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PATOLOGIA TRA STORIA, GENOMICA E SCIENZA DELLA RIABILITAZIONE

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PATOLOGIA TRA STORIA, GENOMICA E SCIENZA DELLA RIABILITAZIONE

Abstract

The great season of pathology started in the nineteenth century with the Viennese school of Rokitansky and Virchow’s cellular pathology. Nevertheless, autopsies were performed even earlier and diseases were investigated especially as consequences of phlogistic phenomena or alterations of the tissues. If compared with the past, things have changed a great deal in the second half of the twentieth century. The change of perspective has occurred (also) due to the provocation of the moral philosopher R.M. Hare regarding the question of the descriptive or normative nature of the concept of health, which has had considerable effects on the relation between moral philosophy and pathology. Further shifts in perspective have also occurred as a result of recent advances in medicine, especially in genomics and regenerative rehabilitation. The boundaries between health and sickness become thus increasingly elusive.

1. Storia

Sebbene l’origine del concetto “patologia” sia molto antica (il termine deriva dal greco

pathos e con esso Galeno, nel II secolo d.C., indicava lo stato di sofferenza) e la parola sia

attestata nel vocabolario inglese già alla fine del Cinquecento, fu soltanto nel secolo seguente che la disciplina cominciò a caratterizzarsi in maniera autonoma, da un lato definita come dottrina delle passioni, dall’altro come quella branca della medicina che riguardava le autopsie, effettuate specialmente in ambito forense1. Gli storici della

medicina sono concordi nel far coincidere la nascita di questa disciplina nella seconda metà del Settecento a partire dall’opera di Giovanni Battista Morgagni sulle sedi e le cause delle malattie (1761), e fu in questo periodo che, soprattutto in Inghilterra con il contributo di John Hunter, la patologia divenne una scienza sperimentale che si esercitava sugli animali. In effetti il De sedibus di Morgagni costituisce una fonte ricchissima di descrizioni (anche originali) di morbi e di osservazioni cliniche e di anatomo-patologia.

Al di là di queste tracce che portano lontano nel tempo, va però riconosciuto che la stagione della patologia intesa come ambito professionale è quella ottocentesca, che si configura nell’impostazione di anatomia patologica di Karl Rokitansky e della sua scuola viennese (denominata “Seconda scuola viennese”) cui fece da contraltare la concezione della patologia cellulare introdotta da Rudolf Virchow. Il contributo di Rokitansky è

1 Cfr. A. M

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stato recentemente riportato in auge da Eric Kandel, il quale lo ha ricordato nel suo suggestivo L’età dell’inconscio (2012). Rokitansky introdusse la pratica (a quel tempo seguita soprattutto a Parigi) di sottoporre a esame post-mortem tutti i pazienti che spiravano nell’ospedale da lui diretto, al fine di correlare i sintomi con le lesioni interne che colpivano i vari organi. All’epoca furono eseguite all’incirca 60mila autopsie, e a un allievo di Rokitansky, Josef Skoda, spettò il merito dei numerosissimi riscontri tra le diagnosi da lui formulate con l’esame clinico e ciò che si scopriva “sotto la superficie delle cose”, come esortava a fare Rokitansky per arrivare alla verità. Il primo volume del suo Manuale di anatomia patologica generale (che uscì in tre volumi, per i tipi di Braumüller, a Vienna a partire dal 1847) ricevette una recensione molto critica dall’allora giovane ma emergente Rudolf Virchow, il quale all’epoca aveva cominciato a stabilire i fondamenti della nascente patologia cellulare e non condivideva la dottrina di un blastema indifferenziato come origine della formazione degli elementi cellulari. Di conseguenza, Virchow non poteva accettare neppure la concezione della malattia nei termini di una

discrasia cellulare di derivazione umoralistica, secondo la quale le infiammazioni e le

alterazioni (specialmente a carico dei vasi sanguigni) erano conseguenza di una cattiva distribuzione dei succhi nutritivi. Alla Vienna di Rokitansky si andava così contrapponendo, per l’importanza delle ricerche in patologia, la Berlino dell’ospedale

della Charité di Virchow, il quale riconduceva l’origine e lo sviluppo della malattia non

già agli organi, bensì alle unità cellulari di cui i tessuti sono formati2. La teoria cellulare

applicata alla patologia lo condusse a proiettare il cellularismo anche sulla formazione dei tumori, che non andavano più considerati alla stregua di prodotti discrasici, bensì come alterazioni che, a causa di un’irritazione, avevano origine a partire da elementi embrionali connettivali, e si propagavano per via sanguigna o linfatica3.

All’Ottocento risale pure il dibattito sull’essenza delle malattie, se gli stati di malattia costituissero semplici variazioni o differenze quantitative rispetto agli stati normali, di salute, o se si potessero identificare in entità specifiche. Erano qualcosa di esistente in sé e per sé come si domandava Virchow, organismi autonomi o entità che si introducevano nei corpi? Erano parassiti? O piuttosto si trattava soltanto di stati che rappresentavano il decorso dei processi vitali “in circostanze mutate”? Erano questioni che si era già posto negli anni Venti dell’Ottocento François Broussais, e ancora nella seconda metà del secolo era viva la medicina essenzialistica che era stata introdotta da Johan Lucas Schönlein nelle università tedesche4. Il progetto di questo anatomo-patologo, che fu il

medico di Federico Guglielmo IV, mirava addirittura a una classificazione delle malattie secondo il sistema naturale di Linneo e, con un metodo affine a quello a suo tempo introdotto in botanica e zoologia, Schönlein aveva dato inizio a un indirizzo “storico-naturalistico”, che avrebbe contato molti seguaci tra i medici tedeschi. Tuttavia, oltre a essere patologo e naturalista, Schönlein era anche un abile micologo, che studiava l’azione dei funghi, e si rivelava un attento osservatore al letto del paziente, pronto a cogliere le alterazioni patologiche negli organi, il ruolo delle febbri e l’azione di funghi e

2 Cfr. R. V

IRCHOW, Die Cellularpathologie in ihrer Begründung auf physiologische und pathologische Gewebelehre,

Hirschwald, Berlin 1859.

3 Cfr. ID., Die Krankhaften Geschwülste, 3 voll., Hirschwald, Berlin 1863-67.

4 Cfr. J. BLEKER, Die naturhistorische Schule, 1825-45. Ein Beitrag zur Geschichte der klinischen Medizin in Deutschland, Fisher, Stuttgart 1981.

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parassiti. Pur apprezzandone l’insegnamento (disse di lui: «Poco sistema, molti fatti!»),

Virchow invece era convinto che non esistessero entità di malattia, e quasi fino alla fine della sua carriera non ammise neppure che i batteri fossero causa di malattie. Si trattava piuttosto di fenomeni che si esplicavano in condizioni alterate, e che costituivano “deviazioni quantitative” dai processi fisiologici. Altri problemi che si ponevano sul tappeto a contorno del dibattito ontologico dell’epoca riguardavano le sedi delle malattie (erano nei fluidi o nelle parti solide dei corpi?), il ruolo dei fluidi, in primis del sangue, e dei centri nervosi.

Sul piano della storiografia le tendenze antiontologizzanti che si andavano affermando nella seconda metà del secolo sono state interpretate come un segnale della reazione tipica della medicina positivistica al vitalismo della Naturphilosophie. Faceva però eccezione Virchow, il quale, nonostante un atteggiamento fortemente antiessenzialistico, avrebbe dato origine a una rinnovata versione del vitalismo. Ma il suo era un neovitalismo peculiare, che si mascherava almeno in parte con i principi delle scienze fisico-chimiche, e la sua idea di forza vitale era quella di una forza meccanica, sia pure “derivata”. Ciò non gli impediva di vedere nella cellula malata l’entità patologica: «la malattia non possiede alcuna altra unità se non quella della vita, di cui rappresenta una particolare specie, cioè la cellula vivente unitaria»5. Le differenze che riscontrava tra le

cellule sane e malate erano visibili non soltanto nelle condizioni esterne o nelle alterazioni (che nelle cellule si possono verificare di continuo), ma nella “caratteristica del pericolo” che la cellula malata reca in sé. Le alterazioni diventano morbose, quando vi è la probabilità che possano condurre alla distruzione della vita. Se invece la morte viene allontanata, lo si deve grazie ai dispositivi moderatori e regolativi per mezzo dei quali, con una sorta di bilanciamento, il corpo vivente riesce a fronteggiare le alterazioni che comportano un pericolo.

Chi, sfruttando l’idea non dissimile di un equilibrio nello stato interno, vedeva nello stato morboso non un fatto nuovo, qualitativamente differente dallo stato normale, bensì una continuità con la condizione normale, un semplice scarto rispetto alla norma, era stato Claude Bernard. Nel Novecento, le idee di Comte e di Bernard in tema di malattia hanno goduto di un rinnovato interesse a seguito della posizione fortemente critica che aveva assunto, a partire dalla sua tesi del 1943, un filosofo-medico della facoltà di Lettere e Scienze umane della Sorbonne. Georges Canguilhem faceva risalire la concezione positivistica della malattia al principio di Broussais, secondo il quale la malattia è un eccesso o un difetto di eccitazione, che colpisce i tessuti al di sopra o al di sotto della norma. Da allora si è avviato un indirizzo di ricerca che ha giocato sulla contrapposizione tra i due sensi, descrittivo e normativo, del concetto di “normale”, ai quali Canguilhem aggiungeva l’ulteriore distinzione tra “anomalo” e “anormale”6. Ma

Canguilhem avvertiva che l’irregolarità e l’anomalia non erano meri accidenti che potevano capitare all’individuo, bensì caratteri della sua stessa esistenza. Pertanto il medico “sempre all’individuo” avrebbe dovuto riferirsi, mentre sullo stato di salute la

5 R. VIRCHOW, Alter und neuer Vitalismus, in “Archiv für pathologische Anatomie und Physiologie und

für klinische Medicin”, IX (1856), pp. 3-55, qui p. 54.

6 Cfr. G. CANGUILHEM, Le normal et le pathologique, PUF, Paris 1966; trad.it. D. Buzzolan, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998.

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parola definitiva spettava pur sempre al paziente, l’unico che poteva giudicare in materia di norme e di malattia, e per il quale la malattia restava comunque une autre allure de la vie, e non una semplice variazione quantitativa. Solo partendo dal vivente si può comprendere la vita, mentre la salute consiste nel “silenzio degli organi”.

Chi invece, sempre nell’ambito della storiografia francese degli anni ’60, aveva intrecciato il campo della patologia con quello della clinica era stato Michel Foucault, sostenitore di una cesura nel trattamento della malattia tra i medici del Sei-Settecento e quelli ottocenteschi, i quali avevano assunto uno sguardo che non si focalizzava più sul

paziente, bensì soltanto sulla malattia7. Il malato era diventato un corpo che, oggetto di

percezione medica e, come tale, sottratto all’ambiente famigliare, veniva consegnato al luogo di cura. Qui, nell’ospedale, in realtà si esercitava una episteme, una teoria e soprattutto un’organizzazione della conoscenza, che variava secondo il mutamento dei tempi. Quindi, nell’arco dei secoli, si era passati da una medicina che classificava le malattie come specie alla medicina dei sintomi e, infine, a quella dei tessuti, con lo sguardo incentrato sul corpo del paziente alla ricerca delle cause nascoste. Secondo Foucault, tuttavia, sarebbe stato illusorio credere che lo sguardo del medico, sia pure per mezzo di un’accurata osservazione del corpo e degli organi malati, riuscisse a far emergere la “verità nascosta”, portando alla comprensione “oggettiva” della malattia sotto la superficie.

A ogni modo, non solo nella tradizione francese, e sia pure in autori tutto sommato “distanti” – quali Canguilhem e Foucault, e al di là delle loro pubblicazioni pressoché coeve –, emergeva il proposito di servirsi delle strutture del linguaggio per capire come aveva potuto imporsi un nuovo tipo di discorso sulla malattia, che ne modificava completamente la rappresentazione. Non a caso, il sottotitolo de La nascita della clinica è:

Una archeologia dello sguardo medico. Lungo un filone parallelo, che non voleva essere né

storia della medicina né storia delle patologie, si sono messi a confronto i concetti di salute e malattia, di normale, anormale e anomalo, servendosi non soltanto della filosofia o della sociologia come aveva fatto Foucault, ma sfruttando l’aiuto che poteva provenire dal vocabolario. A questo scopo, oltre a quelli di medicina, si è guardato ai dizionari filosofici, ma anche ai vocabolari specialmente della lingua inglese, perché proprio lì, nell’origine e nel significato delle parole, si poteva trovare la chiave di interpretazione di molti fra i concetti che i medici avevano preso a prestito dal sapere antico.

2. Filosofia

Quantunque nei suoi confronti si sia rilevata una indubbia minore teorizzazione rispetto a quello “negativo” di malattia, a far capo dalla seconda metà del Novecento anche il concetto di “salute” è sembrato un termine di paragone importante, ché la salute rappresenterebbe la norma, da tenere ben presente nello studio dei fenomeni morbosi. Inoltre, in filosofia della medicina si è commentato che l’idea della salute pone ancora più interrogativi di quanti non ne suscitino le nozioni che hanno che fare con la sua

7 Cfr. M. FOUCAULT, La naissance de la clinique. Une archéologie du regard médical, PUF, Paris 1963; trad.it. di

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assenza. Mentre nel passato la discussione sulla salute si incrociava con il dibattito sulla vita, e sia i vitalisti della scuola di Montpellier sia i neovitalisti tra Otto e Novecento avevano fatto ricorso al concetto di forza vitale per spiegare i fenomeni dell’origine, dello sviluppo, delle trasformazioni e degli stati di equilibrio e di alterazione che avvengono nei corpi viventi, nel Novecento per la definizione di “salute” un contributo significativo è arrivato soprattutto dai filosofi morali per il carattere non solo descrittivo, bensì normativo e valutativo insito negli aggettivi correlati a questa nozione (“sano”, “malato”, di “buona” o “cattiva” salute ecc.). Ma la disamina di questo carattere normativo raramente si è svolta seguendo le tracce della presa di posizione di Canguilhem, e in area filosofica anglosassone ha avuto origine un filone parallelo che solo marginalmente ha toccato la concezione critica dello studioso francese. Il filosofo morale di formazione analitica Richard M. Hare era convinto che, facendo chiarezza sulla nozione di salute, si sarebbero potuti aiutare sia i filosofi sia i medici a risolvere i loro problemi, teorici e

pratici8. In questo quadro, la lingua inglese si rivelava una fonte preziosa per alimentare

la discussione e per far emergere sempre nuovi problemi. Infatti l’inglese si serve della distinzione tra i termini illness, disease e sickness. Per esempio, si osserva che un paziente può essere in condizione di disease avendo il diabete, ma se si sottopone a costanti controlli medici, si regola nella dieta, fa attività fisica, assume farmaci ipoglicemizzanti ecc., egli potrà non essere ill9. Hare osservava che, di fronte a definizioni di natura

difficoltosa, i medici cercano di trarsi d’impaccio servendosi del concetto di “condizione”. Ma anche questo escamotage non porta da nessuna parte, tanto più se si osserva che esistono condizioni che possono anche non essere patologiche come, per esempio, la condizione di stato interessante. Hare si serviva dei ferri del mestiere ricavati dall’analisi del linguaggio per altre suggestive riflessioni. Si può essere morsi da un cane, ma non trovarsi in una condizione patologica, a meno che il cane non abbia la rabbia. Così come comunemente si dice che si è attaccati da una malattia, ma in genere l’ente che provoca l’attacco è di dimensioni microscopiche e si annida nel corpo del paziente. Che la natura delle entità morbose si riduca soltanto a una questione di dimensioni? Ma si capiva che tutte queste erano soltanto caratteristiche “al contorno”, che non bastavano a chiarire che cosa sia la “malattia”.

Si potrebbe osservare che le malattie (intese come disease) sono un genere di stato interno dell’organismo che non pertiene alla natura della sua specie e può avere cause esterne, ambientali, con conseguenze che interferiscono con le funzioni normali, mentre

illness è un concetto valutativo, poiché consiste in uno stato non desiderabile dal paziente

e che in qualche caso, per esempio la mental illness, potrebbe essere invocato a giustificazione del suo comportamento. A parte il fatto che trovare le cause interne o esterne di una malattia come per esempio la sindrome di Münchausen potrebbe essere per il momento problematico, per di più Hare faceva osservare che una malattia della pelle non può certamente essere definita “stato interno” e che inoltre è sempre rischioso tirare in ballo concetti come quello di specie o “tipico di una specie”, perché le specie sono soggette a mutazioni. Sulla scorta di queste e moltissime altre osservazioni, Hare

8 Cfr. R.M. HARE, Health, in “Journal of Medical Ethics”, 12 (1986), pp. 172-181.

9 Cfr. K.M. BOYD, Disease, illness, sickness, health, healing and wholeness: exploring some elusive concepts, in

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era indotto a ritenere che anche il concetto di disease dovesse avere una natura valutativa, trattandosi di condizione che è percepita come “non buona” da parte del soggetto-portatore.

A partire da questa proposta è scaturito un numero infinito di ulteriori riflessioni e obiezioni, che hanno fatto leva su una premessa giudicata indiscutibile, e cioè che il carattere valutativo del concetto di sano o di malato non dà problemi rivelandosi proficuo, soltanto se sussiste l’accordo tra il paziente e il medico su che cosa debba intendersi per stare e sentirsi bene. E qui si torna alla considerazione che uno può essere malato senza sentirsi affatto male oppure che si possono avere sintomi come nausea e mal di testa (per non parlare, oggi, del dolore neuropatico!) senza con ciò avere nessuna conclamata malattia. Che il linguaggio relativo alla salute sia fatto soprattutto di metafore? Questa non sarebbe una novità, poiché il ricorso alle metafore è una prassi che avviene di frequente nella scienza e, nella fattispecie, in medicina (basti pensare alla “lotta” del corpo inteso come organizzazione statale contro le malattie concepite come nemici da abbattere, un topos che si ritrova in Virchow e negli scritti di molti altri medici ottocenteschi). Si ricorre, in genere, alla metafora, quando di un fenomeno non si ha ancora a disposizione una spiegazione scientifica o se ne deve parlare a scopi meramente divulgativi, e questa pratica si giustifica anche per ragioni di brevità. In filosofia della scienza si osserva infatti che, una volta resasi disponibile la spiegazione scientifica, l’uso della metafora viene meno, e se si continua a servirsene, lo si fa principalmente per comodità o per fini divulgativi. È allora possibile che anche il concetto di salute sia metaforico? Sorge questo sospetto non solo perché la salute rinvia sul piano etimologico alle idee di completezza e di integrità, ma anche perché nel tempo questo concetto si è rivestito di significati che alludono al vigore sessuale, al benessere non solo del corpo, ma anche dello spirito, alla salute mentale ecc.

Frattanto anche chi come Canguilhem aveva provveduto a legare l’idea di “norma” alla condizione del corpo, cioè ai valori di temperatura, pressione, battito cardiaco ecc., aveva fatto in modo di distinguere i valori e le norme biologiche da quelle sociali. Mentre le prime sarebbero espressione della dinamica della vita e dell’organismo, alle seconde è preclusa questa normatività vitale, derivando le norme artificiali della società dall’autorità politica che mira al controllo sociale.

3. Innovazione

Da qualunque parte si giri la questione, non solo l’idea di salute si rivela impegnativa sotto il punto di vista della definizione, ma addirittura la salute intesa come “stato” sembrerebbe non esistere, rinviando a una condizione ottimale che nella realtà difficilmente si consegue. Il che non ha impedito alla medicina di continuare a fare progressi e alla stessa patologia di diversificarsi rispetto alla connotazione di anatomia patologica che l’aveva caratterizzata e emancipata nell’Ottocento. Oggi il quadro si è fatto ancora più complesso e, quando si parla di “normale”, non è possibile non tener conto della lezione che proviene dalla genomica, e specialmente da quella altamente individualizzata e personalizzata.

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Il quesito su che cosa sia la normalità a livello genetico si profila però come una domanda assurda, ché si è osservato che i tre bilioni di coppie di basi che formano i 23 cromosomi possono essere soggetti a un’infinità di variazioni che ci rendono passibili di un numero di rischi altrettanto grande, dalla malattia di Alzheimer all’obesità. Con l’avvento della genomica, ma soprattutto dell’epigenetica, i confini che delimitano ciò che si intende per malattia sono diventati ancora più sfumati. In particolare, il quadro si fa complicato, se si pensa che nel corso della vita intervengono modificazioni che, pur senza alterare la struttura del DNA, variano l’espressione genica e, benché questi cambiamenti possano essere tramandati alle generazioni cellulari, non sono permanenti, ma possono a loro volta essere modificati dalle influenze ambientali e dallo stile di vita. Lo studio del cosiddetto SNP, cioè del polimorfismo a singolo nucleotide, che è la variazione che può avvenire a carico anche solo di un singolo nucleotide, ha una grande rilevanza per gettar luce sui meccanismi che influiscono sulla suscettibilità nei confronti di certe malattie, sulla reazione agli agenti patogeni, le risposte ai farmaci ecc. A seguito di queste scoperte, se si applica il concetto di “norma” al genoma umano, si capisce che non esiste un genoma “normale” e che, in luogo del binomio “normale/anormale”, sarebbe preferibile parlare di “variazioni molecolari”, che in determinate circostanze possono dar

luogo a malattie10. Il normale è un ideale, che si realizza raramente, e da questo assunto

parte la ricerca della farmacogenomica per la quale “a esser normale è la variazione”. In questo ambito, si sono sviluppati strumenti diagnostici che consentono di evidenziare patologie che sarebbero altrimenti invisibili, o malattie rare e pressoché sconosciute. Parallelamente, si è andata affermando una branca della medicina che si occupa di quelle che possono essere considerate protomalattie, molte delle quali vanno ricondotte all’ereditarietà e alla storia familiare, come nel caso dei tumori BRCA1 e BRCA2.

Negli ultimi decenni, un capitolo speciale nell’ambito della patologia ha riguardato il rapporto con la disabilità e le limitazioni funzionali, che minano la capacità di svolgere i compiti e il ruolo che competono all’interno dell’ambiente fisico e sociale. In questo quadro ha assunto particolare rilevanza l’ingegneria biomedica finalizzata alla

riabilitazione11. L’applicazione delle tecnologie di medicina rigenerativa ha consentito di

limitare e, in certi casi, addirittura di “annullare” le manifestazioni funzionali di molte malattie e danni agli organi, compensando o sostituendo le strutture alterate con dispositivi e impianti medicali composti di materiali naturali e artificiali, che sono il prodotto della più recente ricerca a scopo riabilitativo. In questo settore, si deve inoltre sottolineare che medicina e neuroscienze hanno messo capo una fattiva collaborazione al fine di limitare i danni delle malattie neurologiche e neurodegenerative o delle lesioni al cervello e al midollo spinale. Si tratta di progressi non solo in diagnostica o nelle terapie farmacologiche, ma in ingegneria genetica, neural engineering, imaging, bionica, protesica, medicina rigenerativa con la creazione di tessuti artificiali, organi artificiali, lenti dell’occhio, coclea artificiale, cellule staminali ecc. È un dato di fatto che nel Novecento il genere umano abbia guadagnato in termini di “maggiori aspettative di vita” ben più

10 Cfr. N. ROSE, Normality and Pathology in a Biomedical Age, in “Sociological Review”, 57 suppl. (2009),

pp. 66-83.

11 E.N. BRANDT-A.M. POPE (a cura di), Enabling America. Assessing the Role of Rehabilitation Science and Engineering, National Academy Press, Washington DC 1997.

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che nei diecimila anni passati. La conseguenza di questo miglioramento è che viviamo in un mondo che, al di là degli aspetti positivi, sta invecchiando rapidamente. Le statistiche infatti recitano che, al presente, gli ultrasessantenni avrebbero un’aspettativa di vita di oltre 24 anni, che si protrarrebbe addirittura di altri 6 per gli ultraottantacinquenni.

La storia della medicina (o meglio: la storia del malato) ci insegna che, fino alla metà del Novecento, le principali cause di morbilità e mortalità per le popolazioni del mondo occidentale sono state – guerre a parte – le malattie infettive, contagiose, sostenute da agenti microbici, oppure quelle provocate dall’indigenza e da condizioni ambientali sfavorevoli. Ma negli ultimi trent’anni si è imposta la cronicità, una condizione completamente nuova e sconosciuta nella storia del malato. La cronicità delle malattie e il processo di invecchiamento della popolazione sono fenomeni dolorosamente intrecciati, e i medici che si occupano delle patologie croniche osservano con una buona dose di ironia che una malattia cronica è come “una vecchia signora”, bisognosa di attenzioni, la quale necessita di essere accudita e coccolata. A fronte della consapevolezza che di certe malattie non è possibile guarire, la medicina contemporanea si è prefissata l’obiettivo di cronicizzarle. Ma non si tratta soltanto del diabete, di gran parte delle malattie cardiovascolari, dell’insufficienza renale, delle malattie respiratorie croniche, dell’artrite e, da ultimo, dell’AIDS, patologie che, per quanto incurabili, sono comunque passibili di controllo. Si tratta addirittura del cancro. Un discorso a sé spetta infatti a questa malattia che – da letale – si è trasformata in cronica, da tenere sotto controllo, e con la quale specialmente gli anziani possono convivere. Il fenomeno della manifestazione del cancro in età avanzata, che era già stato descritto in un articolo seminale apparso su “Nature” nel 2007 dove si parlava della “comune biologia” tra tumori e invecchiamento, implica una serie complessa di problemi, generati dal fatto che non è mai prevista una completa restitutio ad integrum; il profilo cronico-degenerativo prefigura un peggioramento che, prima di metter capo all’exitus finale, reca con sé un insieme di ripercussioni sul piano psicologico-emozionale, economico-sociale, sanitario, ma soprattutto fisico. Negli anziani, inoltre, non vanno escluse le più che probabili co-morbosità, rappresentate dai malanni che in genere, con o senza cancro, li affliggono, e cioè: ipertensione, diabete, problemi cardiaci. Di per sé il processo di senescenza presenta anche altri gravi problemi, non ultimo quello dell’immunosenescenza, che comprende i radicali mutamenti ai quali va incontro il sistema immunitario nell’anziano, che comportano un maggior rischio di malattie infettive e autoimmuni, una minore risposta ai vaccini e ai farmaci, e un più lento processo di guarigione. Infine, un ambito in cui gli anziani manifestano danni e limitazioni, con una ricaduta sulla loro vita domestica e sociale, è costituito dalle patologie muscolo-scheletriche e ortopediche, con particolare riguardo alle articolazioni, alle giunture sinoviali, a cartilagini e legamenti. Si tratta di un insieme di patologie che hanno effetti profondi e limitanti sulle attività quotidiane. Di non minore rilievo sono le patologie che colpiscono cervello e sistema nervoso. Questo capitolo è particolarmente doloroso e delicato, in quanto i tessuti nervosi non sono in grado di rigenerarsi e ripararsi. Per far fronte alle conseguenze che sulla società potrebbe avere il sempre crescente numero di anziani affetti da patologie neurodegenerative, a partire dai paesi di area culturale anglo-americana, si sono andate sviluppando la medicina neuropreventiva e neuroprotettiva, e la medicina cosiddetta

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le politiche sanitarie dei paesi europei che si sono già avviati lungo questo percorso, consapevoli di quanto importante sia il fattore tempo, vale a dire una diagnosi precoce e il tempestivo intervento di una terapia mirata.

4. Conclusione

L’insieme di iniziative qui delineato si propone di fronteggiare gli effetti indesiderati sul piano socio-economico delle patologie che colpiscono i pazienti dei paesi occidentali, dove l’innalzamento dell’età media delle popolazioni e il progressivo miglioramento delle condizioni di benessere sociale hanno portato a un considerevole aumento del numero di soggetti anziani colpiti da tumori, demenza e da altre non meno severe patologie legate all’invecchiamento. È risaputo che, a fronte di una popolazione sempre più anziana e sempre più cronica, le risorse economiche diminuiscono e possono scarseggiare. I costi dei farmaci antitumorali di ultima generazione, in particolare di quelli biologici, anticorpi monoclonali che colpiscono target mirati, sono elevati e talvolta

improponibili per le limitate risorse dei sistemi sanitari nazionali12. Una delle questioni

fondamentali a cui sono tenuti a rispondere i sistemi sanitari nazionali riguarda chi sosterrà le spese di cura per un paziente che si è ammalato intorno ai 65 anni, ma che grazie alle terapie potrebbe arrivare fino ai 90, e per di più senza lavorare. Inoltre, ha senso applicare terapie tanto costose a malati anziani, che potranno ricavarne scarsi benefici e un allungamento di vita alquanto ridotto, in qualche caso solo di pochi mesi? È etico somministrare cure costose, pagate dalla comunità, a malati anziani che ne potranno trarre fuggevole beneficio ed effimero miglioramento, talvolta di poche settimane? Il rapporto amore/odio che sovente si manifesta nei confronti di terapie che creano alterazioni nel fisico e sul piano psichico, con squilibri mentali e relazionali, ha come risvolto anche gli interrogativi che si pongono gli oncologi nelle situazioni che implicano scelte, decisioni e responsabilità importanti: a chi praticare le terapie, se si vogliono ridurre gli sprechi? È razionale un programma sanitario che impone certe scelte?

Si capisce che l’impatto della malattia sulla società ha costi considerevoli, e che per limitarli la medicina oggi deve prendere in considerazione un insieme di variabili, tra le quali l’età, lo stile e le abitudini di vita, l’ambiente naturale, artificiale e finanche religioso in cui è inserito il paziente, la sua condizione sociale e finanziaria. Questi aspetti potranno in futuro essere meglio affrontati grazie a una ricerca multidisciplinare, dove primaria importanza hanno anche le scienze umane, comportamentali e sociali per ridefinire la patologia nell’interesse del paziente. Per “interesse del malato” la lezione che proviene dalle medical humanities intende che egli possa continuare a far parte in maniera armoniosa della società, non solo dal punto di vista del lavoro, ma anche per quanto riguarda il tempo libero, con una buona funzionalità locomotoria nel corso dell’attività quotidiana, che non si limita a quella domestica, ma che comprende per esempio andare a fare la spesa senza assistenza, essere in grado di cucinare e consumare un pasto senza

12 Cfr. AA.VV., I numeri del cancro in Italia 2018,

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aiuto, lavarsi, farsi un bagno o una doccia, salire le scale, passeggiare, guidare, servirsi dei trasporti pubblici (anche) per raggiungere l’ospedale o lo studio medico per i controlli e la terapia. Ai medici in generale, e agli oncologi in particolare, si richiedono terapie che siano sempre più rispettose dell’integrità del paziente, che gli consentano di condurre una vita il più normale possibile, tenendo presente che gli inconvenienti derivanti dalla malattia o dalla disabilità sono tanto più gravi e invalidanti qualora non siano disponibili membri della famiglia, amici o personale infermieristico. Nelle realtà nelle quali l’accudimento familiare viene a mancare, il senso di solitudine e isolamento del malato è ancora più grave, accompagnato da sentimenti di ansia e depressione, che finiscono per interferire anche con la cura. La realtà dell’aumento dei pazienti anziani e dei sopravvissuti al cancro si lega a riflessioni profonde sulla qualità della vita, un tema che è al centro del dibattito contemporaneo in bioetica, e che ci dimostra come negli ultimi decenni la stessa patologia abbia assunto un carattere più umano. A questo punto, forse, non vale nemmeno più la differenziazione che, fino a qualche tempo fa, aveva separato nel novero degli studenti iscritti a Medicina e Chirurgia coloro che intendevano dedicarsi a specialità come la pediatria o la ginecologia, giudicate “umane”, da quelli che optavano invece per la patologia, disciplina un tempo reputata fredda e scarsamente “empatica”.

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Gli autori sono senz’altro illustri: Hermann Ludwig Eichhorst (Königsberg 1849-Zurigo 1921) professo- re di Patologia e Terapia speciale e Direttore della clinica medica

Il cretinismo, invece, è stato considerato una sindrome clinica par- ticolare presente negli scorsi secoli 2 ; sembra molto probabile, ma non abbastanza certo, che alcuni sog- getti

Vengono osservate urine trasparenti nelle febbri pe- riodiche: citrine o aranciate nei momenti di apires- sia, giallastre, “turbate”, negli accessi, ed ancora giallo pallido,

Solo la siringa ipodermi- ca ha invece consentito di “prelevare” dal corpo, con relativa facilità, il sangue ed è interessante vedere come essa si sia sviluppata e diffusa