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Pistoia dalla crisi del Seicento al trionfo dell'Illuminismo

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ANNA AGOSTINI

LA FABRONIANA DI PISTOIA

STORIA DI UNA BIBLIOTECA

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© 2011EDIZIONIPOLISTAMPA

Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze Tel. 055 737871(15 linee)

info@polistampa.com - www.polistampa.com ISBN 978-88-564-0000-0

Progetto grafico, realizzazione e stampa Edizioni Polistampa, Firenze

In copertina: xxxxxxxxxx

LA FABRONIANA DI PISTOIA

STORIA DI UNA BIBLIOTECA E DEL SUO FONDATORE

Si ringraziano per la collaborazione in vario modo prestata:

Roberto Agnoletti; Lucia Cecchi; il Convento di San Domenico di Pistoia; Piera Iacomelli; Sandra Marsi-ni, direttrice dell’Archivio di Stato di Pistoia con tutto il personale; il canonico Umberto Pineschi, parro-co della chiesa di Sant’Ignazio; Marparro-co Riparro-cotti.

Un ringraziamento particolare al professor Giovanni Cipriani, che ha voluto affiancarmi in questo lavoro, al Capitolo della cattedrale di Pistoia e in particolare al direttore della Fabroniana, canonico Aldo Magna-relli, fonte inesauribile di consigli; al presidente e a tutto il Consiglio della Banca di Pistoia, che ha per-messo la realizzazione di questo volume; all’editore Mauro Pagliai e ai suoi collaboratori ed infine al foto-grafo Fabrizio Antonelli, che con le sue immagini ha colto in pieno il “clima” della Fabroniana.

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SOMMARIO

9 Presentazione Aureliano Benedetti

11 Premessa dell’autore

TRA FIRENZE E ROMA 1610-1624

15 «Primario Matematico e Filosofo del Granduca»

19 I primi sospetti

23 Denunciato al Sant’Officio

35 Il precetto di Bellarmino

49 La disputa sulle comete

57 Il Saggiatore: sospetti di eresia

69 Il nuovo viaggio a Roma: i colloqui con Urbano VIII

75 La Lettera a Francesco Ingoli

IL DIALOGO DEI MASSIMI SISTEMI 1625-1632

83 Dal Discorso sul flusso e reflusso del mare all’approvazione del

Dialo-go

95 La stampa del Dialogo: preparativi e timori

99 Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo

117 Un’immagine parlante: l’antiporta del Dialogo

121 Il Dialogo si diffonde a Roma: entusiasti e avversari IL PROCESSO, LA PENITENZA, L’ABIURA 1633-1642

127 Nel Dialogo «ci sono molte cose che non piacciono»

135 Il Dialogo al vaglio dei censori romani

143 Galileo a Roma: le nubi del processo

155 In attesa del processo

163 Il processo: la «travagliosa procella»

169 La condanna

175 L’abiura: «maledico e detesto li sudetti errori» 181 La diffusione della sentenza e dell’abiura

185 Il monumento in Santa Croce

APPENDICE

189 I verbali originali degli interrogatori di Galileo e alcuni suoi autografi nel volume del processo 237 Notizie biografiche dei principali personaggi nominati

249 Bibliografia

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PRESENTAZIONE

M

anca

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AVVERTENZA

Per brevità nelle note sono state adottate le seguenti abbreviazioni archivistiche e bibliografiche ACP = Archivio Capitolare Pistoia

ASF = Archivio di Stato di Firenze ASP = Archivio di Stato di Pistoia AVP = Archivio Vescovile Pistoia

BCF = Biblioteca Capitolare Fabroniana Pistoia BCFP = Biblioteca Comunale Forteguerriana Pistoia BNCF = Biblioteca Nazionale Centrale Firenze c., cc. = carta, carte

cfr. = confronta cit., citt. = citato, citati ed. = edizione

ibidem = indica lo stesso luogo o pagina all’interno di un titolo citato ivi = indica lo stesso luogo con pagina diversa

misc. = miscellanea

ms., mss. = manoscritto, manoscritti n.n. = non numerato

n.s. = nuova serie op. cit. = opera citata p., pp. = pagina, pagine r = recto

s.d. = senza data s.l. = senza luogo s.n. = senza nome tav., tavv. = tavola, tavole v = verso

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PREMESSA DELL’AUTORE

Q

uando entrai per la prima volta nella Biblioteca Fabroniana negli anni dell’uni-versità grande fu lo stupore.

Com’era possibile che a Pistoia esistesse una biblioteca di tale rilevanza e bellezza? Chi poteva essere colui il quale aveva pensato ad una tale realizzazione?

Oggi, sono passati ormai molti anni, ma ancora questo luogo riesce ad emozionarmi. Forse solo pochi pistoiesi sanno che nella loro città è conservato uno dei più significati-vi esempi di biblioteca settecentesca, un gioiello sia per la particolare configurazione architettonica, sia soprattutto per il ricco patrimonio librario rimasto intatto nel tempo.

Con questo lavoro vorrei tentare, quindi, di colmare questo vuoto, di ripercorrere la storia di questa istituzione dalla sua fondazione e di mostrare per quanto possibile i suoi “tesori” architettonici, artistici e librari.

Per far questo ho creduto fosse prima necessario analizzare le vicende biografiche di Carlo Agostino Fabroni, la “mente” della Fabroniana.

Il Fabroni, esponente di una delle più famose famiglie nobili pistoiesi e noto solo per il titolo cardinalizio, è un personaggio poco conosciuto, che oltre a meritare la nostra stima e riconoscenza per aver dotato la città di Pistoia di una biblioteca di valore inter-nazionale, è sicuramente da annoverare tra i grandi personaggi della storia ecclesiastica del secolo XVIII.

Il volume ha come introduzione un interessantissimo saggio di Giovanni Cipriani, ordinario di Storia moderna presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze, che con rigore scientifico presenta lo sfondo storico-culturale di Pistoia negli anni che corrono fra la prima metà del secolo XVII e la fine del XVIII, anni che costituiscono il tessuto sul quale la Biblioteca del cardinale Fabroni s’instaurò.

Il testo è corredato da una galleria di immagini realizzate, sotto indicazione della sottoscritta, in modo magistrale da Fabrizio Antonelli, foto nelle quali spiccano i perso-naggi che si legano ai fatti narrati, risaltano i particolari architettonici dell’edificio e delle opere d’arte in esso conservate, ma che si “insinuano” dentro i volumi, “sfogliano” le pagine, mostrando carte inaspettate.

Nonostante si sia cercato di seguire in questo saggio un taglio piano e divulgativo, non si è potuto fare a meno di un consueto, anche se ridotto, apparato di note e di una bibliografia finale di riferimento.

Il presente volume è inoltre corredato di un’Appendice documentaria che presen-ta inediti come il fondamenpresen-tale Atto di Donazione della Fabroniana, più volte cipresen-tato nel testo, il Testamento del cardinale Fabroni, dove appare chiaro il suo legame ed amore per la «cara Patria», e infine una Relazione delle solenni esequie celebrate nella cattedrale di Pistoia in memoria di Carlo Agostino, ove emergono la magnificenza e gran-dezza di una cerimonia voluta per ricordare e omaggiare uno dei più importanti perso-naggi della storia pistoiese di tutti i tempi.

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Pistoia dalla “crisi” del Seicento al trionfo dell’Illuminismo

F

in dall’inizio del XVII secolo pauperismo e mendicità si erano accentuati in tutta la Toscana, per effetto della profonda crisi internazionale generata dalla politica eco-nomica di Filippo II d’Asburgo, che aveva costantemente immesso sul mercato enormi quantitativi di argento monetato, provocando una vistosa svalutazione ed un progressi-vo e generalizzato aumento dei prezzi. La stasi dei traffici si aggravò ulteriormente per la guerra dei Trent’anni che, fin dal 1618, chiuse i mercati del Centro Europa, creando un clima di scontro e di profonda rivalità. L’acerrimo contrasto fra cattolici e protestan-ti accentuò fratture e divisioni facendo prosperare solo l’immobilizzo dei capitali e l’ac-quisto di beni fondiari, gli unici in grado di garantire sicurezza e stabilità.

Il Granducato mediceo, nonostante le modeste dimensioni, era ben inserito nel con-testo internazionale e risentiva profondamente del clima economico che, di volta in volta, andava profilandosi. La drammatica morte del granduca Cosimo II, distrutto dalla tubercolosi nel 1621, e la reggenza di Maria Maddalena d’Asburgo e di Cristina di Lore-na, tutrici del piccolo Ferdinando II, rese ancora più debole il piccolo Stato, accentuan-done la fragilità. A Firenze, nelle cittadine limitrofe e nelle campagne circostanti le con-dizioni di vita di larghi strati della popolazione erano estremamente precarie ed una carestia, un’epidemia, o un’accentuata pressione fiscale potevano tradursi in un dram-ma di vaste proporzioni. La tensione sociale spesso trovava la sua naturale dram- manifesta-zione in proteste, in tumulti ed a Pistoia, nel 1629, vediamo l’inedia protagonista di un drammatico episodio.

A gravi carenze alimentari aveva fatto seguito la diffusione del tifo petecchiale e

«queste estreme calamità tirarono in disperazione la povertà, di maniera che, solle-vatasi parte della plebe e fatto capo un certo Francesco di Batista Corsellini, chia-mato il Todero, huomo assai faceto e piacevole ma altrettanto coraggioso. Egli accompagnato da circa sessanta artisti, aspettò un giorno di Consiglio e, subito com-parso, addimandò d’essere là dentro introdotto per havere udienza […] Entrò dun-que, lasciati gli altri alla porta del salone del Consiglio e parlando anzi con voce altie-ra che humile disse: “Illustrissimo Signor Gonfaloniere e Signori Priori, è stato sempre costume di questa città haver copiosa di grani la piazza e di spianarsi da for-nari buon pane e a sofficenza, non poco e di questa sorte”, e all’hora aprì un fazzo-letto dov’era certa farina, “e havendo noi, povere genti, soffrito fin qui la fame, non possiamo più. Pensino bene che è minor male morire di forca che di fame”. E volen-do altre cose soggiungere, il Gonfaloniere li diè sulla voce, ma non sì che egli non fusse inteso, minacciando che la plebe si sarebbe sollevata e tentato delle novità»1.

La situazione stava divenendo insostenibile. Lo stato di estrema indigenza, la fame e l’altissima mortalità avevano esasperato gli animi a tal punto che nemmeno la pena capitale poteva costituire un deterrente contro ogni sorta di reati. I furti erano ormai divenuti comunissimi. In campagna si approfittava di tutto e si era giunti persino a ruba-re le giovani piante di olivo utilizzate per estenderuba-re gli oliveti ed incruba-rementaruba-re la produ-zione di olio. Una provvisione del 23 aprile 1629 ce ne offre la chiara riprova:

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«Atteso che si sentano grandissime doglienze da’ cittadini et altri che hanno pode-ri e beni in poggio, per esserli rubbati non solo i piantoni d’olivi a piè del vecchio, ma ancora cavati quelli che giornalmente si piantano in fosse et in buche, con grandis-simo danno del pubblico e del privato […] Perciò a benefitio […] di chi spende in cultivare e per mantenimento dell’olio nella nostra città, si provede et ordina che ciascuno che vuole levare piantoni da luogho a luogho, sia obligato havere la licen-tia in scriptis dal padrone di essi, che contenga la quantità de’ piantoni et il luogho di dove sono levati e sia tenuto notificare, con detta polizza del padrone, la quantità di essi e dove gli vuole portare, alla corte del Clarissimo Signor Commissario, e se sarà trovato con piantoni senza detta licentia e senza haverne fatto […] notificazio-ne, caschi in pena, per ciascuna volta, di tratti dua di funotificazio-ne, da darseli in publico e della cattura»2.

Terribili i tratti di fune. Al condannato venivano legate le braccia dietro la schiena ed una corda, ad esse assicurata, veniva collegata ad un’apposita carrucola posta molto in alto. In pratica il condannato veniva sollevato da terra, ma le braccia non potevano compiere che un movimento parziale, perché gli omeri trovavano ostacolo nell’articola-zione. Il peso del corpo tendeva a provocare la dolorosa torsione dei legamenti ed una vera e propria lussazione, che poteva essere accentuata lasciando cadere liberamente, per un breve tratto, il malcapitato ed arrestandone bruscamente il movimento. Due trat-ti significava che la tortura sarebbe stata replicata per due volte. Talvolta, per rendere più dolorosa l’operazione, si applicavano pesi alle caviglie, accrescendo il tormento del condannato.

La fame, le malattie, le tensioni sociali erano il primo grave sintomo di una profon-da alterazione della vita associata nella città e nelle campagne circostanti, come in larga parte del Granducato. Tutte le premesse per un dramma di vaste proporzioni erano pre-senti e, fra l’estate e l’autunno del 1630, giunse la peste. Il flagello, frutto delle devasta-zioni compiute in Germania nel corso della guerra dei Trent’anni, colpì prima il Nord Ita-lia ed a Pistoia, fin dal mese di aprile, furono nominati sei “Deputati della Sanità”3.

Occorreva prendere ogni precauzione per impedire il diffondersi del contagio e fu subi-to ordinata la massima pulizia in tutte le strade cittadine e impedita la coltura dei bachi da seta e la lavorazione dei bozzoli. Come ricorda Pandolfo Arferuoli nelle sue Historie

delle cose più notabili seguite in Toscana et altri luoghi et in particolare in Pistoia: «E s’usava ogni rigore, mandarono bandi rigorosi che si stesse pulito in casa, non si get-tassero sporcitie fuora, non si facesseno firugelli, né caldaie nella città, etiam le mona-che e per questo feceno mona-che non si vendesse la foglia in Pistoia et altre diligentie»4.

Si voleva evitare ogni miasma, ogni putrefazione perché si era convinti che la vera causa della peste fosse la corruzione dell’aria. Medici insigni lo avevano sostenuto, col-legando l’insorgere del morbo anche a particolari congiunzioni astrali: fra questi possia-mo ricordare Marsilio Ficino5, Alessandro Puccinelli6e Antonio Minutoli7. S’ignorava del

tutto la pericolosità della pulce del ratto nero, vero veicolo del contagio, ma i richiami alla pulizia e all’igiene erano comunque efficaci e di grande significato. La peste giunge-va in un luogo, non nascegiunge-va spontaneamente ed era indispensabile controllare l’arrivo di stranieri e viaggiatori, soprattutto se provenienti da località sospette. Come in ogni centro abitato di rilievo anche a Pistoia fu creato un cordone sanitario e sappiamo che il 12 aprile 1630 fu impedito ad Alessandro Vitelli l’ingresso in città perché egli faceva ritorno da Mantova, dove infuriava il contagio: «A 12 d’Aprile a hore sette di notte, venne ordine da S.A.S. […] che la Banda s’armasse contro il Sig. Alessandro Vitelli e non si las-sasse passare perché tornava di Mantova, dov’era la peste. Fu ritenuto in Piteccio con tutta la sua corte a far la quarantena»8.

Il morbo si avvicinava pericolosamente, favorito anche dal vistoso aumento della popolazione murina in gran parte della penisola italiana.

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«L’anno 1630 regnò tanta quantità de’ ratti che quasi difficilmente le persone si potevano difendere, né di giorno, né di notte, dalla gran molestia et importuna rab-bia di questi animali, che non si poteva salvare cosa alcuna per il gran numero e quantità dei mussi. Né vi era casa dove non regnassero a centenara et di grossezza talmente smisurata che mettevano terrore a vederli in squadriglia, come se fossero stati tanti cagnoletti et tanto danno facevano da per tutto che non si potrebbe sti-mare, ma molto più nei panni di lana et di lino. Erano talmente rabbiati di fame che rosignavano gli usci et le finestre»9.

Nel mese di maggio il pericolo dell’estensione del contagio divenne reale e fu impo-sto in tutto il Granducato l’obbligo delle “bollette”, veri e propri passaporti sanitari per chiunque si muovesse dalle località di residenza. Il 13 giugno Bologna venne messa al bando ed il 22 la Sanità di Firenze ordinò che ovunque fosse usata la massima prudenza nel rilascio delle “bollette”. La vigilanza venne raddoppiata ma, nel luglio, la peste inva-se Trespiano, sulla via Bologneinva-se, e Tavola nei pressi di Poggio a Caiano. Come ricorda Francesco Rondinelli presto iniziarono a manifestarsi

«febbri putride acutissime e continue […] accompagnate da maligni accidenti, come buboni e carbonchi […] I buboni per lo più fra la coscia e il corpo, pochi sotto le ascelle, pochissimi dietro all’orecchie, i carbonchi in diverse parti. Ad alcuni, dopo la febbre sopragiugneva il delirio, molti avevano sete ardente con lingua asciuttissi-ma, il dolor di testa […] accompagnato a molti da vomito, il polso ineguale, inordi-nato, debolissimo»10.

A questi sintomi seguiva «una morte precipitosa, in genere entro sette giorni»11.

Solo superando la fase critica della malattia si aveva qualche speranza di salvezza. Il 6 agosto 1630, dopo i primi casi di contagio attorno a Firenze si decise di

«chiamare quel numero di medici che parrà al magistrato, che per hora si nomina Zerbinelli, Cervieri, Pellicini, Napoletano, Punta, a’ quali s’ordini che pensino a met-ter insieme e comporre rimedi contra la peste et anche preservativi, dando loro ordine che si ragunino fra di loro domani che sarà mercoledi 7 Agosto, per esegui-re quanto sopra […] per poter dar ordine a quelli spetiali che parranno, acciò facci-no subito quanto li sarà ordinato. Ordinare all’Arte delli Spetiali che mandifacci-no per-sone perite in compagnia di due de’ medici del Magistrato, a riveder le botteghe delli spetiali pigliando nota, bottega per bottega, de’ medicinali che habbino e come sieno provisti per la presente occasione […] e riferischino al Magistrato, acciò, trovando scarsità di medicamenti, si possino provedere12.

Il Dottor Zerbinelli, in particolare, doveva prender nota «della quantità di medici-nali e antidoti preziosi et in particolare dell’olio contro a veleno e triaca, e rinnovi loro la prohibitione d’estrarli et ordini loro che tenghino la nota di detti medicamenti pubblica-mente, sì che ogniuno la possa leggere»13.

Pistoia non era lontana ed i Deputati della Sanità fecero espellere dalla città tutti i forestieri, chiudendo inesorabilmente le porte «a poveri mendicanti et altri infermi di fuori»14. L’attenzione all’igiene pubblica divenne prioritaria e il 23 agosto si autorizzò

«a rivedere le case della città di Pistoia et in particolare quelle de’ poveri e trovan-do in dette case immondizie, o altro contro la politia, possino fare buttare via dette immondizie e commettere alli habitatori che cerchino tenere pulite le loro case più che sia possibile»15.

Prevedendo il contagio da contatto si giunse, il 4 settembre, a discutere con il vescovo Alessandro del Caccia la possibilità di disciplinare il culto in ogni edificio sacro.

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Si temevano untori protestanti e «alli 7 Settembre si levarono le acque benedette da tutte le chiese, perché s’erano scoperti molti luterani congiurati che seminavano la peste tra i cristiani»16. Il flagello stava per arrivare e, a titolo precauzionale, il 27 settembre fu

istituito un lazzeretto a due miglia da Pistoia, sulla strada per Lucca, in località Spazza-vento. Ne ebbero la responsabilità il medico Stefano Arrighi ed il chirurgo Francesco Magni. L’8 ottobre la peste fu accertata in una casa di Pistoia e due giorni dopo un’altra abitazione fu dichiarata infetta17.

Il contagio era ormai inarrestabile. Il morbo infuriò per circa tre mesi, causando molte vittime. La situazione era insostenibile per le gravissime carenze sanitarie e la spa-ventosa indigenza della gran parte degli ammalati. Un drammatico appello del 12 dicem-bre 1630, del medico Arrighi, ce ne offre la puntuale conferma:

«Si ritrovano nel lazzaretto, in ordine per ire allo hospedale di Capo di Strada, fra huomini et donne, numero venti persone. Vi sono vestiti per sei huomini et sei donne. Li pregho operare venghino il resto de’ vestiti, acciò tutti possino andare in Capo di Strada. Gli ammalati nel lazzaretto sempre vanno crescendo et non vi è più luogho ove metterli, perché stanno quattro o cinque per letto. Ci è bisogno di cerot-ti et olii et lo hospidale del Ceppo dice non ne haver più; sì come anchora ci bisogna di cigne per legare li ammalati che eschono fuori di sé. Nel Hospidale di Capo di Strada vi è ventuno ammalati et non vi è che sei letti […] anchora si lamentano del vitto et pane, quale è tanto scarso che dicono non poter vivere»18.

I provvedimenti adottati erano senza dubbio ispirati al buon senso ma cosa si sape-va, in realtà, della peste? Considerata frutto della corruzione dell’aria, legata a mortiferi miasmi, della malattia si ignorava il vero agente patogeno, la pulce del ratto nero, e di conseguenza si adottavano terapie del tutto inefficaci. Solo i medici traevano, indiretta-mente, vantaggio dalle accortezze praticate. Per non respirare l’aria corrotta e per impe-dire che essa entrasse in contatto con il corpo indossavano vesti di tela incerata, lunghe fino a terra, guanti, maschere a becco di uccello, usando in abbondanza aceto ed essen-ze profumate e restando a debita distanza dagli appestati. Per questo raramente si ammalavano. Le pulci potevano infatti raggiungerli con estrema difficoltà. Come ricor-da Antero Maria ricor-da San Bonaventura, nei suoi ricordi su Li lazzaretti della città e

riviere di Genova: «La tunica incerata in un lazzaretto non ha altro buon effetto, solo

che le pulci non sì facilmente vi s’annidano»19. Nessuno collegava però le pulci con la

dif-fusione della peste.

I farmaci a cui si faceva riferimento («olio contro a veleno e triaca») erano poi un vero frutto della fantasia. Lo stesso granduca Francesco de’ Medici, nel pieno Cinque-cento, aveva elaborato le modalità di preparazione dell’olio contravveleno, fondandosi sul presupposto che gli scorpioni nel periodo in cui il sole entrava nella costellazione del Cane Maggiore (24 luglio-2a agosto) fossero gli animali più velenosi. Eccone la ricetta

«Piglia d’oglio vecchio libbre una, scorpioni, presi ne’ giorni canicolari, libbre una. Ogni cosa si pone dentro un vaso di vetro bene otturato e si lascia al sole per qua-ranta giorni continui. Si colano con espressione et aggiungi riobarbaro scelto, aloe epatico, spica narda, mirra eletta, zaffarano, ana once una. Gentiana, tormentilla, dittamo cretico, bistorta, ana oncia mezza. Teriaca buona et antica, mitridato, ana once due. Le materie da tritorare si triturano grossamente e si meschiano con il sopradetto oglio e di nuovo s’espone al sole per quaranta giorni continui e poi si cola e si conserva separato dalle feccie in vaso di vetro bene otturato. Si è sperimentato contro veleno mirabile, tanto ontato quanto preso per bocca»20.

Trovare trecento grammi di scorpioni non era facile, ma l’efficacia del medicamen-to, presentato come mirabile, si commenta da sola. Lo stesso possiamo dire della teria-ca, la cui preparazione, nella versione più celebre, era ancor più complessa:

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«Piglia di troscisci di scilla dramme quarantotto, troscisci di vipere, troscisci edi-croi, pepe lungo, oppio, ana dramme ventiquattro. Rose rosse, radice d’iride illirica, sugo di liquirizia condensato, seme di napo dolce, scordio, opobalsamo, cinnamo-mo, agarico, ana dramme dodici. Mirra, costo, zaffarano, cassia lignea, spica narda, squinanto, pepe negro, incenzo, dittamo cretense, reupontico, stecade, marrubio, seme di petrosello macedonio, calamento, terebintina, gengevo, ana dramme sei. Radice di cinquefoglio, polio, iua artetica, spica celtica, amomo, storace calamita, meo, camedrio, phu pontico, terra lennia, folio malabatro, calcitide, gentiana, gomma arabica vermicolare, sugo d’hipocistide, carpobalsamo, seme d’aniso, sesali negricante, cardamomo minore volgare, seme di finocchio, sugo d’acatia, seme di talaspi, hiperico, seme d’ameos, ana dramme quattro. Sagepeno, castoreo, aristolo-chia tenue, bitume giudaico, seme di doneo, opopanaco,centaurea minore, galbano, ana dramme due, vino vecchio once quaranta, mele perfetto libre dieci»21.

Anche la teriaca era un “controveleno” e se ne attribuiva la prima formulazione a Mitridate, il re del Ponto, e la vera ricetta al medico di Nerone Andromaco il Vecchio. I vari componenti dovevano essere triturati e polverizzati «in un mortaro di bronzo gran-de e ben polito»22. L’agarico, i semi del talaspi, quelli del napo dolce, l’iperico, l’incenso

e la terra lennia dovevano essere pestati separatamente, passati attraverso un setaccio e mescolati al vino. Successivamente dovevano essere apprestati: terebintina, galbano e storace ed infine il miele. A questo punto tutti gli ingredienti dovevano essere posti in quattro vasi colorati con questo criterio: in un vaso bianco si ponevano le polveri, in un vaso nero i composti con vino, in un vaso azzurro la terebintina con lo storace e il gal-bano, in un vaso verde il miele. Preparato quindi un grande mortaio di marmo vi si pone-vano tutte le sostanze mescolate al vino e vari quantitativi di polveri, mescolando con cura. Si aggiungeva quindi una parte di terebintina, di storace e di galbano riscaldando ed amalgamando progressivamente. Il contenuto di tutti i vasi colorati doveva essere via via svuotato, fino ad avere il prodotto finale unito al miele. Il composto doveva essere lasciato nel mortaio per quaranta giorni e fatto fermentare per sei mesi in un grande vaso di vetro, e a quel punto era pronto per l’uso.

Straordinario “controveleno” era la carne di vipera, componente essenziale della teriaca, presentata come rimedio efficacissimo nei confronti delle affezioni più dispara-te, al di là di ogni logica. Se ne raccomandava infatti l’uso contro

«i morsi delle vipere e d’altri animali velenosi, com’anche a’ veleni semplici e com-posti. Giova di più a continuati dolori del capo, alle vertigini et a’ difetti dell’udito e similmente al mal caduco, alla stupidità e risoluzioni de’ membri, com’anche a’ mali degli occhi, alla raucedine, alla tosse, asma e sputo di sangue, a dolori colici, colera et itteritia. Vale a rompere le pietre ne’ reni et alla difficoltà dell’orinare et ulcere della vessica, risolve la durezza della milza. Si da utilmente ne’ rigori delle febbri, nell’hidropisia e nell’elefantia. Provoca i mestrui e cava fuori dal ventre le creature morte. Mitiga ancora i dolori delle giunture, soccorrendo anche alle palpitazioni et affetti melanconici et altre passioni dell’animo. E per ultimo si ha per sicurissimo rimedio nella peste»23.

Tanti ingredienti uniti insieme dovevano necessariamente avere un’azione positiva e sappiamo dalla testimonianza di Benedetto Varchi che già nella pestilenza che colpì Firenze nel 1527 molti, illudendosi di salvarsi, «usavano […] ogni mattina, anzi si levas-sero dal letto, o pigliare un poco d’utriaca24per bocca, o fregarsene alquanto

stropic-ciando sul petto d’intorno alla poppa manca»25, per irrobustire il cuore. Dunque, anche

nel 1630, rimedi come l’olio di scorpioni o la teriaca apparivano sicuri e affidabili, con gli esiti che possiamo immaginare. Non mancarono però, in quella drammatica emergenza, medici e speziali pronti a proporre nuove terapie, la cui singolarità lascia ancor più scon-certati. Uno dei casi più incredibili è rappresentato dal clinico pistoiese Giovanni

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Batti-sta Fedelissimi che, «per schifare la febbre pestilentiale et maligna»26, propose questa

cura preventiva:

«Una libra di fichi secchi grassi, posti a molle in acqua commune, noci monde meza libra, ruta fresca oncie tre et un’oncia di sale. Pestato ogni cosa in una libra di miele bene schiumato e netto e con mezza libra di zucchero, pigliandosene quanto una noce ogni mattina a digiuno, con un poco di greco o d’altro generoso vino»27.

Non meno singolare appare la terapia proposta dal celebre medico Rodriguez de Castro, docente presso l’ateneo pisano e consultore del Magistrato della Sanità fiorenti-na. Occorreva che il veleno, penetrato nel corpo attraverso il contagio pestilenziale, fosse rapidamente estratto da un altro animale in grado di assorbirlo e raccomandava di porre sul bubbone, appena si fosse manifestato, prima un gallo, poi un piccione ed infi-ne un piccolo cainfi-ne, rigorosamente “sparati”, ossia sezionati ed aperti. La pratica, anno-tava, era già stata consigliata da Dioscoride, che aveva suggerito di porre un “pollo spa-rato” sopra il morso di un rettile, o sulle ferite prodotte da armi avvelenate, per eliminarne tutte le potenzialità negative e garantire la salvezza28.

Di fatto l’unico provvedimento efficace che, in caso di peste, venisse adottato, era, in primo luogo, la creazione di cordoni sanitari, con la rigorosa chiusura delle frontiere dello Stato, di ogni centro abitato e di ogni via di comunicazione. Nessuno poteva muo-versi liberamente, se non munito di appositi permessi e per particolari ragioni. Guardie armate controllavano ogni varco ed anche pacchi e lettere, prima di essere spediti, veni-vano disinfettati con fumi di zolfo da appositi addetti. Importante era poi l’isolamento degli ammalati ed appena in una casa si manifestava la peste subito venivano murate le porte e le finestre più basse, lasciando solo un piccolo spazio per far giungere acqua e cibo. Trascorsi quaranta giorni le porte venivano riaperte ed i sopravvissuti avviati alla convalescenza, mentre i morti venivano trasportati via e seppelliti.

Non mancavano però disparità di trattamento. Tutti cercavano di nascondere l’af-fezione e chi apparteneva ad una classe sociale elevata spesso raggiungeva il suo inten-to. Un’anonima denunzia conservata nel fondo Sanità dell’Archivio di Stato di Firenze lo rivela chiaramente:

«I poveri sono assassinati dalle cure dei cerusici perché andando a visitare un pove-ro li fanno accendere il lume e lo fanno scoprire, standogli intorno dieci braccia e, senza considerazione, fanno una polizza che vada al lazzaretto e non considerano che quel poverino la sera innanzi era sano e che poteva haver qualche anguinaia, o qualche accidente ordinario […] Che, per il contrario, se vanno a visitare un genti-luomo si pongono al lato del letto a sedere e lo guardano e lo toccano e di più lo medicano segretamente, senza far rapporto alla Sanità e così guadagniano per più versi e così mettono in mezzo la Sanità, il padrone, il povero»29.

Le città erano paralizzate. I mercati erano chiusi, al pari delle scuole. I traffici di ogni merce venivano impediti e tutti i giochi popolari erano proibiti, per evitare perico-losi assembramenti. Pochissimi erano gli esercizi commerciali aperti. Gli ingressi erano generalmente sbarrati con assi, per impedire il contatto ravvicinato con i clienti, e par-ticolari precauzioni erano riservate anche alle monete usate per pagare. Come era avve-nuto nel 1527, pure nel 1630 «i danari che pigliavano gli pigliavano non colle mani ma in sur alcune palette, o di legno o di ferro e gli gettavano non in una cassa ma gli versava-no o in pentola, o in catini pieni d’acqua»30. Tristissima fu poi la fine di molti animali

domestici, ritenuti una fonte di contagio: «I cani e le gatte furono, dalla maggior parte, quasi tutti o uccisi o mandati via, o tenuti in guisa racchiusi che uscir fuori e andare attorno non potevano»31.

Moltissimi lasciavano le città per recarsi in campagna o nei luoghi ritenuti più salu-bri. Un detto popolare compendiava la risposta terapeutica più comune contro la peste:

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partir presto, tornar tardi. I devoti, confidando nell’aiuto divino, rivolgevano le loro pre-ghiere al santo che proteggeva contro il terribile morbo: san Rocco. Davvero interes-sante la storia di questo pellegrino francese, giunto in Italia all’inizio del Trecento, men-tre infuriava un’epidemia di peste. Rocco si dedicò con slancio alla cura di tanti infelici ed a Piacenza contrasse la malattia. Dopo aver trascorso un periodo al lazzaretto del luogo, disperato, ritenendosi prossimo alla morte, si nascose in un luogo appartato ma fu scoperto da un cane che lo aiutò, portandogli del cibo e infondendogli fiducia. Guari-to Guari-tornò in Francia e, dopo la sua morte, iniziò a diffondersi il suo culGuari-to. La sua immagi-ne divenimmagi-ne presto famosa e fu dipinta o scolpita immagi-nei luoghi più disparati con una preci-sa iconografia: un pellegrino che mostra, senza ritegno, il bubbone della peste sulla gamba, alzandosi la veste, accompagnato da un cane con un pezzo di pane in bocca.

A Firenze e nell’intera Toscana, in quel drammatico 1630, la venerazione di san Rocco assunse un rilievo crescente e si moltiplicarono altari e tabernacoli con la sua figu-ra. La Chiesa cercava di combattere il generale timore infondendo fiducia, favorendo la contrizione e la preghiera. Molti ritenevano la peste un flagello divino inviato per casti-gare la corruzione ed i peccati ma, indirettamente, le stesse funzioni religiose in chiese ed oratori e, soprattutto, le processioni, ponendo tanti individui, gli uni accanto agli altri, in spazi ristretti, favorivano l’estendersi del contagio. Molti medici, consapevoli del peri-colo, cercavano di richiamare l’attenzione di vescovi o prelati su questo angoscioso pro-blema, spesso inutilmente. La stessa acqua benedetta, usata da tutti per il segno della croce, all’ingresso di ogni edificio sacro, poteva essere fonte d’infezione.

Fra i prelati fiorentini più recalcitranti può essere ricordato padre Dragoni, priore del convento di San Marco32. Convinto che la grave epidemia fosse frutto dello sdegno

di Dio e che la sua durata fosse solo dovuta alla «cecità degli huomini, i quali si pensa-no, contra consilium Altissimi, con le pure diligenze humane di riparare a questa morta-lità che viene dal cielo»33, impose una processione per trasportare, in varie zone della

città, i resti di sant’Antonino. La sua insistenza a corte fu premiata ma, per limitare i danni e contenere il rischio di contagio, si proibì al popolo di partecipare al solenne evento religioso. La processione ebbe luogo il 5 dicembre 1630 e già «la mattina, a buo-nissima ora, erano da i cavalleggeri e sergenti stati presi tutti i canti delle strade vicine, perché niuno passasse»34. Per combattere i miasmi, le vie, in cui sarebbe transitato il

corteo, erano state cosparse di erbe odorose ed ai devoti fu solo consentito di sostare «in su gli usci con torce accese in mano»35. Qualcosa di clamoroso doveva naturalmente

accadere e fu subito divulgata la notizia che quattrocento appestati erano stati salvati per opera del santo domenicano.

Il granduca Ferdinando II affrontò con coraggio la gravissima emergenza sanitaria. Pur sollecitato a lasciare Firenze per trasferirsi in campagna, in un luogo più isolato, non volle abbandonare la capitale, coordinando ogni possibile intervento per alleviare le sof-ferenze di migliaia di malati e per cercare di arginare la terribile patologia. Si sentiva immune dal morbo. Pochi anni prima aveva brillantemente superato una grave forma di vaiolo, come ci testimoniano due ritratti del giovane Medici all’inizio ed al colmo della malattia36, e dopo questa drammatica esperienza niente suscitava più in lui paura o

apprensione. Anche Galileo Galilei non ebbe timore della peste e addirittura viaggiò, con estrema disinvoltura, in larga parte del Centro Italia.

Lo scienziato aveva ultimato il suo capolavoro, il Dialogo sopra i massimi sistemi, nel gennaio del 163037e, verso la fine di marzo, si recò personalmente a Roma38per

con-segnare il manoscritto alle autorità ecclesiastiche e sollecitarne l’approvazione per pro-cedere alla stampa. Urbano VIII Barberini ed il Sacro Collegio avevano mostrato un atteg-giamento favorevole e l’opera sembrava destinata ad apparire sotto l’egida dell’Accademia dei Lincei con poche modifiche, che non ne avrebbero alterato la sostan-za. Galileo lasciò Roma il 26 giugno, pieno di fiducia e di speranza39, mentre la peste già

dilagava nel Nord Italia, ma l’improvvisa morte di Federico Cesi, ai primi di agosto40,

rimi-se tutto in discussione. Benedetto Castelli consigliò lo scienziato di far stampare il lavo-ro a Firenze dove, con l’appoggio di Ferdinando II, sarebbe stato più facile ottenere

l’im-Didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia.

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primatur. A Firenze non si ebbero ostacoli ma non si poteva procedere senza il parere

definitivo di Roma. Il Maestro del Sacro Palazzo, il domenicano Niccolò Riccardi, dopo un atteggiamento favorevole, tergiversava, probabilmente spinto dai nemici di Galileo in curia e giunse a chiedere di nuovo il testo del Dialogo, per sottoporlo ad una nuova revi-sione.

Galileo pensò ad uno stratagemma per aggirare l’ostacolo: propose infatti che il suo lavoro fosse riesaminato, ma a Firenze, da un teologo di comune fiducia. La proposta fu accolta a metà: il proemio e la fine dell’opera dovevano essere inviati a Roma per la sen-tenza definitiva, mentre il corpo centrale poteva essere esaminato a Firenze dal dome-nicano Giacinto Stefani. Lo Stefani assolse rapidamente il proprio compito, ma a Roma si procedette con estrema lentezza, tanto da giungere al luglio del 1631 per l’invio delle ulti-me direttive. L’intera questione della concessione del nihil obstat al Dialogo sopra i

massimi sistemi si svolse, dunque, mentre la peste imperversava e solo il 21 febbraio

1632 la celebre opera potè vedere la luce, impressa dai torchi del Landini a Firenze41. Un

artista di corte, Stefano della Bella42, amico di Galileo, realizzò un raffinato frontespizio,

inciso a bulino, in cui comparivano le figure di Pitagora, di Tolomeo e di Copernico unite in un singolare dialogo, mentre nello sfondo s’intravedevano dei velieri alla fonda in un porto. Al di sopra campeggiava lo stemma Medici con la corona granducale su di un drap-po trattenuto da putti ed il nome del «Serenissimo Ferdinando II»43, a cui il testo era

stato dedicato. L’ombra protettiva del granduca di Toscana sembrava assicurare ogni tranquillità ma l’ira di un altro fiorentino, Maffeo Barberini, non avrebbe tardato a mani-festarsi.

Nel gennaio 1631 l’epidemia si attenuò a Pistoia e nel territorio circostante. Gli stes-si Deputati della Sanità presero atto che il morbo era in parte cessato ma, nella prima-vera e nell’estate, infierì di nuovo. Secondo i dati forniti da Luigi Vettori, incaricato dalla Sanità fiorentina di controllare l’operato dei Deputati pistoiesi, fra l’ottobre 1630 e l’a-gosto 1631 furono ricoverati nelle strutture ospedaliere locali millecentonovantotto pazienti e di questi seicentosette morirono44. Il tasso di mortalità fu dunque di circa il

51%, un tasso non eccessivamente elevato, tenendo conto delle terapie praticate, della totale carenza di norme igieniche e delle generali condizioni di denutrizione, per indi-genza, della maggior parte dei pazienti. Dal computo erano escluse circa cinquecento persone, che si supponeva «essere morte nelle loro proprie case et in questo Comitato in luoghi più lontani dalla città e dai lazzeretti»45. La pestilenza si esaurì gradualmente.

Il numero dei decessi non era stato spaventoso ed un segno tangibile di riconoscenza, a nome della popolazione, fu offerto dalla famiglia Tolomei alla Madonna dell’Umiltà: un ciborio d’argento di particolare bellezza46. Nel corso dell’epidemia il governo fiorentino

e la Chiesa del luogo avevano svolto un ruolo di primo piano nell’assistenza agli abitanti ed il vescovo Alessandro del Caccia volle realizzare un poema, prendendo spunto da quella drammatica esperienza. La sua Loemophigia, sive de summa liberalitate atque

insigni pietate Ser.mi Ferdinandi II, Etruriae Magni Ducis, erga subditos pesti-lenti contagio laborantes era un inno a quei saggi provvedimenti granducali che

ave-vano consentito di superare la grave patologia senza un eccessivo tributo di vite umane. L’opera, composta a Pistoia «Kal. Iulii 1631», fu dedicata al principe Leopoldo de’ Medi-ci ma non giunse mai sotto i torchi di una stamperia ed è attualmente conservata a Firenze, presso la Biblioteca Nazionale Centrale47.

Dopo la terribile pestilenza la vita riprese lentamente il suo corso. La tradizione cul-turale tornò a fiorire ed il pistoiese Niccolò Villani, nel 1632, diffuse un curioso

Ragio-namento sopra la poesia giocosa de’ Greci, Latini e Toscani, accanto ad una Can-zone in onore di Urbano VIII48. Il pontefice stava per divenire fonte di gravissime

tensioni politiche per Ferdinando II: la condanna e la confisca per eresia49del Dialogo

sopra i massimi sistemi di Galileo Galilei avevano creato una frattura fra il granduca

di Toscana ed il pontefice. Il rogo del volume si traduceva, di fatto, in un attacco diret-to, teso alla distruzione del nome e del prestigio dei “Magni Duces Aetruriae” e Ferdi-nando attese pazientemente il momento della vendetta. La vita intellettuale a Pistoia si

Didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia.

Didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia.

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manteneva vivace e Giovanni Visconti offrì, nel 1633, un saggio del suo poliedrico inge-gno. La sua Isagoge sive introductio in IIII libros Institutionum Iustiniani

Impera-toris, stampata da Pietro Antonio Fortunati e indirizzata a Giulio Rospigliosi, affrontava

il testo base del diritto civile e riprendeva la lezione del grande Cino de’ Sighibuldi. Le nozze del granduca Ferdinando II con Vittoria della Rovere, celebrate a Firenze nell’agosto 1634, non videro apparati trionfali. La peste, che pochi giorni prima aveva ucciso il principe Francesco de’ Medici a Ratisbona, era un gravoso ricordo e non si volle alcuna manifestazione di fasto. La notizia fu accolta a Pistoia con gioia ma fu rispettata la massima austerità. Un grande evento religioso era alle porte: nel 1635 la Compagnia di Gesù si radicava in città. I seguaci di sant’Ignazio si stabilirono infatti nella canonica di Sant’Andrea e inaugurarono un collegio di nobili nelle case del medico Giovanni Bat-tista Fedelissimi, di cui abbiamo prima ricordato la singolare terapia preventiva contro la peste. Il canonico Andrea Tonti, «conoscendo […] il desiderio grande di tutta la città di Pistoia di aver quanto prima un collegio di Padri della Compagnia di Gesù»50, era stato

l’artefice di questa presenza impegnando gli Operai di san Jacopo al pagamento annua-le di duecento lire in favore degli ignaziani.

L’anno successivo il canonico Pandolfo Arferuoli interruppe, pochi mesi prima della morte, le sue minuziose Historie, ancor oggi inedite51. L’opera, iniziata circa dieci anni

prima e dedicata già nel 1628 al «Gonfaloniere e agli Anziani della città di Pistoia»52,

costituiva il primo, articolato tentativo di ricostruzione delle vicende cittadine alla luce degli eventi toscani e di quelli italiani. Arferuoli utilizzava documenti originali e ricordi personali, senza dimenticare la ricca produzione dei maggiori storici, dal primo Trecen-to al tardo CinquecenTrecen-to. Non mancavano riferimenti alle celebri Antiquitates del dome-nicano Annio da Viterbo, tese a dimostrare la presenza di Noè in Italia all’indomani del diluvio universale e si faceva ricorso alla falsa silloge del viterbese e ai testidi Beroso Caldeo, Mirsilo di Lesbo, Manetone Egizio, Catone e Metastene Persiano, per provare che Pistoia era stata fondata in epoca di gran lunga anteriore a quella di Catilina:

«Se si deve credere a Berosio, sacerdote babillonico, nel commento d’Annio a fram-menti di Catone, vuole che l’abbia hauto origine da sua popoli, dalli Etruschi detta in lingua etrusca Pistoia, che vuol dir posta et oros monte, figurandola che, come una porta de monti Apennini, d’Etruria si passasse nella Gallia Cisalpina, detta hoggi la Lombardia»53.

Pagine di grande efficacia narrativa erano dedicate al dramma della peste, vissuto in prima persona dall’Arferuoli, ma non meno interessanti erano le riflessioni sulla società seicentesca, sempre più inserita nell’orbita medicea, e su quella storia ecclesia-stica che costituiva uno dei pilastri della vita associata. Quasi contemporaneamente apparve un nuovo lavoro di Giovanni Battista Fedelissimi: un singolare Lexicon

herba-rium, impresso dal Fortunati. Il medico pistoiese aveva compendiato il frutto della sua

esperienza terapeutica per offrire un prontuario dei semplici e dei composti, di natura vegetale, farmacologicamente più efficaci. Botanica e medicina erano strettamente unite e Fedelissimi ne offriva la tangibile dimostrazione.

La Compagnia di Gesù rafforzava costantemente la sua presenza in città e l’11 feb-braio 1640 il Padre Generale Muzio Vitelleschi si rivolse ai gonfalonieri e priori di Pistoia per ottenere un sostegno ufficiale all’attività dei Padri di Sant’Ignazio. Di fatto si formò un comitato di nobili cittadini, costituito da Paolo Cellesi, da Camillo Rospigliosi, da Francesco Maria Sozzifanti, da Tommaso Amati, da Giovanni Panciatichi e da Giulio Bracciolini, grazie al quale fu possibile procedere all’acquisto di alcune case sulla piaz-zetta Baglioni e stabilirvi un collegio54. Mentre un nuovo insediamento di religiosi

sorge-va, un disastroso incendio distruggesorge-va, nel marzo del 1641, la sacrestia della cattedrale di San Zeno. Cotte, mazzette, breviari, calici, patene, turiboli, navicelle, croci, paci, pis-sidi e il pastorale del vescovo furono seriamente danneggiati, assieme a tutta l’argente-ria55. In tempi rapidi si provvide al ripristino di quanto era stato divorato dalle fiamme e

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gli stessi canonici ed il vescovo Alessandro del Caccia contribuirono, con generose offer-te, a riportare la sacrestia all’originaria consistenza di arredi. Fra gli orafi incaricati dei delicati restauri, o dell’esecuzione di nuovi pezzi in argento, si distinsero due maestri pistoiesi: Giuliano Pettini e Antonio Menchini, «senza […] una preferenza particolare per l’uno o per l’altro da parte dei committenti»56.

Nel 1643 Pistoia visse uno dei momenti più drammatici della sua storia. Urbano VIII, al culmine della sua potenza temporale, per accrescere il proprio prestigio familia-re decise di occupafamilia-re il feudo di Castro, sottraendolo ai Farnese. Il conflitto che ne derivò fu di ampia portata ed alterò quell’equilibrio fra gli Stati italiani che per molti anni aveva garantito la pace nella Penisola. Poco prima era morto a Firenze Galileo Galilei e ne era nato un aspro contenzioso. Lo scienziato, per diritto di famiglia, doveva essere sepolto nella chiesa di Santa Croce ma il celebre convento francescano era sede dell’In-quisizione ed il pontefice proibì che un condannato dal Sant’Uffizio riposasse fra quelle mura. Il granduca Ferdinando II de’ Medici, nemico del Barberini e sommamente irrita-to per la condanna del Dialogo sopra i massimi sistemi, impose ai Francescani la sepoltura di Galileo in Santa Croce. I religiosi si trovarono fra due fuochi: il papa negava il permesso, il granduca lo imponeva. La soluzione trovata fu di estrema astuzia. Galileo fu sepolto in un angusto stanzino presso una cappella laterale. Non era nella chiesa ma fra le mura della chiesa e soprattutto nessuno avrebbe mai potuto vederlo. L’ira di Fer-dinando II non mancò di manifestarsi e quando Urbano VIII attaccò Castro, il massimo difensore dei diritti dei Farnese fu proprio il granduca di Toscana, che non esitò ad entrare in guerra contro la Santa Sede. Così, mentre truppe medicee occupavano Città della Pieve, Monte Leone e Castiglion del Lago, Urbano VIII fece affluire soldati dal Bolo-gnese, per la via di Porretta, per attaccare Pistoia.

Si voleva tentare un assalto di sorpresa, ben sapendo che la città era difesa da un esiguo numero di uomini, e il 2 ottobre 1643, nella nebbia, quattromila fanti e mille caval-leggeri, al comando di Achille Estampes de Vallanzé [=Achille d’Étampes de Valençay????], occuparono le alture di Valdibure. L’arrivo delle milizie pontificie era stato segnalato con prontezza e Piero Capponi, Commissario di Pistoia, riuscì a chiedere rinforzi a Ippolito Bracciolini, commissario di Pescia e a Giulio Risaliti, capitano delle Bande di Montagna. I papalini si diressero verso il cuore della città, attraverso le strade che conducevano a Porta San Marco. A Pistoia erano presenti pochissimi soldati ai quali, fortunatamente, si erano aggiunti trecentocinquanta pesciatini. In totale il Capponi pote-va disporre di soli cinquecento uomini per difendere l’importante centro abitato ed erano state formate quattro compagnie, affidate ai capitani Sebastiano Cellesi, Giovan-ni Battista Sozzifanti, Jacopo Baldinotti e Giovan Battista Tolomei. La situazione era disperata e ad essi si aggiunsero volontari cittadini e nuovi soldati, con otto pezzi di arti-glieria e «più carri di munizioni»57, fatti giungere precipitosamente da Firenze.

Pistoia, attaccata da cinquemila militari di professione, fu alla fine presidiata da circa milletrecentocinquanta uomini, di modesta esperienza, ma decisi a difendersi ad oltranza, utilizzando con astuzia le possenti mura cittadine, rafforzate alla fine del Cin-quecento da Bernardo Buontalenti. I papalini decisero un attacco notturno per diso-rientare i pistoiesi e l’azione si svolse attorno alle ventitré58. Le truppe di Urbano VIII

erano suddivise in tre raggruppamenti; due si diressero verso Porta San Marco, il vero obiettivo dell’assalto, il terzo verso Porta al Borgo, per compiere un’azione diversiva e frammentare le forze dei difensori. Sotto Porta San Marco fu collocata una mina per squarciare i pesanti battenti di legno ma la solidissima struttura resistette alla deflagra-zione e solo alcuni rinforzi di ferro furono divelti dalla violenta esplosione59. Fu allora

tentata la scalata alle mura ma i pistoiesi riuscirono facilmente a respingere gli assalito-ri facendoli precipitare da grande altezza, allontanando con forconi le scale a pioli con cui si tentava la difficile ascesa, o tagliando le corde con rampini che venivano gettate.

Il terzo raggruppamento nemico tentò allora di forzare Porta al Borgo ma, proprio mentre si stava collocando una mina per scardinare la struttura, esattamente come si era tentato a Porta San Marco, giunse di sorpresa, dalla montagna, il capitano Giulio

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Risaliti con centocinquanta uomini che non esitarono a dirigere sui papalini «una salva di moschettate»60. Quell’improvviso fuoco disorientò le truppe di Urbano VIII, che non

si aspettavano un contrattacco dall’esterno. Si pensò ad un contingente di gran lunga superiore per numero e per forze el’Estampes de Vallanzéordinò la ritirata, temendo per l’incolumità delle proprie truppe. L’attacco era fallito per la fiera reazione dei pistoie-si, che non avevano avuto timore di affrontare un nemico temibile, mostrando, come nel caso del Risaliti, un coraggio estremo, giocando la carta della sorpresa. Circa trecento furono i caduti fra le schiere dei papalini eEstampes de Vallanzési disse tradito e «dalle spie ingannato», perché «non li pareva possibile che fosse stato fatto dileggiare da un popolo disarmato e sprovvisto di ogni aiuto»61.

Il giorno dopo, il 3 ottobre, il nemico abbandonò Pistoia dirigendosi di nuovo verso i monti. Una lunga serie di furti, di saccheggi e di violenze accompagnò le truppe ponti-ficie nel loro itinerario a ritroso, ma la paura si dissolse rapidamente, trasformandosi in gioia profonda ed una «devotissima processione, nella quale si portò […] la reliquia di S. Eulalia, protettrice della città»62, fu il primo segno di ringraziamento per «aver

scampa-to sì tremendo periglio senza alcuna perdita […] di morti o di feriti»63. La salvezza di

Pistoia fu ritenuta un miracolo, specchio di una speciale manifestazione della volontà divina, e Girolamo di Taddeo Rospigliosi si fece interprete del sentimento popolare offrendo alla Madonna dell’Umiltà un gradino d’argento lavorato a sbalzo, cesello e buli-no, come ex voto. Riuscire a vincere le truppe del papa con l’aiuto della Vergine e di sant’Eulalia non era stato un evento di poco conto. Nella preziosa lamina vennero rea-lizzate due scene: la prima a sinistra raffigurava il fallito assalto delle truppe di Urbano VIII contro le mura cittadine, protette da sant’Eulalia che intercedeva presso Maria Ver-gine; la seconda, a destra, rievocava invece il tentativo di Uguccione della Faggiola di penetrare all’interno di Pistoia, attraverso la Porta di Ripalta, l’11 dicembre 1314. Ten-tativo che, secondo la tradizione, era fallito sempre per intervento di sant’Eulalia.

Il commissario Piero Capponi ebbe i più alti onori per il suo eroico comportamen-to e per la perfetta direzione delle operazioni militari. Il Consiglio degli Anziani della città di Pistoia decretò che, per ricordare l’evento, venisse apposta una lapide in marmo nel salone del Palazzo Pubblico64e l’epigrafe è ancor oggi esistente65. Il granduca

Fer-dinando II, al colmo della gioia per la plateale sconfitta di Urbano VIII, lodò nel modo più sentito l’operato del Commissario e fece giungere in città l’ingegner Francesco Leoncini perché «si rifacessero le mura, si trincerassero, la fortezza si rinforzasse e altre provvisioni si facessero»66. Il timore di un nuovo, eventuale assalto era sempre

incombente.

L’epica vicenda della difesa di Pistoia aveva suscitato un clamore enorme e non mancarono nuove rappresentazioni visive dell’evento. Alessio Gemignani dipinse l’as-salto delle truppe di Urbano VIII realizzando un quadro di grande efficacia descrittiva, ponendo in risalto le possenti mura cittadine ed il nutrito numero delle schiere nemiche sotto un cielo nuvoloso in cui non mancavano di comparire i santi protettori di Pistoia: Eulalia, Jacopo e la stessa Vergine Maria67. Francesco Cecchi realizzò poi sei bellissime

tavole a bulino di Vedute e battaglie seguite in Toscana negli eserciti guerreggianti

l’anno 1643, dedicandole a Neri Corsini, per celebrare le gesta del granduca

Ferdinan-do II, di suo fratello, il principe Mattias, e il valore delle truppe fiorentine, pronte a difen-dere l’onore della dinastia anche contro un pontefice romano.

Negli stessi anni il servita Michelangelo Salvi lavorava alacremente al suo Delle

Historie di Pistoia68e nel 1655 il primo volume dell’opera venne preparato per la

stam-pa da Pier Antonio Fortunati69. Quest’anteprima fu ritirata dalla circolazione dallo

stes-so Salvi, «per vari errori […] e per aver veduto nel frattempo alcuni autori»70, ma non

andò completamente distrutta. Dopo una parziale, nuova stesura della parte iniziale e dell’Appendice, l’opera fu affidata allo stampatore romano Ignazio de’ Lazari, forse per intervento del cardinale Spada, vescovo di Sabina, a cui l’opera era stata dedicata, e fu pubblicata proprio a Roma nel 1656. Una bella antiporta, disegnata da Lazaro Baldi e incisa dal milanese Giovan Battista Bonacina, mostrava nello sfondo l’immagine della

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città racchiusa dalle mura con tutti i monumenti principali, mentre lo stemma Spada veniva innalzato nel cielo dagli angeli e vinceva il tempo, proiettandosi nell’eternità.

Michelangelo Salvi non mancò di affrontare il complesso problema delle origini della città e fu pronto a far tesorodelle Antiquitates del domenicano Annio da Viterbo, uno dei più celebri falsari del tardo Quattrocento, che aveva sostenuto, sulla base di testi da lui stesso redatti e attribuiti a Mirsilo di Lesbo, Beroso Caldeo, Manetone Egizio e Metastene Persiano, la presenza di Noè e dei suoi discendenti in Italia, all’indomani del diluvio universale71.Salvi, seguendo questa tesi senza titubanza, non esitò a dichiarare

che Pistoia aveva avuto origine da Sabatio Saga, pronipote di Noè, noto anche con il nome di Pistio. Nessun dubbio sfiorava il servita. Era certa la «grandissima antichità» del centro abitato sulla Brana ed era altrettanto certo che «Pistoia […] fu fondata da Saba, o Sabatio Saga, pronepote di Noè, fratello maggiore di Nembroth e Pontefice del-l’Armenia, cognominato Pistio, negli anni del mondo 2.052, che furono 396 doppo al dilu-vio universale e 1896 avanti la nascita del Redentore […] Il quale, venuto finalmente in Italia, doppo haver insegnato l’agricoltura e la religione a gli Aborigeni, il paese de’ quali è detto volgarmente de’ Latini, passò in Toscana e, su le radici dell’Appennino, edificò questa città denominandola dal nome proprio di Pistio, Pistoia»72.

La straordinaria fortuna delle Antiquitates anniane anche alla metà del XVII seco-lo, nonostante il distruttivo intervento di Isaac Casaubon, affidato al celebre De rebus

sacris et ecclesiasticis exercitationes apparso nel 161573, non poteva esser meglio

dimostrata. La tesi, tanto cara al viterbese, dell’Italia come prima terra abitata da Noè uscito dall’arca, dopo il dramma del diluvio universale, trovava nelle parole di Salvi una nuova conferma, anche se priva di ogni supporto documentario. Lo storico pistoiese non nascondeva questo limite ai propri lettori, anzi utilizzava l’assenza di prove certe del con-trario per ribadire l’assoluta attendibilità della propria ipotesi che, nella stessa Pistoia, aveva avuto una eclatante, pubblica manifestazione.

«Questa verità non pure è sicura per antichissime tradizioni, ma anche perché io non vedo cosa di fondamento ch’in contrario apportare mi si possa, anzi […] valerà per tutti il testimonio dell’erudito e diligentissimo antiquario Alessandro Frilli, pistorese et eccellente dottor di leggi, il quale con pitture di chiaroscuro, nella facciata di suo palazzo, dalla banda che da Porta Guidi al Duomo ascende, graziosamente il tutto rappresenta, dove […] vedesi Pistio, il quale, come astrologo havendo il mappamon-do et altri astronomici instrumenti presso a’ piedi […] sta in atto di comandare ad alcuni, parte de’ quali in affossare la terra, quando altri in spegner calce et altri in portar sabbia, pietre e sassi, a fine di edificare questa città s’impiegano e tale inscri-zione sotto a questa pictura si legge:PISTIUS NEPOS NOE CIVITATIPISTORII NOMEN DEDIT»74.

Nello stesso 1656 Salvi ottenne la licenza per la stampa del secondo volume delle sue Historie dal Vicario generale Capitolare Giovan Battista Forteguerri e il definitivo

imprimatur dal vicario del Sant’Uffizio di Pistoia Francesco Landi75. L’opera fu affidata

ai torchi del Fortunati ed entrò subito in lavorazione. Il 1657 fu per Pistoia un anno ecce-zionale. Il 9 aprile Alessandro VII Chigi creò infatti cardinale «Iulius Rospigliosius Pisto-riensis […] ex primaria eius urbis nobilitate»76. L’evento suscitò grande clamore e molti

levarono la loro voce per celebrare il nuovo porporato. Domenico Alluminati, principe dell’Accademia dei Risvegliati, compose il Trionfo del merito del Cardinale Giulio

Rospigliosi77. Cosimo Maria Altogradi stese una forbita Oratione78. Pier Antonio

For-tunati contribuì ai festeggiamenti pubblicando un Applauso cantato79. Il canonico

Roberto Ciatti realizzò un Humil tributo di lodi che offrì il 22 aprile 1657, nel «pubbli-co rendimento di gratie […] nella Cattedrale di Pistoia»80. Jacopo Bracciolini scrisse Il

Toscano Alcide, che recitò il 29 aprile nella chiesa di San Bartolomeo, «per

l’esaltazio-ne alla porpora di Sua Emil’esaltazio-nenza»81. Giovan Battista Gherardini compose una Oratione

encomiastica82ed i Padri della Compagnia di Gesù il Piscatus Corallinus sive

Rospi-gliosum Melodrama83.

Didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia, didascalia.

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Nello stesso anno apparve il secondo volume delle Historie di Michelangelo Salvi. Il Servita consacrò il suo lavoro: «All’eterna memoria del Cardinale Fortiguerra, vero padre di sua patria»84, ma non dimenticò Giulio Rospigliosi. A lui fu infatti dedicata la

splendi-da Pianta di Pistoia di Francesco Leoncini, che accompagnava il testo. La veduta pro-spettica ricalcava da vicino il modello delineato da Francesco Bonsignori per Firenze, nel 1584. Le mura, con la loro possente e nitida struttura, racchiudevano il complesso reti-colo stradale, in cui emergevano i principali monumenti: il Duomo, il Battistero, Santa Maria dell’Umiltà. Ampi spazi verdi caratterizzavano il centro cittadino, consentendo col-ture o ampliamenti del tessuto abitativo all’ombra delle difese esistenti. Lateralmente alla veduta, Leoncini inserì l’elenco numerato «dei luoghi notabili della città» e pose in basso lo stemma Rospigliosi ed espressioni di omaggio rivolte al neoporporato.

La fama della famiglia Rospigliosi si era ormai consolidata e, per accrescerla ulte-riormente, nel 1659 il cardinale Giulio e i suoi congiunti si assunsero l’onere di termina-re la chiesa di sant’Ignazio, la cui costruzione era iniziata nel 1647 per impulso del vesco-vo del Caccia, riuscendo a consentirne una parziale apertura il 31 luglio, per la festa del fondatore della Compagnia di Gesù. Michelangelo Salvi aveva già preparato per la stam-pa il terzo volume delle sue Historie e, nel 1662, l’opera vide la luce a Venezia, impres-sa dai torchi del Valvasense. Il dotto servita giungeva con il suo testo fino al 1657, affron-tando la complessa ricostruzione dell’età a lui contemporanea. L’opera era dedicata al cardinale Rospigliosi, ormai influente Segretario di Stato di Alessandro VII Chigi. Salvi era in ottimi rapporti con l’illustre prelato e sappiamo che fu l’istitutore dei suoi nipoti Felice e Vincenzo85.

Pistoia era annualmente caratterizzata dalle feste in onore di san Jacopo, che aveva-no il loro momento culminante nella giornata del 25 luglio. Il complesso rituale costituiva un evento di grande rilievo e di profonda partecipazione popolare86. Il mattino era dedicato

alle celebrazioni religiose, il pomeriggio al celebre palio. La corsa aveva inizio dopo le cin-que. I cavalli, che la sera precedente erano stati benedetti dal cappellano di San Jacopo, prendevano posto sul Prato di San Francesco, nel luogo detto “Alle Mosse”. Un palco d’o-nore, ornato di drappi, veniva realizzato in legno a metà percorso presso la chiesa degli Umiliati e lì si recavano il commissario, che rappresentava il granduca, ed il magistrato dei priori. Dopo che un banditore aveva ribadita la proibizione di “parare” i cavalli, ostacolan-doli nella loro corsa, dal palco si allontanavano due gentiluomini che, in carrozza, rag-giungevano la chiesa di Santa Maria Nuova, luogo dell’arrivo. Contemporaneamente, dallo stesso palco, partiva il capitano dei Fanti, incaricato di raggiungere il Prato di San Fran-cesco e di dare il via, a suon di tromba, ai destrieri, coadiuvato dal cavaliere di Corte. La “mossa” consisteva nel far cadere, di colpo, il canapo che tratteneva gli animali lungo la linea di partenza, come ancor oggi avviene al Palio di Siena. La corsa si svolgeva nelle con-dizioni più naturali perché il centro delle strade pistoiesi era allora concavo e sterrato87.

Talvolta si avevano feste straordinarie, come la giostra in onore di santa Francesca Romana che, il 9 marzo 1666, fu allestita a Pistoia per volontà di Ippolito Bracciolini. In essa «L’orso con la sopraveste bianca e rossa, insegna della città, tenendo per bersaglio un fiasco, serviva da Saracino», mentre «sotto la scorta di Bacco correndo, li cavalieri del vino tentarono di mostrare il lor valore col dar nel fiasco […] In tal festa giocosa cor-reva per la parte del bianco il Conte Greco, il Marchese Moscatello et il Cavalier Treb-biano. Per la parte del rosso il Conte Corso, il Marchese Barbarossa et il Cavalier di Chianti»88. In quell’anno vide la luce, con un elegante frontespizio inciso, Della pietà a

Pistoia di Giuseppe Dondori, ministro provinciale dei Cappuccini di Toscana89. L’opera

venne impressa dai torchi del Fortunati, per intervento di Francesco Dondori, nipote dell’autore, e fu dedicata al cardinale Rospigliosi. Di particolare interesse era il catalogo degli scrittori pistoiesi, che forniva un quadro d’insieme della realtà culturale cittadina. Quasi un secolo dopo, Francesco Antonio Zaccaria, nella sua Bibliotheca Pistoriensis, avrebbe ripreso ed ampliato il lavoro di Dondori.

Un grande evento politico e spirituale stava per coinvolgere la città e l’intero Gran-ducato di Toscana: il 20 giugno 1667, «unanimi suffragiorum consensione»90, Giulio

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Rospigliosi diveniva papa con il nome di Clemente IX. Un vero trionfo per Ferdinando II de’ Medici che, nel caso della condanna di Galileo Galilei e nel corso della guerra di Castro, aveva avuto il coraggio di giungere a posizioni di aperta rottura nei confronti di Urbano VIII Barberini e della Santa Sede. L’ascesa al soglio pontificio di Pietro del Rospi-gliosi fu celebrata a Pistoia nel modo più vivace e più sentito. Vennero realizzate le com-posizioni più disparate e molti vollero testimoniare la propria partecipazione al fausto evento. Tutta la città curò Dimostrazioni d’ossequio e di giubilo […] per

l’esaltazio-ne […] di Clemente IX Ottimo Massimo91e in particolare Arsenio Barboni pronunziò

una Orazione panegirica nella Chiesa di Santa Liberata, intitolandola L’aquila

prodi-giosa92. Francesco Fabroni compose l’ode Il Tebro consolator della Chiesa93,

dedican-dola a Felice Rospigliosi, nipote del Pontefice. Pistoletto Gatteschi, detto l’Insipido all’in-terno dell’Accademia dei Risvegliati, scrisse una Canzone94e Michelangelo Salvi, dopo

aver allestito infinite “allegrezze”, si recò di persona a Roma «a baciare il piede»95al

Pon-tefice.

Clemente IX consolidò rapidamente il potere della famiglia. Il 12 dicembre, nella prima elezione cardinalizia, conferì la porpora al nipote Giacomo Rospigliosi. Non pote-va, però, mancare il dovuto ossequio nei confronti dei granduchi di Toscana e, nella stes-sa circostanza, ebbero la porpora Leopoldo de’ Medici ed il senese Sigismondo Chigi96.

Nel 1669 furono poi innalzati al cardinalato i fiorentini Francesco de’ Nerli e Niccolò Acciaioli. Il nuovo cardinale pistoiese fu subito salutato con calore e Arsenio Barboni compose in suo onore una Oratione panegirica dal titolo L’eroe coronato, pubblicata a Pistoia nel 1668 dal Fortunati e dedicata a Camillo Rospigliosi, fratello del Pontefice. Il conferimento del rango cardinalizio al principe Leopoldo de’ Medici ebbe un profondo significato politico. Leopoldo, del tutto lontano dal mondo ecclesiastico, era stato uno dei massimi sostenitori di Galileo Galilei ed aveva favorito la diffusione dell’eredità spe-culativa dello scienziato e l’affermazione del metodo sperimentale creando, nel 1657, l’Accademia del Cimento, le cui riunioni si svolgevano addirittura nella residenza gran-ducale di Palazzo Pitti, con la partecipazione di Vincenzo Viviani, Francesco Redi, Evan-gelista Torricelli, Lorenzo Magalotti e Giovanni Alfonso Borelli.

Leopoldo, con il sostegno del fratello Ferdinando, curiosissimo di aspetti naturali-stici, aveva poi incoraggiato Vincenzo Viviani a scrivere una biografia di Galileo ed aveva incaricato il bibliotecario di corte, Antonio Magliabechi, di stabilire contatti con i mag-giori editori operanti nel mondo protestante, per acquisire opere di alto livello scientifi-co da mettere a disposizione degli studiosi toscani, a prescindere dalla eventuale pre-senza dei loro autori nell’Index Librorum Prohibitorum. Grazie a queste illuminate decisioni, la Toscana della seconda metà del Seicento era scientificamente e cultural-mente all’avanguardia, come Francesco Redi avrebbe presto mostrato con i suoi inno-vativi studi sulla falsità della generazione spontanea e sulle modalità di azione del vele-no delle vipere. La scelta di Clemente IX Rospigliosi era, dunque, il rovesciamento di una politica di chiusura, da anni tenacemente perseguita dalla Santa Sede, e la celebrazione del ruolo di una dinastia che aveva avuto il coraggio e la tenacia di tener fede ai propri ideali di progresso, trasformando Galileo in un vessillo di libertà e d’indipendenza.

Clemente IX, che aveva sempre apprezzato la creatività artistica di Gian Lorenzo Bernini, commissionò al celebre scultore l’altar maggiore della chiesa di Sant’Ignazio a Pistoia. Bernini realizzò un superbo altare in marmi policromi, di particolare armonia, sulla cui sommità fu posto un dipinto di Pietro da Cortona dedicato all’Apparizione di

Cristo a sant’Ignazio, ancor oggi esistente. Anche questa scelta artistica tradiva un

segno di omaggio ai Medici. Pietro da Cortona era uno dei pittori più attivi alla corte fio-rentina e proprio a lui era stata affidata la decorazione di numerose sale in Palazzo Pitti. L’artista godeva poi di fama internazionale e, per incarico di Luigi XIV, non mancherà di lavorare a Versailles. Il Pontefice volle da Bernini anche il progetto per una sontuosa resi-denza in campagna. Nacque così la Villa di Spicchio, presso Lamporecchio, che, con il suo dinamico plasticismo strutturale e con i suoi raffinati interni, costituisce uno degli episodi di maggior rilievo dell’architettura barocca in Toscana. La famiglia Rospigliosi

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affidò a Bernini e ai suoi allievi anche il compito di realizzare busti di membri defunti del casato e di curarne la disposizione tombale all’interno della chiesa di San Domenico a Pistoia. Ebbe così origine una delle più espressive testimonianze funerarie del XVII slo, specchio del raffinato gusto di una grande famiglia e del suo prestigio sociale ed eco-nomico.

Il 9 dicembre 1669 Clemente IX moriva. La sua prematura scomparsa fu vissuta con dolore nell’intero Granducato di Toscana. Il Pontefice si era adoperato per chiudere defi-nitivamente la triste pagina dei cruenti contrasti che avevano lacerato il territorio pistoiese e, grazie al suo intervento, erano stati «perdonati e cancellati tutti gli errori ad alcuni fazionari che ancora vivevano» ed era stata completamente «ristabilita la pace e la quiete in città»97. Anche la salute di Ferdinando II era, però, seriamente

compromes-sa e il 24 maggio 1670 il granduca morì. Cosimo III decretò per il padre funerali solenni e pure a Pistoia fu commemorato l’illustre defunto. Pistoletto Gatteschi pubblicò per l’occasione un singolare componimento: Pistoia dolente alla mesta città di Firenze.

Canzone per la morte di Ferdinando II Gran Duca di Toscana98. Il nuovo sovrano

brillava per un marcato spirito devozionale e la presenza a Roma del cardinale Giacomo Rospigliosi accrebbe il peso del mondo ecclesiastico locale. Anche il nuovo Pontefice, Clemente X Altieri, grato per la porpora conferitagli proprio dal suo predecessore, aveva mantenuto buoni rapporti con i Rospigliosi, tanto che nel 1673 non esitò ad innalzare al cardinalato un altro membro di quella illustre famiglia: Felice. Questi era fratello di Gia-como e i due cardinali resero ancor più ricca di benefici la Chiesa pistoiese. Non a caso in quello stesso 1673 vide la luce il Diario di Niccolò Franchini Taviani99, tutto

incen-trato sulla vita spirituale cittadina.

Il 1675 fu un anno drammatico per i pistoiesi. Una grave carestia non aveva fatto produrre in modo «sufficiente all’umano sostentamento»100e lo spettro della fame era

divenuto incombente e terribile. Molti poveri erano affluiti in città sperando nell’inter-vento dello Stato e, con distribuzioni di grano, si cercò di evitare il disastro. Proprio in quell’anno Cosimo III aveva esteso al territorio pistoiese la controversa riforma della tassa sulle farine101ed un gruppo di patrizi, fra i quali emergeva Francesco Panciatichi,

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