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L’arte di Mario Graziano Parri fra prosa e poesia, in AA.VV., «Come lungo la traccia d’una stella». Per Mario Graziano Parri, a cura degli amici, Torino, Aragno,2020, pp. 3-19.

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«Come lungo

la traccia d’una stella»

Per Mario Graziano Parri

Nino Aragno Editore

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© 2020 Nino Aragno Editore

sede

via Corte d’Appello, 14 - 10122 Torino

ufficio stampa

tel. 02.72094703 - 02.48561549

e-mail: info@ninoaragnoeditore.it sito internet: www.ninoaragnoeditore.it

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INDICE

Premessa vii

I. Sulla poesia e la narrativa. Per un ritratto Alessandro Fo, L’arte di Mario Graziano Parri

fra prosa e poesia 3

Sonia Gentili, Il gioco e il libro. Sulla poesia

di Graziano Parri 21

Giovanna Ioli, La poesia di Mario Graziano Parri.

Illazioni intorno alle epigrafi 31

Giovanni Parrini, Di sobrietà e di passione.

La poetica di Mario Graziano Parri 43

Monica Venturini, A Graziano. Appunti

per un ritratto 51

II. Le opere. Recensioni e presentazioni

Susanna Bellizzi, Su «La notte precedente il nostro

futuro» 61

Maurizio Cucchi, Su «Stella di guardia» 63 Antonio Imbò, «Magenta Petrel». Sulle tracce

della vita 65

Saverio Orlando e Giancarlo Quiriconi,

«La notte precedente il nostro futuro» 73

III. Letteratura e dintorni

Franco Contorbia e Anna Nozzoli, Roger Lannes

incontra Montale (28 maggio 1949) 87

Francesca Dini, Armando Spadini. Conferenza 99 Marino Biondi, Carlo Bo. Lezione di Urbino 115

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vi indice

Sandro Melani, Lo strano caso di una garbata

signora inglese 127

Ernestina Pellegrini, Scene di guerra e di

Resistenza nelle pagine di un antropologo scrittore 137 IV. Racconti

Stefano Carrai, Un trasporto inconsueto 153 Donatella Contini, Di lontano 167 Costanza Geddes da Filicaia, Il ricordo

di un’estate sulle tracce di George Mackay Brown 173 Giorgio Weber, Una storia come da un altro

mondo 183

V. Ricordi, testimonianze, dediche

Maurizio Cucchi, Caro Graziano 187 Elena Gurrieri, Un ricordo 189 Michele Miniello, Storia di un incontro 191 Daniel Vogelmann, Qualcosa su di lui 195

Opere di Mario Graziano Parri 197

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Alessandro Fo

L’arte di Mario Graziano Parri fra prosa e poe sia

Carissimo Mario Graziano,

invitato a questa ‘festa a sorpresa’ per uno degli amici che ho più a cuore, ho pensato di offrirti un minimo omaggio di parole su quelle che, a oggi, sono le tue due ultime opere creative pubbli-cate. Ripropongo così una lettura del tuo La cena è alle otto (Aragno 2013), cui affianco una rosa di osservazioni su Di

gloria e di polvere (Interlinea 2008). Procedo in ordine

crono-logico inverso, perché ho il sospetto che, nella tua scala di valori, la poe sia la vinca – anche se al fotofinish – sulla prosa, e così tento di lavorare in regime di crescendo. Augurandoti nuove e sempre più felici stagioni su tutti i fronti, non posso dimentica-re di evocadimentica-re la tua impdimentica-resa che più ci ha uniti, quel mirabile «Caffè Michelangiolo» in cui generosamente hai investito tante fatiche, e che tutti noi auspichiamo di vedere presto rifiorire sotto la tua impareggiabile guida. Un brindisi, tuo Alessandro

I. Appuntamento a ora solita: l’insolito romanzo

La cena è alle otto

Alle otto, come sempre. E non un minuto di più. È quello il polo invariabile su cui riposa la fissazione di puntualità («ci potevi rimettere l’ora […] alle otto era-no alla porta» La cena è alle otto, Aragera-no, Toriera-no 2013, p. 7), inalberata da due specifici personaggi di un certo

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4 «come lungo la traccia d’una stella»

salotto di intellettuali («e per otto era l’apparecchiatu-ra», p. 301). Intellettuali invero più o meno oziosi e me-schini, anche se, per rubare una frase a Quinto Aurelio Simmaco (Epistulae I 52), si sentono con evidenza la pars

melior humani generis. Come in una sorta di Decameron,

le ragnatele di pettegolezzi, flirt e eleganti malevolenze che li collegano, còlte nel primo e nell’ultimo racconto, fanno da cornice alle altre tredici divagazioni narrative, per un totale di quindici ‘pezzi complessi’. Qui non so-no i protagonisti della cornice a narrare. Ma in qualche modo essi sono – come anche noi siamo – tutti coinvolti dai raccordi che allargano l’obiettivo in una sorta di ro-manzo a quadri, orientato sul genere linked short stories alla Sherwood Anderson o alla Alice Munro di Chi ti credi

di essere.

Avviene che di qualche figura – come il giornalista Daniel Lerner (somigliante «a un giovane Mahler», pp. 172, 196) – si senta discorrere più volte. Ma si tratta più che altro di un divertimento ‘laterale’ dell’autore, che ogni tanto intreccia un filo rosso a un disegno più vasto, inteso a cogliere per frammenti, nella sua parados-sale compattezza – e perfino a volte nella sua ripetitivi-tà –, l’immensa varieripetitivi-tà della vita.

Abbiamo dunque di fronte quindici racconti. Come in un buon Decameron di oggi (nonché come, ben prima, nella varietà della vita) sono frequenti, e anzi in posizio-ne di spicco, i motivi erotici.

Per esempio, in due storie contigue, al centro dell’ar-chitettura, il sorriso sornione dell’autore chiama a dif-ferenti avventurose fioriture una medesima situazione: qualcuno salva all’ultimo momento una donna, aiutan-dola a scivolare fuori dalla sua auto, prima che questa, uscita di strada, rotoli in una scarpata.

Oppure, una «Bellissima» (eponima del suo ‘riqua-dro’), trova infine l’uomo giusto, quello che riesce a non assillarla con eccessivi e troppo banalmente ovvi riferimenti al suo aspetto esteriore, e a congiungersi con lei in un modo nuovo, insolitamente attento e

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«come lungo la traccia d’una stella» 5

no. Solo con molto ritardo l’avvenente creatura si ac-corge che in realtà il proprio amante è cieco, sebbene prestigiosamente abile nell’orientarsi in quel mondo che prima dell’incidente aveva saputo studiare con fi-nezza (non sarà tuttavia tanto abile da sapersi sottrarre al colpo di forbici con cui lo uccide la figlioletta della protagonista).

Molte sono le intenzionali asprezze di questo calei-doscopio di pulsioni, incandescenze, efferatezze, giochi, con perno saldamente insediato nella libido. E, anche fuori dal dominio più specificamente carnale, altri colori ‘umani’ colpiscono con tratto penetrante: così l’istanza di sbarazzarsi di una scomoda anziana (Compleanno in

fa-miglia), la superficialità insensibile che, anche in

questio-ni delicate come i rapporti fra individui-mondi, si affida alla scontata burocrazia degli affetti (In viaggio con

mam-ma), o la determinazione oltranzista con cui una giovane

sacrifica ogni altra possibile area della sua esistenza al fanatico imperativo di adempiere al rivoluzionario com-pito politico che si è data (Sono qui che vivo).

Mario Graziano Parri orchestra la sua sinfonia di spac-cati senza quasi lasciar avvertire la propria attentissima presenza di autore lungo queste linee di vita, presentate come attinte ‘a caso’ nell’inesauribile serbatoio di storie, e di vie dell’anima, offerte dal tesoro dei giorni. Una disincantata scorrevolezza, frutto di rigorosa disciplina, governa le concatenazioni di eventi. Ma, mentre la trama fluisce gemmando le situazioni ‘degne di racconto’ in cristalli tanto limpidi quanto taglienti, a quella del narra-tore si sovrappone la mano del poe ta, capace di svelare, con una breve ed efficace combinazione di parole, una posa segreta e affascinante delle cose di sempre. Qual-che esempio:

La madre preferiva non alterare la confidenza rassicurante dell’ambiente e di quelle minute cose disposte là in un cer-to modo e in una certa luce (p. 60).

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6 «come lungo la traccia d’una stella»

Era piovuto verso l’alba. Gocce isolate rimbalzavano tutto-ra sul davanzale, cadevano dalla gronda malconcia. […] Si avvicinò. A terra c’erano mutandine, gonne, camicette, tre scarpe. Raccolte e poi buttate lì quando erano rientrate (p. 99).

Chiuse la parentesi, e poi anche il taccuino (p. 124). Il cappello di paglia largo e spiovente era tenuto da un lento nodo di nastri che svolazzavano alla periferia del suo sguardo (p. 131).

La inaccessibilità della sua tana lo estraniava dal mondo e poteva così coltivare la noia, in modo da poterla fuggire con la scrittura (p. 136).

Andava avanti imperterrita, gli occhi miopi addosso al foglio. Ogni evento, ogni fatto cosmico avevano in lei il supremo giudice. Che si ergeva al di sopra delle rovine umane e dei segni divini, impermeabile all’indignazione morale così come a ogni altra emozione (mamma legge il

giornale: p. 169).

Invece c’erano voluti anni perché Anna Paola riuscisse con fatica a retrocedere Daniel in quello che lei definiva il

pro-prio inconcludente passato (p. 172).

Quella incertezza, lo sgomento di un attimo. Quell’attimo. Era bastato perché lei chinasse il capo sui doveri di fami-glia. E subito l’attimo se n’era andato (p. 177).

E la giovane signora era fatta della materia che tiene fre-schi i sogni degli uomini sposati, avrebbe osservato con buone probabilità un poe ta appassionato citando Shake-speare (p. 212; cfr. 145).

Fuori, ai gradini d’approdo sulla facciata di pietra calcarea che il tempo stava sfarinando, attraccata alla sua bricola la gondola era invece una meraviglia di efficienza. […] A prora il pettine con i suoi sei denti riluceva in tutta la sua araldica flemma (p. 222).

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«come lungo la traccia d’una stella» 7 E gli occhi, quel viola chiaro che tende al lilla. Le piccole incantevoli parentesi tonde che si delineavano agli angoli della bocca nel venirmi incontro ridendo mi consolavano dell’attesa (di Clarice, p. 223).

no, nonna non era incline ai cedimenti del sentimento. […] E finalmente… ecco, un sorriso. Sì, mi parve di scor-gerlo. Gelido e azzurro, in quel suo volto. La pelle era una pergamena tirata su zigomi e fronte, e il naso ancora di più accentuava quel suo fiero profilo di rapace. Toccai la fronte, le guance. I suoi lineamenti mi parvero più del so-lito intagliati direttamente nell’essenza stessa della sfida. […] Forse quel sorriso che io ora vedevo altro non era che uno spasmo estremo dei muscoli. Tuttavia su quelle labbra serrate appariva come il segno ultimo e rassicurante di un arresto discreto e silenzioso della vita (pp. 257-58).

Sui gradini del marmo del molo c’è Clarice, e c’è anche la sua mamma. […] Le bocche sono serrate, non ne esce nemmeno la condensa argentea dei fiati. Come se i loro re-spiri fossero rimasti indietro. Sono vestite quasi allo stesso modo, due figurine blu delicatamente intagliate nella fred-da luce che sa di alghe marine» (p. 273; cfr. pp. 292-293). Ogni notte nella nostra camera Clarice e io ci addormen-tiamo al placido tic-tac della pendola, e quel rassicurante rintocco ci porta lontano. In alto e insieme, sopra il cuore addormentato della terra (Tutti gli orologi fermi, p. 295). Elena aveva preso a girellare per il salotto, il tacco delle décolleté con il sottile listino alla caviglia picchiettava dub-bioso il parquet (p. 301).

A minimi bocconi, si portava piccoli pezzetti alla bocca. Zucchina. Patata. Melanzana. Peperone. Un gesto come rallentato, quasi istintivamente ritraendosi dal cibo. La schiena nuda appoggiata con rigida forza alla spalliera (p. 315).

Prima che la fuga di vicende e assetti umani torni al salotto da cui si era partiti, il libro prende

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8 «come lungo la traccia d’una stella»

mente una strada inattesa: quella della storia personale. Terzultimo e penultimo capitolo trattano – senza darlo a vedere, se non per quel poco che basti a innescare una partecipe complicità – del narratore medesimo. Cento

gondole scure scivolano scivola indietro, ad anni di

adole-scenza, trascorsi all’ombra di una nonna aristocratica e volitiva, gran dama d’altri tempi, generosa, alta a difen-dere e perpetuare stili di vita di una autentica nobiltà, anche nel pieno della guerra, trattando con le truppe di occupazione tedesca da pari a pari, senza nulla teme-re, «in una lingua che era un groviglio di consonanti» (p. 229). «Legare gli uni agli altri. In modo che tutti in-sieme si diventi una realtà più grande e la storia non continui a essere fatta sul banco del macellaio. Così lei diceva» (p. 263).

E il fascino di Venezia si riverbera su queste pagine delicate, controcanto morbidissimamente proustiano al-le diverse trame intrecciate in precedenza. Pagine lungo le quali «il narratore» incontra la sua Albertine (che si chiama Clarice), attualmente ancora ignara, come il gio-vane che la rievocherà, del tragico futuro che la attende poco più avanti. Pagine ora della vita vera, naturalmente, affidate solo per frammento, e con un sommesso alter-narsi di focalizzazioni, al breve penultimo capitolo, an-golo di memoria dei giorni terminali di colei il cui nome vero si inscrive e nasconde in quello di Clarice: Carla. Gesto estremo d’amore, che porta il narratore a identifi-carsi nella moglie ormai scomparsa, a vedere quei «tubi dappertutto» dalla parte dei suoi occhi, a avvertire con lei, nuda sotto il telo, il formicolio alle braccia, il grande freddo, la consapevolezza, perfino, che solo lui, l’altro, di là dagli schermi della Terapia Intensiva, saprà perce-pire quel freddo, e segnalarlo ai frenetici attendenti di professione («Questa è la nostra linea avanzata, dice [il professor Marino]. A ridosso dei reticolati, e al di là c’è la terra di nessuno. Ce la mettono tutta per riportarne da questa parte quanti più ne possono», p. 289). «Perché nessun altro al mondo sa quello che io e lui sappiamo di

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«come lungo la traccia d’una stella» 9

noi. Con il cuore, con il corpo. Ecco, Gabriele se ne sta

andando. Si volta, mi fa quel segno che c’è fra noi. Il se-gno per cui in qualsiasi frangente ci si possa riconoscere.

Io e lui…» (p. 291).

Non si possono scordare, sullo sfondo, i versi di La

mietitrice d’oro, già in Stella di guardia e ora nella ricca

an-tologia d’autore Di gloria e di polvere, Poesie 1957-2007, cui ci stiamo per dedicare (li cito alla fine del § 2).

Et remeavimus ad strepitum oris nostri (Agostino, Confes-siones IX 10, 24).

Cornice della nostra vita, delle sue gioie così come delle sue pene più riposte e più care, è il chiacchiericcio della ‘parte migliore del genere umano’.

Quel brusio in cui di me si spendea la miglior parte. Quello in cui ci rifugiamo, schermandoci dentro un reticolo di incontri, che è poi anche ineluttabilmente ragnatela di pettegolezzi, flirt e eleganti malevolenze.

Puntualmente. Alle otto.

II. Pulvis et gloria sumus: uno sguardo a cinquant’anni di poesie.

Fra i molti settori dell’impegno letterario in cui Mario Graziano Parri ha profuso le sue energie spicca per al-tezza e valore quello della produzione poetica. Delle sue non poche liriche distese su cinquant’anni di scrittura, lo stesso Parri ha preparato la preziosa antologia d’au-tore Di gloria e di polvere, Poesie 1957-2007, pubblicata a Novara da Interlinea alla fine del 2008, che desidero ora ripercorrere (i numeri di pagina rinvieranno sempre a questa edizione).

Già solo al portare una prima occhiata su queste cen-tocinquanta pagine di versi, si scorge un tratto che mette in risalto il retroterra di amplissima cultura da cui esse germogliano: ovvero la profusione di citazioni in forma di

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10 «come lungo la traccia d’una stella»

epigrafi apposte a intere raccolte, o a loro sezioni, o a sin-gole poesie. Non si tratta, naturalmente, di un elemento esteriore, prescelto per ragioni di eleganza, ma di qual-cosa che risulta sempre intimamente organico al tessuto espressivo, sia che ci si trovi in presenza di richiami posti

in limine a un’ampia sezione – come nel caso dei sette

re-cuperi in esergo all’intera antologia –, sia che uno o due ‘motti’ svettino a capo di questa o quella poe sia.

Da un lato, tramite questo artificio, la nuova elabora-zione viene a interagire con un segmento della tradizio-ne e a collocarglisi accanto (un caso specifico compare nell’occhiello relativo alla raccolta Codice occidentale del 1983, dove incontriamo un’epigrafe da altro componi-mento dello stesso Parri, con cui l’autore va a riallacciarsi a un proprio precedente discorso, cfr. p. 77). Da un altro lato, con simili – per così dire – primizie del successivo sviluppo, il tessuto lirico innesca un profondo dialogo, che spesso si traduce in puntuali riverberi verbali. Lo si constata già in uno dei primi testi qui presentati, Infinito (p. 13): all’epigrafe da Dino Campana, «voi che rompete le onde della sera / colla punta del piede», fanno su-bito riscontro «onde» e «risacca» nel testo. Immediate, eloquenti conferme ci giungono subito dopo da quanto accade in Anima (p. 17) fra la imagerie bellica che la con-nota (ci torneremo fra poco) e la ‘bandiera’ tratta da Matthew Arnold che in alto a destra garrisce: «noi stiamo qui su questa piana oscura, / straziati da confusi allarmi di battaglie e ritirate / dove eserciti ignari si scontrano di notte». Ricorderò ancora solo il caso di Identità (p. 62, con esergo da Alexandr Blok), che una volta di più met-te in piena evidenza come quesmet-te epigrafi a specchio del tema principale si innalzino a raffinata trama poetica parallela.

Il significativo ruolo di questa sorta di piccoli para-testi si estende a un altro tipo di indicazione che ricor-re con appricor-rezzabile fricor-requenza, ovvero la datazione del brano, collocata usualmente a corpo minore in basso a sinistra. Se per esempio torniamo all’importante poe sia

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«come lungo la traccia d’una stella» 11

Anima (p. 17), constatiamo che è scritta a Canne della

Battaglia, e ne porta il segno nelle immagini, e nel les-sico che le schiera in campo (cfr. la parziale citazione più oltre). Vi si ritrae la stanchezza di chi ha speso molto tempo nel tentativo di realizzarsi (cfr. Autoritratto, p. 16), partecipando al conflitto della competizione quotidiana. Tutti «combattono» accanitamente, ma anche i vincito-ri/vincenti prima o poi dovranno perire. E allora ecco le raffiche di vanitas vanitatum che investono l’anima «per-plessa» di fronte al «duello» della vita, condotto senza «viltà» – ma con quel disincanto che alla fine porta al lasciarsi «trafiggere» (un’analoga disillusione fa rimpian-gere l’inconsapevole, innocente ingenuità di una volta in

Proposta, p. 26; e in Sulle serali rive, p. 30). Analogamente, Uomo è composta a Sasso di Stria e si chiude (p. 48) sul

«breve / rotolare della vita / come un sasso / che cade per un pendio / verso altri sassi / e tace». E il poemetto

Aspasia (pp. 69-71) nasce a Recanati.

Naturalmente, su un arco così ampio di produzione, anche nell’ambito di una selezione come Di gloria e di

pol-vere si riescono a individuare alcune differenze di tocco

fra le poesie più antiche e quelle più recenti. Per esem-pio, in una prima maniera si registra talora una tecnica, poi venuta meno, di iterazione di vocaboli, tesa a imporli alla fantasia con una successione di fotogrammi-ritratto, utili a conferire rilievo a determinati ‘oggetti’ e alle lo-ro eventuali derive simboliche (cavalli in Animal spirits, 1970; muri in Ritratto di città, 1976; cfr. anche il «silenzio» nella poe sia eponima, del 1963). E soprattutto nei testi più lontani nel tempo si avverte un’inclinazione a fastosi rigogli di immagini preziose (Notturno, Proposta, Duello,

Il lapsus della vita, Aspasia, I giorni mancati). Un efficace

esempio da Sulle serali rive, del 1969 (p. 29):

[…] e per strada

non c’è che l’incerto lume che pendola sulla fune del vento

che a stento buca il mantello serale.

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12 «come lungo la traccia d’una stella»

Ma, lungo tutta la produzione, i risultati più alti na-scono dal semplice cogliere immagini vere di vita. Ecco una breve collezione di frammenti a mio giudizio special-mente suggestivi: «il rincorrersi fra margherite dipinte nell’erba da mano divina» (Canzone, p. 31); «candidi faz-zoletti d’addio spiegheranno le nubi» (Partenza, p. 34); «[…] una ragazza / siede sulla panchina, i gomiti sulle ginocchia / nude / e il viso fra le mani / immobile / gli occhi fissi a una presenza invisibile / di vuoto» (Silenzio, p. 43); «e io ripenserò a te silenziosa / e come assente / quando ti tenevi stretta al mio braccio / sotto la volta degli ombrelli / e avevi paura» (Intimità, p. 45); «Aprile così crudele […] / nella corrente / tremula dell’Arno dove scivola una voga a due / e nelle ripe gialle di gi-nestre / e nelle cuffie alate di monache che guidano / monelli luminosi con occhi d’oro?» (Aprile, p. 47); «spor-ge le labbra sulla fiamma / la signora del convito / si mutano / le candele curiose in cieco fumo» (Aforisma

mobile, p. 59). E ancora l’incipit della poe sia senza titolo

di p. 86: «Novembre degli olivi / il piombo delle foglie dietro la vetrina / rintocca nell’ora viola del crepusco-lo»; «e lungo il selciato / con la punta della scarpa abbia-mo / dato un colpetto al cartoccio / di giornale come a un appallottolato universo dopo / l’affrettata lettura» (L’inquietudine verticale del girasole, p. 143); «il silenzio ha curvato la palpebra / sull’oro dei giorni e le stelle spar-gono / la loro bianca malinconia» (La festa ha spento le

lampade, p. 150). E infine la splendida similitudine di Sia fatta l’ombra (p. 155):

le dita di giglio marino hai ritirato come si sfilano le ombre dei voli dai vergini prati.

Fra i temi che più frequentemente affiorano in que-sto corpus figura quello delle pungenti memorie del per-sonale passato, come in Il tuo non-amore (pp. 60-61):

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«come lungo la traccia d’una stella» 13 Non so se di quei giorni in te

riaffiori la trama

confusi in un oro consunto …gli estremi luminari che filtravano le imposte nell’obliquo del tramonto.

Un posto particolare vi occupano luoghi prediletti, come la Foce d’Ombrone, legata al ricordo della defun-ta moglie Carla, o la Venezia dell’adolescenza (un uni-verso che l’autore ha in comune con Iosif Brodskij, cui è dedicata Esilio veneziano, pp. 73-74).

Un altro il motivo di rilevante importanza è quello dell’identità personale e della riuscita esistenziale

(Auto-ritratto, p. 16 e Anima, p. 17; ma anche Di me, pp. 19-20).

Su tutti svetta, però, il tema della precarietà in cui ci muo-viamo, della caleidoscopica natura transeunte del tutto, cui si raccorda anche il motivo degli imperscrutabili de-stini (penso al ricordo dello scheletro dei due amanti giustiziati, che si ripropone a distanza di secoli in un rita-glio di giornale abbandonato da qualcuno in una stanza d’albergo: Domani, p. 21). Puntano l’«inadeguatezza del-la vita» (p. 91) varie poesie prive di titolo deldel-la raccolta del 1983 Codice occidentale: «deve pur esserci una storia parallela / altrimenti convincente questa / solo ne è la cifra stipata di sospesi», (p. 81); «il mio istante preda del tempo / e il tuo / senza scopo», (p. 89); «matassa di ra-gionamenti il cui bandolo è introvabile / la strada si riav-volge sul frivolo cammino / dopo che i giorni sono tutti passati / puntualmente ogni sera», (p. 94). Ma si veda anche la già ricordata Anima del 1974 (p. 17):

una dopo l’altra passano le stagioni

con la violenza d’una condanna chissà dove decisa e alla fine ti lasci trafiggere

senza più resistere

sulla riva dove cieche folle senza tregua si combattono fino a essere nulla.

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14 «come lungo la traccia d’una stella»

In Messaggi (1976) questa inquietudine cerca un ag-gancio in quanto deve ancora accadere (pp. 24-25):

non lasciamoci intimorire importante è sentire

il lontano possibile richiamo del futuro e immaginare di tuffarci nell’ignoto questo

soltanto questo è l’essere vivi vivi e nient’altro

prima che tutto nel fuoco si dissolva.

Il tema si fa rilevato in Stella di guardia, la raccolta del 2001 in cui, come poi nel ricordato breve e commo-vente ultimo paragrafo del romanzo La cena è alle otto (pp. 277-296), Parri ripercorre i giorni della malattia e della scomparsa della moglie Carla. Non si possono scor-dare i versi dell’incipit di Poesia Terza (p. 133, con quello splendido «ageminavano»):

Dove sono? mi hai chiesto

un’altra volta. I capelli venivano via a ciocche per l’epirubicina, in un oro

di zecca ageminavano

l’acquamarina della federa. Ma i tuoi occhi erano tuttora ridenti. I genitori, papà nel ’90 e mamma andata due anni più tardi. Sono di là, ti ho risposto. Sì, mi hai detto. Sono

sempre stati di là. Ad aspettarmi, hai soggiunto. Gli sono mancata.

E, fra le quinte ora di paesaggi vissuti insieme a Carla (Poesia quarta: una sorta di La bufera privata), ora di un penoso sbriciolarsi della vita nella malattia (i perduti ca-pelli che abbiamo appena incontrato nella Poesia terza), si tende un pontile non già «di fradice assi» (p. 134), ma di insondabili tenerezze, verso quel «di là» in cui i cari

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«come lungo la traccia d’una stella» 15

ci attendono e in cui «adesso» – dice Carla spegnendo-si – «sarai tu / a mancarmi» (p. 133).

Ora «l’allodola / calpesta il filo di luce che / senza un gemito si ritira. S’allontana dove / un uomo non incon-tra un altro e fiore e folgore / sono un’unica cenere» (Se

tutto non fosse nel tutto, p. 139).

La riflessione su «questa tresca che chiamiamo uni-verso» (Ballata, p. 76) con la sua perpetua iterazione di solite cose (Identità, p. 62), e sul traguardo cui tutti (e tutte le cose) sono destinati, si sviluppa anche (in

Cie-lo presunto, p. 149), muovendo ‘dal basso’ di un piccoCie-lo

evento quale la morte della adorata gatta di casa:

Sorriderai alla notizia di Garance, svanita in se stessa, dipartita con ritegno dinastico verso il suo regno felino scivolata in quel nulla o quel tutto se vuoi

dove prima o poi la morte forse ad arte ci conduce e là ci lascia in pegno.

Dall’altra parte qualcuno ci sarà a riscattarci, a trarci fuori

dall’ambiguo congedo? O il labile soffio che chiamiamo vita e non ha volto né razza né specie è

l’impalpabile inganno di quell’Eterno

che cerchiamo negli occhi d’un reticente cielo e tu lo chiami anima, io

dolorosamente

nulla?

Approfitto di questa citazione per sottolineare l’arti-stica cura per le ‘affinità uditive’: ritegno-regno-pegno; vuoi-poi; labile-impalpabile. Esse s’intrecciano secondo una particolare tecnica ricorrente nel corpus: spesso la musica di una parola esposta trova ripercussione all’in-terno del verso immediatamente contiguo, per lo più successivo. Ecco per esempio l’incipit della poe sia 9 di

Biografia presunta: «Appariscenza di abitudini / la mia

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16 «come lungo la traccia d’una stella»

presenza in casa tua» (p. 111), e poi della 12: «Si riattiva scaltra la contesa / il patto precisa l’ago del ritrarsi / e offrirsi» (p. 115). O Dall’opposta riva: «dove la sua for-ma / una vela sofferfor-ma nel silenzio» (p. 156). Da ricor-dare anche Prima che il gioco resti «il vento s’alza e scuo-te / l’infisso e squassa il vetusto scuo-tetto / onusto di camini» (p. 126). Per uno specimen più ampio basti l’inizio di Sia

fatta l’ombra (p. 155):

Un’attesa senza misura nel cerulo cerchio dell’airone, un esulare piano e senza suono

in attesa del gemito che chiude

la stagione del giorno e laggiù nello struggere dell’aprile fra acqua e cielo

una barca è ferma sotto i salici curvi sul Sile.

Tornando al tema della misteriosa e imperscrutabile precarietà dell’esistenza – con «noi / inconcludenti alla resa dei conti, presi / nella dissennata danza sul flagran-te abisso» (L’ombra verde, sulla scomparsa di Alessandro Parronchi, pp. 165-166) –, leggiamo (p. 100, senza ti-tolo):

La partita è

sapere di essere perduti e nondimeno resistere per cadere sul volto sorridenti

in flagranza di leggerezza

quando prima o dopo il filo si spezza.

E ancora, in memoria del padre dell’artista Alessan-dro Gioli (L’oscuro avvento pp. 163-64):

Definitivamente

un uomo non muore, il suo finire solo segna la compiuta avventura quando la vita ne sia sazia. Se ne va così com’è venuto, con la stessa

immacolata grazia del primo giorno in cui

(25)

«come lungo la traccia d’una stella» 17 s’affaccia al buio del domani. E tuttavia

qualcosa lascia di sé nell’indecifrato giro delle stelle, una traccia

che vana non renda

la breve eternità del suo passato.

Questi ultimi versi fermano un’ipotesi consolatoria in risposta al quesito di fondo che si affacciava anni prima nella raccolta Se parla la spiga d’estate (1981), con la poe-sia In principio erat verbum. Per la sua importanza la ripor-to interamente (p. 63):

…che cosa resterà della vita? un guanto di cenere

che stringe l’incerta memoria? Un’impronta di sole

dov’era il calco d’ombra di un corpo? …oppure una parola – l’una

che s’imprimerà al suo sigillo?

Ehi della vita! nessuno risponde…?

Come si sarà notato, all’entropia che soffia inelutta-bile sulle nostre esistenze, Parri oppone innanzitutto la manovra della poe sia, l’arte in grado di farci almeno af-ferrare quella parola che, «una», scavata sarà nella nostra vita come un abisso. La poe sia come delicata cosa che va difesa dai soliti detrattori (da Illazioni intorno alla

cor-sa delle ombre: «Non voglio sembrare troppo / tranchant,

lo dice per attenuare. Dopotutto il poe ta / non ha mai convinto», p. 124). La seconda lirica di Origami dichiara orgogliosamente (p. 98):

L’entità che chiamate poe sia

di cui poco è noto

(26)

18 «come lungo la traccia d’una stella» o nulla (non si sa chi veramente sia

colui che parla) forse schiude la vita che poteva essere se la vita

fosse se stessa…

E ancora registriamo (da Ascoltate pure, allontanandovi, p. 123):

La parola sulle spalle sostiene il peso del buio come la stella il vuoto del cielo.

Accanto alla poe sia, quale antidoto al veleno della caducità Parri dispone la breve, felice pienezza degli in-contri d’amore. Penso per esempio a Notturno (p. 22), ma anche a tutta la sezione Biografia presunta (pp. 101-120; particolarmente pp. 106-107 e 109), dedicata alla figura di Altabella (p. 120; per lei cfr. pp. 60-61). Ne ri-cordo un frammento dal sapore quasi oraziano (p. 105):

Il gelo ci prenderà s’annida negli ossi grigio come la cintura dell’inverno attorno la fronte… occorrerà aver trattenuto questo tenero patimento

nel vapore delle luci… quel segreto odore esita sul monte delle tue labbra

umido

geme l’appannarsi del senso.

Certo, a volerci credere, o perlomeno inclinando a sperarlo, «per vivere il resto che qui lasciamo» avremo a disposizione l’eternità (Buon tema alla ragione, p. 146). Ma, per fortuna, anche i nostri giorni non sono esclusi-vamente fonte di cattive sorprese, e, proprio mentre a dominare è la stagione del trauma, offrono un recupero nella direzione della vita. Compare così Simona, cui è dedicata Les voix sont là où nous tendons l’oreille (p. 145):

(27)

«come lungo la traccia d’una stella» 19 Nel frattempo

ti presento agli amici, vorrebbero festeggiarti

perché molto c’è nel mondo che non muore e il buio come vedi si può illuminare.

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