp. 3-11; Piero STICOTTI, L’Archeografo triestino, s. III, supplemento al numero 15 (43 della raccolta,1929), pp.7-20; Giulio CERVANI, L’apporto dell’“Archeografo triestino” agli studi storici giuliani della fine dell’Ottocento, in “Atti e memorie della Società istriana di archeologia e storia patria”, n.s., 2 (1952), pp.150-171; Fulvio SALIMBENI, Nuove prospettive della storia locale: fonti, metodi, problemi. Il caso giuliano, in “Quaderni Giuliani di Storia”, 2 (1981), 2, pp.7-39: pp.13-15.
13 Delia BLOISE, Giorgio. BRISCHI, Annamaria CONTI, Lucia PILLON, Michele ZACCHIGNA, Le magistrature cittadine di Trieste nel secolo XIV. Guida e inventario delle fonti, Roma 1982 (Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Lettere e Filosofia, Istituto di Storia Medievale e Moderna, n.s., 2).
14 Per l’articolazione delle scritture di matrice pubblica nell’Italia comunale, in un quadro ancora più vasto di evoluzione strutturale delle fonti scritte, si veda Paolo CAMMAROSANO, Italia medievale. Struttura e geografia delle fonti scritte, Roma 1991 (Studi Superiori NIS, Storia, 106), segnatamente le pp.125-193.
materia fondamentale per la ricostruzione della vita economica e sociale del tempo. La costituzione di questi pubblici registri determinò la perdita dei protocolli e dei registri notarili originali. La questione della pubblica registrazione dei contratti privati, e delle conseguenze che si ebbero sulla trasmissione degli atti notarili in originale e in registro, attende ancora un’indagine precisa, così come deve ancora essere chiarita la situazione specifica di Trieste nell’insieme delle città istriane per le quali è attestata la medesima pratica della Vicedomineria, senza che ovunque vi sia stata la perdita dei registri originali.
Il primo a studiare le funzioni dei vicedomini a Trieste fu nella prima metà dell’Ottocento Pietro Kandler che se ne occupò in un breve saggio senza peraltro suscitare degli studi immediatamente successivi15. Si deve infatti a Delia Bloise la successiva analisi della serie dei vicedomini, apparsa
nel citato libro del 198216. L’autrice prese in esame inizialmente la carica istituzionale del
vicedomino istituita a Trieste nel 1322, quando fu ordinata l’elezione di due vicedomini e fu istituto il nuovo ufficio tramite una delibera recepita negli statuti municipali. I vicedomini rimanevano in carica un anno ed erano inizialmente rieleggibili; fu solo nel 1418 che si proibì a chi era stato nominato vicedomino di riavere la carica. I vicedomini erano tenuti a vicedominare, cioè a trascrivere tutti gli atti di pagamento del valore superiore alla mezza marca di frisacensi e tutti gli
instrumenta sottoscritti da un notaio. Essi dovevano inoltre essere presenti alla redazione dei
testamenti o alla lettura che di questi veniva fatta da parte del notaio alla presenza del testatore o della testatrice per ottenerne la conferma. Tutti gli atti compilati dopo l’istituzione dell’ufficio della vicedomineria non erano considerati degni di fede pubblica se non venivano autenticati mediante la registrazione nei quaderni. Negli Statuti cittadini del 1350 furono specificati con maggiore chiarezza i compiti a cui erano tenuti i vicedomini; fu soprattutto il ruolo da tenersi nella procedura della compilazione testamentaria, di cui più avanti tratteremo, a conoscere i maggiori cambiamenti. Il saggio della Bloise comprende una seconda parte dedicata alla composizione dei volumi della Vicedomineria del XIV secolo con un’analisi della loro struttura e della loro composizione e un inventario dei vari volumi comprendente le dimensioni del registro, il numero di carte, il nome del vicedomino e la natura degli atti registrati.
L’analisi della serie dei vicedomini è continuata con i saggi di Maria Luisa Iona e di Francesco Antoni tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta17. La prima autrice riconosceva la
difficoltà di ricostruire l’origine dell’istituzione, rifiutava l’ipotesi di una derivazione dai Memoriali bolognesi ma ridimensionava anche il collegamento, che era stato asserito da Kandler, con l’ufficio dei a vicedomini attestato a Pirano in un frammento degli statuti di Pirano del 1274-1275: si trattava, scrive la Iona, di una isolata menzione all’interno di un proemio, senza prosecuzione nei successivi Statuti del 1307. In definitiva, la Iona non riconosce precedenti sicuri esterni alla tradizione municipale triestina documentata per la prima volta nel 1322, che interpreta semplicemente come l’emergere di una esigenza di corroborare la publica fides notarile con una ulteriore e prevalente sanzione da parte della pubblica autorità, così da affievolire, ella ritiene, il peso dei notai stessi.
L’anno successivo all’uscita del saggio della Iona ad occuparsi di una nuova analisi dei Vicedomini fu Francesco Antoni18 sulla rivista “Clio”. L’autore sostiene che l’istituzione della vicedomineria
deve essere messa in relazione con la problematica generale relativa alla crescente esigenza nel tardo Medioevo di una maggiore tutela e sicurezza nelle pratiche giuridiche. Dopo aver tracciato un esauriente quadro di tutti gli studiosi che si sono occupati, durante le loro ricerche, dei
15 Pietro KANDLER, Delle notifiche nell’Istria, in “L’Istria”, I, 19-20 (1846), pp.75-80.
16 Delia BLOISE, I vicedomini e i loro registri, in BLOISE, BRISCHI, CONTI, PILLON, ZACCHIGNA, Le magistrature cittadine di Trieste nel secolo XIV, cit., pp.45-50, 66-74.
17 Maura Laura IONA, I vicedomini e l’autenticazione e registrazione del documento privato triestino nel secolo XIV, in “Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria”, n.s., 36,1988, pp. 99-108. L’autrice ha inoltre pubblicato sul problema della registrazione dei documenti a Muggia nel Trecento: Problemi di conservazione e di registrazione a Muggia nel secolo XIV, in Geschichte und ihre Quellen. Festschrift für Friedrich Hausmann zum 70. Geburtstag, Graz 1987, pp. 413-416.
18 Si deve allo stesso Antoni l’eccellente lavoro sulla formazione degli archivi storici di Trieste: Francesco ANTONI, Archivi e storia politica a Trieste tra formazione e recupero della memoria storica, in “Quaderni Giuliani di Storia”, XI (1990), pp.25-77.
vicedomini e aver ricordato i capisaldi del funzionamento della magistratura il saggio prende in esame gli altri meccanismi di controllo sull’attività notarile istituiti dai diversi comuni italiani con i quali va raffrontata la serie documentaria triestina. Uno dei punti centrali di questi istituti è data dall’espropriazione dell’autorità certificante dei notai a vantaggio di un’organizzazione di tipo burocratico che faceva capo al comune da cui dipendeva così la legalità della documentazione degli atti privati. Il modello triestino, le cui origini sono ignote, fu riprodotto nel giro di pochi anni nei maggiori comuni dell’Istria. L’autore respinge con autorevolezza la tesi sull’origine dell’istituzione dei vicedomini proposta da Pietro Kandler, per il quale Trieste si era rifatta alle istituzioni venete nell’elaborare le leggi statutarie, esamina con accuratezza la tecnica legislativa dei vicedomini traendo la conclusione che si tratta di un’elaborazione del tutto originale e funzionale ad un preciso quadro istituzionale della storia del Comune triestino. L’autore si propone poi di dare una risposta ad un altro interrogativo sui vicedomini legato alla scelta del nome che non ha nessun rapporto con la certificazione degli atti notarili e che è legato, come aveva già messo in evidenza il Kandler con cui Antoni è d’accordo, al termine dominus che nelle fonti medievali cittadine andava ad indicare tutti i poteri politici espressi dal Comune. I vicedomini sono infine analizzati con precisione sotto due angolature: da una parte la serie è esaminata alla luce della volontà di controllo sulla legalità della documentazione degli atti espressa dalle istituzioni pubbliche e dall’altra è sottolineato il carattere processuale che la caratterizza19.
L’interessante saggio trova una sua continuazione nel contributo Materiali per una ricerca sui
vicedomini di Trieste20 edito nel 1991 dallo stesso Francesco Antoni che ribadisce l’importanza di
uno studio dei vicedomini in comparazione con altre istituzioni analoghe del panorama italiano in una prospettiva che metta in risalto il valore concreto che venne ad assumere la publica fides notarile durante il medioevo, quando, come aveva già avuto modo di sottolineare l’autore nel precedente articolo, venne tolta ai notai la precedente autorità certificante a favore di un’organizzazione burocratica e amministrativa interna al comune che era destinata a diventare l’unica in grado di offrire la legittimità ai contratti stipulati tra privati. Si delinea pertanto la necessità di fare delle nuove ricerche sui vicedomini che vadano a precisare quale fosse la loro effettiva incidenza sul notariato locale, sulla base di uno spoglio preciso e attento dei registri che consenta di confrontare le trascrizioni con quelle corrispondenti negli atti originali che ci sono pervenuti; tali documenti, peraltro non molti, sono quelli provenienti dagli archivi del capitolo della cattedrale, del monastero benedettino dei Santi Martiri e del monastero femminile della Cella. L’autore sottolinea come in questa prospettiva sia necessario inoltre uno studio della procedura giudiziaria per verificare quale fosse effettivamente la rilevanza data nei processi all’atto notarile e ai documenti vicedominati. Il saggio si conclude con la pubblicazione di alcuni strumenti utili per lo studio dell’istituzione: l’inventario contenente l’elenco dei vicedomini, dei sostituti e dei coadiutori basato in parte sui precedenti lavori, incompleti e mai pubblicati, di Luigi De Jenner e di Giuseppe Sindici e le norme statutarie che regolavano l’ufficio stesso.
La necessità di allargare lo studio dei vicedomini alla vicina Istria dove, come abbiamo visto, si era diffusa la pratica della vicedominazione è preso in considerazione nel saggio di Elena Maffei
Attività notarile in aree bilingui: i vicedomini a Trieste e in Istria nel 1300 pubblicato sulla
“Nuova Rivista Storica” nel 1999, lavoro desunto dalla tesi di dottorato discussa all’Università di Milano21. Del problema della pratica della vicedominazione in Istria si era occupato Darko Darovec
in un libro uscito nel 199422. L’autrice partendo dai lavori di analisi precedentemente editi, di cui
sovente denuncia le carenze o le presunte inesattezze, offre una dettagliata analisi delle varie fasi
19 Francesco ANTONI, Documentazione notarile dei contratti e tutela dei diritti: note sui vicedomini di Trieste (1322-1732), in “Clio”, XXV (1989), pp.319-335.
20Francesco ANTONI, Materiali per una ricerca sui vicedomini di Trieste, in “Archeografo Triestino”, s. IV, 51 (99 della raccolta,1991), pp.151-203.
21 Elena MAFFEI, Attività notarile in aree bilingui: i vicedomini a Trieste e in Istria nel 1300, in “Nuova Rivista Storica”, 83 (1999), pp. 489-542; EAD., I vicedomini a Trieste e in Istria (secoli XIII e XIV), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, 1994-1997.
22 Darko DARKOVEC, Notarjeva javna vera- Notarji in vicedomini v Kopru, Izoli in Piranu v obdobju Beneske Republike, Koper-Capodistria, 1994. Sui problemi politici in generale dell’Istria si veda DE VERGOTTINI, Lineamenti storici della costituzione politica dell’Istria durante il Medioevo, cit.
della carica dei vicedomini alla luce della normativa statutaria del 1322 e delle successive addizioni. Quanto al problema della messa in discussione del ruolo dei notai dovuto alla pratica della vicedominazione la Maffei non ritiene che si siano voluti colpire i notai, che peraltro appartenevano alle famiglie più importanti in città, ma piuttosto che i vicedomini siano l’espressione di un maggior coinvolgimento della popolazione che era sottoposta ad un esborso ulteriore di denaro per garantirsi una registrazione notarile valida. Il problema del ruolo dei notai fu in effetti immediatamente preso in considerazione e già nelle addizioni del 1322 ai notai venne ribadita la funzione di depositari della publica fides. Il saggio offre un quadro particolareggiato delle addizioni allo statuto del 1332, di quelle emanate tra il 1323 e il 1348, volte a modificare leggermente e talora a precisare il ruolo dei vicedomini, e di quelle del 1350 che sono in gran parte ricopiature testuali delle addizioni precedentemente emesse. Dopo aver largamente affrontato il tema della vicedominazione triestina l’autrice delinea un’interessante panoramica della pratica nel vicino Comune di Muggia e in altre città istriane desumendone alcuni tratti fondamentali. Ovunque ai vicedomini è affidato il compito di controllo sui testamenti e su altri atti importanti così come emerge la volontà di esercitare un controllo pubblico da parte dei Comuni sulle proprietà immobiliari. Il saggio apporta una nuova tesi per spiegare l’adozione dei vicedomini a Trieste e in Istria, vedendone un tratto comune nella volontà di accentramento della produzione notarile vista come espediente per mantenere sotto controllo le popolazioni slave che risiedevano nei vari contadi. L’ardita tesi, fondata sulla constatazione della coesistenza di due mondi linguisticamente lontani come quello italico e quello slavo in Istria e a Trieste dove l’elemento sloveno conservava i propri costumi e abitudini, sostiene che la volontà di rendere validi solo i documenti vicedominati sottintendeva la necessità di un riconoscimento pubblico da parte dei contraenti, avvezzi in molti casi al bilinguismo, nei confronti dell’atto che veniva compreso e accettato nella redazione latina. La diffusione della magistratura della vicedomineria nelle zone prese in esame è vista dunque come una forma di controllo istituita dai ceti dirigenti per riuscire a vigilare la vita economica cittadina, caratterizzata dall’elemento italiano, e quella dei distretti, dove la maggior parte dei residenti apparteneva ai ceppi slavi. La Maffei dedica la parte conclusiva del saggio a delineare la presenza slava nel distretto triestino che è stata, secondo il suo giudizio, trascurata dagli eruditi e storici triestini e che qui trova indubbiamente una sua precisa collocazione suffragata da interessanti riscontri negli Statuti cittadini e nei registri dei vicedomini23.
Sulla magistratura dei vicedomini triestina è attualmente in corso un’importante lavoro di informatizzazione della documentazione a cura di Daniela Durissini volto a garantire un servizio on-line che permetta una maggiore fruizione del materiale disponibile. In rete peraltro sono già disponibili i registi del Codice Diplomatico Istriano, eseguiti dal gruppo della Società della Minerva di cui abbiamo parlato, a cura della società Scrinium Adriae.
Una fonte molto importante per la storia economica della città di Trieste è costituita dalle serie fiscali, i Quaderni dei Camerari e il Fontico. Ad occuparsi di una prima analisi delle serie fiscali triestine fu nel 1982 Annamaria Conti nel libro scritto a più mani sulle fonti cittadine di cui abbiamo già parlato24. L’ordinamento finanziario triestino era affidato a due ufficiali, ciascuno dei
quali era preposto a determinati compiti: il procuratore generale e il camerario. Il procuratore generale doveva riscuotere tutte le entrate del Comune, composte dalle pene pecuniarie, dai redditi patrimoniali e dai redditi tributari. La maggior parte delle entrate era fornita dalle imposte, per lo più indirette, tra le quali vanno segnalati, per i proventi alti che fornivano, i dazi sul vino e quello sulle carni fresche. Esistevano vari quaderni che certificavano l’operato dei procuratori, i quali erano sottoposti a rigorosi controlli. Dopo aver delineato la figura del procuratore l’autrice fornisce alcune indicazioni analitiche sul materiale documentario trecentesco proveniente da tale magistratura, e che è costituito da un numero di quaderni alquanto esiguo se si tiene conto della
23 Sull’uso della vicedominazione in Istria e Dalmazia cfr. DAROVEC, Notarjeva javna vera, cit.; ID., Vicedomini, notai e cancellieri tra professione e potere nell’Istria settentrionale (Vicedomini, Notarji in Kancelarji med poklicem in oblastjo v severni Istri), in “Acta Histriae”, 3 (1994), pp.37-54.
24 Annamaria CONTI, Gli organi dell’amministrazione finanziaria, in BLOISE, BRISCHI, CONTI, PILLON, ZACCHIGNA, Le magistrature cittadine di Trieste nel secolo XIV, cit., pp. 26-34, 59-64.
molteplicità di registri che gli ufficiali erano tenuti a compilare. Nella seconda parte dell’articolo la Conti introduce la figura del camerario fornendo, in modo analogo a quanto fatto per l’analisi sui procuratori generali, le modalità di elezione. I camerari si occupavano di tutte le spese del Comune, ad eccezione di quelle del Fontico, e per tutte le spese, delle quali è fornito un preciso elenco, dovevano essere autorizzati dal podestà o dai giudici. Il camerario doveva rendicontare tutte le spese e le entrate riscosse dal procuratore generale in due quaderni uguali, di cui uno era depositato presso il podestà. I quaderni superstiti per il Trecento sono una ventina circa e si presentano con un articolazione minore rispetto a quelli dei procuratori generali. Dopo aver fornito un quadro sulle due magistrature di cui si è detto l’autrice si è occupata degli ufficiali preposti al Fontico dando notizia delle modalità di elezione alla carica. Il fonticario era tenuto, in quanto amministratore, a sovrintendere a tutte le operazioni di acquisto e di vendita del grano del Fontico. La vendita del grano poteva essere fatta solamente in cambio di denaro contante che era poi impiegato per l’acquisto di nuove scorte cerealicole. Anche questo ufficiale era tenuto ad usare due registri, di cui uno veniva consegnato al podestà. La documentazione per il Trecento è andata quasi completamente perduta essendo rimasti solamente tre registri di cui sono fornite le indicazioni principali.
Nel 1999 Annamaria Conti ha poi pubblicato un libro che fa il punto della situazione sulle finanze del Comune di Trieste su un arco cronologico che va dal 1295 al 136925. L’opera si inserisce nel
filone di ricerca sulla finanza pubblica dei Comuni italiani del medioevo inaugurato verso al fine dell’Ottocento dal testo di Heinrich Sieveking sulle finanze di Genova e proseguito a lunghi intervalli, soprattutto con gli importanti lavori, usciti entrambi nel 1929, di Gino Luzzatto per Venezia e di Bernardino Barbadoro per Firenze26. Per molto tempo questi importanti contributi
non trovarono seguito, sino al 1976, quando apparve il lavoro di William Bowsky sull’intero complesso delle finanze senesi e un filone di nuove e stimolanti ricerche che non si sono soffermate solo sullo studio delle città mercantili aprendo uno spiraglio sulle altre città, tra le quali Bergamo ed altre città dell’Italia settentrionale e centrale alle quali sono stati dedicati studi molto notevoli27. Trieste è rimasta molto ai margini dell’interesse risultando sottovalutata per quanto
riguarda il suo rilievo storico nella convinzione che solamente a partire dalla notevole espansione economica, demica e sociale dell’epoca moderna la città abbia avuto una sua importanza. In realtà già nel Trecento la città aveva conosciuto uno sviluppo tale da determinare una riorganizzazione della compagine sociale, politica e finanziaria che si è espressa anche attraverso un insieme di scritture.
Purtroppo la serie dei registri dei procuratores generales e dei Camerari si presenta quanto mai lacunosa e discontinua, ciò che rende molto problematico un lavoro di edizione. La Conti ha scelto di pubblicare l’edizione completa di un registro isolando l’analisi su un preciso segmento temporale. L’autrice ha però scelto di fornire alcuni indicazioni necessarie su tutte le serie documentarie esistenti e non solo sui pezzi editi nel volume da cui si deduce la centralità delle imposizioni dirette rispetto alle entrate patrimoniali e alle imposte dirette che appaiono
25 Annamaria CONTI, Le finanze del Comune di Trieste 1295-1369, Trieste 1999 (Fonti e Studi per la storia della Venezia Giulia, VII).
26 Heinrich. SIEVEKING, Genueser Finanzwesen mit besonderer Berücksichtigung der Casa di San Giorgio, voll.2, Freiburg im Breisgau, 1898-1900; trad. it.: Studio sulle finanze genovesi nel medioevo e in particolare sulla Casa di San Giorgio, voll. 2, in "Atti della Società Ligure di Storia Patria", 35 (1905-06); Gino LUZZATTO, Il debito pubblico della Repubblica di Venezia dagli ultimi decenni dal XII secolo alla fine del XV (1929); nuova edizione con un'appendice di Frederic C. LANE, Milano-Varese 1963; Bernardino BARBADORO, Le finanze della Repubblica fiorentina. Imposta diretta e debito pubblico fino all'istituzione del Monte, Firenze 1929 (Biblioteca storica toscana a cura della R. Deputazione Toscana di Storia Patria, 5).
27 William M. BOWSKY, The Finance of the Commune of Siena, 1287-1355, Oxford, 1970; trad. it. Le finanze del Comune di Siena, 1287-1355, Firenze, 1976 (Il pensiero storico, 68). Cfr. la recensione di Paolo CAMMAROSANO in “Studi Medievali”, s. III, 12 (1971), pp. 301-322; Ann Katherine CHIANCONE ISAACS, Fisco e politica a Siena nel Trecento, in “Rivista storica italiana”, 85 (1973), pp. 22-46; Patrizia MAINONI, Le radici della discordia. Ricerche sulla fiscalità a Bergamo tra XIII e XIV secolo, Milano 1997; a questa autrice si deve la cura dell’importante libro a più voci Politiche finanziarie e fiscali nell’Italia settentrionale (secoli XIII-XV), Milano 2001, nonché la bella rassegna storiografica Finanza pubblica e fiscalità nell'Italia centro-settentrionale fra XIII e XV secolo, in "Studi storici", 40 (1999), pp. 449-470.
decisamente come delle voci di ricavo più modeste, che fa di Trieste un tipico Comune mercantile impegnato ad assicurare la disponibilità di cassa attraverso il sistema degli appalti laddove affidava le sue risorse all’andamento del mercato degli scambi. Le imposte dirette si caratterizzano per la loro marginalità che va posta in rilievo e correlata alla dimensione contenuta delle spese dovute alle scelta di una città non aggressiva e difesa sui suoi domini. Sono modeste infatti anche le spese militari così come appare stabile il bilancio complessivo nel tempo. Delle varie voci di spesa contenute nei registri viene fatta un’analisi dettagliata individuando le voci più ricorrenti, tra le quali i compensi per le prestazioni professionali, le ambascerie, i lavori pubblici e le spese per la giustizia. Dopo aver offerto un’analisi delle spese la Conti traccia un quadro dettagliato dei capitoli di entrata contenuti nei registri dei procuratores generales, dividendole in imposte indirette, imposte dirette, entrate patrimoniali e pene pecuniarie. L’uso fiscale della giustizia penale largamente adottato a Trieste nel XIV secolo giustificherebbe senza dubbio uno studio dettagliato dei registri criminali. Il libro è composto anche da un’appendice che comprende l’edizione integrale del registro del camerario Artuico Ciuleto del 1330 e l’edizione di alcune parti di altri registri tratti dai quaderni dei procuratori generali degli anni 1338-1368 ed è fornito di un indice dei nomi di persona e di luogo. Manca qui un indice e glossario dei termini mediolatini che sarà invece presente nei lavori successivi di edizione di questo tipo di fonti.
La Deputazione di storia patria per la Venezia Giulia ha dato avvio, sotto la presidenza del compianto Arduino Agnelli, all’edizione dei Quaderni dei Camerari a cura di Renzo Arcon, inserendoli nella collana delle Fonti della sua miscellanea Fonti e Studi dopo aver pubblicato il lavoro di Annamaria Conti sulle finanze del Comune trecentesco, di cui abbiamo parlato. Sono state sinora pubblicate le trascrizioni degli anni 1330, 1332, 1335 nel primo volume della serie, degli anni 1346, 1350 nel secondo, degli anni 1351, 1352 nel terzo e infine degli anni 1359 e 1362 nel quarto volume28. Nel primo dei volumi curati l’Arcon traccia un quadro del problema
dell’edizione delle fonti nella storiografia cittadina mettendo in luce come Domenico Rossetti fosse stato il primo degli eruditi ad intuire l’importanza di un lavoro di trascrizione di un’intera fonte storica cittadina, avendo trascritto per uso personale il più antico degli statuti medievali che però non venne mai pubblicato. Ad occuparsi della trascrizione degli statuti fu, come abbiamo largamente visto, Pietro Kandler, scegliendo i documenti che riteneva più significativi per pubblicarli nel Codice Diplomatico Istriano e occupandosi dell’edizione degli Statuti cittadini nel 1849. A partire da questo lavoro sono state eseguite solamente delle parziali edizioni di documenti, ad opera tra gli altri di Attilio Tamaro e di Fabio Cusin, trovandosi il materiale documentario inerente alle serie archivistiche più antiche in una situazione di grave disordine. Il lavoro più completo e preciso sulle magistrature cittadine è l’analisi elaborata nel 1982 che abbiamo già ampiamente citata e che si distingue per un corretto approccio metodologico improntato alle nuove prospettiva di ricerca della storiografia di quegli anni. Le edizioni relative a trascrizioni di fonti, come abbiamo già posto in evidenza qui e come viene nuovamente ribadito dall’Arcon, conoscono un lungo periodo di stasi successivo alle pubblicazioni di statuti ad opera di Marino de Szombathely, e sono per la gran parte contenute in tesi universitarie di laurea, tradotte in misura minima in edizioni a stampa. I Quaderni dei Camerari pubblicati al di fuori della serie curata da Renzo Arcon sono stati una parte del registro del 1426, la cui edizione è motivata dal fatto che è stato scritto in lingua volgare ed è quindi interessante anche dal punto di vista linguistico, e il registro del 1330 del quale si è occupata, come abbiamo detto, Annamaria Conti a titolo esemplificativo del lavoro di una magistratura29.
Dopo aver delineato il quadro storiografico sulle edizioni delle fonti Renzo Arcon propone alcuni filoni di ricerca a partire dall’analisi dei Camerari, tracciando prima un breve quadro sulle modalità di elezione completo di riferimenti normativi alla statutaria cittadina e un’analisi dettagliata della composizione delle registrazioni delle entrate e delle uscite e dando rilevo allo
28 I quaderni dei Camerari del Comune di Trieste, a c. di R. Arcon, I (anni 1330, 1332, 1335), II (anni 1346,1350), III (anni 1351,1352), IV (anni 1359, 1362), Trieste, Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia, 2000, 2001, 2003, 2004 (Fonti e Studi per la storia della Venezia Giulia; Fonti, 4-7).
29Oddone ZENATTI, La vita comunale ed il dialetto di Trieste nel 1426, studiati nel quaderno di un Cameraro, in “Archeografo Triestino”, II serie, XIV (1888), pp. 61-191; CONTI, Le finanze del Comune di Trieste, cit., pp. 83-134..
schema ricorrente che le sottintende. Tra i filoni di ricerca possibili indicativo ed interessante è senza dubbio quello politico con la ricostruzione di quel processo che rese indipendente il Comune dal potere vescovile e quello diplomatico con i rapporti con gli stati vicini; numerose sono infatti nelle documentazione le registrazioni di ambascerie, né mancano riferimenti alle vicende della vicina Istria interessata ai conflitti in corso tra il Patriarca e la Repubblica di Venezia.
La scelta editoriale di Renzo Arcon si è concentrata sulle serie dei Camerari, cioè dell’ufficio preposto alle spese comunali, laddove la serie dei procuratores generales, che come abbiamo ricordato erano gli ufficiali preposti alle entrate (costituite preminentemente dagli appalti dei dazi), è stata al momento tralasciata. È naturalmente auspicabile, ai fini di una ricostruzione complessiva del meccanismo finanziario triestino e del ruolo delle famiglie più agiate, una edizione anche dei registri dei procuratores generales, pure certo più stringati nel contenuto e più monotoni rispetto alla minuta descrizione delle singole poste di spesa. Conviene ancora ricordare come la casualità della tradizione documentaria abbia fatto sì che per quasi tutti i termini d’ufficio, stabiliti in tre quadrimestri, ci siano pervenuti o il solo registro dei procuratores o il solo registro dei Camerari: sono rari i casi in cui siano rappresentati entrambi, e per questo sarebbe particolarmente auspicabile che almeno l’edizione del quaderno di Domenico de Mirissa, del terzo quadrimestre 1359, sia completata con quella del quaderno di Giovanni Niblo, procuratore nel medesimo termine d’ufficio.
Sono affidate al primo dei volumi editi dei Quaderni dei Camerari le indicazioni archivistiche complessive sulla serie, che si estende su un lunghissimo arco cronologico, dal 1330 al 1745, con i dati sulla rilegatura fattizia ed altri elementi descrittivi generali e il riferimento ai criteri di edizione, per i quali vi è il tradizionale richiamo alle norme previste dall’Istituto Storico Italiano nel 1906 e un’accurata indicazione dei successivi aggiornamenti dovuti ad Alessandro Pratesi nel 1957 e poi successivamente ad altri studiosi30. Elementi descrittivi specifici e particolari problemi
di struttura dei quaderni e di edizione corredano poi, in pagine introduttive, ciascuno dei quattro volumi sinora apparsi, insieme ad una sintesi della vicenda storica e politica degli anni nei quali furono composti i relativi registri. Tutti i volumi sono infine muniti di preziosi indici onomastici, toponomastici e lessicali, nonché di glossari utili sia per gli studiosi della lingua che per gli altri studiosi che si accostino allo studio dei registri.
Una fruizione meno sistematica, sia come edizioni che come elaborazione storica, è stata dedicata alle altre provenienze pubbliche cittadine: quasi nulla è stato scritto sulla Cancelleria e ben poco sul Banchus Maleficiorum. Ad occuparsi della Cancelleria fu nel 1982 Michele Zacchigna31 che
pubblicò un saggio sull’attività dei cancellieri del Comune nel Trecento nel libro sulle magistrature cittadine di cui abbiamo precedentemente parlato per la Vicedomineria. L’autore sottolinea come l’affermazione del governo comunale e la sua ascesa verso l’autonomia dal potere vescovile si concretizzi anche attraverso la costituzione comunale triestina elaborata nei suoi lineamenti di base tra il 1320 e il 1340. Con precisione vengono presentate le modifiche al ruolo di cancelliere che si susseguono negli anni a partire dagli statuti del 1315, relative tra l’altro alla procedura di elezione, con dei rimandi precisi alle addizioni statutarie che trovano una loro organizzazione normativa nel codice del 1350. L’iter processuale si venne a delineare in una serie di scritture e documenti che furono divisi e classificati in modo analitico. Mentre la procedura sommaria sembra aver avuto dei tempi di realizzazione piuttosto veloci la procedura ordinaria e la conseguente causa conoscevano tempi più lunghi poiché erano lasciate alle parti che avevano la possibilità di presentare i testimoni, che avevano comunque un valore inferiore alla prova scritta di mano notarile. Di questo iter l’autore inserisce un valido esempio che permette di chiarire al meglio i vari momenti e il ruolo dei cancellieri. L’approccio alla fonte è complicato dal fatto che i cancellieri ordinavano quale scriptura utilizzare a seconda della tipologia, di conseguenza i vari momenti della procedura inerenti alla stessa causa si trovano in diverse sezioni dei quaderni. La ricostruzione delle controversie necessita quindi di una forte attenzione nei confronti del materiale
30 I quaderni dei Camerari del Comune di Trieste, cit., I, note 44 e 45 a p. XXV.
31 Michele ZACCHIGNA, I cancellieri del Comune, in BLOISE, BRISCHI, CONTI, PILLON, ZACCHIGNA, Le magistrature cittadine di Trieste nel secolo XIV, cit., pp.13-20, 53-57.
documentario. In una seconda parte dell’articolo, vengono elencati i cancellieri in carica durante il corso del XIV secolo.
Nello stesso testo in cui comparve il saggio di Zacchigna sulla cancelleria fu dedicato un articolo ad un primo esame del Banchus Maleficiorum a cura di Giorgio Brischi32. Dopo aver dato alcune
notizie sulla consistenza del fondo, composto da sedici registri riuniti in nove volumi fattizi che coprono un arco cronologico che va dal 1327 al 1388, e sullo stato di conservazione, giudicato più che buono, l’autore delinea gli uffici di notaio dei malefici, carica menzionata per la prima volta negli statuti del 1315, e di protettore di Comune, a partire dal 1344. I compiti delegati alle due cariche erano soprattutto di tipo penale, quali la verbalizzazione delle denunce e la difesa dei convenuti, anche se erano affiancati da compiti di polizia urbana. Brischi, dopo aver esaminato le fasi procedurali in campo penale alla luce degli statuti, fornisce la descrizione dell’organizzazione interna di un quaderno del Banchus Maleficiorum utilizzando il materiale conservato. La maggior parte del materiale esaminato è costituito da inchieste penali che sono organizzate secondo uno schema preciso che inizia con la narrazione del fatto per poi giungere ad una parte centrale costituita dalla difesa del convenuto e dall’accusa del querelante, conclusa con l’elenco dei testi e le loro deposizioni. Di notevole importanza procedurale è la condizione giuridica nei confronti dello stato dell’imputato e dell’accusatore poiché non tutti gli individui godevano di uguaglianza di fronte alla legge; in particolar modo le differenze erano nette nel caso di alcune categorie nelle quali si annoverano tra gli altri gli stranieri e le prostitute. In maniera analoga all’analisi della Cancelleria proposta da Zacchigna anche Brischi conclude il saggio con un esempio chiarificatore della procedura in uso presso il banco e con l’elenco, in una seconda parte, dei notai impiegati durante il Trecento.
Sui registri del Banchus Maleficiorum sono state fatte alcune tesi di laurea delle quali una è stata pubblicata nell’ “Archeografo Triestino”. Si tratta del lavoro di Licia Persi Cocevar, concentrato sull’analisi dei registri del 1352 e del 1354, edito nella forma di due distinti saggi (con una singolare inversione, per cui il saggio di edizione precede quello di commento), sul numero della rivista triestina uscito nel 1982, nello stesso anno dunque di pubblicazione del saggio generale di Brischi
33. Vengono presi in esame i processi registrati nel quaderno delle accuse del notaio Facina di
Canciano con una descrizione dei reati più frequenti, delle norme degli statuti nei quali erano stabilite le pene e delle persone coinvolte con una particolare attenzione alle donne. L’autrice prende poi in esame una diversa classificazione dei processi non incentrata sui reati ma sul soggetto che promuoveva l’azione penale: in tal maniera la documentazione viene divisa tra accuse intraprese da privati e inquisizioni volute dal podestà secondo quanto era previsto dagli statuti. Il sistema dell’inquisizione finì per essere più usato che quello basato sull’accusa durante il periodo tardo medievale e nella prima età moderna. L’inquisizione da parte del podestà era in genere giustificata con la necessità di conservare l’ordine pubblico e la pace tra i cittadini, come si evince dai molti esempi di cui il saggio è arricchito. L’autrice conclude il lavoro di analisi del registro fornendo un quadro delle sentenze delle inquisizioni e delle cause, nelle quali sono presentate difese scritte, prese in esame.
Un medesimo lavoro di attenzione nell’analisi dei processi è rivolto al registro stavolta delle difese del notaio Jacopo Gremon che si trovò ad operare in un periodo di vacanza della carica podestarile sotto il regime dei rettori. Questa particolare situazione che si concretizzava nell’impossibilità per i rettori di emettere sentenze, come era stato stabilito nello statuto, finì per comportare una netta
32 Giorgio BRISCHI, Il “Banchus Maleficiorum”, in BLOISE, BRISCHI, CONTI, PILLON, ZACCHIGNA, Le magistrature cittadine di Trieste nel secolo XIV, cit., pp.21-25, 57-59.
33 Licia PERSI COCEVAR, Jacobus Gremon. Quaternus de defensionibus (1354), e I registri dei notai triestini dei Malefici Facina da Canciano e Jacobus Gremon (1352 e 1354), in "Archeografo triestino", s. IV, 42 (91 della raccolta, 1982), pp. 47-141 e 143-218; come in altri casi, era omessa l’indicazione che si trattava di una tesi di laurea, integralmente riprodotta nell’articolo a stampa. Altre tesi di laurea, rimaste invece inedite, sono: Adriana GERBINI, Il registro del notaio triestino dei malefici Facina de Canciano 1345, Università degli Studi di Trieste, Facoltà di Lettere e Filosofia, a. a 1986-1987, rel. P. Cammarosano; Chiara PETRINA, Il registro di Nicolino de Vedano notaio del Banchus Maleficiorum del Comune di Trieste, 1350, a. a.1995-1996, rel. P. Cammarosano; Massimiliano BRUMAT, Il registro di Alberico Mascolo notaio del Banchus Maleficiorum del Comune di Trieste, 1327, a. a. 1996-1997, rel. P. Cammarosano.
discriminazione tra i diversi accusati che si trovarono spesso a dover attendere nelle carceri cittadine l’arrivo del nuovo podestà. L’autrice fornisce uno schema ricorrente nelle difese delle quali sono fornite precise indicazioni riguardo ai reati più frequenti. Il rituale dell’interrogatorio risulta essere simile in tutte le difese. Non essendoci trascritto come nel quaderno delle accuse l’esito della sentenza non è possibile conoscere l’esito delle interrogazioni ai testimoni e delle difese presentate. Il saggio che risulta interessante per l’approccio che permette una prima analisi delle due diverse tipologie dei registri del Banchus Maleficiorum si conclude con alcune considerazioni generali sulla composizione sociale cittadina che emerge dall’analisi dei registri dove appaiono trasversalmente membri di ogni classe sociale34.
Sempre nel libro sugli uffici comunali edito nel 1982 di cui abbiamo largamente parlato compare il saggio di Lucia Pillon sull’ufficio degli stimatori35. Dopo aver tracciato un quadro della serie,
costituita da soli dodici registri riguardanti il periodo tra il 1326 e il 1352 le cui registrazioni sono modellate tutte su uno schema identico nel quale vengono indicati il nome e talora il luogo di provenienza di chi richiedeva una perizia, l’autrice si sofferma sulla normativa statutaria che regolava la stima dei beni. Secondo gli statuti cittadini gli stimatori erano tenuti ad occuparsi della perticazione di ogni proprietà immobile, sia nel caso di vendita che in quello di permuta, così come nel caso di vendite all'asta per insolvenza dei debiti, circostanza in cui era prevista la stima dei beni sia immobili che mobili. L’incarico prevedeva anche il compito di occuparsi della direzione delle aste pubbliche che dovevano essere eseguite nella maniera più corretta possibile. La Pillon rileva come la stima dei beni degli insolventi e l’organizzazione delle aste pubbliche sia stata il compito principale degli stimatori alla luce delle molte norme statutarie che riguardano questi momenti. Il ruolo degli stimatori nelle aste pubbliche si esaurì alla fine del XIV secolo quando furono sostituiti dai cancellieri che diedero vita ad una nuova regolamentazione più precisa e razionale. L’assorbimento di questo ruolo all’interno della cancelleria è la motivazione che spiega, secondo l’autrice, l’estinguersi della documentazione relativa a questa magistratura con un forte anticipo rispetto a quanto accade per gli altri uffici. Anche la Pillon conclude il saggio con l’esempio di una procedura per insolvenza che ha il merito di esemplificare e di dare una maggiore chiarezza allo svolgimento dell’asta pubblica mettendo in rilievo i problemi suscitati dall’analisi della fonte con una maggiore comprensione del ruolo degli stimatori stessi e con un elenco di tutti gli stimatori di cui si ha notizia per il Trecento.
L’interesse per la pubblicazione degli statuti, come abbiamo visto, si era manifestato soprattutto negli anni venti del Novecento con gli importanti lavori dello Szombathely ed era poi rinato negli anni settanta con le pubblicazioni dei lavori sugli statuti di Muggia del Colombo e della Iona a cura della Deputazione di Storia Patria per la Venezia Giulia. Mentre erano stati oggetto di studio le precedenti normative statutarie, una superficiale attenzione era stata invece dedicata dalla storiografia triestina agli statuti di Trieste del 1421, dei quali Marino Szombathely, che ne curò l’edizione nel 1970, si limitò a tracciare un conciso giudizio sulla lingua e sullo stile corredato da alcune annotazioni paleografiche. Nel marzo 1990 è uscito alle stampe il lavoro di Roberto Pavanello36 che si propone di analizzare compiutamente gli statuti del 1421, che rimasero in vigore
sino al 1550 quando vennero riformati da Ferdinando I d’Asburgo. Pavanello approfondisce il problema della redazione degli statuti che conobbero una duplice stesura ricostruendo con attenzione le fasi di pubblicazione e sottolineando le diversità interne alle edizioni. Viene poi condotta un’interessante analisi sui cambiamenti indotti dai fatti del 1469, con la conquista e il saccheggio ai danni di Trieste, città ribelle, da parte delle milizie del sovrano austriaco, sulla
34 Sull’importanza dei registri di giurisdizione criminale mi limito a ricordare, oltre alle pagine di CAMMAROSANO, Italia medievale cit., pp.166-174, e al libro di Massimo VALLERANI, Il sistema giudiziario del comune di Perugia. Conflitti, reati e processi nella seconda metà del XIII secolo, Perugia 1991 ( Deputazione di Storia Patria per l’Umbria, Appendici al “Bollettino”, 14), che resta la più organica fra le monografie recenti, il lavoro d’insieme di Elena MAFFEI, Dal reato alla sentenza. Il processo criminale in età comunale, Roma 2005 (POLUS, Fonti medievali italiane, dir. P. Cammarosano, 1) e di Massimo Vallerai, La giustizia pubblica medievale, Bologna 2005.
35 Lucia PILLON, Gli stimatori del Comune, in BLOISE, BRISCHI, CONTI, PILLON, ZACCHIGNA, Le magistrature cittadine di Trieste nel secolo XIV, cit., pp.35-43, 64-66.
36 Roberto PAVANELLO, Il codice perduto. La formazione dello stato assoluto in Austria tra Quattrocento e Cinquecento nelle vicende degli Statuti di Trieste, Trieste 1990.
normativa statutaria che risente del cambiamento avvenuto a livello giuridico nella condizione della città che si trova a perdere alcuni poteri prima attribuiti al Comune e ora passati al Sovrano. L’autore mette in risalto come siano avvenuti degli importanti cambiamenti nei venti anni successivi alla conquista della città dal punto di vista normativo, segnati dalla consegna dei codici ufficiali degli statuti cittadini a Federico III e dalla successiva restituzione che vedeva una correzione a favore del sovrano stesso delle norme contenute dagli statuti. Gli statuti cittadini continuarono, pur essendo mutili delle norme relative all’organizzazione politica e amministrativa della città, a rappresentare il fondamento normativo della vita giuridica cittadina, non toccata dai provvedimenti del sovrano, che è delineata con precisione, attraverso l’analisi di una serie di disposizioni, dall’autore che mette giustamente in rilievo l’eccezionalità del comportamento di Federico III nei confronti dell’autonomia legislativa triestina laddove la si paragoni alle altre zone dell’Impero dove il sovrano esprimeva la volontà di affermare, seppur in maniera embrionale, la sua autorità. Un importante paragrafo è poi dedicato all’attività di Giovanni Daniele Mercatelli, a lungo incaricato della Cancelleria, e autore dell’unico codice statutario del 1421-24 giunto sino a noi. Dopo essersi occupato della revisione degli statuti cittadini del 1523, che rappresenta un punto di svolta nella legislazione cittadina e che fu eseguita per ordine della Corte austriaca, fatti dei quali è fornita una preziosa ricostruzione, Pavanello conclude con una precisa analisi della riforma statutaria del 1550 con la quale gli Statuti quattrocenteschi triestini cessarono definitivamente di essere in vigore.
Mentre durante gli anni ottanta si pubblicano le fonti per la ricostruzione della storia della Chiesa friulana nel tardo medioevo con l’avvio di nuovi studi, basati sull’indagine di documenti editi ed inediti, eseguiti con metodo e legati alle nuove prospettive storiografiche, la storia ecclesiastica di Trieste rimane molto meno studiata37. È infatti a tesi di laurea che ci si affida in molti casi per
avere delle notizie relative alle fonti ecclesiastiche triestine. Nel 1980 esce l’articolo di Lucia Pillon sul monastero femminile della Cella di Trieste, elaborazione della tesi di laurea38. Un primo
approccio alla storia della fondazione ecclesiastica triestina era apparso in un contributo di Bianca Maria Favetta nel 1979 che si era occupato soprattutto degli sviluppi successivi al medioevo dell’istituzione stessa39. Il saggio della Pillon si propone di evidenziare alcuni aspetti patrimoniali
del monastero e i rapporti da questo intrecciati con il comune. La ricerca si è basata su una serie di pergamene provenienti dall’Archivio del monastero che non corrispondono all’intero archivio essendo quest’ultimo mutilo di alcune serie di atti. Questa frammentarietà della documentazione limita secondo l’autrice la possibilità di una ricostruzione della storia del monastero che rimane oscura in molti punti tra i quali va segnalata la data di fondazione della comunità che non è possibile ricostruire con certezza. La stessa definizione del monastero come Cella, che distingue la struttura da altre confraternite nate a Trieste tra il XIII e il XIV secolo, accomuna la comunità ad altre istituzioni ecclesiastiche femminili diffuse nello stesso periodo nelle terre friulane ed in Istria e caratterizzate dal non aver aderito immediatamente ad alcun ordine monastico per poi entrare a far parte dell’ordine delle Clarisse.
L’autrice, dopo aver messo in luce la difficoltà di comprendere fino in fondo i veri motivi che spinsero la comunità della Cella a confluire in quell’ordine, sembra voler affermare che l’ascrizione a quest’ultimo sia stato uno strumento attraverso il quale il monastero sarebbe riuscito ad acquisire una maggiore autonomia nei confronti del potere del vescovo. Lo studio delle pergamene del monastero permette quindi di delineare da una nuova angolazione gli effetti del progressivo indebolimento della signoria vescovile e la conseguente ascesa al potere da parte del comune cittadino tra il 1253 e il 1305. La nuova situazione politica ebbe infatti forti ripercussioni sulla comunità monastica soprattutto dal punto di vista legislativo arrivando a mutarne definitivamente la fisionomia: il monastero raggiunse una piena autonomia dal vescovo espressa anche attraverso lo spostamento della sede verso il centro cittadino. La Pillon ricostruisce i rapporti tra il monastero
37 Sulla storiografia ecclesiastica friulana e triestina si veda Flavia DE VITT, La chiesa basso-medievale in Friuli e a Trieste. Un secolo e mezzo di storiografia, in “Studi goriziani”, 75 (gennaio-giugno 1992), pp. 43-59.
38 Lucia PILLON, Il monastero della “Cella” di Trieste dalle origini alla metà del XV secolo, in “Metodi e ricerche”, 1 (1980), 2, pp. 23-40.
39 Bianca Maria FAVETTA, Preliminari di una ricerca storica sul monastero di San Cipriano a Trieste, in Comunità Religiose di Trieste: contributi di conoscenza, Udine 1979, pp. 59-86.
e il Comune alla luce dell’atteggiamento mostrato nei confronti della Chiesa triestina in generale, caratterizzato dalla volontà di stabilire sull’istituzione ecclesiastica un controllo che si auspicava sempre maggiore. L’atteggiamento del Comune che sembra aver gettato la fondazione in uno stato di miseria fu probabilmente alla base della scelta di abbandonare l’ordine delle Clarisse per entrare in quello di San Benedetto tra il 1352 e il 1367. L’autrice ancora una volta ammette le difficoltà incontrate nell’individuare i motivi che spinsero verso questa scelta e gli ostacoli incontrati nel cercare di collegare l’avvenimento ad un quadro generale del monachesimo italiano del tardo medioevo. La decisione di abbandonare l’ordine di Santa Chiara si spiega con la volontà di ottenere una maggiore autonomia dai poteri comunali che in quegli anni esercitavano un forte controllo su alcuni enti ecclesiastici tra i quali spicca il convento francescano a cui l’istituzione era legata. Lo studio della Pillon offre così da una base documentaria ben definita e da un’angolazione molto particolare un contributo ad una tematica generale di storia della città, quella della relazione tra autorità ecclesiastica e poteri pubblici cittadini che non ha ancora trovato una sintesi generale40.
La seconda parte dell’articolo prende in esame l’analisi dei patrimoni fondiari con alcune considerazioni sul frazionamento fondiario e sulle modalità usate per la registrazione delle proprietà. Una caratteristica del patrimonio della fondazione è la netta tendenza alla concentrazione in un territorio, quello triestino, dove il frazionamento era molto diffuso. Dopo una fase di espansione territoriale nella prima metà del XV secolo il monastero femminile conobbe una fase di stasi dovuta al tentativo di appropriazione dei beni ecclesiastici da parte del Comune cittadino nella sua espansione verso il contado.
Un'altra tesi universitaria sulle fonti ecclesiastiche, poi confluita in un saggio pubblicato nella rivista “Metodi e ricerche”, è quella di Giorgio Brischi41 sui libri delle Cere del Capitolo della
Cattedrale di San Giusto, quattro piccoli registri cartacei conservati in parte presso l’Archivio Capitolare e in parte presso la Fondazione “Giovanni Scaramangà d’Altomonte”. L’analisi della fonte, utile per ricostruire la storia demografica di Trieste, rappresenta un contributo inedito nella storiografia triestina ed istriana dove ha trovato ben poco spazio lo studio dei fenomeni endemici e in particolare della peste. L’autore sottolinea come le notizie sulle epidemie fossero in larga parte desumibili dai lavori degli eruditi locali, non essendo stato trattato l’argomento né nei cronisti del Settecento né nelle storie della città elaborate nel XX secolo, indirizzate verso un approfondimento di tipo politico. Nel 1981 il lavoro di riferimento rimaneva il saggio generale sulla diffusione della peste in Europa del Biraben42 e il lavoro sull’Italia di Alfonso Corradi43, che andava integrato con
gli studi di demografia apparsi in quegli anni. L’autore per ricostruire la storia demografica della città ha preso in considerazione una delle tante inedite produzioni dell’erudito triestino Luigi de Jenner sulla cronologia delle epidemie avvenute a Trieste e dintorni e un articolo di Bernardo Schiavuzzi44 apparso sugli “Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria”
sulla diffusione delle epidemie in Istria e Dalmazia. Dopo aver delineato i contributi precedenti sulla tematica Brischi chiarisce la struttura della fonte, rapportabile a quella del libro dei morti, tipologia diffusa nelle parrocchie italiane a partire dalla fine del XIV secolo, ma qui caratterizzata dalla netta connotazione economica della fonte: i canonici detti “canipari” annotavano gli introiti della cera che veniva poi divisa tra tutti i canonici, i quali la rivendevano poi per ricavare un guadagno che andava ad integrare le loro ordinarie prebende. L’analisi si concentra sul primo dei quattro quaderni, che copre un arco cronologico tra il 1356 e il 1376, e sugli effetti che la peste del 1360 ebbe sui gruppi familiari e sulla città. Brischi conclude l’articolo affrontando due temi: la diffusione della peste all’interno del patriziato cittadino, le note XIII casate, che risulta notevole ed elevata, e l’aumento delle offerte ai santi protettori dalla peste, san Sebastiano e san Rocco. È
40 Per un velocissimo riassunto delle tappe essenziali nella vicenda comunale triestina del medioevo si può ricorrere alla voce di Paolo CAMMAROSANO, Trieste, in Lexikon des Mittelalters, VIII, München, 1997, coll. 1003-1004. 41 Giorgio BRISCHI, La peste del 1360 e una fonte per la storia demografica in “Metodi e Ricerche”, 2 (gennaio-aprile 1981), pp.27-34.
42 Jean N. BIRABEN, Le hommes et la peste en France et dans le pays européens et méditerranéens, Paris-La Haye 1975-1976.
43 Alfonso CORRADI, Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850, Bologna 1865-1894. 44 Bernardo SCHIAVUZZI, Le epidemie di peste bubbonica in Istria. Notizie storiche, in “Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria”, IV, 1888, pp.423-446.
questo, contenuto all’interno del discorso di Brischi, uno dei pochi approcci della storiografia recente alla questione della struttura di un patriziato triestino, che una tradizione municipale viva anche nel sentimento comune identifica con le XIII casate delle quali in realtà non si conosce bene il momento di effettiva configurazione quale oligarchia. Come nel caso del lavoro della Pillon sul monastero della Cella, appena ricordato, anche il saggio di Brischi è una ricerca di dettaglio che condotta su una fonte specifica cerca di gettare luce su un tema centrale nella storia municipale cittadina.
I libri delle Cere degli anni 1356-1407 hanno fatto da supporto ad un altro lavoro di Giorgio Brischi, ampliato peraltro sia sul piano delle fonti sia su quello cronologico, dedicato al tema delle presenza di cittadini stranieri a Trieste45. L’autore mette in risalto i cambiamenti avvenuti nel
fenomeno immigratorio in seguito alla dedizione alla casa d’Austria del 1382: se precedentemente l’origine dei forestieri era piuttosto variegata, benché caratterizzata dalla preponderanza dell’elemento sloveno e istriano, in seguito si constata una diminuzione netta dell’immigrazione dall’Italia settentrionale e centrale. L’autore interpreta il fenomeno ponendolo in relazione con una retrazione delle attività mercantili e finanziarie, prodotta a sua volta dal cambiamento di sovranità politica. In realtà è un’interpretazione che appare dubitosa all’autore stesso, che per un periodo successivo, gli anni 1411-1427 coperti da una fonte edita, il “Libro delle Riformagioni”, deve dare atto di presenze “italiane”, sia pure attive in professioni molto specifiche quali il notariato, la medicina e la farmacia. D’altra parte rileviamo come sia ovvio che una fonte non di carattere demografico bensì normativo operi una selezione drastica della tipologia sociale delle presenze: l’approccio del Brischi all’importante problema dell’evoluzione nella composizione etnica e nazionale cittadina è fondato su testi che, ravvicinati nel tempo, sono tuttavia troppo eterogenei per tipologia per consentire un attendibile discorso diacronico. Va dato nondimeno atto all’autore di avere avviato un primo tentativo di indagine su un settore che non ha ricevuto in seguito l’attenzione che meritava e di avere valorizzato una fonte importante di matrice ecclesiastica.
Di fondazione documentaria ecclesiastica, ma anche di argomento propriamente religioso, è il saggio di Giovanna Paolin sulla confraternita dei Battuti a Trieste apparso nella rivista “Metodi e Ricerche” del 1995. Nel corso del Duecento anche a Trieste si vengono a costituire un nutrito numero di confraternite, fenomeno che è stato largamente approfondito e di cui esiste una nutrita bibliografia di cui l’autrice traccia una preziosa rassegna. È solamente a partire dal Trecento però che è possibile seguire il consolidamento delle confraternite in città, soprattutto attraverso lo studio dei testamenti. Dopo aver dato notizia delle associazioni nate presso i francescani, tra le quali si segnala la confraternita detta dei nobili che in epoca moderna limitò i membri ai soli esponenti delle XIII casate riconosciute allora, non si sa da quanto tempo, come le più antiche dinastie familiari cittadine, Giovanna Paolin pone l’accento sul ruolo ricoperto dai Battuti esaminando la scarsa documentazione prevenuteci, ovvero la copia settecentesca degli statuti e due quadernetti in pergamena del Quattrocento contenenti ciascuno l’inventario dei beni della confraternita, e l’opera ottocentesca dell’erudito Vincenzo Scussa. Della confraternita viene delineata l’organizzazione interna secondo quanto previsto negli statuti, da cui emerge il progressivo innalzamento del livello sociale dei membri al vertice. La partecipazione dell’elemento femminile sembra essere stata, come in casi analoghi, molto marginale. L’autrice mette poi in risalto la mancanza di forti obblighi liturgici e di netti richiami religiosi nella gestione della confraternita che si contraddistingue per il rifiuto delle cariche pubbliche espresso dai membri. Centrale, come in tutti gli statuti delle confraternite, è l’importanza data alla cura dei defunti che vengono accompagnati in cimitero e sepolti con tutte le solennità necessarie. I membri della confraternita si occupavano, dietro pagamento, anche dei morti in povertà dell’ospedale dei
pauperes Christi, la cui gestione era però affidata al Comune. Giovanna Paolin conclude il saggio
mettendo in luce il radicamento cittadino della confraternita dei Battuti che contava nel Quattrocento un notevole numero di iscritti. L’articolo è corredato inoltre di un’appendice
45 Giorgio BRISCHI, I cittadini non originari nella Trieste del XIV e XV secolo, in “Metodi e ricerche”, n.s., 2 (gennaio-giugno 1983), pp.12-23.