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Il gesto diplomatico fra comunicazione politica, grammatica delle emozioni, linguaggio delle scritture (Italia, XV secolo)

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Isabella Lazzarini

Il gesto diplomatico fra comunicazione politica, grammatica delle emozioni, linguaggio delle scritture (Italia, XV secolo)

[A stampa in Iconografia del gesto. Forme della comunicazione non verbale dall'antico al moderno, Atti della giornata di studio (Isernia, 21 aprile 2007), a cura di M. Salvadori, in corso di stampa

© dell’autrice – Distribuito in formato digitale da Reti Medievali]. Introduzione

Narra Salimbene Adam da Parma che Federico II si divertisse, di fronte agli intimi, a imitare burlescamente gli ambasciatori lombardi, che cominciavano i loro discorsi dinnanzi a lui muovendo vigorosamente le mani ed elogiandosi l’un l’altro, e solo alla fine di questo spettacolo «dicebant facta sua». L’eloquenza degli ambasciatori italiani, e la loro tendenza ad accompagnare le loro ondate di parole con una certa spettacolarità gestuale, erano ben note già dal XII secolo, e se ne trovano tracce in buona parte degli autori dell’epoca, italiani o meno, da Ottone di Frisinga a Giovanni di Salisbury, da Rahewino a Romualdo di Salerno: apparentemente, il legame fra eloquenza, gestualità e diplomazia matura dunque in Italia – in particolare nell’Italia dei comuni – sin dall’età d’oro della parola detta, i secoli XII e XIII1.

Ai primi del Cinquecento, Niccolò Machiavelli nell’elencare tutto quanto un ambasciatore doveva compiere, nella sua andata nel Regno di Francia, una volta giunto a Bologna (prima tappa significativa per un fiorentino volto a nord), chiarì con puntiglio d’officio le modalità dell’ambasciata. Una volta ammesso l’oratore alla presenza dei Sedici Riformatori bolognesi, il suo cancelliere

si fermerà nella detta audientia a un certo rastrello da sé, che vi è; dove ancora staranno ritti i cancellieri del reggimento. Subito collocato l’oratore a sedere, il cancelliere con un’accomodata reverenza, vadia a lui, baci la lettera della credenza, e porgala in mano all’oratore; dipoi si ritorni da basso. L’oratore, data la lettera al proposto, e quella recitata dal cancelliere del reggimento, esponga col nome d’Iddio la sua imbasciata2.

Nel corso del ‘rasonamento’ diplomatico, orchestrato, come si vede, secondo una regia sempre più elaborata e codificata prima di tutto nella prassi, l’ambasciatore si trovava però talora a far fronte a modalità emotive di comunicazione: così un politico consumato come Francesco Sforza poteva rompere lo schema consueto del colloquio diplomatico, improntato all’urbanità e alla familiarità, levandosi d’un tratto in piedi, seppure infermo, e lasciandosi andare a dire nel luglio 1462 di Pio II, responsabile ai suoi occhi del cattivo andamento della guerra nel Regno di Napoli, che il papa «gli ha facto venire voglia de farli, cum reverentia, cagare il sangue». Vincenzo della Scalona, oratore di Ludovico Gonzaga, colpito dalla violenza verbale delle parole (pur controllata da quel «cum reverentia», a giudicare dal testo già presente nell’espressione dell’irato duca), si affrettò ad avvertire il suo signore che quelle «non sono perhò [parole] da lassare andare a ciercho», non erano parole da divulgare in giro3.

In queste tre citazioni – ma ci si potrebbe divertire nel rinvenirne altre – si compendiano i temi di cui questa breve comunicazione vuole occuparsi: la simbiosi strutturale di atti e parole – le «parole, pratiche et gesti», gli «acti et parole», «le parole et segni extrinsechi» delle fonti – nel negoziato diplomatico del tardo medioevo italiano, le cui origini, come si è accennato, si collocano nella elaborazione tra XII e XIII secolo dell’eloquenza pubblica; il costruirsi di un rituale del gesto diplomatico, in cui l’interazione fra l’oratore e i suoi interlocutori si gradua secondo un calibrato cerimoniale gestuale sia nelle grandi audienze pubbliche, sia nei colloqui a porte chiuse; il

1 Salimbene de Adam, Cronica, I, pp. 515-516, cit. in Artifoni 1994, pp. 146-147; in merito, si vedano anche Id. 1986 e

Miglio 1986.

2 Machiavelli, Notula per uno che va ambasciadore in Francia, p. 54.

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significato possibile infine della rottura del codice gestuale grazie all’irruzione di una comunicazione di carattere emozionale (spontanea o meno)4.

La traditio del concreto svolgersi della diplomazia tardomedievale italiana rende la nostra analisi complessa: si tratta infatti di un insieme di pratiche di di negoziazione prolungata e multipolare in gran parte orali, frutto di confronti face to face, e di raccolta e di selezione e organizzazione delle informazioni politiche grazie a circuiti informativi e comunicativi personali, che ci sono però giunte pressocché solo in testi scritti, regolati da norme formali definite. La prassi diplomatica orale cioè è tradotta in scrittura, in ricostruzione narrativa, in interpretazione: alla professionalità negoziale degli oratori si sovrappone la professionalità scrittoria e linguistica, loro o dei loro immediati delegati di scrittura, cancellieri e segretari. Questo excursus nel linguaggio diplomatico medievale a caccia di gesti è dunque fortemente condizionato in partenza dalla ineludibile esegesi delle fonti scritte, anche solo per una prima tassonomia del gesto inteso come atto intenzionale e performativo di una comunicazione non verbale: i nodi complessi dell’azione rituale5, dei linguaggi

politici6, dei processi di negoziazione7, della valutazione delle «dimensions emotionnelles de la vie

politique»8, in un atto pubblico cruciale come il negoziato diplomatico passano infatti per la

decodificazione di fonti complesse come le fonti diplomatiche, con i loro silenzi e le loro sovrabbondanze.

La diplomazia dell’Italia tardomedievale: forme, tempi, fonti Le forme e i tempi della diplomazia quattrocentesca.

L'Italia che maturò a partire dalla seconda metà del Duecento era un aggregato via via più coerente di poteri autonomi caratterizzati da una vigorosa proiezione espansiva sul piano territoriale: al termine della parabola tre-quattrocentesca, una geografia semplificata di stati si sostituì al quadro pulviscolare offerto dalla penisola nei secoli alti e centrali del medioevo. Questa trasformazione alimentò profondi mutamenti istituzionali, sociali, economici, e insieme innescò la costruzione di un sistema di stati legati fra loro da una significativa simbiosi funzionale. Tale interrelazione produsse un linguaggio politico comune, formalizzato negli accordi della Lega Italica (1455)9. Un

discorso politico innovativo, nato dallo sviluppo di nuove forme di legittimazione dell’autorità pubblica di principi e reggimenti sviluppatisi nel contesto di una crescente debolezza dei quadri generali del potere, gli imperi e il papato, legò progressivamente gli stati italiani a partire dagli ultimi decenni del Trecento, grazie alla creazione e al mantenimento di un sistema di pratiche comunicative su più livelli all’interno di una rete complessa di scambio e di circolazione dell’informazione politico-diplomatica10. La pratica diplomatica nell’Italia tardomedievale uscì

dunque dallo schema della soluzione negoziata di un conflitto o grazie a un mediatore, o grazie a un colloquio fra le parti in causa, per entrare nella prospettiva innovativa della creazione e del mantenimento di un codice comunicativo comune e aperto, all’interno del quale gestire la negoziazione politica, mantenere la pace, risolvere ogni contrasto, prevenire ogni «accidente, benché minimo»11. La guerra e il negoziato diplomatico erano armi contemporanee e

4 Dato il carattere ricognitivo e sintetico della presente comunicazione, la bibliografia è ridotta all’essenziale.

5 Per cui si vedano almeno gli studi di Gerd Althoff, in particolare Althoff 1997 e 2002, e le considerazioni critiche di

Buc 2001.

6Anche in questo caso, bastino due richiami: in generale, si veda Rethinking the Foundation 2007, e per l’Italia

tardomedievale, Linguaggi politici 2007.

7 Si vedano come riferimenti generalissimi, Brown, Görecki 2003; per la situazione italiana, Lazzarini 2003, e per la

negoziazione in diplomazia, Negociar en la Edad Media 2005.

8 Si veda per la citazione Braud 1996, p. 36; in generale, Reddy 2001, e per il medioevo Anger’s Past 1998 (di cui in

particolare si vedano le acute osservazioni della conclusione di Rosenwein 1998).

9 Si veda Lazzarini 2003, e la bibliografia ivi citata.

10 L’enfasi sulla comunicazione come creazione di reti e diffusione di linguaggi politici condivisi è caratteristica

soprattutto della recente ricerca in area germanica: si veda in generale Medien in Kommunikation 2003.

11 Non faccio qui che parafrasare il celebre inizio della Storia d’Italia, di Francesco Guicciardini: «E conoscendo

[Lorenzo de Medici] che alla republica fiorentina e a sé proprio sarebbe molto pericoloso se alcuno de’ maggiori potentati ampliasse più la sua potenza, procurava con ogni studio che le cose d’Italia in modo bilanciate si mantessino che più in una che in un’altra parte non pendessino: il che, senza la conservazione della pace e senza vegghiare con

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complementari in un mondo in cui la prassi politica consentiva al duca di Milano, Galeazzo Maria Sforza, di esortare l’impetuoso Carlo il Temerario nel 1475 a «fare como fano li Italiani, quali, quando hanno una controversia con tre, si sforzano de fare con l’uno pace, et con l’altro tregua et con l’altro guerra, acciò che più facilmente possano attendere alle altre cose et adimpire li soy disegni»12. Il fulcro della pratica diplomatica quattrocentesca divenne dunque la progressiva –

seppure non assoluta né esclusiva – adozione della prassi di gestire i rapporti interstatali tramite ambascerie durature di oratori residenti, cui veniva affidata la responsabilità di gestire tutte le questioni che potevano insorgere fra lo stato che li aveva inviati e lo stato che li ospitava, dalle più ordinarie alle più politiche, e il compito di raccogliere e vagliare tutte le notizie che circolavano. Gli oratori, forniti alla partenza di lettere credenziali e istruzioni, si recavano presso il potentato di loro destinazione, dove si stabilivano (in osterie e luoghi pubblici di soggiorno, in casa affittate, in palazzi di proprietà dei loro signori) per un periodo variabile, che nel corso del secolo tese ad allungarsi progressivamente13. Qui si presentavano al sovrano o agli organi collegiali del

reggimento, conducevano i necessari negoziati, si inserivano nella società politica locale e nei suoi rituali (udienze generali, colloqui individuali, occasioni sociali pubbliche e private, ritmi della vita urbana e di corte), e di ogni cosa notevole scrivevano a chi li aveva mandati. Gli ambasciatori residenti erano inviati infatti «per intendere quello che si fa et come passano le cose»14, e il loro

compito era «giorno per giorno, hora per hora, secondo che intendono, et da chi et in che modo, dare notitia a chi gli manda»15. Questo comportò evidentemente che i professionisti della

diplomazia, professionisti al tempo stesso della scrittura, trasmettessero in gran copia le informazioni di cui venivano in possesso – ogni sorta di informazioni – alle proprie cancellerie centrali, moltiplicando le scritture diplomatiche sino a soglie sino ad allora mai raggiunte. Gli oratori – tanto gli ambasciatori di prestigio, inviati per lo più per missioni di rappresentanza o a termine, quanto i professionisti della diplomazia, di formazione cancelleresca e dagli incarichi residenziali – acquistarono progressivamente una qualifica pubblica e un’autonomia politica formalmente definita: la loro presenza in seno a uno stato ospite legittimò insieme il potere che li inviava e quello che li ospitava e soprattutto la comunicazione politica che fra i due stati si instaurava grazie alla loro presenza16. I tempi di questa trasformazione furono diversi nei diversi

constesti costituzionali: più rapidi nell’adottarle i principati e i regni, più lente le repubbliche, dove una serie di controlli istituzionali incrociati rendeva le pratiche dell’ambasciata a termine e della rotazione degli oratori più consoni alla tradizione collegiale pubblica17.

Le fonti della diplomazia: istruzioni, mandati, dispacci, relazioni.

I ricchissimi fondi diplomatici su cui si baserà la nostra indagine sono composti da serie diverse di atti, non sempre tutti egualmente prodotti e o conservati, non tutti altrettanto eloquenti. Si tratta di un materiale documentario che matura tra i decenni finali del Trecento e il Quattrocento e che presenta ovunque una certa uniformità di modelli: alla documentazione per così dire preparatoria (registri di nomine e di andate degli oratori, registri di commissioni o singole istruzioni) e conclusiva (registri o fascicoli sparsi di relazioni o rapporti finali), si affianca la documentazione direttamente relativa alla missione (registri o filze di missive, cioè di lettere spedite dall’oratore o da diversi, e registri o filze di responsive, cioè di lettere di risposta). Spesso poi sono rimaste anche le serie complementari dei singoli oratori, come i quaternucci di spese, i giornali di viaggio, le

12 Galeazzo Maria Sforza a G. P. Panigarola, Villanova, 12 aprile 1475, in Carteggi I, p. 460, cit. in Senatore 1998, p.

293.

13 Si pensi all’ambasciata del milanese Gerardo Cerruti a Bologna: giunto nel 1471 in una sede che non era certo delle

più rilevanti nello scacchiere peninsulare, seppure importante per gli interessi di Galeazzo Maria Sforza in Romagna, vi rimase sino al 1474: Il carteggio di Gerardo Cerruti 2007.

14 G. P. Panigarola a Bianca Maria Visconti Sforza, duchessa di Milano, Montargis, 23 giugno 1466, in Dispatches III,

p. 341.

15 G. Pandolfini e F. Sacchetti alla Signoria di Firenze, Aversa, 5 maggio 1450, Dispacci I, p. 51.

16 In merito si vedano gli studi pionieri di Riccardo Fubini, in particolare Fubini 1979-1980; Id. 1982; Id. 1987.

17 La bibliografia su questi temi è ormai imponente: a partire dal classico Mattingly 1962, e oltre ai lavori di Fubini

ricordati alla nota precedente, cui va aggiunto Fubini 1994, si richiama qui la ricerca esemplare di Francesco Senatore, Senatore 1998, e la sua accurata ricognizione degli studi di storia della diplomazia (allo studio di Senatore si rimanda anche in generale per l’analisi della diplomazia italiana nell’età di Alfonso d’Aragona).

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raccolte personali di missive e responsive relative alle singole missioni, la cui conservazione è più peregrina e casuale nonostante il pressocché generalizzato obbligo coevo di riconsegna in cancelleria. Nella realtà documentaria inoltre, soprattutto nei reggimenti repubblicani, queste serie base si moltiplicano ed eventualmente si differenziano in rapporto agli enti che le producono18.

Dalle istruzioni, documenti istitutivi dell’ambasciata che venivano consegnati all’inizio della missione (ma che non contenevano necessariamente tutte le informazioni relative all’ambasceria, e venivano integrate via via da lettere o ‘lettere vive’, cioè altri oratori) e che evolvettero dal semplice promemoria alla scrittura munita di sigillo, vanno distinti i mandati o lettere di credenza, documenti di contenuto non politico ma giuridicamente più significativo, sostanzialmente delle procure che abilitavano l’oratore a agire in modo vincolante in nome del proprio governo. Alla fine delle missioni sovente l’oratore redigeva o preparava un rapporto finale, che consegnava in cancelleria o leggeva di fronte a coloro che lo avevano mandato: nel caso veneziano, questo uso si canonizzò in un vero e proprio genere a partire dai primi decenni del Cinquecento19. La maggior

parte dei fondi diplomatici è però costituita da dispacci, litterae clausae, inviate dagli oratori in servizio alla propria cancelleria e dalla cancelleria a nome del principe o del reggimento agli oratori. Rispetto alle relazioni finali depositate in cancelleria, i dispacci sono frutto della quotidiana azione di raccolta e organizzazione di informazioni e di narrazione dei colloqui politici da parte degli ambasciatori. I carteggi diplomatici che ne risultano costituiscono corpora di lettere dai connotati particolari nel contesto della produzione epistolare: si collocano in una regione intermedia fra l'intenzionalità e l'immediatezza; hanno caratteri comuni e in buona misura codificati, ma per lo più sfuggono alla artificiosità del prodotto letterario; hanno scopi quotidiani, pratici, politici evidenti, ma non sono privi di una loro ricchezza, non solo informativa, ma anche talora stilistica. Sono strutturati per lo più secondo forme e scansioni regolari, elaborate nelle cancellerie, ma la loro cifra muta sottilmente in rapporto alla formazione, al rango, agli intenti degli scriventi, che svariano dai grandi umanisti, come il Pontano, agli officiali di cancelleria, ai professionisti del maneggio diplomatico, ai giuristi, agli ecclesiastici. Nelle lettere diplomatiche si rintraccia ormai già a livello formulare tutto un patrimonio lessicale e idiomatico di carattere burocratico-cancelleresco-diplomatico destinato ad una vita lunghissima, al cui successo contribuisce indubbiamente la sua eterogenesi: è lo scrivere ‘ala cancellaresca’, come Borso d’Este distingueva, nello scrivere a Galeazzo Maria Sforza nel 1467, dal suo stile abituale, ‘ala domestica’20.

Una lettera diplomatica è costruita generalmente articolando gli argomenti per tema: si parla di azioni militari, di colloqui confidenziali, di eventi presunti o reali. La prosa che sorregge un tale lavoro di raccolta e di messa in ordine delle notizie è articolata secondo una sintassi complessa, in buona misura in crisi di crescita. La necessità di riportare notizie diverse e ottenute per diverse vie, e di restituire la verosimiglianza delle informazioni, implica il ricorso in abbondanza a enormi costruzioni ipotattiche asimmetriche. Il discorso diretto degli interlocutori dell’oratore viene poi reso in vario modo: talora con il discorso diretto vero e proprio, talora con il discorso indiretto libero, talora infine con il discorso indiretto con l'infinito alla latina.

La lettera-tipo è strutturata in modo regolare e un oratore scriveva da una sino a tre lettere ogni due-tre giorni: per lo più una lunga e ordinatamente suddivisa in capitoletti in cui ragguagliava sulle principali questioni politiche del momento, e una seconda spesso relativa a questioni di ordinaria gestione degli affari che portava avanti per conto del suo governo; se necessario, una terza aggiungeva dettagli o notizie dell'ultimo minuto. Talora le lettere venivano lasciate aperte, e si chiudevano uno o due giorni dopo che erano state iniziate. Quando all’oratore residente si aggiungevano, per motivi diversi, altri inviati, le lettere erano collettive o cumulative21.

18 Tale materiale è particolarmente abbondante a Firenze: una serie celebre di quaderni personali è quella dei

quaternucci di Luca di Maso degli Albizzi, ambasciatore fiorentino negli anni 1429-1449, conservati in Archivio di

Stato di Firenze (ASF), Signori, Dieci, Otto, Legazioni e commissarie 5, 60, 62: su queste fonti, Fubini 1987, p. 151, n. 114.

19 Si vedano i volumi di Relazioni degli ambasciatori veneti 1968, e in merito il saggio pioniere di Queller 1973. 20 Cit. in Senatore 1998, p. 194.

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Accanto alle fonti pragmatiche, altri due gruppi di testi coevi si occuparono specificamente della pratica diplomatica: si tratta dei trattati de officio legati, fra cui spicca il breve testo scritto dall’umanista e uomo politico veneziano Ermolao Barbaro tra il 1490 e il 149122, e la normativa in

materia diplomatica, ricca in ambito repubblicano e studiata soprattutto nel caso veneziano23.

I gesti della diplomazia

Questa lunga divagazione sulle forme della diplomazia italiana tardomedievale e sulle fonti ci introduce alla natura e ai limiti dell’analisi che qui si vuole proporre in merito al gesto diplomatico: alla varietà cioè di gesti, atti e azioni dispiegati nel contesto della pratica diplomatica e delle sue diverse fasi e testimoniate dalle scritture diplomatiche.

Una premessa è necessaria: si tratta di un tema poco esplorato dagli studi, se non nel suo contesto più scopertamente emozionale24, e – occorre ammetterlo – assai elusivo nelle fonti. Le missive, le

istruzioni, i trattati, la legislazione in materia diplomatica sono poco eloquenti in merito alla sfera della gestualità: denotano infatti un’attitudine narrativa tesa a una messa in scena argomentativa degli eventi diplomatici, attraverso la quale le parole, e non i gesti, andavano analizzati nella minima sfumatura. I ‘rasonamenti’ e non gli atti, erano il primo e più importante elemento da ricostruire, decrittare, scomporre. In un contesto narrativo di questo genere, i gesti salgono alla ribalta allorché entrano nel rituale diplomatico, e sono allora gesti canonizzati, nella prassi prima, nella riflessione teorica poi, o scandiscono il codificato giuoco delle parti all’interno del negoziato. Affiorano infine in caso di scoperta perdita di controllo di uno degli interlocutori, ma si tratta di massi erratici, rari e modesti.

Chiariti i limiti strutturali delle fonti, possiamo puntare a costruire una grammatica basilare del gesto diplomatico, censendo gli atti di comunicazione non verbale che punteggiano le fonti e che acquistano un significato performativo, più o meno intenzionale, più o meno codificato. Non si tratta che di una tassonomia empirica, che si avvale di una serie di sondaggi parziali di quel che è un volume ingovernabile di documentazione edita e inedita: l’intento è quello di suggerire spunti di riflessione, di proporre possibili direzioni di analisi.

I gesti del cerimoniale.

Le missioni diplomatiche, indipendentemente dalla loro durata, e in buona misura anche dal rango dell’oratore, si svolgevano già dal pieno medioevo secondo una rituale successione di eventi e di formalità, che avevano una realtà fisica sapientemente orchestrata. In particolare in occasione della negoziazione di questioni di grande peso politico, come leghe o paci (la stipulazione della Lega Italica, nel 145525), o nella organizzazione di grandi assisi diplomatiche (come la dieta indetta

da Pio II a Mantova nel 1459 per la crociata per la liberazione di Costantinopoli26), il linguaggio

politico della negoziazione si sostanziava di sequenze di atti comunicativi non verbali.

Due gruppi di queste sequenze di gesti sono ricostruibili con esattezza, perché tendevano a riprodursi con regolarità nei diversi contesti, indipendentemente dalla qualità dell’ambasceria e dalla struttura costituzionale dello stato ospitante. La prima serie è costituita dalle sequenze dell’arrivo degli oratori; la seconda, la loro prima udienza, con la presentazione delle lettere credenziali. Per quanto la tonalità ufficiale e lo sfarzo a esse connesso potessero variare, dalla massima enfasi nel caso di ambascerie ufficiali presso la Curia di Roma o una corte regia come quella napoletana, o di eventi di grande risonanza internazionale, alla più quotidiana prassi diplomatica nel caso dell’alternanza di un oratore residente a un collega nella stessa sede, il rituale era sostanzialmente lo stesso.

L’arrivo dell’oratore avveniva in un contesto festoso, in cui le massime autorità o un folto e rappresentativo gruppo di gentiluomini di rango uscivano dalla città e andavano incontro

22 Barbaro 1969, su cui si vedano Fubini 1996 e Figliuolo 1999. In merito al complesso svilupparsi di una trattatistica

sull’ambasciatore e sull’arte del negoziato diplomatico, si veda almeno Bazzoli 2002.

23 Si vedano i classici Queller 1966 e Id. 1977. 24 Offenstadt 2005.

25 Su cui si vedano almeno Fubini 1994, e Lazzarini 2003.

26 In particolare su quest’ultimo evento, si faccia riferimento a due testi diversi ma entrambi ricchi di elementi utili alla

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all’oratore, che smontava da cavallo secondo una successione di gesti attentamente calibrata secondo il rispettivo rango dei protagonisti. Basti un esempio: tra il 18 e il 19 novembre 1455 gli ambasciatori delle tre potenze che per prime aderirono alla Lega Italica, Milano, Firenze e Venezia, giunsero a Gaeta, nel Regno di Napoli, dove, insieme al cardinale Domenico Capranica, legato del papa, che si trovava già nel Regno, avrebbero dovuto negoziare con il re Alfonso d’Aragona la sua adesione alla lega. L’arrivo degli ambasciatori, che ci è testimoniato dalle lettere contemporanee di Bartolomeo Aicardi Visconti e Alberico Maletta, milanesi, e di Bernardo de Medici e Dietisalvi Neroni, fiorentini, si svolse in due tempi. Dapprima, il 18, gli ambasciatori si incontrarono fra loro e fecero il loro ingresso a Gaeta, dove il re non era ancora giunto:

a XVIII del presente nuy se retrovasemo a Fondi distante da Gaieta per migla dece cum li ambasatori della signoria; e quelli de fiorentini erano alogiati più ultra ad Itri per lo mancamento de li alogiamenti. E lì se ritrovasemo tuti insiema e a XVIII del presente tuti entrasemo in Gayeta cum grandissime piobie et perversità de tempo.

Nonostante il maltempo e l’assenza del sovrano, l’accoglienza fu degna dell’evento:

E ne veneno incontra molti signori e notabili cavaleri e dotori mandati da la maiestà del re per honorarne, tra li qualli gli era el conte Johanne da Vintimigla, meser Francesco Pandone e multi altri; e così ne acompagnarno per fine ale stantie aparigiate da la sua maiestà per li nostri alogiamenti.

Il giorno dopo, gli ambasciatori e il cardinale andarono a loro volta incontro al re che giungeva a Gaeta: la regia dell’evento fu attentamente organizzata dalla corte napoletana, e gli ambasciatori vi giuocarono un ruolo rilevante, inteso a dare prestigio al re, all’occasione, ai loro governi. Vale la pena di leggere l’intero racconto di Visconti e Maletta.

Fu etiamdio ordinato che insieme cum lo cardinale andasemo incontra a la maiestà del re […] e nuy tuti ambasatori desmontasemo da cavalo a tochargli e basargli la mane. E così venendo la maestà sua, gli andasemo cum lo cardinale incontra; e prima nuy ambasatori, li qualli precedevamo, gli tocasemo la mano e fecemo cum grande reverentia quanto era ordinato. La sua maiestà ne vide e recevete molto alegramente et humanamente e, montati a cavallo, tocasemo la mane al duca de Calabria. Da poy lo cardinale gli tochà la mano basendose insiema e s’aviareno lor doy verso la cità, e lo seschalco del re ne fece seguire immediatamente le lor signorie, precedandole el duca da Calabria e lo signore de Urbino, meser Manfredo de Corezo, cum grandissima turba de signori et gentilhomini […]. Et tandem intrasemo in questa terra circha una hora de note cum multitudine de torze et cum grandissimo strepito de trombe e de bombarde. E volse ad ogni modo el re acompagniare el cardinal a casa, e vegniando nuy per acompagnare la sua maiestà al suo alogiamento, ne fece istancia asay che nuy se andasemo ad alogiare e non lo acompagnasemo più ultra, ma nuy pe rlo debito nostro instando et suplicando a la sua maiestà se aviasemo acompagnarlo; e quando el fu circha el mezo de la via per andare al suo alogiamento, volse ad ogni modo che nuy restasemo, e così cum alcune bone e amorevele parole ne dete per quella sera amorevelle licencia; e molti de quelli soy signori ne veneno acompagnarne a casa.

Il giuoco del rango e delle precedenze orchestra gli incontri: smontare da cavallo o rimanere in sella, toccare o baciare la mano, o scambiare un bacio reciproco, ripetere la sequenza o parte di essa nei confronti non solo dell’autorità sovrana, ma dei personaggi a essa più prossimi, accompagnare o essere accompagnati, sono gesti della relazione e del rango, atti carichi di significato e altamente ritualizzati in uno scenario in cui la città, le porte, le strade, i balconi sono quinte dello spettacolo, e musica e suoni corredano l’evento27.

27 B. Aicardi Visconti, A. Maletta a Francesco Sforza, Gaeta, 23 novembre 1455, in Dispacci I, pp. 159-160. Questo

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Analogamente orchestrata la prima udienza, di cui abbiamo visto all’esordio la formalizzazione pragmatica nei suggerimenti di Machiavelli. Per rimanere all’esempio napoletano, gli ambasciatori della lega incontrarono Alfonso il 21 novembre, in due tempi: dapprima il re li volle con sé alla messa solenne, dove «fussemo asetati tuti secondo l’ordine nostro, mandandone a dire la maiestà del re che nuy se asetasemo secondo che a nuy pariva», da un canto della chiesa dove solo gli ambasciatori avevano avuto il permesso di rimanere seduti. Poi l’udienza vera e propria:

Finita la mesa la maiestà sua ne condusse in una sua camera molto adornata e poxese la maiestà sua a sedere sopra una catedra digna da re; e così da parte era asetato il duca suo filiuolo, e nuy fussemo asetati sopra una bancha per contra la maiestà sua; et in quella camera non gli fureno altri che uno suo secretario e doy cavaleri soy camareri, e nuy cum li nostri canzeleri. E fece la maiestà sua sarare l’usso de la camera, e per meser Zacharia fu exposto alla maiestà sua quanto era ordinato per nuy e dito de sopra.

Anche in questo caso, avere il permesso di sedere o non averlo, di prendere posto a proprio piacimento e non secondo un cerimoniale prefissato sono tutti elementi gestuali di un riconoscimento reciproco fra poteri: il rango riconosciuto si esprime nella libertà di compiere determinati gesti28. Non sempre il codice scelto era indiscusso: i contenziosi per la precedenza che

degenerano in rissa erano cosa comune; la dieta di Mantova fu costellata di questi episodi, mettendo insieme su di un unico palcoscenico rappresentanti di poteri diversi da tutta Europa, essi stessi di rango diverso, con le confliggenti gerarchie laiche ed ecclesiastiche: i cardinali si consideravano pari ai re, il papa li voleva pari ai principi, e via seguitando29. L’udienza poi esprime

un’altra sequenza di gesti performativi, oltre che presentare un palcoscenico diverso all’autorità: non già la grande piazza pubblica, la cattedrale, il monastero, ma la reggia o il palazzo e i loro spazi, al tempo stesso più sfolgoranti e ricchi di simboli del potere (la ‘catedra digna da re’) e più chiusi (l’atto di ‘sarare l’usso’ è una ulteriore enfatizzazione dell’importanza dell’incontro). Si tratta allora non solo di sedere o no, ma di dove sedere, e di come disporre i protagonisti e i comprimari. Nel caso di contesti meno solenni, la sequenza è meno ostensibilmente orchestrata, ma si svolge secondo tempi e forme assolutamente simili: solo un rapido esempio, la presentazione di Gerardo Cerruti ai Sedici Riformatori a Bologna, nel 1471

siando [stamane] con questi magnifici signori reformatori, non essendoli […] consueto loco. Che nonostante quello, cusì volsi el magnifico, tutti gli altri, i quali se gli ritrovavano, forsi al numero de XIII […] che sono li duoi terzi. Factoli uno introyto di mia commissione, con saluti, conforti e offerte in generale et in particulare et dictoli […]

e l’oratore proseguì direttamente con l’argomento che stava a cuore al suo signore, il duca Galeazzo Maria30. Può essere interessante, en passant, notare come un quarantennio avesse fissato e

irrigidito la gestualità della prima udienza in modo assai pronunciato: se ritorniamo infatti al

ordinario e come tale viene narrato: il 21 maggio 1490 Ermolao Barbaro, ambasciatore della Serenissima, giunse a Roma, sua nuova sede. Gli oratori di Milano, Giacomo Botta e Stefano Taverna, così narrarono il suo arrivo al duca Gian Galeazzo Sforza: «Hogi hè gionto misser Hermolao, ambasatore de’ signori venetiani, quale alias era ambasatore [il Barbaro era ben noto ai milanesi, essendo stato ambasciatore proprio a Milano tra il 1488 e il 1489]. Lì gli hè stato facto honore assai da li ambasatori de le signorie se trovano qua, et da le famiglie del papa et cardinali secondo si sole fare ali ambasatori; et fra li altri nui oratori della serenissima lega unitamente tuti li siamo anchora andati.», G. Botta, S. Taverna a Gian Galeazzo Sforza, Roma, 21 maggio 1490, cit. in Figliuolo 1999, p. 83.

28 Il nunzio pontificio a Milano, Gherardi, descrisse con grande attenzione l’ordine della cerimonia di dedizione

compiuta da Genova a Milano nel 1488: «Sedebat princeps medius inter oratorem Ferdinandi regis a sinistris et me a dextris, quos subsequantur per ordinem: Ungarus, Venetus, Florentinus et Ferrariensis, post quos, in eodem subsellio, sedebant Barensis, illustrissimus dominus Philippus et Hermes; inde e conspectu principis sedebant oratores a dexteris et a sinistris, humiliore tamen subsellio», G. Gherardi a Sisto IV, Milano, 2 novembre 1488, cit. in Figliuolo 1999, p. 56.

29 Un litigio per questioni di precedenza fra il seguito del duca di Cleves e quello del re d’Aragona sfociò la notte stessa

in una rissa che costò la vita a quattro cavalieri, si veda Schivenoglia 1857, p. 23.

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cerimoniale previsto da Machiavelli per un’udienza pubblica di fronte a questi stessi Sedici Riformatori bolognesi nel primo Cinquecento, risalta con evidenza come la snella procedura usata dal Cerruti (senza cancellieri, senza reverenze, senza nemmeno la totalità degli interlocutori) – o quantomeno la sua veloce riduzione nel narrato – fosse stata sostituita da una successione di atti e di gesti assai più ritualizzata e da una gerarchia di protagonisti e comprimari: inchini, baci alla lettera credenziale, entrate e uscite di scena, cancellieri degli uno e degli altri.

In un contesto altamente formalizzato come quello veneziano, la gestualità dell’udienza è non solo rituale, ma anche corale: nel caso della Serenissima, un’autorità collegiale di grande prestigio vuole, anche fisicamente, dare l’idea dell’unità della Repubblica, muovendosi come un sol uomo, e un oratore attento come l’umanista Pellegrino Prisciani non manca nella sue lettere di testimoniarlo. Così, quando il ferrarese nel 1491 venne ammesso in Collegio, la scena assunse le movenze di un balletto sapientemente orchestrato: dopo che cinque gentiluomini e un cancelliere furono andati a prendere il Prisciani a casa e lo accompagnarono in barca con «dolci parole»,

se ne andassemo alle Illustrissime Signorie, dove veramente era cussì bello collegio quale mai vedesse, adunati, como mi rendo quasi certo, a bella posta […]. Intrato adonche cum le debite reverentie, montai in tribunale et levata già insino al principio de la intrata mia la Serenità del Principe cum tuta la brigata et smontata il primo schallino et pilgiatome per la mane se sentassemo31.

I gesti del negoziato.

Una terza sequenza significativa e codificata, non tanto – o non troppo – da un cerimoniale pubblico, quanto da una sottile conoscenza delle regole del giuoco, è quella che regge e declina il colloquio negoziale, fra l’oratore e il suo interlocutore istituzionale. I gesti qui si assottigliano e si riducono a sfumature d’espressione, dal momento che quel che conta – come si è detto – sono le parole, i ‘rasonamenti’, la ‘praticha’. Sono poi frammentati e disseminati in una resa narrativa di colloqui spesso a più voci, in cui era difficile non solo riportare gli scambi verbali, ma anche e soprattutto dare conto della scena in movimento, con i movimenti e i gesti degli uni e degli altri. Per dare un’idea della concitata successione di interrelazioni in un contesto di dialogo diplomatico e insieme di sociabilità cortigiana, vale forse la pena seguire il lungo scambio che il fiorentino Giovanni Lanfredini descrisse a Lorenzo de Medici nel 1485. Il Lanfredini, oratore a Napoli, venne convocato, con altri ambasciatori, da re Ferrante per essere informato dei movimenti del condottiero Roberto da Sanseverino. «Hieri ci fece chiamare la maestà del re et leggere molte lettere che haveva da Milano, da Belplat […] Dipoi, levati in pie’, lo illustrissimo duca di Calabria mi tirò da canto e dixemi […]»: inizia qui un dialogo botta e risposta fra Alfonso e il Lanfredini. Qualcuno li interruppe, e di lì in poi si dipanò un complesso balletto di dialoghi a due, a tre, a quattro:

Sua signoria fu chiamata, et non poté seguitare più oltre. Io subito m’acostai al secretario et dixi “[…]”. Non mi lasciò compiere la parola che mi rispose: “Imbasciatore, voi dite el vero […]”, et fumo rotti dalla maestà del re che chiamò l’oratore di Milano e me in secreto, dove era solamente el duca per quarto, et dixe: “[…]” Lo’mbasciadore di Milano ringraziò sua maestà della comunione, io feci quel medesimo, subiungendo […] L’oratore di Milano si ridisse che quel medesimo farebbe lo stato suo […] et così sua maestà ci ringratiò et licentiò32.

31 P. Prisciani a Ercole I d’Este, Venezia, 16 novembre 1491, Archivio di Stato di Modena, Ambasciatori, Venezia 10. Lo

spettacolo intenzionale del “cussì bello collegio” veniva dispiegato a bella posta, come si intuisce da un’altra lettera del Prisciani, in cui il doge, dopo avere fatto sedere accanto a sé l’oratore estense, «fece cum grande ordine per tal prima volta assettare tute le brigate, chiamandole et per dignità et per nome, che erano li consiglieri del consiglio de X, li savi grandi, li savi da terra firma, li procuratori de San Marco, li savi de li ordini et successive tuti li altri, che in vero fu bella cosa», P. Prisciani a Ercole I d’Este, Venezia, 20 novembre 1491, ibidem.

32 G. Lanfredini a Lorenzo de Medici, Napoli, 12 agosto 1485, in Corrispondenza di Giovanni Lanfredini I, pp.

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I gesti che intervengono nel negoziato, al di fuori del contesto ufficiale della prima udienza, sono nella maggior parte i gesti dell’interlocutore, giacché l’importante era decodificare in ogni modo le sue intenzioni. In generale gli oratori tendevano a presentare i loro augusti referenti come uomini affabili, naturalmente ben disposti anche quando avevano un temperamento notoriamente autoritario, o segreto e dissimulatore. Gli spagnoli in particolare avevano questa fama: da Alfonso V d’Aragona, di cui il focoso Nicodemo Tranchedini scriveva allo Sforza nel 1452 che «è de natura del’arbore de la noce, che non dà el fructo suo se non per la via del bastone» a Ferdinando il Cattolico, in merito al quale Guicciardini scriveva ai Dieci di Balia, da Burgos, nel 1512 che «quel che habbi a esso re si può male giudicare, rispecto al secreto grande col quale si governa questo re», passando per il proverbiale carattere collerico di papa Callisto III33. Nonostante l’eventuale

cattivo carattere potenziale dell’interlocutore, i colloqui venivano nella maggior parte presentati come eventi sotto il segno della buona volontà (al punto di trascurare di riferire gli scontri, come sappiamo quando abbiamo diverse versioni di uno stesso negoziato): questa voluta civiltà– la ‘humanità’, la ‘buona voglia’, la ‘buona cera’– si traduceva anche in una gestualità improntata alla familiarità e alla naturalezza. Non siamo qui soltanto di fronte alla costruzione di una regolare grammatica del colloquio diplomatico, ma anche della necessaria immagine del principe ideale: quello stesso Alfonso cocciuto e poco manipolabile di Tranchedini, al giudizio dei senesi Morosini e Micheli era una figura esemplare di sovrano: «è questo re signore gravissimo d’aspetto e di gesti, et eloquentissimo, et pare ingegnioso, industrioso e soavissimo»34. Si noti, nella costruzione retorica,

lo scarto fra quanto i due hanno comunque avuto modo di sperimentare nei gesti e nel comportamento, probabilmente de visu – ‘è questo re’ – e quanto per il momento avevano solo modo di supporre – ‘et pare’. L’affabilità, l’umanità si traducevano in modo canonico nel riso: per cui Pio II accoglieva gli ambasciatori «cum uno viso alegro» o interagiva con loro ridendo («me rispose ridendo»35); Alfonso «risise uno pezo» a proposito di un tal Albertino di Cividale o «la

maiestà sua cominzò a ridere» in merito alla disavventura di un gentiluomo napoletano caduto da cavallo36. D’altro canto, il riso, la battuta erano talora frutto di una calcolata strategia per non

rispondere o non rivelare appieno la propria volontà. Gli oratori fiorentini Pandolfini e Sacchatti, nel 1450, confessavano esasperati alla Signoria che:

Habiamo provato per ogni via et modo c’è stato possibile et con ogni buona parola in casa, a chaccia, in campo, per via a cammino, in su novelle di victorie havute in mare et così in ogni tempo c’è paruto ydoneo et opportuno, et trovollo tuctavia a uno modo. Motteggia, ride, facci buona cera et buona accogliença: gli effecti sono quali la vostra signoria vede37.

Oltre al riso, talora si assiste al dispiegarsi di una mimica dell’approvazione e della soddisfazione: così a Venezia nel 1491, di fronte a una bella orazione dell’oratore ferrarese, il doge e il collegio manifestarono il proprio apprezzamento in movimenti corali che il Prisciani, pur compiaciuto, non poté riferire al duca di Ferrara senza un briciolo di vergogna:

Et cusì facto legere epse litere de vostra illustrissima Signoria in optima forma veramente, como anche per l’altre mie li scripsi, la Sublimità del principe (squassando la testa tuta la brigata per assai et cum varij gesti de contento et piacere che da uno canto vergogna me è ad

33 N. Tranchedini a Francesco Sforza, Roma, 9 luglio 1452, Dispacci I, pp. 108-109; F. Guicciardini ai Dieci di Balia,

Burgos, 2-3 aprile 1512, Guicciardini 1986, p. 78.

34 A. Morosini, P. Micheli al Concistoro di Siena, Napoli, 8 maggio 1450, Dispacci I, 2, p. 22. 35 Lazzarini c.s.

36 A. da Trezzo a Francesco Sforza, Napoli, 13 aprile 1458, Dispacci I, p. 551; A. da Trezzo a Francesco Sforza, Napoli,

27 settembre 1457, Senatore 1998, pp. 339-340.

37 G. Pandolfini, F. Sacchetti alla Signoria, Isernia, 4 giugno 1450, Dispacci I, p. 61. Questa lettera è interessante per

noi anche da un altro punto di vista: essa ci rivela infatti molto sull’agire degli ambasciatori, che vediamo qui all’opera accanto al re in una successione di situazioni, dalla corte alla caccia al campo militare. La sfera della pratica diplomatica si sviluppa fisicamente in una serie articolata di contesti: il mestiere di ambasciatore «in motu et cum la pena in mano» (G. A. Boccaccio a Ercole d’Este, Roma, 28 luglio 1490, cit. in Folin 2001, p. 66) suggerisce in questo caso una gestualità articolata e professionale di cavalcate, passeggiate, passatempi, che pure in qualche modo fanno parte del mondo gestuale che ci interessa.

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scriverlo, come ben cognosco per non essere in tuto matto, da l’altro forza mi è tocharne qualche cosa per refrigerio de vostra Signoria) la Serenità del principe, dico, tocando parole che non le voglio dire, ma in suma de mia gran laude et de loro summo piacere […]38.

Talora la familiarità si traduceva in gesti anche più espliciti: re Ferrante in particolare era solito lasciarsi andare a una gestualità personale più accentuata. Così, accolse con estremo calore Antonio da Trezzo al suo rientro a Napoli nel 1464 «che credo el me habia abrazato ducento volte»; così, nel 1466, ricevette con spontanea familiarità l’ambasciatore mantovano Bartolomeo Bonatti, che lo aveva faticosamente seguito nel corso di una battuta di caccia a Presenzano sotto una pioggia battente:

Stato cussì un pocho tanto, se spogliò et cavò li stivali et anche li fue presentato la caza […] me feci domandare, et cussì come io intrai in la camara, ussì fora tuti quelli gli erano, che non li remase se non uno suo camarero il quale tenea due torchie in mane accese, et ante che io li comenzasse a dire cosa alcuna, factoli le debite reverentie et tochatoli la mane cum demonstratione de inclinarme alo pede, me presi cum ambe due le mane sotto li braci et me levò suso39.

Il padre Alfonso, senza arrivare a questi estremi emotivi, ricorreva talora a una grammatica anche gestuale quando voleva ottenere qualcosa. Così Giacomo Antonio Della Torre, oratore estense, scriveva a Leonello d’Este nel 1448 che «lo dy che concluxe cum milanexi, la maestà sua [Alfonso] me prexe per mano e usimo fuori dal pavaione e vene ala umbra de uno arbore, e ly, post multi rasonamenti e longi, la maestà sua per sua clemencia me disse…»: all’offerta di prendere il della Torre al proprio servizio, l’oratore grato rifiutò con una corrispondente formula ben calibrata di gesti e parole: «breviter io me glie inzenoyhiay davanti e rengracià e dissily…»; alla fine del primo colloquio con gli ambasciatori della lega di cui abbiamo visto sopra lo svolgersi, il re, sceso di ‘catedra’ si mise sull’uscio e «lì ne basà tuti». Nel discorrere confidenzialmente con Antonio da Trezzo, il re «se misse a sedere et me invitò: volse ch’io li sedesse appresso»40.

Il negoziato non sempre però si manteneva all’insegna dell’affabilità: Francesco Senatore ha analizzato con cura l’attenzione che Antonio da Trezzo prestava anche alle minime emozioni negative manifestate da Alfonso d’Aragona. Le frasi dell’oratore sono rivelatrici: «Né più disse, ma queste parole me disse cum talle volto che me pareva comprendere che l’animo corrispondesse alle parole», o di nuovo «questo me disse cum el viso assay turbato», o «voltò gli occhi in terra che non poteva respondere», o ancora «essa maiestà et la prima et la secunda volta respose molto poche parole, ma may gli [Piccinino e Brocardo da Persico] guardò in volto a niuno de loro, in modo che qualunque gli era circumstante iudicava che’l re non habia voglia de fare ciò che gli era richiesto»41. In quest’ultimo caso, la mimica del re è un vero e proprio linguaggio alternativo alle

parole, ben compreso da tutti.

I gesti dell’emozione: la rottura – vera o presunta – del canone.

Talora – e questo è l’ultima fattispecie che consideriamo – la trama gestuale del negoziato, fatta di espressioni, di brevi atti, di sfumature, si incrinava per l’irruzione di un’emozione: una violenta commozione, o più spesso uno scatto d’ira, un moto di fastidio, reso non solo grazie alla violenza verbale, ma da un gesto, da un movimento difforme. Le difficoltà di analizzare la dimensione emozionale e i suoi significati in età lontane è ormai ben nota: gli studi recenti tendono a sottolineare come le emozioni, prima fra tutte l’ira, la più dirompente e socialmente pericolosa, non erano il frutto di una cultura incontrollata che solo il disciplinamento dei secoli dell’età

38 P. Prisciani a Ercole I d’Este, Venezia, 27 novembre 1491, ASMo, Ambasciatori, Venezia 10.

39 B. Bonatti a Ludovico Gonzaga, Napoli, 7 dicembre 1466, in Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga, b. 805. 40 A. da Trezzo a Francesco Sforza, Giugliano, 5 luglio 1458, Dispacci I, p. 11.

41 A. da Trezzo a Francesco Sforza, Napoli, 11 novembre 1456; A. da Trezzo a Francesco Sforza, Napoli 24 novembre

1456; A. da Trezzo a Francesco Sforza, Napoli 24 novembre 1456; A. da Trezzo a Francesco Sforza, Napoli, 18 luglio 1457, cit. in Senatore 1998, p. 334 n. 287.

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moderna avrebbe ricondotto a ordine e civiltà42, ma piuttosto una «shared culture of speech acts,

in which words and gestures were efficacious not as ideas but as transformative enactments»43.

È necessario cioè prestare attenzione, nell’analizzare questi episodi emozionali, al fatto che in contesti canonizzati come quelli descritti dai linguaggi pubblici del potere – e tra essi indubbiamente il negoziato diplomatico – spesso l’emozione non causa la rottura di un codice comunicativo tramite un comportamento incontrollato, ma prosegue il discorso negoziale grazie all’uso consapevole e calibrato di un diverso codice, che fa perno su elementi differenti di comunicazione, di carattere emotivo e non argomentativo, ma comunque complementari alla parola, come appunto la gestualità attiva (chinare gli occhi a terra, alzarsi di scatto, uscire dalla sala, giungere le mani, piangere) o la violenza verbale (con l’uso di termini ed espressioni normalmente correnti in contesti meno formali come quello militare o più familiari al protagonista e quindi più immediati, come nel caso di una lingua madre al posto di una lingua comune44). Va

precisato un dato: i dispacci recano pochissime tracce di episodi emozionali violenti, di collere improvvise, di perdita – voluta o meno – di controllo. Le ragioni possono essere due: la prima, che l’entretien di suo fosse assai sorvegliato, o meglio che si svolgesse nella maggior parte dei casi attraverso un codice argomentativo, e non emotivo; la seconda, che gli oratori, in quanto professionisti del mantenimento di un canale aperto di negoziato, non enfatizzassero in alcun modo – sino al punto di ometterli – gli episodi di rottura del codice argomentativo, per rafforzare e mantenere a tutti i costi nei loro governi sia l’impressione di avere la situazione sotto controllo, sia l’idea che la concordia – essenziale al comune discorso politico – regnasse fra le parti.

Gli esempi significativi di gesti emotivi sono dunque rari. I gesti della supplica e la parola commovente, che muove al pianto, vennero impiegati con efficacia da Giacomo Trivulzio, ambasciatore della Repubblica Ambrosiana a Alfonso d’Aragona, nel 1448:

Lo ultimo che disse fo meser Jacomo de Triulzi, ambasatore de milanexi, il quale il re volsi fossi yhamato e disse per tal mainera che movit multos ob pietatem a lacrimare, supplicando

e genibus flexis rechedendo il re de protectione, favore et aiuto.

Giacomo Antonio della Torre, ambasciatore estense, registra ricorrendo anche a un latino formulare di matrice ecclesiastica l’effetto emotivo dei gesti di supplica del Trivulzio45. In qualche

caso, l’interlocutore ufficiale mostrava segno di affezione o di commozione personale: così Giovanni II Bentivoglio mostrava fisicamente di rimpiangere il precedente ambasciatore sforzesco, Giovanni Antonio da Figino, dinnanzi al successore, il Cerruti: «Dicovi più, che nominato Zohanne Antonio da Figlino in quelli tali ragionamenti, el gli mandò dreto alcuni sospiri»46.

I gesti dell’ira, in diverse gradazioni, sono più ricorrenti. Talora erano i sovrani a manifestarli, come allorché Alfonso d’Aragona rispose seccamente a Cristoforo dell’Isola, ambasciatore di

42 Il passaggio dalle concezioni di Elias sul processo di civilizzazione delle élites occidentali a un’idea delle emozioni

come «cultural artifacts» (Geertz 1973, p. 81) è ben ricostruito da Rosenwein 1998.

43 Rosenwein 1998, p. 242: in merito, si vedano le considerazioni di Offenstadt 2005, in particolare alle pp. 350-354,

che richiama l’intero dibattito sulla «dimension spcialement codifiée et contrôlée des émotions publiques» (cit. p. 352), rifacendosi alla identificazione, operata da Gerd Althoff (Althoff 1997), delle emozioni come di elementi del discorso comunicativo dotati di una funzione dimostrativa e del carattere di ‘segnali’, di ‘segni’, ben padroneggiati e controllati dai protagonisti (traduco quasi letteralmente, alla p. 352). Non dimentichiamo infatti che, anche laddove si narrino udienze a porte chiuse o colloqui confidenziali, il negoziato diplomatico era e rimaneva un fatto eminentemente pubblico.

44 Alfonso d’Aragona era celebre per questo, ma non era il solo: Jocelyn Russell ricorda come il legato papale Onofrio

di Santa Croce, mandato nel 1468 presso il duca di Borgogna Carlo il Temerario per risolvere un conflitto fra il duca e la città di Liegi, avesse difficoltà a capire il duca che parlava in un rapidissimo francese, per giunta – come gli era consueto quando era in preda all’ira – balbettando: «dux vehementer incessens et fere balbutiens hoc inter multa

gallico sermone velocissime protulit». Il duca peraltro era talmente padrone di sé in realtà da tradurre

immediatamente in prima persona in latino quanto aveva detto, non appena si accorse che il vescovo non capiva, Russell 1992, p. 8.

45 G. A. della Torre a Leonello d’Este, Grosseto, 29 marzo 1448, Dispacci I, p. 41. 46 G. Cerruti a Cicco Simonetta, Bologna, 25 dicembre 1470, Il carteggio, I, p. 123.

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Sigismondo Pandolfo Malatesta «parlando pure […] con l’animo grosso, sdegnato…»47, o quando il

doge di Venezia udì, dall’ambasciatore estense, proposte che non approvava affatto:

Di quanto legeva dicte lettere io in facie del principe et dela brigata resguardando cognobi la cosa non li piacere, et il principe tuto trasmutossi et in colore et in ciera et levossi le mane […]48.

Talora erano gli oratori a lasciarsi andare, non tanto ovviamente nei confronti dei loro augusti interlocutori, quanto piuttosto fra loro, o in colloqui confidenziali con loro pari grado. In particolare questi ultimi moti comportamentali emergono non tanto dalle lettere al governo o al principe, ma da missive scambiate fra gli oratori con altri membri della cancelleria, in cui evidentemente il racconto fluiva sui binari di una maggiore familiarità. Così Antonio da Pistoia raccontava a Cicco Simonetta come Nicodemo Tranchedini, di cui già si è visto il carattere veemente, aveva accettato con assai poca grazia – con parole scortesi e con gesti di chiaro fastidio – il suo inserimento nell’ambasceria che Francesco Sforza aveva inviato nel 1454 a Niccolò V: «Nicodemo cominzò a sbuffare et dimandare miser Jacomo de Triulzi quello che io facevo lì»; non convinto dalla spiegazione che lo Sforza aveva preso ai suoi servizi il da Pistoia, Tranchedini sbottò «“Che servitii et che non servitii? Non è vero niente!”»49. In qualche caso, disaccordi fra negoziatori emergono da lettere diverse:

interessante il caso delle trattative, su cui ci siamo già dilungati, per l’adesione di Napoli alla Lega Italica. Il cardinale Domenico Capranica si infuriò con gli ambasciatori fiorentini, milanesi e veneziani in un colloquio privato tenutosi in uno degli intervalli delle pubbliche udienze generali. di questo episodio gli ambasciatori milanesi non diedero notizia, pur essendo assai più dettagliati nel racconto, mentre ne veniamo a conoscenza dalla lettera dei fiorentini. Il Capranica, «aveva avuto dispiacere assai» del procedere degli ambasciatori,

et molto se alterò verso di noi con parole assai pugnenti, con dirci non poteva credere avessimo tali commissioni, et che per Dio più di questa cosa non dovesimo parlare […] il perché, vedendo tanta altercatione, dilibramo più non parlarne di questa materia50.

La ritualità di un linguaggio gestuale della durezza, se non dell’ira, e del suo uso calibrato e intenzionale è espressa in modo chiarissimo da una scena che vide come protagonisti Francesco Sforza e i rappresentanti dei contadini piacentini ribellatisi all’autorità ducale. Siamo nella primavera del 1462, e lo Sforza veniva appena riprendendosi da un violento e prolungato attacco di idropisia: i contadini piacentini giunti a Milano per parlamentare, riuscirono finalmente a vederlo, dopo avere atteso per giorni di essere ricevuti, proprio mentre il duca stava per partire a cavallo per la tenuta delle Cassine. Il duca li mandò a chiamare e si meravigliò per la loro impazienza, visto che signori e ambasciatori ben più importanti di loro avevano atteso senza lamentarsi anche due mesi per vederlo. Il tono passò dalla severità alle minacce, ricordando il sacco di Piacenza compiuto dalle squadre sforzesche un paio di decenni prima, e poi alla mise en scène della integrità fisica del duca e della sua perdurante pericolosità:

E perché alcuni dicevano non se posseva muovere et ch’el era infiato, voleva lo vedessero, e cavata la turca se vestì in sua presentia, et se fece mettere li schinere et disse poi “Non dubitati che sono come fusse mai; se non sarete savi, ve ne pentireti.”

La strategia funzionò, perché immediatamente «li villani comenciono a chiedere perdonanza […] suplicando li volesse havere per recomendati» e lo Sforza li licenziò «remettendoli hora col brusco, hora col dolce»51.

47 G. Caimi, A. da Trezzo, O. Cenni a Francesco Sforza, Capua, 31 luglio 1458, Dispacci II, p. 73. 48 P. Prisciani a Ercole I d’Este, Venezia, 20 novembre 1491, cit. alla nota 31.

49 A. da Pistoia a Cicco Simonetta, Roma, 7 febbraio 1454, Senatore 1998, p. 70. 50 B. de Medici, D. Neroni alla Signoria, Gaeta, 27 novembre 1454, Dispacci I, p. 173.

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Conclusione

Tra i celeberrimi teleri di Carpaccio dedicati alla vita di Sant’Orsola a partire dai primi anni Novanta del Quattrocento, tre raffigurano altrettanti momenti diplomatici: l’arrivo degli ambasciatori al re di Bretagna, l’udienza (o il commiato), la partenza [figg. 1-3]. Nel ciclo dedicato da Pinturicchio agli episodi salienti della vita di Enea Silvio Piccolomini, nella Libreria Piccolomini del duomo di Siena (1505-1508), due scene in particolare colpiscono gli studiosi di storia della diplomazia: la presentazione del Piccolomini ambasciatore al re di Scozia, e la seduta inaugurale della dieta di Mantova [figg. 4-5]. Palcoscenici pubblici, gestualità rituale, gerarchie di rango, protagonisti e comprimari, oggetti ed elementi peculiari del mestiere dell’ambasciatore: l’evidenza iconografica anima qui buona parte delle sequenze gestuali di cui abbiamo rintracciato testimonianza nelle fonti pragmatiche, almeno quella parte di esse che abbiamo empiricamente classificato come ‘gesti del cerimoniale’. Per entrare nel merito dei gesti individuali della prassi diplomatica, del negoziato e della professionalità, più utili sono due altri documenti iconografici: gli altrettanto celebri ritratti di Ferry Carondolet, ambasciatore di Massimiliano I e dell’imperatrice Margherita in curia di Roma, di Sebastiano del Piombo (1510-1512) [fig. 6], e dei due ambasciatori francesi in Inghilterra Jean de Dinteville e Georges de Selve, vescovo di Lavaur di Hans Holbein il Giovane (1533) [fig.7]. La figura professionale dell’ambasciatore si delinea ormai chiara nelle sue linee essenziali: la rappresentanza, la cultura, il lusso, ma anche gli strumenti (lettere, carte, documenti, penne, inchiostro) e i collaboratori (cancellieri e segretari). In singolare e non casuale coincidenza con la prima produzione trattatistica de officio legati (1490-1491), la canonizzazione della pratica diplomatica si avvale anche della costruzione iconografica: i gesti non si narrano ormai più solo con parole, si traducono in immagini*.

* È un piacere ringraziare Monica Salvadori per l’opportunità di analizzare i gesti diplomatici che la presente raccolta

di saggi da lei ideata e coordinata mi ha offerto, e per gli scambi intellettuali e l’amicizia che sono a monte di questa, seppur minima, collaborazione.

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Figura 7: Hans Holbein il Giovane, Ritratto di Jean de Dinteville e Georges de Selve, vescovo di

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