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La comunicazione politica su YouTube: i casi Vendola, Di Pietro e Brunetta

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Academic year: 2021

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(1)La comunicazione politica sul web 2.0: la lezione di Obama e le difficoltà italiane Giovanna Cosenza 1. Obama: un modello da cui non si può prescindere Dalla seconda metà degli anni ’90 a oggi, nei paesi democratici un numero crescente di persone affidano a internet una porzione sempre più rilevante della loro vita sociale, economica e politica. La gamma di attività che si svolgono on‐line è sempre più ampia: mentre fra la fine degli anni ’90 e i primi 2000 il web era usato soprattutto per cercare informazioni e tutt’al più fare un po’ di shopping e banking on‐line, oggi milioni di persone producono attivamente contenuti per la rete (testi, immagini, audiovisivi: sono i cosiddetti user generated content) e frequentano i social network del cosiddetto web 2.01. Com’è noto, nei paesi democratici l’uso attivo e partecipativo di internet sta producendo cambiamenti rilevanti anche nella vita politica. L’elezione di Barack Obama a fine 2008 è l’esempio più eclatante, il caso di studio eccellente da cui né la comunicazione politica né gli studi che la riguardano possono più prescindere. Nel momento in cui scrivo, però, la comunicazione di Obama resta ancora una luminosa eccezione, legata al contesto storico‐ politico in cui è nata e si è mossa, oltre che alle caratteristiche dell’immagine personale del leader democratico, che fin dall’inizio erano particolarmente adatte, come vedremo, allo stile di comunicazione tipico del web 2.0, il che ha permesso allo staff presidenziale di costruire un caso di comunicazione integrata (off‐ e on‐line) di rara coerenza. Tuttavia, da un certo punto di vista Obama non ha inventato nulla, perché ha semplicemente ampliato e reso sistematico un uso della rete che il cosiddetto «movimento no‐ global» aveva già fatto alla fine degli anni ’90, organizzando sulla base di contatti via Internet l’arrivo a Seattle, a fine 1999, di decine di migliaia di persone provenienti da tutto il mondo2. Da allora la rete ha dimostrato più volte una gigantesca capacità di mobilitazione, riuscendo a fare convergere su eventi di piazza, in occasioni simbolicamente rilevanti, milioni di persone provenienti dalle più disparate e distanti aree geografiche3. Negli ultimi anni, poi, l’uso di Internet per la mobilitazione di piazza si è progressivamente esteso ben oltre i movimenti e le manifestazioni riconducibili all’etichetta «no‐global». Solo per ricordare i casi più spesso menzionati dai media: grazie alla rete, il 15 febbraio 2003 in circa 800 città di tutto il mondo, . 1 L’espressione «web 2.0» apparve per la prima volta nel giugno 2004 come titolo di una conferenza organizzata . da O’Reilly Media, noto editore statunitense di libri sulle tecnologie informatiche e le reti. Il numero 2.0 – aggiunto come fosse la seconda versione, aggiornata e migliorata, di un software – fu introdotto, come si disse allora, per indicare la «nuova onda» del web, non più centrata sul browser, ma basata su un insieme più ampio di applicazioni software, che «rende possibile una nuova generazione di servizi e opportunità di business» (dal sito www.web2con.com, reperibile su www.archive.org). In un articolo del 2005 Tim O’Reilly, amministratore delegato di O’Reilly Media, precisò e arricchì quella prima definizione (cfr. Cosenza 2008, cap. 7). 2 Dal 30 novembre al 4 dicembre 1999 oltre 50.000 persone si raccolsero da tutto il mondo a Seattle per protestare contro la terza conferenza dell’OMC (Organizzazione Mondale del Commercio), indetta per avviare un nuovo ciclo di negoziati (il cosiddetto Millennium Round) a favore di una sempre maggiore liberalizzazione dei mercati. Per quasi una settimana attivisti di circa 1400 organizzazioni non governative, sindacati, ambientalisti, gruppi religiosi, femministe sfilarono a Seattle suonando, cantando, ballando, esibendo simboli e slogan come «The world is not for sale», «No globalization without participation». Cfr. Cosenza (2007). 3 A Porto Alegre, in Brasile, nel gennaio 2001 si inaugurò la tradizione dei Forum Sociali Mondiali (FSM), che sono gli incontri che gli attivisti dei movimenti di tutto il mondo fanno una volta l’anno (di solito a gennaio, quando il World Economic Forum si riunisce a Davos, in Svizzera). Il primo FSM stimolò l’organizzazione di diversi forum sociali tematici e locali: nacquero ad esempio il Forum Sociale Europeo, che si incontrò per la prima volta a Firenze nel novembre 2002, e i forum regionali e cittadini (Genoa Social Forum, Roma Social Forum, ecc.). 1 © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» .

(2) milioni di cittadini protestarono contro il coinvolgimento del loro paese nella guerra in Iraq4; nel 2006 milioni di cittadini statunitensi (500.000 solo a Los Angeles) contestarono la politica sull’immigrazione del governo Bush; nel 2009, infine, la risonanza che nel mondo occidentale ebbero le dimostrazioni di piazza contro i risultati elettorali in Iran non sarebbe stata possibile senza una fitta rete di scambi su Internet, specialmente sui blog e su Twitter. Date queste premesse, è chiaro che lo staff di Obama non fece che trasferire alla politica istituzionale una pratica già consolidata dai movimenti di protesta, orientandola non tanto alla mobilitazione di piazza, quanto alla raccolta di denaro per la campagna elettorale. Infatti, dei 730 milioni di dollari che servirono a finanziare la sua campagna, l’88% furono contributi individuali, per raccogliere i quali la rete svolse un ruolo centrale5. È questa la grande lezione sull’uso di internet che Obama ha fatto alla comunicazione politica di tutto il mondo. Una lezione che, specie in Italia, è ancora molto lontana dall’essere recepita. Nelle prossime pagine vorrei innanzi tutto focalizzare i tratti linguistico‐semiotici che ritengo siano fondamentali per la comunicazione politica sul web 2.0, quindi usarli per un confronto fra Obama e alcuni casi italiani. Credo infatti che, indipendentemente dalle differenze fra il contesto statunitense e quello italiano, le basi linguistico‐semiotiche di un uso del web 2.0 «adeguato» – e cioè coerente con le pratiche on‐line più diffuse nel mondo – siano poche, semplici e ben rappresentate da Obama. Talmente poche e semplici che, più che stupirci per la maestria con cui lo staff di Obama riuscì – e riesce tuttora – ad applicarle, dovremmo in realtà stupirci per come la politica italiana continui sistematicamente a trascurarle, incapace di guardare a cosa fanno in rete ogni giorno milioni di persone al mondo. Prima di procedere, però, è necessario fare alcune precisazioni. 2. Quale web 2.0 Come già osservava Volli (2003), quando si parla di media occorre sempre fare molte distinzioni, perché le parole che li designano sono tutte polisemiche e si situano all’incrocio fra i canali materiali che veicolano i mezzi di comunicazione e le convenzioni culturali che ne regolano l’uso. Fra le tante distinzioni possibili, vale la pena qui riprenderne una sola, che li riguarda tutti e si è da anni assestata negli studi di sociologia e semiotica dei media (cfr. Van Dijk 1999 e Cosenza 2008, cap. 1). È la distinzione fra media intesi come tecnologie e media intesi come ambienti di comunicazione6, cioè come insiemi di regole, convenzioni e forme organizzative – culturalmente, socialmente e storicamente determinate – che le persone seguono quando comunicano usando le tecnologie. Il punto è che a nessuno dei media contemporanei corrisponde un solo ambiente di comunicazione, ma tutti, vecchi e nuovi, ne permettono una molteplicità. Se questo è vero, ad esempio, per un medium «vecchio» come la televisione, sul quale da molti anni non ha più senso fare discorsi generali, ma occorre sempre riferirsi a formati, generi e programmi specifici (dal telegiornale al talk show, dal telequiz alla fiction), con internet e il web le distinzioni sono a maggior ragione necessarie. Infatti, con la diffusione, . . 4 Secondo BBS News, nel febbraio 2003 scesero in piazza da 6 a 10 milioni di persone in oltre 60 paesi e 800 città del mondo, da New York a Sidney, da Damasco a Baghdad (http://news.bbc.co.uk/2/hi/europe/2765215.stm). 5 I dati della campagna elettorale di Barack Obama si trovano su OpenSecretes.org, il sito del Center for Responsive Politics, un’organizzazione indipendente che dal 1983 analizza e pubblica dati su come vengono spesi i soldi dalla politica statunitense. Cfr. la pagina http://www.opensecrets.org/pres08/summary.php?cycle=2008&cid=N00009638. 6 Il senso in cui uso l’espressione «ambiente di comunicazione» è ispirato al lavoro seminale di Meyrowitz (1985). 2 © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» .

(3) dalla metà degli anni ’90, dei principali browser grafici per la navigazione su internet7, il web è diventato il sistema di media più polisemico, polifunzionale e ambiguo di tutti, perché fa convergere nella stessa interfaccia grafica – quella di una pagina web – pratiche nuove e nuovissime con pratiche di comunicazione che fino a dieci o quindici anni fa si svolgevano con i mezzi e negli ambienti più disparati e lontani da internet: dalla posta cartacea alla mail; dalla televisione e radio tradizionali alla web tv e web radio; dalle chiacchiere da bar agli ambienti virtuali di chatting, videochatting e social networking. Potremmo insomma dire che internet è un sistema multimediale di sistemi multimediali, cioè un ambiente che combina molte forme e pratiche di comunicazione, vecchie e nuove, che a loro volta sono spesso composte da ulteriori e diverse forme e pratiche di comunicazione, vecchie e nuove. Nonostante questa consapevolezza sia da anni acquisita in semiotica dei nuovi media, ancora oggi molti studi politologici tendono a riferirsi a internet come fosse una cosa sola, un ambiente unico in cui accadono genericamente cose «nuove», in contrapposizione a ciò che accade su media «vecchi» come la stampa, la radio e la televisione. Il che si lega, come ha osservato Margetts (2010), a una più generale riluttanza della scienza politica accademica a incorporare nelle proprie teorie i cambiamenti che internet ha introdotto e sta introducendo nella comunicazione politica. Lo stesso problema si incontra anche da quando – più recentemente – si usano etichette generiche e vaghe come «web 2.0», «blogosfera», «social network», e così via. Intendiamoci: queste parole hanno comunque una funzione, perché introducono un contesto, un’area di discorso e come tali io stessa le ho usate nel titolo e nel primo paragrafo di questo contributo. Ma in ambiti che non siano quelli di un certo giornalismo chiacchierone e poco informato – e sottolineo un certo, perché esiste, in Italia e all’estero, un ottimo giornalismo di settore che fa un lavoro di approfondimento accurato e interessante – e a maggior ragione in un contesto di riflessione teorico‐analitica, usare queste parole in modo generico comporta una sciatteria inaccettabile. Insomma, se internet non può essere trattato come un calderone unico, non bisogna farlo neppure con il web 2.0, la blogosfera e i social network, ma occorre di volta in volta specificare a cosa in particolare ci stiamo riferendo. Sotto l’etichetta «web 2.0» stanno infatti cose troppo diverse per poterle affrontare in termini generali: da Wikipedia a YouTube, da Flickr a Facebook e molto altro ancora; sotto l’etichetta «blogosfera» stanno diari personali, romanzi collettivi, ricettari di cucina, ma anche, per esempio, il blog del New York Times e quello della Casa Bianca, che con la diaristica e la cucina non hanno nulla a che fare; sotto l’espressione «social network», infine, stanno migliaia di community virtuali, anche se mentre scrivo tutti pensano soprattutto a quelle su Facebook e Twitter, che sono i social network al momento più frequentati. Ma proprio perché frequentati da milioni di persone in tutto il mondo, ormai anche Facebook e Twitter hanno a loro volta il problema di essere contenitori di linguaggi, eventi e pratiche così diversi che non ha più senso, nemmeno nel loro caso, parlarne come fossero entità uniche, ma è necessario farlo nei termini di quelli che altrove ho chiamato «generi web», individuabili e suddivisibili sulla base di obiettivi, utenti modello e contesti di fruizione (Cosenza 2008, §3.4.7). . . 7 Le prime versioni dei due browser più importanti nella storia del web sono state sviluppate e distribuite a metà . degli anni ’90: Netscape Navigator nel 1994 e Microsoft Internet Explorer nel 1995. Mozilla Firefox, attualmente il secondo browser più usato dopo Internet Explorer, nacque invece nel 2002. 3 © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» .

(4) . 3. La politica su YouTube Fatte queste premesse, fra le varie possibilità di analisi degli usi che la politica odierna fa del web 2.0, mi concentrerò solo su YouTube, per ragioni che spiego subito. Fondato nel febbraio 2005 da tre ex dipendenti dell’azienda PayPal e acquisito da Google nell’ottobre 2006, YouTube è l’ambiente web 2.0 che è cresciuto più rapidamente: già nel giugno 2006 l’azienda comunicava ufficialmente che ogni giorno erano visti in media circa 100 milioni di video, e oggi YouTube è fra i siti in assoluto più visitati al mondo, assieme a Google, MSN e Yahoo. Inoltre permette di incorporare i video all’interno di altri siti web, generando automaticamente il codice HTML necessario per farlo, il che dà la possibilità, a chiunque vi apra un canale, di mirare a un pubblico molto più vasto di quello che otterrebbe con un sito web. Basta già questo a farci comprendere le potenzialità di YouTube per la comunicazione politica: permette di diffondere, durante una campagna elettorale ma anche in tempi ordinari, dichiarazioni di leader, spot, interviste e filmati vari, evitando i filtri e i tempi del giornalismo televisivo e dei suoi contenitori (dai telegiornali ai programmi di approfondimento e talk show), ma usando stili, linguaggi e formati audiovisivi che sono già familiari al pubblico di massa, perché sono molto simili a quelli della televisione tradizionale, e in quanto tali possono avere una presa immediata. Certo, il pubblico di YouTube è molto meno numeroso di quello televisivo, specie in Italia, che è fra i paesi europei con le percentuali più basse di accesso a internet8, ma la pubblicazione di video su YouTube, se opportunamente progettata, può creare casi ed eventi capaci di suscitare l’attenzione dei media tradizionali, e in questo modo può comunque raggiungere un’audience di massa. Le possibilità di YouTube per la comunicazione politica sono state pienamente comprese e sfruttate dallo staff di Barack Obama: già durante le primarie e sempre più sistematicamente nella campagna elettorale del 2008, infatti, ogni uscita del leader democratico era seguita da decine di giornalisti, operatori e tecnici appositamente reclutati, che garantivano qualità ottimale ai video, tempi record per la loro pubblicazione on‐line e un lavoro capillare di diffusione per far linkare ciascuna clip dai blog più frequentati, da tutte le testate giornalistiche on‐line e tutti i sociali network più noti e attivi, in modo che ogni video ottenesse in pochi giorni decine di migliaia o – nel caso dei video di maggiore successo – centinaia di migliaia di «views». L’attenzione che la politica statunitense riserva a YouTube non è affatto diminuita dopo le elezioni, anzi. Un paio di esempi bastano a mostrarlo: (1) Innanzi tutto il canale di Barack Obama (che si chiama BarackObamadotcom) non è stato chiuso dopo la sua elezione, ma oggi è gestito da Organizing for America, il progetto del Democratic National Committee che cura la continuazione della sua campagna; nel momento in cui scrivo, sul canale sono visibili 1927 video, e cioè tutti quelli caricati da quando è stato aperto, il 5 settembre 2006, a oggi. (2) L’attenzione per YouTube coinvolge ormai tutta la politica americana. Nel gennaio 2009 la Camera e il Senato USA hanno infatti aperto ciascuno uno «YouTube hub», 8 I dati Eurisko di febbraio 2010 parlano di 23 milioni di italiani connessi alla rete. Il che vuol dire, su una popolazione di 58 milioni di abitanti, una percentuale attorno al 40%, mentre la media europea è del 53% (fonte: www.internetworldstats.com). Nel nostro paese, insomma, la televisione è ancora il mezzo principale da cui gli italiani si informano sull’attualità politica. Dall’ultima indagine Censis (giugno 2009), ad esempio, è emerso che oltre il 70% degli italiani hanno usato il telegiornale per informarsi sulle elezioni europee del 2009, mentre solo il 2,3% si sono collegati ai siti web dei partiti, e solo il 2,1% hanno visitato blog, forum di discussione, gruppi Facebook e social network. 4 © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» .

(5) . vale a dire una sorta di portale che, a partire da una mappa geografica interattiva degli Stati Uniti (Fig. 1), organizza l’accesso ai canali YouTube personali di tutti i membri del Congresso che ne hanno uno. Il portale non ha nulla di nuovo dal punto di vista tecnologico, ma è significativo perché segna il riconoscimento sistematico e istituzionale di YouTube da parte della politica statunitense. . . Fig. 1. La mappa interattiva di Senate Hub, www.youtube.com/user/senatehub. (da “La politica istituzionalizza YouTube”, 18 gennaio 2009, www.politicaduepuntozero.it) . E arriviamo ai generi web. Anche YouTube non può essere considerato un contenitore indistinto, ma va suddiviso in generi (Cosenza 2008, §3.4.7). Non si può per esempio paragonare il canale di un leader politico con nessuna delle produzioni amatoriali che si trovano in questo ambiente web: dagli scherzi fra amici ai tutorial di make‐up, cucina o informatica; dalle esibizioni canore o musicali alle invettive di sconosciuti su questo o quel tema di attualità; dalle videoriprese per il compleanno del proprio bambino a veri e propri reportage di civic journalism. Ognuno di questi canali appartiene dunque a generi web diversi, perché: (1) si rivolge a utenti modello diversi: dalla propria cerchia di amici e parenti al pubblico generico del web; (2) ha obiettivi diversi: dal festeggiamento in famiglia alla speranza di farsi notare per ottenere un contratto discografico, televisivo o altro; (3) è destinato a contesti di fruizione diversi: dalla consultazione di ricette su internet per preparare il pranzo o la cena, alla ricerca professionale di dati e informazioni. Ogni canale potrà quindi essere confrontato solo con quelli che appartengono allo stesso genere web, non con altri: i tutorial di make‐up vanno ad esempio confrontati con altri tutorial di make‐up, perché condividono utenti modello, obiettivi e contesti di fruizione, ma non possono certo essere confrontati con canali giornalistici o politici; potranno al massimo, in contesti opportuni e per scopi particolari, essere confrontati con tutorial di cucina o informatica, che hanno obiettivi, utenti e contesti, se non identici, perlomeno simili, secondo criteri di somiglianza di cui si deve rendere conto analiticamente. Sembra buon senso, ma non lo è. Quando infatti negli studi di comunicazione politica si parla di YouTube in termini di «bassi costi», «spontaneità» e «facilità di produzione», non si fa altro che comparare – implicitamente – i canali politici con i numerosi canali amatoriali che pullulano su YouTube; come se sul canale di un leader, un partito, una coalizione si potessero © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» . 5 .

(6) inserire produzioni amatoriali qualunque, prive di coordinamento e obiettivi, e magari affidate – come spesso si fa in Italia – a piccole imprese pagate a basso prezzo o al volontariato di giovani leve di partito che poco o nulla sanno di internet. Col che si dimentica che su YouTube stanno, per fare altri esempi, i canali professionali delle major internazionali del cinema, della televisione, dell’intrattenimento, che ovviamente non fanno nulla di spontaneo né di amatoriale, se non quando decidono di simulare una certa dose di «spontaneità» e «amatorialità» per marcare la vicinanza alle produzioni amatoriali e agli user generated content. Decidono insomma di realizzare in modo professionalmente accorto qualcosa che, in termini semiotici, potremmo chiamare «effetto di amatorialità», di solito costruito con riprese video volutamente a bassa definizione, audio volutamente sporchi, interviste a persone “prese dalla strada”, vere o presunte che siano. In realtà produrre video per YouTube non è cosa che un leader o uno schieramento politico possano improvvisare. Per usare in modo professionale, consapevole e mirato questo ambiente occorrono infatti competenze e esperienze consolidate, oltre che nel campo della comunicazione politica, come minimo in questi ambiti professionali: (1) la produzione televisiva, con particolare riguardo a tutte le figure professionali del giornalismo televisivo (dalle riprese al montaggio, dalla regia alla conduzione in studio), perché occorre mettere on‐line interviste, brani di reportage, dibattiti fra leader politici, discorsi in studio o all’aperto, a piccoli gruppi o masse di persone; (2) la produzione di spot pubblicitari e video clip musicali, perché – come ha mostrato più volte il caso Obama – i video politici che più di tutti riescono a raggiungere in pochi giorni centinaia di migliaia di «views» somigliano più a spot commerciali e video clip musicali che a discorsi politici classicamente intesi come allocuzioni di fronte a platee; si pensi ad esempio a «Hope Changes Everything», un video caricato su YouTube l’11 febbraio 2008, uno dei primi nella campagna di Obama, che consiste in un montaggio rapido di immagini di ambienti urbani e rurali degli Stati Uniti, combinate con immagini del leader acclamato dalla folla e con slogan e frasi a effetto tratte dai discorsi che Obama faceva per le primarie9; (3) il naming10 perché occorre inventare titoli per i video e il copywriting11 perché bisogna corredare i video con didascalie, commenti, spiegazioni, piccole storie; (4) la gestione di forum e comunità on­line perché, dall’apertura del canale per tutta la sua vita, si dovranno moderare e alimentare scambi con gli utenti che inevitabilmente – e auspicabilmente – commenteranno e/o produrranno video di risposta, a maggior ragione sul canale di un personaggio pubblico. 9 Il video è ancora disponibile su diversi canali YouTube, oltre che su BarackObamadotcom. Josh Warner, capo . dell’azienda di Los Angeles che fu incaricata di farne diffusione virale su internet, lo paragonò ai video che nel 1988 accompagnarono il celebre album degli U2 “Rattle and Hum”, che mescolava sonorità rock, country e blues: «It has a U2 “Rattle and Hum” feel as it follows the candidate bounding from auditorium to auditorium accompanied by a driving rock soundtrack» (AdvertisingAge.com, March 17, 2008, http://adage.com/article?article_id=125697). 10 Il naming è la branca del marketing che si occupa della scelta dei nomi per prodotti, aziende, servizi. Molti sono gli oggetti da nominare e definire nella campagna elettorale di una formazione politica e nella sua comunicazione permanente: dal nome del partito, a quello di eventi, rituali, feste, tempi, spazi che lo accompagnano, fino – per tornare a YouTube – ai titoli del canale e dei video che lo popolano. 11 Il copywriting è l’attività con cui il copywriter o copy, cioè la persona che redige i testi in una agenzia pubblicitaria, interpreta le strategie e le azioni della committenza, scrivendo i testi che corredano una campagna: dalla headline (che i non addetti ai lavori chiamano slogan) al titolo che accompagna il marchio (payoff), dal discorso del leader ai comunicati stampa, dai dialoghi negli spot ai testi di dépliant, libretti di presentazione, e così via. 6 © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» .

(7) . 4. Due modelli di relazione Proverò ora a isolare i due modi fondamentali in cui, nella comunicazione politica, possono costruire la loro relazione sul web, da un lato, quelli che in termini semiotici chiamiamo enunciatori web, e cioè i leader, partiti, coalizioni che hanno un sito, un blog, un canale YouTube o gestiscono un social network, dall’altro gli enunciatari web, vale a dire i cittadini che visitano i siti, frequentano i blog, i canali YouTube e i social network. Sono due modelli di relazione utili a comprendere alcune regole elementari della comunicazione sul web 2.0. Il web 1.0 si basava (e si basa tuttora, visto che la distinzione fra web 1.0 e 2.0 non è cronologica ma funzionale, cfr. Cosenza 2008, cap. 7) sul paradigma comunicativo del broadcasting, secondo il quale da una parte ci sono una moltitudine di utenti che cercano informazioni (cose da sapere) o servizi (cose da fare); dall’altra ci sono aziende e istituzioni che non solo possiedono (o sanno come procurarsi) le informazioni e i servizi richiesti, ma hanno la competenza tecnologica, specialistica, organizzativa e le risorse economiche per renderli disponibili in rete (a pagamento o gratuitamente). In una relazione broadcasting c’è insomma qualcuno che chiede (l’enunciatario web) e qualcuno che dà (l’enunciatore web) e i due ruoli sono asimmetrici (up l’enunciatore, down l’enunciatario) e non reversibili: un qualunque utente‐enunciatario web non s’improvvisa gestore e distributore di grosse quantità di dati, perché non ha le competenze né le risorse economiche e tecnologiche per farlo. L’incarnazione di questo paradigma comunicativo erano (e sono) i portali web: dai vari Yahoo, Tiscali, Libero, alle testate giornalistiche on‐line. La relazione tipica del web 2.0 è invece quella del peer to peer. Con questa espressione non intendo tuttavia il peer to peer informatico in senso stretto – anche se la nozione viene da lì – ma un peer to peer relazionale e comunicativo. In informatica l’architettura peer to peer (p2p) è quella di una rete di computer i cui singoli nodi non svolgono il ruolo fisso di client o server, ma sono paritari (peer, appunto), cioè possono fungere sia da server (nodi che danno informazioni o servizi) sia da client (nodi che chiedono informazioni o servizi) per altri nodi della rete. Il peer to peer informatico descrive insomma qualsiasi rete in cui ciascun nodo sia in grado di avviare o completare una transazione: l’esempio più tipico sono le reti di condivisione di file (file sharing), esplose come fenomeno di massa fra il 2000 e 2001, e da allora frequentate da milioni di persone che si scambiano soprattutto musica e film, spesso violando le leggi sul diritto d’autore. Il peer to peer in senso comunicativo‐relazionale, invece, è una relazione in cui enunciatore e enunciatario web sono alla pari dal punto di vista della possibilità di dare informazioni e/o servizi, cioè possono continuamente scambiarsi di ruolo, ora chiedendoli ora offrendoli. Anche se su internet gli scambi alla pari esistono da sempre, dalla nascita del web 2.0 (fra il 2004 e il 2005) le tecnologie che li facilitano si sono moltiplicate: laddove un tempo c’erano solo mail, mailing list, forum e chat, oggi ci sono anche i blog, YouTube, Flickr, un’enorme quantità di social network e molto altro ancora. Tuttavia negli ultimi anni questo tipo di relazioni non sono solo diventate più numerose: il punto è che sono state sempre più valorizzate, sia su internet che nei discorsi su internet, e questo indipendentemente dal fatto che si reggano su effettive architetture informatiche peer to peer e indipendentemente dall’effettiva pariteticità dei soggetti in gioco. Insomma, negli ultimi anni, attorno alla nozione di web 2.0, si è costruita quella che definirei una sempre più robusta e pervasiva retorica del peer to peer, secondo la quale in rete saremmo tutti alla pari, enunciatori e enunciatari, e cioè aziende e consumatori, istituzioni e cittadini, leader politici ed elettori. Per tornare alla comunicazione politica, si pensi per esempio all’enfasi con cui spesso si parla del web 2.0 come se fosse in sé capace di coinvolgere tutti “dal basso”, e fosse per questo più portatore di democrazia, partecipazione e intelligenza collettiva del web 1.0 e, a maggior © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» . 7 .

(8) ragione, dei mezzi di comunicazione tradizionali12. Propongo di vedere la copertina con cui il magazine Time uscì fra dicembre 2006 e gennaio 2007 come l’apoteosi di questa retorica (Fig. 2): . . Fig. 2. La copertina di Time, December 25, 2006/January 1, 2007. . «La persona dell’anno sei TU» – diceva Time all’inizio del 2007, piazzando un grande «You» al centro del monitor di un personale computer – Sì, proprio tu. Tu controlli l’età dell’informazione. Benvenuto nel tuo mondo». Il mondo a cui Time faceva riferimento era, evidentemente, quello dischiuso dal monitor su cui campeggiava lo «You», monitor che, a ben guardare, è rappresentato come l’interfaccia tipica degli applicativi per la riproduzione video (YouTube in primis), con i tasti di play, scorrimento, volume, zoom eccetera. Il motivo per cui considero questa copertina l’apoteosi della retorica del peer to peer è che allo sbandierato potere delle persone che usano il web 2.0, – che addirittura sarebbero in grado di «controllare l’Information Age» – non corrisponde in realtà alcun poter né dal punto di vista informatico, né dal punto di vista economico‐organizzativo: infatti proprio gli ambienti ritenuti più tipici del web 2.0 – da YouTube a Facebook, alle piattaforme di blogging – sono di fatto posseduti e gestiti dalle omonime aziende multinazionali, e fra una multinazionale e un comune utente web ci sono enormi asimmetrie economiche, organizzative e comunicative, al punto che multinazionali come Google e Facebook hanno ormai persino la capacità di incidere su questioni politiche e sociali di rilevanza internazionale, trattando alla pari con governi e istituzioni politiche di tutto il mondo. 5. Lo stile del web 2.0 Una volta alzata la guardia contro certe enfasi di troppo, si può riconoscere che in effetti l’idea di una comunicazione peer to peer rende conto di quello che definirei lo stile comunicativo del web 2.0. Per focalizzare i principali tratti linguistico‐semiotici che lo caratterizzano, è utile riprendere un’altra metafora ricorrente nei discorsi che riguardano la rete: la conversazione. Anche questa, per quanto tornata di moda col web 2.0, in realtà risale al 1999, e in particolare 12 Per una critica articolata all’enfasi retorica con cui oggi molti parlano di democrazia e intelligenza collettiva in . rete, cfr. Russo, Zambardino (2010). © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» . 8 .

(9) alle prime sei tesi del Cluetrain Manifesto che uscì quell’anno: una lista di 95 tesi (come quelle di Martin Lutero), scritte da un gruppo di consulenti e manager statunitensi13 che già nel 1999 invitavano le imprese a costruire la loro presenza sul web cambiando radicalmente, da un lato, l’idea di mercato e business che fino a quel momento avevano concepito e praticato, dall’altro, il linguaggio e lo stile di comunicazione che usavano in rete e fuori dalla rete, troppo spesso intriso di burocratese, aziendalese e gergo del marketing. Queste erano le prime sei tesi del Cluetrain Manifesto: (1) (2) (3) (4). I mercati sono conversazioni. I mercati sono fatti di esseri umani, non di segmenti demografici. Le conversazioni tra esseri umani suonano umane. E si svolgono con voce umana. Sia che fornisca informazioni, opinioni, scenari, argomenti contro o divertenti digressioni, la voce umana è sostanzialmente aperta, naturale, non artificiosa. (5) Le persone si riconoscono l’un l’altra come tali dal suono di questa voce. (6) Internet permette delle conversazioni tra esseri umani che erano semplicemente impossibili nell’era dei mass media. (The Cluetrain Manifesto, trad. it. di Luisa Carrada, http://www.mestierediscrivere.com/index.php/articolo/tesi/). . . Insomma, dire che il web 2.0 e gli user generated content hanno moltiplicato le relazioni simmetriche peer to peer a scapito di quelle asimmetriche broadcasting è un po’ come dire che sempre di più, oggi, in rete si fanno conversazioni che hanno la «voce umana» di cui parlava il Cluetrain Manifesto nel 1999. Il che significa, detto ancora in altri termini, che non solo gli scambi asincroni via mail, mailing list, forum, blog ecc., ma anche i testi verbali e gli audiovisivi che le aziende, le istituzioni, le formazioni politiche mettono on‐line tendono a simulare – in modo sempre più spiccato – i tratti linguistico‐semiotici tipici del dialogo faccia a faccia, quello in cui nello stesso spazio/tempo ci sono almeno due persone che si parlano e hanno ruoli paritetici e simmetrici, possono cioè scambiarsi di continuo nel parlare e/o ascoltare (cfr. Cosenza 2008, §2.4). Ecco dunque i principali di questi tratti e i modi in cui vengono simulati in rete: (1) Poiché nel faccia a faccia le persone parlano dicendo «io», o al massimo «noi», in rete le aziende (istituzioni, formazioni politiche) tendono a parlare di sé in prima persona (singolare o plurale), invece che in terza (singolare, plurale o impersonale). Ad esempio: «Offriamo ai nostri clienti», invece che «L’azienda offre ai suoi clienti». (2) Poiché nel faccia a faccia ci si rivolge a un interlocutore che si considera paritetico dandogli del «tu» (o del «voi», se è più d’uno), in rete le aziende (istituzioni, formazioni politiche) tendono a rivolgersi ai consumatori, cittadini, elettori, dando loro del «tu» o del «voi», più che usando la terza persona. Ad esempio: «Ti aiutiamo a capire qual è la soluzione per i tuoi problemi», invece che «Il partito XY aiuta i cittadini a risolvere i loro problemi». (3) Poiché nel faccia a faccia amichevole e paritario ci si parla in modo informale, anche in rete le aziende (istituzioni, formazioni politiche) adottano toni più colloquiali di quanto non farebbero fuori dalla rete: ad esempio usano espressioni gergali e parole non altisonanti, ma tratte dalla vita di tutti i giorni, e adottano in generale quello che in Cosenza (2006) ho chiamato «stile oraleggiante», che è quello di una lingua scritta che imita alcune caratteristiche tipiche dell’oralità. 13 Il manifesto fu scritto nel 1999 da Rick Levine, Christopher Locke, Doc Searls e David Weinberger e oggi è . anche un libro (Levine, Locke, Searls, Weinberger 2009). © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» . 9 .

(10) Anche se qui, come si vede, ho focalizzato solo differenze linguistiche, in realtà esse comportano diversi modi di costruire la relazione fra enunciatori e enunciatari web: più vicina o lontana, più formale o informale, più simmetrica o asimmetrica. Si tratta di differenze non solo linguistiche ma riconducibili, più in generale, alla teoria semiotica dell’enunciazione. È perciò utile riprendere alcune distinzioni che Marmo (2003) introdusse in una riflessione sull’identità aziendale in rete, che rivisitava gli studi di Veron (1984) e Fischer, Veron (1986) su alcuni periodici femminili francesi. Marmo aveva analizzato le strategie di enunciazione dei testi verbali presenti nei siti di alcune aziende italiane e europee (Fiat, Ikea, Barilla, Illy e altre), individuando cinque modi fondamentali in cui tali aziende costruiscono on‐line la relazione con i consumatori: (1) Distanza indefinita: l’enunciatore web parla di sé in terza persona e non interpella direttamente i suoi enunciatari, menzionandoli a loro volta in terza persona. Esempio: «La Fiat offre ai suoi clienti numerosi vantaggi». (2) Distanza istituzionale: l’enunciatore parla alla prima persona singolare o alla prima persona plurale con il «noi» esclusivo, e non interpella direttamente i suoi enunciatari, ma si rivolge loro implicitamente, usando la terza persona. Esempio: «Solo noi di Ikea offriamo alla nostra clientela uno spazio per i bambini». (3) Distanza pedagogica: l’enunciatore parla in prima persona singolare o in prima persona plurale con il «noi» esclusivo, e interpella direttamente gli enunciatari, usando la seconda persona singolare o plurale. Esempio: «Ti aiutiamo a capire qual è il caffè più adatto alla tua giornata». (4) Ammiccamento: l’enunciatario è interpellato direttamente, con la seconda persona singolare o plurale, da un enunciatore che si mantiene implicito e si mette in scena oggettivamente con la terza persona. Esempio: «Barilla è con te». (5) Complicità: l’enunciatore coinvolge molto strettamente l’enunciatario usando la prima persona plurale con il «noi» inclusivo (che comprende sia l’enunciatore che l’enunciatario), o usando una prima persona che rappresenta, però, la voce all’enunciatario, non dell’enunciatore, come se l’enunciatore rinunciasse a parlare e facesse parlare l’enunciatario al posto suo. Esempi: «Insieme, faremo grandi cose» o «La mia azienda», in un contesto in cui sia chiaro che chi parla è il consumatore (enunciatario web) e non l’azienda (enunciatore). Data questa classificazione, è chiaro che una comunicazione orientata alla conversazione informale e paritaria, come quella tipica del web 2.0, non si troverà mai a costruire la relazione fra enunciatore e enunciatario usando la distanza indefinita o quella istituzionale, ma alternerà distanza pedagogica, ammiccamento e complicità: tutte strategie enunciative in cui ci si rivolge nel modo più diretto al proprio interlocutore, dandogli del «tu» o del «voi», o addirittura regalandogli l’uso della prima persona. Ma torniamo alla copertina di Time, che proponeva «You» come «Person of the Year». La copertina appare iperbolica fino alla vacuità, come ho detto, se pensiamo che di fatto le leve economiche e tecnologiche che reggono l’Information Age sono in realtà poco o nulla controllabili dagli «You» qualunque. Ma torna utile e interessante se la rivediamo come simbolo dello stile del web 2.0, perché esprime esattamente il «tu» che sul web 2.0 simula la conversazione faccia a faccia. Un «tu» che non è solo grammaticale, come a questo punto dovrebbe essere chiaro, ma esprime una relazione di vicinanza, informalità, pariteticità fra enunciatore e enunciatario, relazione che in italiano può anche essere espressa da un «lei» o un «voi» grammaticale, purché si continui a far sentire in modo credibile anche in rete la «voce umana» delle conversazioni faccia a faccia. © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» . 10 .

(11) . 6. Obama e i politici italiani: un confronto impietoso I tratti linguistico‐semiotici appena focalizzati sono talmente pochi ed elementari che certamente non bastano, da soli, a rendere conto della ricchezza e varietà di riflessioni, analisi, osservazioni che si possono fare sul modo in cui Barack Obama ha usato e usa YouTube. In riferimento a questi tratti, infatti, basterebbe dire una cosa sola: non solo su YouTube, ma su tutto il web 2.0 e anche off‐line, in televisione e nelle piazze, Barack Obama è sempre stato molto coerente nel porre al centro della propria attenzione comunicativa – continuamente, in modo quasi ossessivo – lo «You» appena visto. In estrema sintesi, tornando a YouTube, ciò significa che, nei video appositamente destinati a questo mezzo, Obama usa sistematicamente e in modo equilibrato, a seconda dei contenuti, degli obiettivi e del tipo di pubblico a cui si rivolge, le strategie della distanza pedagogica (noi‐voi, io‐voi, io‐tu), dell’ammiccamento («Il governo degli Stati Uniti è con te/voi») e della complicità («Yes, we can » vale per tutti) e lo fa non solo con il linguaggio verbale, ma con tutto il corpo, ovvero con le espressioni facciali, il sorriso (presente solo quando è il caso, per non togliere serietà al discorso), gli occhi (sempre molto concentrati e partecipi), i gesti illustratori delle mani (che sottolineano i punti del discorso più salienti per contenuto o pregnanza emotiva), la postura (sempre orientata in avanti, verso l’interlocutore). Dal punto di vista delle tecniche di ripresa audiovisiva ciò comporta poche regole di base: sguardo sempre in camera e inquadrature a mezzo piano (in modo che si vedano i gesti illustratori delle braccia) o inquadrature in primo piano (la gestualità di Obama è ormai talmente nota che non occorre mostrarla di continuo), alternate a primissimi piani per sottolineare il coinvolgimento del leader in ciò che dice e il suo totale orientamento verso chi lo segue al di qua del monitor (cfr. Fig. 3 e Fig. 4). . . Fig. 3 e Fig. 4. Un mezzo piano e un primo piani tipici dei discorsi di Obama su YouTube. . . Ben diversa è la situazione italiana, che può essere ridotta a una sintesi quasi banale: mentre nella comunicazione di Obama la centralità dello «You» è talmente sistematica – su Internet e fuori – che ogni riflessione e analisi su di lui può darla semplicemente per scontata, nella comunicazione politica italiana lo «You» è più spesso trascurato che rispettato. Ho seguito da vicino i canali YouTube di tutti i leader di partito, i ministri di governo e le cariche istituzionali che negli ultimi anni ne hanno aperto uno. Ciascuno di questi meriterebbe un’analisi a parte. Mi limito qui a pochi esempi che ritengo rappresentativi della situazione generale, aggiornata al momento in cui scrivo (fine giugno 2010). Partirò dai politici italiani che applicano lo stile del web 2.0 nel modo più adeguato, per concludere con qualche esempio di quelli che ritengo gli errori più gravi da parte di tutti gli altri. © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» . 11 .

(12) I politici italiani che usano meglio YouTube – nel senso dell’applicazione costante dei tratti linguistico‐semiotici evidenziati nel §5 – sono al momento soltanto tre: il leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro, il ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione Renato Brunetta e il presidente della regione Puglia Nichi Vendola. Va precisato però che anche in questi casi – che pure considero i migliori – tutto, dalla qualità delle riprese alla gestualità del leader, dal nome del canale ai testi che lo accompagnano, è ancora ben lontano dalla professionalità con cui è costruito e curato ogni più infimo dettaglio del canale BarackObamadotcom. Antonio Di Pietro è stato il primo politico italiano ad aprire un canale YouTube (che si chiama IDVstaff) il 19 dicembre 2006, seguendo a ruota il canale di Beppe Grillo, aperto il 3 ottobre 200614. Da sempre attento alla comunicazione sul web, Di Pietro inquadra YouTube in una più ampia attenzione alla rete come mezzo di «democrazia più diretta e partecipata», presentando il suo canale con questo testo (che è fra l’altro un buon esempio di quell’enfasi sul peer to peer di cui parlavo nel §4): La Rete, il sistema di informazione globale, metterà in condizione ognuno di parlare con il mondo e il mondo con ciascuno. I nostri figli avranno la capacità, l'intelligenza, il coraggio, la forza di essere partecipi essi stessi dell'informazione e attraverso di essa di una democrazia più diretta e partecipata. Ecco perché io non ho più paura come cittadino e come rappresentante di partito. Sfido la modernità. Noi siamo i primi a farlo e a cogliere le occasioni che ci vengono date attraverso di essa. . Oggi IDVstaff contiene circa 1500 video, molti dei quali sono discorsi di Di Pietro specificamente destinati a YouTube e girati in interni che appaiono ora come uno studio personale ora come una sede di partito, in cui il leader si rivolge direttamente ai suoi elettori e simpatizzanti e alterna le strategie linguistiche della distanza pedagogica, dell’ammiccamento e della complicità mentre viene inquadrato a mezzo busto, primo o primissimo piano. Ma il canale IDVstaff contiene pure moltissimi brani di interviste e frammenti di telegiornali in cui appaiono Di Pietro o altri leader (ad esempio Marco Travaglio) con cui Di Pietro è d’accordo; contiene spot e animazioni che illustrano in due o tre minuti le posizioni del leader e del suo partito su questa o quella questione di attualità; dà voce infine anche alle persone comuni, con video che riportano commenti e interviste raccolte in strada durante manifestazioni, scioperi, proteste. Anche il canale YouTube di Renato Brunetta va inquadrato nella sua più generale attenzione al web 2.0: il ministro ha un blog (www.renatobrunetta.it), che il suo staff aggiorna quotidianamente tranne il weekend; una pagina Facebook, che oggi conta quasi 70.000 «mi piace»; e un profilo Twitter, che è meno vivace perché si limita a linkare il blog, ma lo fa quasi tutti i giorni. Il canale YouTube si chiama renatobrunetta, è stato aperto il 9 febbraio 2009 e oggi presenta 87 video: vi si trovano soprattutto brani di interviste e di telegiornali e interventi in trasmissioni televisive e talk show; soltanto poche e mirate volte Brunetta costruisce video appositamente destinati al canale, con riprese girate nel suo studio: lo ha fatto per esempio nel marzo del 2009, prima per ringraziare i fan della sua pagina Facebook (che all’epoca erano circa 41.000), poi per presentare la riforma della pubblica amministrazione messa a punto dal suo ministero, con un video in cui invitava i cittadini a fargli domande, e poi ancora, circa un mese dopo, per rispondere alle domande più significative; lo ha fatto anche, nel gennaio 2010, per annunciare la sua candidatura a sindaco di Venezia. In ciascuno di questi casi, Brunetta si rivolge direttamente ai suoi elettori, alternando le strategie della distanza pedagogica, dell’ammiccamento e della complicità, 14 . A Beppe Grillo Di Pietro si ispirò anche per l’impostazione complessiva del blog www.antoniodipietro.it, inizialmente affidandosi alla stessa azienda che tuttora gestisce il blog di Grillo, la Casaleggio Associati. 12 © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» .

(13) prediligendo i primi e primissimi piani per le riprese solitarie in ufficio o in casa (con libri, mobili, tendaggi di sfondo), e riservando il mezzo busto alle interviste. Nicola “Nichi” Vendola aprì il canale NichiVendola il 7 maggio 2009, in occasione della campagna per le europee del giugno 2009, per cui presentò la lista «Sinistra e Libertà», che riuniva reduci dei Democratici di Sinistra (DS), di Rifondazione Comunista, dei Verdi e dei Socialisti, ma che non riuscì a entrare nel Parlamento Europeo15. Il canale, che oggi conta un centinaio di video, ha accompagnato Vendola anche nella campagna per le elezioni regionali del marzo 2010 (in cui Vendola ha vinto), e si distingue dai quelli di Di Pietro e Brunetta per: (1) una maggiore presenza percentuale di spot e animazioni appositamente creati per YouTube, (2) una maggiore presenza percentuale di allocuzioni dirette del leader, che Vendola chiama «videolettere»; (2) una maggiore professionalità (nel senso specificato nel §3) nel rendere coerente il canale con le scelte fatte su tutti i mezzi con cui il leader comunica all’elettorato, dal sito web alle affissioni in strada, dai materiali cartacei (dépliant, locandine) alle apparizioni televisive. Il caso Vendola è insomma il primo tentativo in Italia – tuttora isolato nonostante alcuni sforzi del Partito Democratico – di progettare e gestire l’immagine coordinata di un leader politico affidandola a professionisti16 che controllino in modo centralizzato tutti i mezzi di comunicazione, sia off‐line che on‐line. Al di fuori di questi tre canali – in qualche modo paragonabili a quello di Barack Obama – le carenze della politica italiana su YouTube sono numerose e gravi. Si pensi per esempio alla totale trascuratezza del mezzo da parte del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che non ha mai aperto un canale personale; si pensi alla finta attenzione che riserva a YouTube lo staff del segretario del Partito Democratico Pier Luigi Bersani, che ha aperto un canale nel dicembre 2007, ma non mai creato né video né spot né animazioni appositamente per questo ambiente: il canale pierluigibersani51 contiene al momento circa 250 video, ma sono tutti stralci di telegiornali, interviste, discorsi al partito, nulla che segua, insomma, le regole di YouTube. Ma anche i politici che decidono di destinare video a YouTube fanno errori clamorosi. Il canale del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (dove per la prima volta il 31 dicembre 2009 è stato caricato il discorso di fine anno del presidente) e quello del Presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini, per esempio, pur contenendo qualche sparuto video specificamente dedicato al mezzo, hanno i commenti disabilitati, cosa che sul web 2.0 è inconcepibile. Inoltre, in riferimento ai tratti linguistico‐semiotici individuati nel §5, i politici italiani che decidono di mettersi davanti a una telecamera per fare un discorso di qualche minuto agli utenti di YouTube, anche se partono con le migliori intenzioni, finiscono per far prevalere: (1) la strategia della distanza indefinita, per cui il leader parla sempre di sé in terza persona e non interpella mai direttamente gli elettori, o perché non li menziona, o perché li menziona a loro volta in terza persona; (2) la strategia della distanza istituzionale, per cui il leader parla in prima persona singolare, o plurale col «noi» esclusivo, e non interpella mai i cittadini o lo fa solo implicitamente usando la terza persona. In tutti i casi, insomma, gli enunciatari‐cittadini‐ elettori o finiscono per essere assenti (il leader fa un monologo su di sé, il suo partito, i suoi avversari, i problemi che cerca di risolvere, e così via) o finiscono per essere tenuti, per così dire, a debita distanza da una raggelante terza persona grammaticale. . 15 Dopo la sconfitta alle europee, a fine 2009 il progetto Sinistra e Libertà confluì nel movimento Sinistra Ecologia Libertà, da cui si dissociarono i Verdi e i Socialisti. 16 L’immagine di Vendola e la sua campagna per le regionali del 2005 e del 2010 sono state curate dall’agenzia di comunicazione Proforma, che ha sede a Bari. È la stessa agenzia che, fra l’altro, ha curato la comunicazione del Partito Democratico (Pd) in diversi momenti dalla sua nascita a fine 2008, inclusa la comunicazione di Pier Luigi Bersani per le primarie del Pd nel 2009. Tuttavia, mentre nel caso di Vendola il lavoro dei professionisti si è efficacemente integrato con la politica, al Pd e a Bersani Proforma non è mai riuscita a dare (finora) un’immagine forte, incisiva, coerente. 13 © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» .

(14) Illustrerò questa tendenza ricostruendo la storia del canale del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Mariastella Gelmini, che considero particolarmente rappresentativa dell’incapacità di molta politica italiana di entrare in contatto con i cittadini, su YouTube come su tutto il web 2.0. Il 3 dicembre 2008 a mezzanotte, lo staff Gelmini caricò il primo video di presentazione del canale. La mossa era ardita, perché i tagli alla scuola e all’università che il ministro stava facendo in quei mesi erano stati (e sono tuttora) pesantemente contestati. Nato in un contesto difficile, il video era tuttavia sorprendentemente adeguato: Mariastella Gelmini era inquadrata con un piano americano, stava in piedi appoggiata a una scrivania in uno studio moderno e luminoso, guardava sempre in camera (Fig. 5), accompagnava le parole con pochi gesti illustratori e si rivolgeva direttamente ai cittadini con la strategia della distanza pedagogica (io‐voi), corretta in chiusura dalla complicità di un noi inclusivo. . Fig. 5. Mariastella Gelmini presenta il canale YouTube. . . Questo è il testo del discorso, che dura 0.28” (meno di uno spot pubblicitario): . Ho deciso [prima persona singolare] di aprire un canale su YouTube perché intendo confrontarmi con voi [seconda persona plurale] sulla scuola e sull’università. Voglio [prima persona singolare] accogliere idee, progetti proposte, anche critiche. Una cosa non farò mai [prima persona singolare]: quella di difendere lo status quo o di arrendermi ai privilegi e agli sprechi. Dobbiamo avere il coraggio di cambiare e lo dobbiamo fare insieme [prima persona plurale: noi inclusivo]. . Nel giro di poche ore, esplosero le visite, le iscrizioni al canale e i commenti: «Quasi 300 gli iscritti poco dopo le 14 [del 4 dicembre], centinaia i commenti postati» (L’Unità, 4 dicembre 2008); «Alle 14 [sempre del 4] erano 15mila le visualizzazioni della pagina (La Repubblica, 4 dicembre 2008); «già 100mila contatti in 30 ore» (Agenzia Stampa Quotidiana Nazionale, 5 dicembre 2008). Piovvero gli insulti: molti, per ammissione di un portavoce dello stesso ministro, vennero cancellati, ma diversi furono lasciati, per testimoniare l’intenzione di dialogo e apertura che il canale voleva esprimere. Dopo qualche ora apparve accanto al video anche una scritta, seguita da una lista di FAQ (Frequently Asked Questions], che però vennero ritirate dopo qualche giorno e non sono più reperibili: «Raccoglierò le videodomande fino a mercoledì e poi giovedì risponderò. Intanto inizio a rispondere alle domande più frequenti nei commenti inviati finora, e proverò a farlo ogni giorno». Era fondamentale, a quel punto, mantenere le promesse per rispettare l’attenzione allo «You» che era stata annunciata e fino a quel momento ben orchestrata. © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» . 14 .

(15) E così sabato 13 dicembre 2008, con qualche giorno di ritardo rispetto alle promesse, apparve il secondo video. Perdonabile il lieve ritardo (sabato e non giovedì), meno perdonabile che Gelmini non avesse messo in quel video le risposte che aveva promesso. Per soddisfare le aspettative, dal mio punto di vista Gelmini avrebbe dovuto: (1) rivolgersi direttamente ai cittadini e alle cittadine: agli insegnanti, ai genitori, agli studenti («Ho deciso di aprire un canale su YouTube perché intendo confrontarmi con voi sulla scuola e sull’università», aveva detto nel primo video); (2) chiarire i punti più controversi e contestati della sua riforma (o comunque quelli su cui il ministero voleva essere più fermo), costruendo ogni affermazione e argomentazione come se fossero risposta a domande frequenti da parte degli utenti di YouTube; (3) organizzare le risposte in blocchetti tematici (data la complessità delle riforme e dei problemi sollevati), realizzare diversi video, uno per ogni blocchetto tematico, e caricarli su YouTube in momenti successivi ma ravvicinati, o nello stesso momento. Invece questo è il testo del secondo video, della durata di 3’15”: Vorrei [prima persona singolare] innanzi tutto ringraziare coloro [terza persona plurale] che mi hanno fatto pervenire proposte, video di risposta, insomma moltissimi messaggi su come migliorare la scuola e l’università. Credo [prima persona singolare] davvero che YouTube rappresenti un canale per un confronto costante e costruttivo sul mondo della scuola e dell’università stessa. Ma vorrei tornare [prima persona singolare] sul fatto del giorno: oggi i giornali [terza persona plurale] parlano di una presunta marcia indietro del governo sul tema del maestro unico e del tempo pieno. Vorrei [prima persona singolare] rassicurare tutti [terza persona plurale] sul fatto che il maestro unico rappresenta il modello educativo per la scuola elementare, è stato introdotto da un decreto che è oramai legge dello stato e quindi il governo non ha nessuna intenzione di cambiare idea. Noi [prima persona plurale: noi esclusivo] difendiamo la scelta pedagogica di consentire alle famiglie [terza persona plurale] di avere nelle scuole elementari per i propri figli un punto di riferimento, una guida nel maestro cosiddetto unico e, come sempre sostenuto dal presidente Berlusconi, questo modello educativo è perfettamente compatibile con il tempo pieno. Per sei mesi abbiamo assistito [prima persona plurale: noi inclusivo] alle polemiche della sinistra che gridava alla chiusura del tempo pieno, al fatto che dovrebbero essere le famiglie a pagarlo. In realtà nulla è cambiato [terza persona singolare: enunciato di fatto]. Grazie a un miglior impiego delle risorse siamo in grado [prima persona plurale: noi esclusivo] di aumentare il numero delle classi a tempo pieno. Quindi mi fa piacere [prima persona singolare] che al tavolo coi sindacati sia pervenuta ieri un’apertura, una disponibilità al confronto che il governo assolutamente incoraggia, ma non è il frutto di un cambio di prospettiva o di un ripensamento. Da quando mi sono insediata credo [prima persona singolare] nel dialogo e nella necessità di cambiare insieme la scuola, ma certo il prezzo del dialogo non può essere lo stop alle riforme [terza persona singolare: enunciato di fatto]. Mi auguro [prima persona singolare] che ci possa essere un clima favorevole ad affrontare i molti problemi che la scuola ha e i molti cambiamenti che dobbiamo attuare [prima persona plurale: noi esclusivo]. Penso [prima persona singolare] a una riforma del reclutamento degli insegnanti, a cui dobbiamo finalmente un avanzamento nella carriera per merito e non solo legato all’anzianità; penso [prima persona singolare] alla necessità di rivedere la governance per affermare l’autonomia: il nostro sistema organizzativo oggi è fortemente centralistico e per nulla improntato a una maggiore autonomia, a una maggiore capacità decisionale delle scuole. Insomma c’è moltissimo da fare [terza persona singolare: enunciato di fatto]. Credo [prima persona singolare] che il metodo, l’approccio, debba essere non ideologico ma pragmatico e quindi frutto della volontà di cambiare la scuola e di trovare soluzioni ai problemi che abbiamo davanti. Questo governo è stato eletto per cambiare, per intraprendere le vie delle riforme [terza persona singolare: enunciato di fatto] e io non voglio sottrarmi [prima persona singolare] a questo impegno nel quale credo profondamente. . © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» . 15 .

(16) Vediamo le tappe principali di questo discorso, dal punto di vista della costruzione del rapporto fra l’enunciatore Gelmini e l’enunciatario composto dai cittadini‐utenti di YouTube. (1) All’inizio il ministro ringrazia chi le ha scritto, ma lo fa mettendo fra sé e il pubblico una distanza istituzionale, cioè menzionando gli enunciatari‐cittadini in terza persona, senza rivolgersi a loro direttamente: «Vorrei innanzi tutto ringraziare coloro che mi hanno fatto pervenire proposte, video di risposta, insomma moltissimi messaggi su come migliorare la scuola e l’università». (2) Poi esalta YouTube, confermando le migliori aspettative su quanto sta per fare con questo mezzo per favorire il contatto diretto fra la politica e i cittadini: «Credo davvero che YouTube rappresenti un canale per un confronto costante e costruttivo sul mondo della scuola e dell’università stessa». (3) Detto questo, arriva però la prima delusione: Mariastella Gelmini non si rivolge ai cittadini ma indirettamente ai giornalisti della carta stampata («i giornali»), usando la terza persona: «Ma vorrei tornare sul fatto del giorno: oggi i giornali [terza persona plurale] parlano di una presunta marcia indietro del governo sul tema del maestro unico e del tempo pieno. Vorrei rassicurare tutti [i giornalisti e i cittadini, ancora una volta chiamati in causa con la terza persona] sul fatto che il maestro unico rappresenta il modello educativo per la scuola elementare [...] e il governo non ha nessuna intenzione di cambiare idea». (4) Per quanto riguarda, poi, uno degli interrogativi che venivano più spesso sollevati in quei giorni – come si concilia il maestro unico con il tempo pieno? – ecco che arriva una seconda delusione, perché il ministro Gelmini non spiega nulla, ma si appella al principio di autorità: «come sempre sostenuto dal presidente Berlusconi, questo modello educativo [il maestro unico] è perfettamente compatibile con il tempo pieno». (5) Dopo aver detto, in pratica, che bisogna fidarsi di lei perché lo dice il presidente Berlusconi, arriva la terza delusione: ancora una volta il ministro trascura i cittadini (pur tentando di coinvolgerli con un «noi» inclusivo), si rivolge indirettamente «alla sinistra» e non spiega nulla, ma enuncia come fosse un dato di fatto la bontà del provvedimento sul maestro unico: «Per sei mesi abbiamo assistito [prima persona plurale: noi inclusivo] alle polemiche della sinistra che gridava alla chiusura del tempo pieno, al fatto che dovrebbero essere le famiglie a pagarlo; in realtà nulla è cambiato [terza persona singolare: enunciato di fatto, che cioè esprime un fatto obiettivo]: grazie a un migliore impiego delle risorse siamo in grado [prima persona plurale: noi esclusivo] di aumentare il numero delle classi a tempo pieno». (6) Dopo la stoccata alla sinistra, Gelmini si rivolge in terza persona, e dunque indirettamente, anche al sindacato: «Quindi mi fa piacere che al tavolo coi sindacati sia pervenuta ieri un’apertura, una disponibilità al confronto che il governo assolutamente incoraggia». (7) Infine, dopo aver ribadito ancora una volta di credere nel dialogo («da quando mi sono insediata credo nel dialogo, nella necessità di cambiare insieme la scuola»), il ministro si smentisce subito propinando un monologo (in cui la prima persona singolare si conta ben sette volte) su alcuni punti del suo programma, ancora una volta non chiariti, fra cui «una riforma del sistema di reclutamento degli insegnanti, a cui dobbiamo un avanzamento di carriera per merito e non per anzianità» e una revisione del «sistema della governance per affermare una reale autonomia». Oggi, a un anno e sette mesi dalla presentazione del canale, i video sono soltanto 9 e hanno contenuti quasi casuali: c’è il video con cui, nel gennaio 2009, Gelmini elencò le materie scelte dal ministero per la seconda prova della maturità; c’è il video equivalente del gennaio 2010; c’è un video in cui Gelmini parla in 30” delle cartelle pesanti sulle spalle degli scolari; ci sono brani di servizi giornalistici sui temi più disparati, mai però su quelli più vicini ai problemi concreti della scuola, dell’università e della ricerca, gli unici che potrebbero interessare davvero i cittadini. L’impressione, in questo come in molti altri casi, è che © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» . 16 .

(17) l’apertura del canale YouTube sia stata decisa con un minimo di impegno iniziale ma senza obiettivi precisi, e soprattutto senza inquadrare il mezzo in una strategia di comunicazione complessiva e coerente. Come per dire «Ci sono anch’io», e basta. L’impressione, ancor più grave, è che l’incapacità di mettere al centro dell’attenzione lo «You» rispecchi una più generale incapacità della politica italiana di entrare in contatto con i cittadini. Non solo su YouTube o sul web 2.0. Ma sempre. Bibliografia COSENZA G. (a cura di) (2003), Semiotica dei nuovi media, numero monografico di “Versus”, 94/95/96, gennaio‐dicembre 2003. ID. (2006), La lingua del futuro, “Aspenia”, 2006, 33, pp. 277‐279. ID. (2007), Movimenti, reti, partecipazione: un’altra comunicazione è possibile? in G. Cosenza (a cura di), Semiotica della comunicazione politica, Carocci, Roma, pp. 37‐71. ID. (2008), Semiotica dei nuovi media, Laterza, Roma‐Bari. FISHER S., VERON E. (1986), Théorie de l’énonciation et discours sociaux, “Études des lettres. Révue de la Faculté de l’Université de Lausanne”, ottobre‐dicembre, 4, pp. 71‐92. (trad. it. in A. Semprini (a cura di), Lo sguardo semiotico, Angeli, Milano, pp. 143‐67). LEVINE R., LOCKE Ch., SEARLS D., WEINBERGER D. (2009), The Cluetrain Manifesto. 10th Anniversary Edition, Perseus Book, New York. MARMO C. (2003), L’instabile costruzione enunciativa dell’identità aziendale in rete, in Cosenza (a cura di), Semiotica dei nuovi media, numero monografico di “Versus”, 94‐95‐96, gennaio‐ dicembre, 2003, pp. 135‐47. MARGETTS H. (2010), The Internet in Political Science, in C. Hay (ed.), New Directions in Political Science, Palgrave Macmillan, London, pp. 64‐87. MEYROWITZ J. (1985), No Sense of Place. The Impact of Electronic Media on Social Behavior, Oxford University Press, Oxford‐New York (trad. it. Oltre il senso del luogo. Come i media elettronici influenzano il comportamento sociale, Baskerville, Bologna, 1995). Russo M., Zambardino V. (2010), Eretici digitali, Apogeo, Milano. VAN DIJK J. (1999), The Network Society. An Introduction to the Social Aspects of New Media, Sage, London (trad. it. Sociologia dei nuovi media, Il Mulino, Bologna, 2002). VERON E. (1984), Quand lire, c’est faire: l’énonciation dans le discours de la presse écrite, Sémiotique II, Irep, Paris, pp. 33‐56. VOLLI U. (2003), Le spazialità di Internet, in R. Antonucci e O. Pedemonte (a cura di), Il Tao del Web, Il Melangolo, Genova. . © Giovanna Cosenza 2010 «La comunicazione politica sul web 2.0» . 17 .

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